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LA PALEOGEOGRAFIA

LA PALEOGEOGRAFIA

È, stando alla dinamica appena descritta di dislocazione e deformazione della crosta terrestre (o tettonica delle placche), che avviene storicamente la deriva dei continenti (o, meglio, della crosta terrestre); infatti, accettato l’assunto che le placche della crosta terrestre si sono formate a partire da 4,4 miliardi d’anni fa e che si tratta di placche continentali costituite da sial (v. supra) che galleggiano e scivolano su un substrato costituito da sima (da rocce di tipo basaltico, v. supra), si manifestano molteplici derive e  collisioni di placche che precedono quelle che hanno dato origine alla configurazione geografica attuale e, a questo proposito, s’ipotizza l’esistenza storica di varie riconfigurazioni supercontinentali (secondo quanto emerge dalla paleogeografia), cioè un ciclo evolutivo di supercontinenti in cui, tra la formazione dell’uno e dell’altro trascorrono, in media, tra i 300 e 500 milioni di anni (un’ipotesi afferma che la primigenia solidificazione del magma sia poi legata a due centri d’espansione vicino ai Poli, cioè si solidifichi passando dal caldo al freddo tanto nell’emisfero Nord quanto in quello Sud, presupponendo dunque una doppia fase espansiva dai Poli verso l’Equatore, e che l’impatto delle placche solidificate che dà origine alla deriva avvenga all’Equatore). Tra queste riconfigurazioni si segnalano (a mo’ d’elenco, per comodità di lettura, e con date offerte con beneficio d’inventario):
1.     la Vaalbara, tra 3,6 e 2,8 miliardi d’anni fa ca., quando si manifestano dei cambiamenti di clima che portano a un raffreddamento generale della Terra, cioè alla solidificazione di quella ch’è la sua crosta, ciò che dà anche luogo alla prima epoca glaciale, detta Huroniana che si presenta tra 2700 e 1800 milioni di anni fa (v. infra);
2.     la Nuna, tra 1,8 e 1,5 miliardi d’anni fa ca.;
3.     la Rodinia, tra 1,3 miliardi d’anni fa e 750 milioni d’anni fa ca., nel Proterozoico, quando inizino a moltiplicarsi le forme di vita e quando si manifestano la seconda glaciazione, ca. 910 milioni di anni fa, la terza glaciazione, datata 770 milioni di anni fa ca., e la quarta glaciazione (detta Varanger), avvenuta ca. 615 milioni di anni fa, glaciazioni durante le quali, secondo un’ipotesi, si presenta ripetuto il fenomeno del congelamento dell’intera superficie terrestre (la Terra a palla di neve, o Snowball Earth, v. infra);
4.     la Pannotia, tra 600 e 540 milioni d’anni fa ca., quando si presenta un’accelerazione nella biodiversità, quella ch’è detta l’esplosione delle forme di vita nel Cambriano (v. infra), e quando s’assiste alla quinta glaciazione, ca. 500 milioni d’anni fa, grosso modo quando inizia il Fanerozoico (nell’Ordoviciano); tutte queste glaciazioni, detto per inciso, sono legate anche al movimento di deriva dei continenti, all’innalzamento o abbassamento dei mari e ai conseguenti mutamenti nei biomi e nelle biocenosi, massimamente, come detto, nel Cambriano;
5.     la grande massa continentale della Pangea, tra la fine del Paleozoico e l’inizio del Mesozoico (quando si presenta, ca. 320 e 270 milioni d’anni fa, la glaciazione detta Permo-Carbonifera che lascia depositi di ghiaccio in tutto la Pangea e s’assiste alla colonizzazione degli ecosistemi, ca. 248 milioni d’anni fa, di piante e vertebrati), s’estende sulla superficie terrestre raggruppando più del 95% delle terre emerse, ed è circondata da un unico oceano chiamato Panthalassa (è l’Oceano Pacifico primordiale, il paleo-oceano);
6.     ca. 225 milioni d’anni fa, nel Mesozoico) inizia poi la frammentazione della Pangea con la formazione del Laurasia a nord (che comprende l’America settentrionale, la Groenlandia e gran parte dell’Eurasia, ossia l’Europa occidentale) e del Gondwana (che comprende, a Sud, l’America centro-meridionale, l’Africa unita a aree dell’Europa meridionale, l’India, l’Australia e l’Antartide), inframezzati da un oceano chiamato Tètide che, chiuso, diventerà il Mar Mediterraneo;
7.     grazie a un attivo processo di suddivisione della Pangea che dura fino alla fine del Cenozoico (ca. 2 milioni d’anni fa), i frammenti che si separano con la deriva dei diversi blocchi daranno origine all’attuale configurazione dei continenti (di cui sono resti la catena degli Appalachi, in America settentrionale, e quella degli Urali, estesa tra Russia e Kazakistan), dei bacini oceanici e delle calotte glaciali (specificamente, nel Cenozoico, a partire dal Miocene, si forma l’Antartide e, nel Pliocene, si sviluppa l’Artico);
8.     La figura seguente permette, invece, di riconoscere nella Pangea la configurazione dei continenti attuali della cui suddivisione si parla a seguire:


