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IL PALEOCLIMA (riscrittura)

Sopra se n’è accennato, ma s’osservi ora la figura seguente che mostra in dettaglio come s’è manifestato il clima, per ere e periodi, dall’origine della Terra a oggi:


Figura. n. . Fonte: Behringer, 2013, p. 38.

Guardando ai picchi di freddo, si noterà che di questi ne sono avvenuti parecchi, per esempio, come sopra accennato, nel Precambriano si riconoscono più epoche, la prima, detta Huroniana, avvenuta tra 2700 e 1800 milioni di anni fa e, a seguire, la Gnejsö, presenta ca. 910 milioni di anni fa (altri dice 950 milioni d’anni fa); la Sturziana, presente 770 milioni di anni fa e, infine, la glaciazione Varanger, datata 615 milioni di anni fa (altri dice 650 milioni d’anni fa); del Precambriano si ricorda la particolare gravità della glaciazione Varanger che ha portato la Terra a essere una vera e propria palla di neve (o Snowball Earth) a causa di un calo dell’irradiazione solare (diminuita, rispetto a oggi, del 6%), fenomeno che ha portato a una rapida glaciazione rinforzata anche dall’effetto albedo dei ghiacci (v. infra) che ha portato le temperature a -50 °C e a ricoprire la Terra di uno spessore di ghiaccio di ca. 1 km (tanto che si parla, per quest’arco temporale, di Criogeniano, o Cryogenian, dal greco κρύος, freddo, gelo), periodo che corrisponde all’estinzione parziale dei Batteri nei mari (si presume che le specie batteriche sopravvissute si siano adattate ad ambienti situati in prossimità di fonti di calore e d’energia, per esempio le bocche idrotermali nei fondali dell’Oceano); spessore ch’è poi retrocesso secondo ragioni che non si comprendono appieno, salvo ipotizzare ch’enormi volumi di diossido di carbonio emessi nell’atmosfera dalle eruzioni vulcaniche non abbiano generato un effetto serra sufficiente a impedire l’effetto albedo, cioè a riscaldare l’atmosfera e sciogliere i ghiacci (ciò che coincide, in ogni caso, con l’evolversi estremamente rapido della biodiversità, v. infra); dopo 570 milioni d’anni fa, nel Cambriano, tra il 570 e i 225 milioni d’anni fa (nell’era Paleozoica), sono presenti altri due picchi, nell’Ordoviciano ca. 430 milioni d’anni fa e nel Permo-Carbonifero, tra 330-250 milioni di anni fa, ch’è meglio conosciuta perché ha lasciato estesi depositi di tilliti in tutta la Pangea, in particolare nel Gondwana meridionale (precisamente in Sud Africa e Brasile; le tilliti sono conglomerati rocciosi dalla struttura caotica, cioè eterogenea per dimensioni e struttura chimica, che si ritrovano immersi in una matrice d’argilla e limo e non sono altro che depositi sedimentari accumulati dai ghiacciai alla fine del loro percorso e possono raggiungere i 1000 m e passa d’altezza), finché, tra i 250 e 25,2 milioni d’anni fa, nell’era Mesozoica, questi picchi glaciali sono assenti, salvo, infine, a presentarsi nel Cenozoico, ca. 55 milioni d’anni fa, un’instabilità climatica che porta ad un raffreddamento globale, che investe anche le acque fredde dei fondali (fenomeno che si manifesta per la prima volta, con una diminuzione della temperatura di 10 °C), e che si mostra ancora più rigido a partire da 35 milioni d’anni fa, probabilmente quando, a causa della diminuzione del diossido di carbonio, CO2, nell’atmosfera al di sotto della soglia critica di 400 ppm, la forzatura (o forcing) astronomica innesca i cicli glaciali (v. infra); specificamente, si va a formare l’attuale calotta glaciale antartica a partire dal Miocene, 25,2-5,2 milioni d’anni fa, mentre nel Pliocene, 5,2-1,6 milioni d’anni fa, si sviluppa invece la calotta glaciale artica). La figura seguente mostra il rapporto tra il decorso temporale e l’andamento delle temperature in relazione alla formazione delle calotte glaciali ai Poli; i valori delle temperature sono dati come legati ad un calcolo basato sulle parti per mille, ‰, del rapporto fra gli isotopi stabili 18O:16O (o δ18O, dove δ sta per differenza di concentrazione in relazione a un valore standard noto), che s’analizzano nei campioni di gusci di carbonato di calcio dei Foraminiferi planctonici, CaCO3, organismi che usano l’ossigeno presente nell’acqua per costruire i loro gusci, recuperati con trivellazioni dei sedimenti oceanici (o carotaggi, che possono effettuarsi anche nei ghiacci, questo prelevando in profondità campioni di ghiaccio, detti carote, o long cores); valori positivi di δ18O indicano poi che il campione contiene più 18O rispetto allo standard di riferimento, mentre valori negativi significano il contrario, e questi valori di δ18O sono poi usati come sostituti delle temperature presenti nelle acque profonde; questo perché, essendo le molecole d’acqua contenenti ossigeno leggero, H2O16, e rispetto a quelle contenenti ossigeno pesante H2O18, tendenti ad evaporare più facilmente, dunque a entrare nel ciclo idrologico (v. infra) e quindi a ritornare nel mare arrivando così ad equilibrare il rapporto 18O:16O, cosa che non capita se l’isotopo leggero 16O evapora, ma è bloccato e trattenuto dal ghiaccio di superficie o dalle calotte glaciali, nel qual caso non entra nel ciclo idrologico per cui le acque profonde sono più ricche dell’isotopo pesante 18O, cioè le temperature dei fondali sono più basse rispetto alla normalità dell’equilibrio; è stato poi calcolato che i due fattori che producono un maggiore indice nel rapporto 18O:16O, cioè temperature più basse delle acque dei fondali e volumi di ghiaccio maggiori, presentano un’influenza di ca. il 60% per quanto riguarda le temperature delle acque e del 40% per quanto pertiene al volume dei ghiacci (e per inciso, si sottolinea che l’isotopo 16O è il più abbondante sulla Terra, pari al 99,76% degli isotopi stabili dell’ossigeno, che sono tre, 16O, 17O e 18O, quest’ultimo presente per lo 0,2%); nella figura si noterà che questi valori positivi di δ18O, pari a una diminuzione delle temperature, tendono nel corso del tempo ad aumentare ed equivalgono alla formazione delle calotte glaciali:


Figura n.   . Fonte: Sardella, 2011, p. 19.

Prima dell’inizio del Quaternario, all’altezza di 2,75 milioni d’anni fa (nel Pliocene), le fasi di raffreddamento s’intensificano e, a partire da allora, il clima presenta una ciclicità tra fasi fredde e fasi calde, come mostrano le oscillazioni dei valori di δ18O nella seguente figura, relative agli ultimi 5 milioni d’anni (e legate a cicli di Milancović, v. infra) di 23 000 anni, 41 000 anni e 100 000 anni: 

Figura n.   . Fonte: Sardella, 2011, p. 20.

Questa figura, invece, mostra la dinamica dei cicli glaciali e interglaciali in dettaglio e relativamente agli ultimi 850 000 anni (da ricordare che cicli glaciali e interglaciali costituiscono, sommati tra di loro, un’era glaciale o Eiszeit):


Figura. n. . Fonte: Behringer, 2013, p. 49.

Questi picchi, sommati cronologicamente tra loro, mostrano che le epoche di ghiaccio permanente ai Poli e sulle montagne più alte, cioè le ere glaciali, globalmente, rappresentano solo il ca. 5% della storia della Terra, giacché i periodi detti interglaciali, ossia quelli che sono tra una glaciazione e l’altra, mostrano un clima ch’è molto, ma molto più caldo di quello di oggi, e che questa è la normalità per la Terra, ossia il 95% della sua storia. La figura seguente mostra, legati alla dinamica delle placche e delle terre emerse, i periodi con presenza/assenza d’eventi glaciali nella storia della Terra (il punto interrogativo segnala ipotesi non sufficientemente documentate):


Figura n.   . Fonte: Sardella, 2011, p. 16.