Figura n.  . Fonte: Creative Commons.

in dettaglio, dalla frammentazione del Laurasia (il supercontinente del Nord), avvenuta verso la fine del Mesozoico (66,5 milioni d’anni fa, grosso modo il periodo nel quale si formano i primati), risultano i due blocchi dell’America del Nord e dell’Eurasia, separati dall’oceano Atlantico; la frammentazione del Gondwana (il supercontinente del Sud) inizia nel periodo intermedio del Mesozoico, con la progressiva separazione dell’America meridionale dall’Africa (che in qualche modo ancora combaciano) e la formazione dell’oceano Atlantico meridionale; nello stesso periodo il subcontinente indiano si separa e inizia una deriva verso Nord-Est, a una inedita velocità di 17 cm l’anno, che lo porterà a saldarsi con l’Eurasia e a dare inizio, con la collisione, all’orogenesi dell’Himalaya e delle Alpi, mentre il blocco Australia-Antartide, pur staccatosi dal Gondwana, rimane fino al Cenozoico una massa unita; alla fine del Cenozoico, Nord, Centro e Sud America formano un unico continente (che dà inizio all’orogenesi delle Ande) e l’Africa, spostandosi dall’Eurasia, permette di formare il bacino del Mediterraneo (nel mentre il deterioramento climatico che s’ha alla fine del Cenozoico porta, ca. 2 milioni di anni fa, nel Quaternario, all’inizio dell’epoca glaciale più recente quando s’è già avviato il processo d’ominazione che porterà al genere Homo). Valgano, a riassunto della frammentazione della Pangea, le figure seguenti (le frecce indicano i movimenti di deriva; si noti, nella configurazione attuale dei continenti, la quasi sovrapponibilità della costa orientale dell’America meridionale e della costa occidentale dell’Africa, come detto un tempo aree geografiche contigue in Gondwana come mostrano le parentele delle biocenosi sulle due citate coste (per esempio,  alcuni ritrovamenti fossili dei rettili Mesosaurus e Lystrosaurus e della felce Glossopteris, dimostrano ch’entrambi sono distribuiti in fasce ch’abbracciano America meridionale e Africa) e le loro uguali formazioni rocciose che presentano anche la stessa configurazione paleomagnetica, v. infra):


Figura n.  . Fonte: Cavalli-Sforza e Cavalli-Sforza, 2010 b, p. 64.

La tabella seguente riassume, grosso modo, quanto precedentemente descritto a proposito della frammentazione della Pangea:

FRAMMENTAZIONE DELLA PANGEA (IN MILIONI D’ANNI FA CA.)
PERIODO STORICO
CARATTERISTICHE DI MASSIMA
280
PERMIANO
Le masse continentali della terra s’avvicinano fino a formare un solo supercontinente, Pangea, che ingloba più del 95% delle terre emerse ed è circondato da un unico oceano, Panthalassa.
225
TRIASSICO
Pangea comincia a suddividersi in placche continentali ch’iniziano lentamente ad allontanarsi e creano due nuovi continenti, Laurasia (a nord) e Gondwana (a sud).
195
GIURASSICO
Tra Laurasia e Gondwana si forma il mare Tetide (Gondwana ingloba l’America meridionale, l’Africa e l’Antartide).
136
CRETACICO
Si formano i continenti dell’emisfero settentrionale come noi li conosciamo (la Groenlandia si separa dall’Europa e si forma l’oceano atlantico).
95
TARDO CRETACICO
L’india si separa dall’africa e si sposta verso nord-est arrivando a collidere con l’Asia; l’America settentrionale comincia a separarsi dall’Europa mentre Australia e Antartide formano ancora un’unica massa; si presenta, inoltre, l’Oceano Atlantico meridionale.
OGGI
OLOCENE
S’arriva, grosso modo, a quella ch’è la configurazione attuale stabilita alla fine del cenozoico.

Tabella n.   .

Ora, supponendo che il funzionamento delle placche sia tale anche in futuro, le placche continentali continueranno a muoversi di qualche centimetro all’anno e, tra 60 milioni di anni, l’Oceano Atlantico si sarà allargato divenendo molto più grande del Pacifico, mentre nell’America del Nord la California si staccherà formando un’isola nel Pacifico, e l’Africa si spingerà a Nord penetrando in modo tale in Europa, tanto che il Mediterraneo scomparirà e si creerà, per orogenesi, una formazione montuosa (imponente come quella himalayana) che andrà dalla Francia all’India e l’Australia si connetterà con l’India per il tramite d’un istmo. Americhe e l’Africa si saranno ulteriormente allontanate; inoltre l’Oceano Pacifico si rimpicciolirà e il Mar Mediterraneo sarà completamente scomparso, tanto che Europa, Africa e Asia saranno diventate un’unica massa continentale collegate da un istmo all’Australia. La figura seguente mostra come si presenterà la configurazione delle terre emerse fra 50 milioni di anni:


Figura n.   . Fonte: Altschuler, 2005, p. 111.

Da non dimenticare, infine, che la deriva dei continenti, fenomeno concomitante a una serie di glaciazioni, ha provocato, data la profondità della crosta non emersa, l’innalzamento o l’abbassamento dei mari (pari al gradiente di frantumazione delle terre emerse), fenomeni tellurici con vulcanismo e orogenesi (v. infra) ch’implica la trasformazione delle correnti marine (v. infra), della direzione dei venti (v. infra)  e una diversa distribuzione delle precipitazioni, cioè del clima e delle diverse biocenosi (v. infra) legate a fenomeni evolutivi di speciazione o ad estinzioni; per esempio, con la formazione della Pangea le zone interne dei continenti, caratterizzate da un clima arido e variabile rispetto a quello delle regioni costiere, aumentano notevolmente d’estensione; le modifiche delle correnti di Panthalassa, inoltre, hanno effetti, oltre che sulla vita marina, anche su quella terrestre, ciò che ridefinisce la biodiversità causando estinzioni  (per esempio, ca. il 90% delle specie marine) e, attraverso un collo di bottiglia, offrendo nuove opportunità alle specie sopravvissute, che iniziano così inediti processi di speciazione; ancora, quando Pangea inizia la sua deriva, si creano fenomeni d’isolamento geografico delle specie, cioè di deriva genetica, di enormi proporzioni; e man mano che i continenti formatisi vanno alla deriva, man mano che si modificano i climi (v. per esempio, supra, la serie delle glaciazioni), man mano si modificano anche le derive genetiche della flora e della fauna; e questo processo d’evoluzione della biocenosi e della biodiversità (n’è un esempio la mutazione della composizione chimica degli Oceani che s’è alterata in modo drastico diverse volte, come mostrano gli organismi marini del Cambriano che iniziano a proteggersi con conchiglie e gusci duri) è arrivato fino a epoche geologiche recenti, come avviene per esempio con la saldatura nel Mesozoico (3,5 milioni d’anni fa) dell’America del Nord e del Sud, che causa la deviazioni delle correnti oceaniche equatoriali (v. infra) e dà origine alla corrente del Golfo che a tutt’oggi controlla il clima e le biocenosi dell’Europa settentrionale. E il fenomeno, come visto sopra, non è finito, giacché la deriva dei continenti, delle placche, la loro tettonica non percettibile per noi (che investe, come visto, anche i fondali marini), continua tuttora millimetro dopo millimetro, come continua ciò che dalla tettonica delle placche grossomodo dipende, vale a dire le trasformazioni l’una nell’altra delle rocce, i cicli di frammentazione, dispersione e ricomposizione dei continenti, i terremoti, le attività vulcaniche, i fenomeni d’orogenesi, l’abbassamento dei mari o il loro innalzamento, le correnti marine e continentali, il clima (con le sue glaciazioni, desertificazioni e deglaciazioni), i biomi e le biocenosi, i cicli degli elementi (carbonio, ossigeno, azoto etc.) e, con le sue speciazioni e estinzioni, il ciclo stesso della vita. La figura seguente, riguardante la configurazione geografica attuale, mostra la topografia delle zone della terra emersa e sommersa (crosta continentale e crosta oceanica):