In sé e per sé, un ciclo glaciale è dato da un inizio, detto anaglaciale, da un seguito di fasi oscillanti di glaciazione che presentano poi un acme e da una fase finale di ritiro dei ghiacciai, detta cataglaciale, mentre la transizione da un periodo glaciale a uno interglaciale è detta terminazione (l’evolversi delle fasi glaciali è poi lento, distribuito cioè su un lungo arco temporale, mentre, al contrario, la deglaciazione è relativamente veloce, probabilmente per il ruolo di rinforzo svolto dai gas serra presenti nell’atmosfera). Ora, nel solo Quaternario si sono presentati 17 cicli glaciali e il grafico seguente (da leggersi da destra a sinistra), mostra la durata, che s’è presentata nel Pleistocene, dell’ultimo ciclo tra i citati 17; nello specifico, situa la fine dell’ultimo interglaciale di quest’ultima grande glaciazione ca. 125 000 anni fa (A); dopo questo picco di caldo, si presenta una fase di freddo, con strati di ghiaccio che spesso raggiungono i 2 km, il cui massimo si ha ca. 60 000 anni fa (B; quando compare in Europa Homo neanderthalensis), cui segue ancora un periodo tendente verso il caldo (C, ed è passato il massimo picco da una ventina di migliaia di anni quando compare in Europa, ca. 30-35 000 anni fa, in un clima freddo, ma secco, Homo sapiens); si ha poi una fase di freddo che presenta il suo picco massimo attorno a ca. 18 000 anni fa (D, detta Würm IV) e ci si avvia, nel corso di poche migliaia di anni, verso un rapido aumento delle temperature (E). Siamo nell’Olocene (12 000 anni fa), all’instaurarsi del clima mite nel quale tutt’oggi viviamo (E; v. infra):


Figura. n. . Fonte: Vittori, 2007, p. 24.

Per quanto riguarda la causa delle glaciazioni, essa è in prima istanza legata alla posizione della Terra nello spazio, posizione ch’è il risultato d’una composizione di moti complessa che presenta caratteristiche e periodicità fra loro differenti, vale a dire al moto orbitale eccentrico, o rivoluzione, intorno al Sole, che si presenta prima come ellittico, poi quasi circolare e, infine, nuovamente ellittico, questo grazie all’attrazione gravitazionale dovuto a Giove e Saturno. Intervengono anche il moto di rotazione intorno al proprio asse della Terra, ch’avviene al contrario del moto apparente del Sole (cioè da Occidente a Oriente), il fatto che l’asse terrestre presenta poi variazioni dell’inclinazione rispetto alla perpendicolare del piano dell’orbita e, sempre legati all’inclinazione dell’asse terrestre, i moti di spostamento (o precessione) e le nutazioni, legati questi ultimi all’attrazione gravitazionale del Sole e della Luna (v. infra); per finire, la Terra è legata al moto del sistema solare (e al moto di recessione della galassia cui appartiene il sistema solare, la Via Lattea). Ora, prima di parlare della periodicità di questi moti, sono necessarie alcune precisazioni di alcuni termini usati in astronomia al fine di capire cosa c’è in gioco. Abbiamo visto che l’Equatore è una linea immaginaria che traccia una circonferenza sulla superficie della Terra che, in quanto equidistante dai Poli, la divide in un Emisfero boreale e Emisfero australe; il piano dell’Equatore è poi questo cerchio che presenta il diametro maggiore che passa per il centro della Terra ed è perpendicolare all’asse di rotazione della Terra. Se con sfera celeste s’intende una sfera immaginaria al cui centro è situata la Terra, l’Equatore celeste diventa il cerchio massimo determinato dall’intersezione del piano dell’Equatore terrestre con la detta sfera celeste; in questa sfera il cammino circolare (apparente) descritto dal Sole nel suo moto relativo intorno alla Terra è detto eclittica, e il piano di quest’eclittica ch’interseca l’equatore celeste arriva a formare con il piano equatoriale un angolo pari a ca. 23° 27’ 8’’ (e il tutto è detto obliquità dell’eclittica); la retta che passa poi per il centro dell’eclittica ed è a essa perpendicolare, è detta asse dell’eclittica e le intersezioni dell’asse dell’eclittica con la sfera celeste sono dette poli dell’eclittica (asse attualmente orientato verso la Stella Polare, o Polo celeste). La figura seguente mostra l’equatore celeste e l’eclittica (là dove il Sole passa poi davanti alle 12 costellazioni dello Zodiaco):


Figura n.   . Fonte: Herrmann, 1975, p. 30.

La figura seguente, invece, semplifica quanto detto con la sola indicazione del grado d’obliquità dell’eclittica:


Figura n.    . Fonte: Astori et alii, 2010, p. 198.