Figura n.  . Fonte: Cavalli-Sforza e Cavalli-Sforza, 2010 b, p. 66.

L'ESTINZIONE K/T


L’estinzione del Cretacico (al confine K/T, cioè tra il Cretacico, K, e il Terziario, T), che è quella meglio studiata, è attribuibile a un cambiamento climatico di tipo catastrofico che si suppone sia stato provocato o dall’impatto sulla Terra d’un corpo celeste di non grandi dimensioni (asteroide o nucleo di cometa che sia, di ca. 10-12 km di diametro) che, cadendo a una velocità 40 volte superiore a quella del suono, ha creato, nell’impatto, situato dove oggi si trova la penisola dello Yucatán, nel Golfo del Messico, il Cratere di Chicxulub, v. infra; e forse è opportuno ripetere che 1 km è poi la soglia ultima del diametro dell’oggetto collidente oltre la quale l’impatto creerebbe, con le polveri sollevate nella stratosfera, un blocco dei raggi solari cui sarebbe pari un calo delle temperature tale che coinvolgerebbe in una catastrofe tutti i viventi sulla Terra, calo delle temperature detto, come visto, inverno da impatto, e questa è la prima spiegazione; o da attività vulcaniche anche con indice VEI superiore a 8 (v. supra) con l’immissione nella stratosfera di volumi imponenti di diossido di zolfo (SO2) e altri gas sulfurei che, mescolati con il vapor d’acqua formano uno strato sottile di gocce d’acido solforico, o aerosol, che cattura una parte delle radiazioni solari e porta al raffreddamento della troposfera e della superficie terrestre, fenomeni di vulcanismo che sono prodotti da movimenti tellurici che preannunciano l’orogenesi del Terziario, e questa è la seconda spiegazione. La figura seguente illustra la situazione delle terre emerse al confine K/T (la data è in milioni d’anni, Ma; si noti ch’è segnalata anche la posizione del Cratere di Chicxulub, dov’è avvenuto l’impatto sopra citato; v. anche infra):


Figura n.   . Fonte: Altschuler, 2005, p. 111.

La prima ipotesi (allo stato attuale largamente accreditata, ma ancora oggetto di discussione) è suffragata dalla scoperta, negli strati geologici Cretacico-Terziari, d’una anomalia geochimica data dalla presenza di granuli di magnetite (v. supra), di cristalli di quarzo stressati o quarzo da shock (cioè di cristalli la cui struttura mostra delle fratture microscopiche che possono rimandare alle altissime pressioni e temperature prodotte da un impatto esogeno) e dalle tectiti, sferule vetrose di materiali fusi (silicati) proiettate ad alta velocità al momento della collisione e che, solidificandosi nel mentre ricadono nelle rocce, vetrificano con la forma arrotondata più o meno regolare e, soprattutto, dal fatto che l’iridio, un elemento raro sulla crosta terrestre, ma estremamente diffuso nell’Universo (e nel Sistema solare), si trova, nel limite temporale K/T, in percentuali anche 500 volte superiori a misure precedenti e successive a K/T nelle rocce argillose (come dire ch’è, se c’è un marcatore d’un evento catastrofico esogeno, questo è l’iridio, v. supra). La figura seguente, che usa per i milioni d’anni la scala lineare solo per il periodo K/T che c’interessa (65 milioni d’anni fa; prima e dopo la scala, infatti, è logaritmica), mostra la concentrazione d’iridio misurata in vari campioni estratti da una sedimentazione presente nelle vicinanze di Gubbio dove, in uno strato d’argilla di pochi centimetri, è presente una concentrazione d’iridio ch’è sì inferiore a 10 parti per miliardo (ppb), ma ch’è centinaia di volte più abbondante che non nei depositi sedimentari limitrofi, come mostra l’impennata della curva segnalata dai punti in grigio, ciò ch’indica che qui (il che non è pero solo un effetto locale, giacché quest’impennata la si ritrova anche in molte altri parti del mondo, dove sono presenti anche granuli di magnetite, cristalli di quarzo da shock e tectiti) la polvere meteoritica non s’è depositata a ritmo costante, ma s’è accumulata in un tempo geologicamente breve a causa dell’impatto sopra detto:


Figura n.   . Fonte: Altschuler, 2005, p. 45.

Ancora, l’ipotesi è suffragata dal fatto che, come già accennato, sotto la penisola messicana dello Yucatán, a Chicxulub, esiste un cratere esplosivo, largo tra i 180 e i 190 km, circondato da una faglia circolare del diametro di 240 km e profondo 48 km, prodotto nello stesso periodo (65 milioni d’anni fa) da un corpo celeste con un diametro di 10-12 km e con una massa di oltre una tonnellata [?] che, pur vaporizzato, produce nell’impatto enormi nubi d’aerosol solfato che ricade anche per vari anni come pioggia acida (v. supra) e di polvere che si deposita lentamente al suolo entro un raggio di almeno 1000 km e forma una coltre talmente densa nella troposfera che n’è schermato il passaggio (in un’altissima percentuale) della luce solare, ciò che rende impossibile la fotosintesi clorofilliana marina e continentale, e dunque il poter rimanere in essere di buona parte della catena trofica sulla Terra, cui s’aggiunga il raffreddamento globale della stessa di parecchi gradi (si calcola sui 7 °C; c’è chi dice 15 °C, ma, in ogni caso, è garantito un inverno da impatto con una temperatura globale vicina al punto di congelamento) che porta all’estinzione gli organismi sensibili alle basse temperature, seguito il tutto da un violento innalzamento delle temperature prodotte dall’effetto serra (v. infra). Nello specifico, e avendo presente che prima dell’impatto, il clima era più caldo di quanto non sia oggi, che le calotte polari non erano ricoperte dal ghiaccio e la varietà degli ecosistemi variava dalle paludi alle foreste decidue, è possibile ricostruire una fenomenologia del cataclisma al fine di mostrare come potrebbe operare una causa dell’estinzione, questo analizzando l’area dell’impatto e l’energia rilasciata da un asteroide del diametro di dieci chilometri, ossia lo scenario d’una catastrofe. Si suppone che questo corpo celeste (che ha impiegato tre ore per percorrere lo spazio tra la Luna e la Terra e 1 secondo per attraversare l’atmosfera) , appena entrato nell’atmosfera ad una velocità di 40 000 km/h, faccia salire la temperatura sottostante a 60 000 gradi Kelvin (pari a dieci volte la temperatura della superficie del Sole) e vada poi a collidere con la superficie terrestre. Nel mentre questo corpo si vaporizza all’istante, la deflagrazione sviluppa un’energia immane (pari a 5,0 x 1023 J, valore vicino a 100 milioni di megaton; per dare un’idea, un chiloton è un’unità d’energia pari alla potenza sviluppata dall’esplosione di 1000 tonnellate di tritolo e un 1 MT, 1 megaton, come detto, corrisponde alla potenza di 1 000 000  di tonnellate di tritolo, pari a loro volta a 4,2 x 105 J; ora si pensi che Little Boy, la bomba atomica sganciata su Hiroshima durante la seconda guerra mondiale, ha sviluppato un’energia di 16 chiloton, 16 CT, e che per produrre un rilascio di 1 MT di Little Boy ce ne vogliono 65, e si valuti ad occhio il corrispettivo quanti Litte Boy sono necessari per liberare un’energia di ca. 100 milioni di megaton) e solleva qualcosa come 1000 km3 di roccia e gas surriscaldati. La prima onda d’urto s’irradia all’esterno a una velocità enorme (tra i 7 e i 40 000 km/h; e l’avanzamento avviene nel silenzio, questo finché lo scarto tra la velocità del suono e quello dell’onda non è compensato) in pari tempo bombardando i suoli con i frammenti vaganti e per un’area con un raggio di 1500 km e oltre, di là dai quali la devastazione immediata scemerà gradualmente. Tra gli effetti collaterali avremo l’implementazione d’altri fenomeni, tra i quali grandi incendi e terremoti su scala planetaria, legati questi ultimi a un proliferare, dislocato in tutti i mari, di tsunami immani (si parla d’un’onda di partenza alta 1 km) che distruggono tutto ciò che si può distruggere, e intense attività vulcaniche che, nel giro d’un’ora, oscureranno poi con una coltre tutta la Terra facendo cadere per ogni dove rocce roventi, detriti e ceneri, cioè tefra ch’impedirà praticamente l’andamento regolare del clima e dei cicli biologici per una durata probabile e approssimativa di centinaia o centinaia di migliaia d’anni (c’è chi stima che il tempo di recupero