I punti in cui quest’eclittica interseca l’equatore celeste sono due e sono detti equinozi (e linea equinoziale quella che li unisce), e il primo si presenta quando il Sole, nel suo moto ascendente di trapasso dall’Emisfero boreale a quello Australe, forma un’intersezione detta equinozio di primavera (o vernale o punto γ, ch’è usato come punto di riferimento); il secondo s’ha quando nel suo moto discendente trapassa dall’Emisfero australe a quello Boreale e forma un’intersezione ch’è detta equinozio d’autunno (per inciso, i punti dell’eclittica più lontani dall’equatore celeste, che si trovano all’incirca a metà del percorso tra i due equinozi, sono detti solstizi, rispettivamente d’estate e d’inverno). In quest’insieme, l’asse di rotazione terrestre subisce uno spostamento e compie nel corso del tempo un movimento rotatorio intorno al polo dell’eclittica ch’è definito come precessione (e che, se si riuniscono tutti i movimenti dell’asse terrestre, presenta una doppia forma conica, con centro nell’equatore e con a base un cerchio a Nord e un altro cerchio a Sud pari allo spostamento dei Poli); questa precessione è causata dall’azione gravitazionale variabile del Sole e della Luna sul rigonfiamento equatoriale terrestre; infatti, come detto, la Terra è un geoide, cioè la sua massa non è uniformemente distribuita in quanto la Terra è leggermente schiacciata ai Poli, mentre le regioni equatoriali presentano una maggiore espansione e la differenza tra il raggio equatoriale e il raggio polare è di 21 km e questo è sufficiente a causare il detto movimento di precessione. Se la Terra non ruotasse, l’azione gravitazionale della Luna e del Sole sul rigonfiamento equatoriale porterebbe l’asse di rotazione a coincidere con la perpendicolare al piano dell’orbita e quindi a far coincidere l’equatore con l’eclittica; ma poiché la Terra ruota, l’asse descrive un cerchio di precessione intorno alla verticale del piano dell’eclittica, e in ogni Emisfero, mentre la sua inclinazione nel mentre ruota rimane immutata (per immaginare la precessione si pensi alla rotazione dell’asse inclinato d’una trottola in movimento su una superficie che, fin che ruota, presenta la stessa inclinazione dell’asse rispetto alla superficie e ch’arriva dunque a presentare, riunendo tutti i movimenti dell’asse, una forma conica con base a forma circolare, cioè un moto giroscopico, laddove un giroscopio è un corpo dotato di simmetria di rotazione intorno ad un asse). Nell’ambito di questo moto giroscopico di precessione si presenta poi anche una variazione periodica dell’angolo compreso tra l’asse fisso di precessione e l’asse di rotazione del corpo in moto, tanto che si forma una nutazione, cioè una distorsione oscillatoria di tipo ellittico variabile nel tempo (con l’ellissi che si completa nell’arco di 18,6 anni), distorsione che dipende dall’azione non sempre costante della Luna; la nutazione associata alla precessione fa sì che, alla fin fine, l’asse di rotazione esegua poi sul cerchio prima citato un moto ondulatorio. La figura seguente mostra la il fenomeno della precessione nel solo Emisfero boreale (qui i 23,5° sono indicati come 23°½) e la sovrapposizione della nutazione sulla precessione (nella figura il moto di nutazione è pero fortemente ingrandito), con il risultato ondulatorio che s’è detto:


Figura n.   . Fonte: Herrmann, 1975, p. 52.

Gli equinozi, come detto i punti in cui quest’eclittica interseca il piano dell’equatore celeste, non si presentano poi come punti d’intersezione fissi, ma si muovono rispetto alla sfera celeste a causa dei fenomeni di precessione e nutazione, come dire che il Sole a causa della precessione (alla lettera, infatti, precessione vuol dire che precede), ritorna nel punto γ dell’equinozio prima d’avere completato l’intera rivoluzione sull’eclittica, così che, prima di ritornare alla stessa posizione ch’aveva in precedenza sulla sfera celeste (il detto punto γ) il Sole s’è già presentato nel nuovo punto dell’equinozio, per cui s’evidenzia uno scarto tra il vecchio punto γ e quello nuovo che lo precede. Definiti grosso modo i termini, presentiamo i dati. La misura dell’eccentricità dell’orbita terrestre, cioè della deviazione dell’orbita da un cerchio che ha eccentricità uguale a zero, è mediamente pari a 0,028; nel caso d’eccentricità bassa, con un’orbita quasi circolare è 0,005, mentre nel caso d’alta eccentricità, con un’orbita decisamente ellittica, è di 0,058, e quest’eccentricità varia secondo un ciclo di 100 000 anni, come mostra la figura seguente:









Figura n.  . Fonte: McGuire, 2003, p. 64

Va da sé che gli spostamenti dei due fuochi dell’ellissi fanno sì che, all’aumentare/diminuire della loro distanza, aumenti/diminuisca l’eccentricità dell’ellissi, ciò ch’implica il mutamento della velocità della Terra attorno al Sole ch’è in uno dei due fuochi, velocità ch’è accelerata quando la Terra è vicina al Sole (147 milioni di km), cioè al perielio, e rallentata nel caso contrario, dunque n’è più lontana, cioè all’afelio (e all’afelio, la distanza tra la Terra e il Sole è di ca. 5 milioni di km maggiore che al perielio, 152 milioni di km; e si chiama linea degli absidi la linea che unisce perielio e afelio); fatto che, sommato all’inclinazione di 23° 5’ sul piano dell’orbita della Terra attorno al Sole, dà origine a un’evidente ricaduta sulla direzione d’incidenza delle radiazioni solari, cioè sulle variazioni stagionali dovute al fatto che la citata direzione muta continuamente (è dove un alto grado d’eccentricità coincide grossomodo con le glaciazioni). La misura dell’inclinazione dell’asse terrestre rispetto alla perpendicolare del piano dell’orbita presenta oscillazioni dell’ampiezza di 2,6° (da 21,8° a 24,4°) e il ciclo di queste oscillazioni è approssimativamente di 41 000 anni e in grado, in caso di inverni tiepidi e estati fresche (v. infra), d’innescare la fase iniziale d’una glaciazione (infatti, dipende anche dalle temperature, cioè dall’intensità della radiazione, il fatto che neve e ghiacci persistano in modo più o meno accentuato e qui l’incidenza, a differenza della precessione, è più importante ai Poli che all’Equatore); la figura seguente mostra quest’oscillazione (dove la radiazione segnalata, o accennata con freccia, è quella del Sole e dove le oscillazioni dell’angolo d’incidenza della radiazione presentano valori diversi da quelli sopra detti):


Figura n.   . Fonte: McGuire, 2003, p. 64

A questo proposito, se s’osserva la figura, e se si guarda alla diminuzione dell’ampiezza dell’inclinazione dell’asse terrestre rispetto alla perpendicolare del piano dell’orbita, si nota che l’insolazione (cioè il rapporto tra il numero delle ore d’incidenza delle radiazioni in un luogo e il numero delle ore in cui il Sole si trova sopra l’orizzonte del luogo, in senso astronomico), arriva a investire le variazioni stagionali tanto che, nella fascia tra i Tropici e i Poli le stagioni estive si presentano più fresche, e le stagioni invernali meno fredde, mentre alle alte latitudini, nelle regioni polari, l’insolazione diminuisce e tra i Tropici e l’Equatore, alle basse latitudini, aumenta; ora, e valorizzando proprio la variabilità stagionale, la causa delle glaciazioni non va ricercata nel graduale aumento d’inverni molto rigidi, bensì nell’aumento delle estati fredde determinate dall’inferiore quantità della radiazione solare dovuta al mutamento d’inclinazione dell’asse terrestre nel ciclo dei 41 000 anni; infatti, se le estati sono troppo fredde, la neve che cade un’area data non si scioglie e aumenta l’effetto albedo, cioè l’aumento della quantità di radiazione solare riflessa da quell’area innevata (ca. l’85%), ciò ch’amplifica l’effetto di raffreddamento e la caduta d’ulteriore neve che, allargando l’areale innevato, innesca un processo autoalimentantesi (d’autocatalisi) che produce un accumulo di ghiacci (come dire che a causare la formazione degli strati di ghiaccio non è necessariamente la quantità di neve caduta, ma il fatto determinante ch’essa non si sciolga), e una volta che il ghiaccio è aumentato, esso inizia a spostarsi in modo inarrestabile; e se ci si domanda, ora, come una variazione di pochi gradi della temperatura media possa essere sufficiente per provocare una glaciazione, si tenga conto che una piccola variazione nei sistemi complessi, qual è la Terra, non provoca necessariamente piccole conseguenze, ma, dato che si tratta d’una complessa catena causale, una piccola variazione in un punto può ripercuotersi sugli eventi successive e tutte queste piccole differenze, sommandosi assieme, possono produrre come esito un grande cambiamento. Per quanto riguarda la precessione degli equinozi (o precessione assiale), un ciclo completo del movimento conico doppio in grado di produrre lo spostamento circolare dei Poli intorno all’asse dell’eclittica si compie approssimativamente in 23 000 anni portando, alla fin fine, al fenomeno delle stagioni; infatti, per esempio, se nell’Emisfero boreale l’orbita della Terra è più vicina al Sole, al perielio, ed è inverno, ciò vuol dire che l’asse terrestre si presenta con un’inclinazione più lontana dal Sole al Nord e più vicina al Sud (dove nell’Emisfero australe è estate); se invece nell’Emisfero boreale è estate, questo vuol dire che la Terra è distante dal Sole, all’afelio, ma con un’inclinazione più vicina al Sole a Nord e più lontana al Sud (dove nell’Emisfero australe è inverno). La figura seguente mostra il movimento rotatorio dell’asse terrestre intorno all’asse dell’eclittica (qui tratteggiata e non nominata):

Figura n.   . Fonte: McGuire, 2003, p. 64

Riassumendo, alcuni di questi moti variano ognuno con periodicità plurimillenaria secondo cicli di 100 000 (eccentricità), 41 000 (inclinazione) e 23 000 anni (precessione), detti cicli di Milancović, e determinano, volta per volta, cambiamenti dell’angolo d’orientamento della Terra rispetto al Sole, cambiamenti che influenzano i contrasti stagionali, come detto, per il tramite della durata, dell’intensità e della dislocazione incidente della radiazione solare sulla Terra, o forzatura (forcing) solare, fenomeno importante soprattutto alle latitudini elevate, e dunque innescano la sua periodicità glaciale, ossia promuovono gli avanzamenti e le ritirate dei ghiacciai (secondo la coincidenza o meno d’un certo numero di cicli, che possono amplificare o neutralizzare la presenza delle glaciazioni). La figura seguente mostra un esempio della curva di Milancović, che si basa sui succitati cicli, estrapolata fino a due milioni d’anni fa e riguardante le Alpi dove s’evidenzia che una glaciazione non è prodotta da un’unica oscillazione termica, ma da fasi tra loro diverse d’avanzata e ritiro dei ghiacci (i nomi delle fasi glaciali, Würm, Riss, Mindel, Günz e Donau rimandano al nome del fiume nella cui valle sono molto abbondanti i depositi alluvionali, cioè le emergenze geologiche che si sono formate  in seguito alla glaciazione stessa; Donau è poi il nome tedesco del Danubio, mentre gli altri nomi designano altrettanti suoi affluenti o affluenti dei suoi affluenti; la fase interglaciale prende poi il nome dalle due fasi glaciali che la delimitano):


Figura n.   . Fonte: Polticelli, 2003, p. 137.