degli ecosistemi dopo la loro distruzione sia pari a 10 000 anni). Si suppone, ancora, che l’impatto non abbia estinto (va da sé, al di fuori dell’area implicata) direttamente tutte le specie viventi, né che l’abbia fatto immediatamente, ma che l’estinzione di massa K/T sia legata agli effetti collaterali sopra detti legati fra loro a catena. Prendiamo, per esempio, ciò che hanno lasciato sedimentato negli strati di rocce risalenti al limite tra il Cretacico e il Terziario gli incendi, questo in una zona vicina all’evento posta nel bacino di Raton Basin, tra il Colorado del Sud e il Nord del New Mexico, dove si trova uno strato d’argilla d’un centimetro ricco di una fuliggine che per composizione corrisponde a quella del fumo di incendi forestali (fuliggine che, secondo stime, ha ricoperto l’intera superfice terrestre con 70 miliardi di tonnellate). Per visualizzare quest’evento, si pensi che i detriti ricadono con una velocità quasi pari a quella di fuga dal cratere (tra i 7000 e i 40 000 km/h) e riscaldano così fino a parecchie centinaia di gradi un volume immenso di troposfera per un lungo periodo di tempo e che, nel mentre ricadono al suolo, incendiano la vegetazione di un’enorme porzione della Terra, specificamente le regioni meridionali e centrali del Nord America, quelle centrali del Sud America e dell’Africa e, infine, vaste zone del subcontinente indiano e dell’Asia Sud-orientale (regioni che all’epoca, come mostra la figura n. […], sono in posizioni differenti rispetto a quelle attuali a causa della deriva dei continenti; le regioni più colpite sono l’area di Chicxulub e, paradossalmente, l’India, che 65 milioni d’anni fa si trova agli antipodi dello Yucatán e, proprio per questo, è un punto focale per la ricaduta di detriti). Si calcola che gli incendi abbiano provocato l’emissione di 10 000 miliardi di tonnellate di diossido di carbonio (CO2), 100 miliardi di tonnellate di monossido di carbonio (CO) e 100 miliardi di tonnellate di metano (CH4) e questo abbia provocato, a porre termine all’inverno da impatto sopra citato, un effetto serra che ha riscaldato in modo violento la troposfera e la superficie terrestre creando in certe aree condizioni anossiche (come s’evince dalle tracce, nelle rocce sedimentarie del Colorado e del Montana, delle firme chimiche e isotopiche di batteri che prosperano per la mancanza d’ossigeno e ossidano per il loro metabolismo il metano). S’aggiunga il fatto che gli incendi emettono anche cloro e bromo che, come sopra visto, distruggono l’ozonosfera rendendo la biosfera non protetta dalle pericolose radiazioni ultraviolette che alterano il DNA degli organismi probabilmente ancora viventi nelle zone non colpite dalla discontinuità degli incendi. La figura seguente mostra, su scala logaritmica, la relazione tra le grandezze d’un oggetto impattante (in metri), l’energia sprigionata nell’impatto (in MT) e l’intervallo statistico atteso tra impatti successivi (in anni; v. anche, supra, la Scala Torino); la figura indica tre eventi impattanti (i primi due classificati come NEO, il terzo come ELE, v. supra), quello sopra Kusaie, oggi Kosrae, un’isola della Micronesia, nel Pacifico meridionale, del 1994 (dove un meteorite di 10 m di diametro ha liberato 0,1 MT, un evento che, statisticamente, capita ogni dieci anni e presenta un livello di distruzione locale), quello sopra il fiume di Tunguska, nella Siberia occidentale, del 1908 (dove un asteroide sui 50 e passa metri di diametro libera  poco più di 10 MT, un evento che capita ogni 500 anni con un livello di distruzione regionale) e quello sopra citato di Chicxulub (dove, si ripete, un oggetto di 10-12 km di diametro ha liberato 106 MT, che capita ogni 50-100 milioni d’anni e manifesta un livello di distruzione globale); in aggiunta, nella figura ci sono, per la comparazione, riferimenti al sopra citato Little Boy sganciato su Hiroshima, un evento ch’è del 1945 (e che ha liberato 16 CT) e alla bomba all’idrogeno più potente (100 MT; i colori, nella figura originale, vanno dal giallo, a sinistra, della distruzione locale al rosso, a destra, di quella globale; TNT sta, come detto sopra, per tritolo):