Ancora, a determinare le variazioni climatiche, con gradienti diversi, abbiamo le macchie solari che, se in diminuzione o assenti, sono concomitanti con una fase di raffreddamento e l’atmosfera terrestre con la sua presenza di gas, specialmente del diossido di carbonio, CO2, ch’è direttamente proporzionale al livello della temperatura, tanto che, se il CO2 cresce, cresce anche la temperatura e viceversa; e un abbassamento di CO2 si può presentare come conseguenza di fenomeni orogenetici che la sottraggono dall’atmosfera e la trasferiscono in tempi geologici negli oceani, dov’è fissata, per esempio, nei gusci di CaCO3 dei sopra citati Foraminiferi, questo grazie all’incremento dei fenomeni erosivi permessi dalle catene montuose di recente formazione le cui rocce, disgregate, sono portate sotto forma di sedimenti in soluzione acquosa in un ciclo che va dalle precipitazioni piovose alle acque ai mari, sedimenti rocciosi di composizione silicatica, CaSiO3, che reagiscono con il CO2 producendo silice, SiO2, e carbonati di calcio, CaCO3, che si presentano poi nei gusci degli organismi planctonici, dunque secondo una concatenazione di lunga durata che lega movimenti tettonici, orogenesi, erosioni, precipitazioni, sedimentazioni e formazioni di gusci sui fondali oceanici che, sottraendo CO2 all’atmosfera, partecipano al raffreddamento del clima. Ancora, determinano il clima le attività delle correnti marine e della direzione dei venti, determinanti lo stato degli oceani ch’è a sua volta determinato dalla deriva dei continenti prodotta dai movimenti di calore all’interno della Terra (cioè dai movimenti di porzioni della crosta terrestre, le placche o placche crostali studiate dalla tettonica, v. supra), deriva che introduce, tra l’altro, variazione geografiche, fenomeni d’orogenesi e attività vulcaniche, e cambiamenti del livello dei mari, fenomeni che a loro volta hanno una ricaduta sugli oceani, insomma sul clima. Ne sia esempio, di questo rapporto tra l’orogenesi, le correnti marine negli oceani e il clima la formazione della calotta glaciale antartica, legata all’attività tettonica che ha separato, in Gondwana, durante il Miocene (ca. 20 milioni d’anni fa), l’Antartide dall’America meridionale, ciò che ha creato, con la formazione d’un nuovo settore dell’Oceano Atlantico, l’esclusione dell’Antartide dal sistema di correnti transoceaniche che s’afferma nell’Emisfero australe, una cintura dove l’Antartide non è inclusa nelle correnti calde presenti nella circolazione termica complessiva delle correnti e risente dell’influsso delle correnti fredde circumpolari (v. infra), evento che permette a seguire la formazione d’una calotta glaciale antartica (dove gli spessori dei ghiacci arrivano fino a 4 000 m), con le conseguenze a ciò legate sul clima complessivo della Terra. A proposito poi del rapporto tra clima e cambiamenti del livello dei mari,  è da sottolineare che i mutamenti del clima verso i picchi di freddo provocano poi un’estensione dei ghiacciai, quindi un abbassamento, o regressione, del livello del mare, mentre la deglaciazione, al contrario, presentano invece un innalzamento, detto trasgressione, o ingressione, marina (che lascia ambienti di sedimentazione marini su terreni precedentemente esposti ad erosione subaerea) e le ritirate e le successive avanzate delle acque marine. Ciclo di trasgressioni/regressioni, questo, ch’è ininterrotto, e che spiega gran parte della storia della Terra; per esempio, a partire dalla cataglaciazione dell’ultimo picco pleistocenico (ca. 18 000 anni fa), il mare, dal suo massimo abbassamento, è risalito così di ca. 120 m (in media, un metro al secolo), fino a presentare il livello attuale e il rimodellamento grosso modo odierno delle coste; ancora, e sempre per quanto riguarda questa regressione/trasgressione, si deve ricordare che l’abbassamento e l’innalzamento dei livelli del mare non sono dovuti all’agghiacciamento delle acque (anche se per comodità descrittiva si chiamano in causa le variazioni del livello medio marino come se fossero provocate da una fase glaciale o dal successivo scioglimento dei ghiacci), bensì dall’alterazione dell’equilibrio tra acqua del mare ch’evapora (perdita) e acqua che al mare arriva (reintegro) dovuta all’aumento della quantità di neve che si accumula nei ghiacciai sulle terre emerse e che non si converte in acqua che ritorna in mare (quando cioè s’altera l’equilibrio del bilancio idrologico). Da sottolineare, infine, che in quanto alimentato dall’energia solare, il vapore acqueo si libera nell’atmosfera per evaporazione ed è ridistribuito sulla superficie terrestre mediante piogge e neve; qui una parte torna nell’atmosfera, v. supra, per evaporazione diretta e traspirazione delle piante, un’altra defluisce in mare attraverso la rete idrografica o alimentando le falde idriche; le fasi di questo ciclo idrologico, secondo le fasce climatiche, si traducono poi in gradienti diversi di precipitazioni, cioè come risorse idriche più o meno disponibili nelle terre emerse (v. infra). La figura che segue illustra poi l’andamento storico dei livelli del mare (lo zero rappresenta il livello attuale):


Figura. n. . Fonte: Vittori, 2007, p. 29.

Per esemplificare la questione della deglaciazione in rapporto al clima e rispetto ai tempi storici, è assai probabile l’ipotesi d’un innalzamento del Mare Egeo avvenuto prima del VII millennio a.C., quando l’Europa e l’Asia sono ancora congiunte sul Bosforo e il mare non sì è ancora innalzato a superare questo sbarramento, laddove il Mar Nero è un lago d’acqua dolce, detto, dai geologi, lago Neoeuxine, posto tra 100-150 metri sotto il livello del mare e profondo 2-3 metri; ora, con il ritiro dei ghiacciai del subcontinente nordamericano, la c.d. coltre laurenziana, aumenta il reintegro dell’acqua fredda e dolce nei mari che, per questo, si innalzano di 1,4 metri e, ca. nel 6400 a.C., il reintegro di acqua dolce nel Mare Mediterraneo provoca un innalzamento tale che, superata la soglia dello stretto del Bosforo e dato il dislivello con il Mar Nero, che, di suo, è alimentato solo dallo scaricarsi dei fiumi, provoca un’esondazione e un’inondazione catastrofica di acqua salmastra tale che tutte le forme, già neolitiche, di vita economica e sociale attorno a questo mare, e per migliaia di chilometri quadrati di terra antropizzata, spariscono; si stima una perdita di terreni tra i 75 e i 100 000 Km2 e l’evacuazione di ca. 145 000 persone, probabilmente verso l’Europa centro-occidentale dei cacciatori-raccoglitori. Da ricordare, in ultima istanza, che l’avanzamento e il ritiro dei ghiacci, producendo effetti sul clima, produce di conseguenza effetti sugli ambienti e sulle biocenosi, sull’evoluzione o la migrazione di flore e, conseguentemente, sull’evoluzione o la migrazione di faune (tra le quali l’uomo) legate troficamente all’ambiente e alle piante, dunque, in definitiva, modificando la strutturazione della catena alimentare; infatti, nelle fasi d’espansione glaciale si riducono spazialmente gli ecosistemi, resi per lo più inadatti a specie acclimatate ai climi miti, di fatto riducendoli ad habitat inospitali, ciò che provoca, pena l’estinzione, o la migrazione (v. infra) degli organismi tutti verso aree climatiche più adatte, e sempre ch’esistano e siano raggiungibili, per esempio come hanno fatto nell’ultima glaciazione gli ospiti freddi, originari dei mari nordici, che sono migrati nel Mediterraneo, ciò che ha loro permesso di mantenere sostanzialmente l’identità della specie; o a evolversi adattativamente in loco al nuovo regime climatico e ambientale (v. infra), per esempio come ha fatto il Mammuthus trogontherii, originario delle steppe, che s’è evoluto come Mammuth lanoso (Mammuthus primigenius); salvo poi, in fase di deglaciazione, ricolonizzare le aree abbandonate e a tratti geograficamente ridisegnate dalle trasgressioni marine, se pur ritornate a uno stadio di sostenibilità della catena alimentare. Come dire che le glaciazioni, sul lungo periodo, non sono eventi del tutto negativi giacché, un esempio su tutti, erodono le rocce che, lasciando dietro di sé nuovi suoli straordinariamente ricchi e scavando laghi d’acqua dolce, forniscono abbondanti nutrienti a una molteplicità di specie viventi, ciò che funziona da stimolo per le migrazioni e mantiene dinamica la Terra. E, per quanto riguarda la speciazione umana, l’alternanza delle fasi glaciali ha avuto enormi ripercussioni sul raffreddamento climatico in Africa sudorientale, ciò che ha portato ad alterazioni del regime delle precipitazioni nelle fasce tropicali ed equatoriali, cioè negli areali di diffusione delle specie che porteranno a Homo sapiens, producendo di conseguenza lunghi periodi d’aridità, a scapito delle aree forestali, con conseguente frammentazione degli habitat e la diffusione di nuovi ambienti, quali la savana, con conformi collassi demografici e resti frammentari del preesistente ridotti in piccoli gruppi residui (usciti dal collo di bottiglia, v. supra, e in crescita demografica) che hanno innescato processi evolutivi e diffusione di nuove specie che, per esempio, a seguito della regressione dei livelli dei mari che hanno creato ponti di terra, sono riuscite a disperdersi, a migrare e a diffondersi in altri areali più proficui e dinamici dal punto di vista delle risorse (v. infra), in cicli ininterrotti d’estinzioni, migrazioni e speciazioni.

Per ritornare all’Olocene, che sarà analizzato in dettaglio a seguire, esso presenta una suddivisione cronologica di tipo archeologico che assume i nomi di Mesolitico e Neolitico: il primo va dal tardo-glaciale del Pleistocene (ca. 12 000 anni a.C.) al 10 000 a.C., il secondo dal 10 000 a.C. agli inizi dell’epoca storica, questione che si riprenderà dopo aver presentato ciò che ha permesso il repertorio della speciazione umana che ha portato a Homo sapiens

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