Figura n.   . Fonte: Altschuler, 2005, p. 188.


Quella delle attività vulcaniche, nella prima ipotesi tra gli effetti collaterali, rimanda poi alla seconda ipotesi (presente, nonostante la persistenza accreditata della prima) legata ai Trappi del Deccan (v. supra) e all’iridio, ch’è stato dimostrato è presente anche nel mantello della Terra come deposito d’un flusso d’origine esogena e primordiale, risalente al periodo di formazione del sistema solare, che i moti convettivi hanno introiettato all’interno della Terra (cioè d’un flusso meteoritico, come mostrano i giacimenti siderofili di platino in cui si ritrova assieme all’osmio), là dove si formano gli hot spots (v. supra) e che questi Traps hanno depositato nelle rocce argillose nella ricaduta del materiale gassoso eiettato assieme al basalto che forma dei plateaux nell’arco di 500 000 anni (tanto è durata, si suppone, la formazione del Trappi del Deccan, cosa ch’implica flussi considerevoli di ricaduta e sedimentazione nelle rocce dell’iridio); bisogna, infatti, sottolineare che questa provincia magmatica (o LIP, v. supra) è il risultato dell’attività d’un hot spot al momento del passaggio della zolla indiana durante la sua deriva verso l’Asia in corrispondenza dell’emissione di lava d’un vulcano lineare, emissione lenta, regolare, degassata e molto viscosa (e fatta salva l’ipotesi che il vulcanismo basaltico del Deccan è stato sicuramente accompagnato da altre eruzioni di tipo esplosivo con VEI di grado 8 che potrebbero spiegare la presenza dei granuli di magnetite e di quarzo stressato) che rimanda a un punto d’estrusione ch’è causa dell’estinzione di massa alla fine del Cretacico, causa che rimanda alle enormi quantità di diossido di carbonio (CO2) disperse nell’atmosfera che hanno causato alterazioni climatiche e una serie di crisi biologiche; ancora, che, in quanto estrusione, meglio è poi in grado di spiegare la presenza dell’iridio nei sedimenti, sedimenti che rimandano a una più lunga durata d’esposizione che non è compatibile, in questa ipotesi, con l’evento istantaneo dell’impatto. Inoltre, gli squilibri ecologici provocati da queste eruzioni prolungate meglio spiegherebbero anche la distribuzione nel tempo d’alcune estinzioni che sembrano (secondo quest’ipotesi, cioè stando a una lettura partigiana dei dati) aver avuto luogo in periodi tra loro successivi. Quale che sia poi l’ipotesi giusta (impatto d’una meteorite o formazione dei Traps o, perché no, discutibilmente entrambe), l’iridio è sempre presente in quantità anomale in molti depositi, così com’è certa l’estinzione di massa del limite K/T, e senza dimenticare che quest’impatto ha aperto nicchie ecologiche (prima impensabili) per l’evoluzione dei mammiferi, tra i quali anche noi.