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IL PROCESSO DI OMINAZIONE (PARTE PRIMA)

IL PROCESSO DI OMINAZIONE (PARTE PRIMA)

Per quanto riguarda il genere Homo, Australopitecine comprese, la prima divergenza evolutiva è dunque nel processo di ominazione che riguarda il bipedismo; il primo adattamento al bipedismo è la forma dell’anca, questo perché l’andatura stabile dell’Homo sapiens (per cui non è costretto a far oscillare il busto, se non in modo impercettibile, e può impiegare la sua energia per andare avanti) è da attribuirsi in gran parte a una semplice modifica del bacino (o pelvi); infatti, se s’osserva il bacino d’uno scimpanzé mettendolo a confronto con quello di Homo sapiens, si noterà che il nostro osso iliaco (cioè la parte più rilevata dello scheletro del bacino, derivato dall’unione di tre elementi ossei, l’ilio, o ileo, che n’è la parte superiore, l’ischio e il pube) è corto e rivolto all’infuori (orientato lateralmente), a differenza di quello delle scimmie antropomorfe in cui lo stesso osso è alto e rivolto all’indietro; ed è questo orientamento del bacino ad essere un adattamento cruciale per l’andatura bipede perché consente ai muscoli ai lati del bacino (il piccolo gluteo) di stabilizzare la parte superiore del corpo dal lato della gamba che tocca terra nel mentre Homo sapiens cammina; la figura seguente mostra come il bacino dell’uomo (a) sia più basso e largo rispetto a quello delle scimmie antropomorfe (b, qui uno scimpanzé); in particolare, nell’uomo, il femore è inclinato e l’ala iliaca è molto estesa per consentire l’inserzione dei potenti muscoli glutei che devono mantenere in equilibrio il tronco sugli arti inferiori:


Figura n. . Fonte: Biondi e Rickards, 2012, p. 14.

Per quanto riguarda il rimodellamento del bacino, è da ricordare che, se l’apertura pelvica è più larga nelle femmine che nei maschi, nella femmina è presente un canale del parto che è relativamente stretto, ciò che implica un parto doloroso assai e un notevole rischio di mortalità per la madre come per il figlio e che, affinché la testa del neonato possa attraversare un passaggio così stretto, occorre che le sue dimensioni, alla nascita, siano ancora piccole, il che comporta che il neonato non sia autosufficiente e che siano necessarie lunghe cure parentali (cui s’aggiunga il fatto che la madre richiede per il parto un aiuto esterno, fenomeno inedito nelle specie in grado d’ingravidarsi); oltre a quello del bacino, un altro adattamento importante è la forma della colonna vertebrale (o rachide) che presenta due coppie di curve (a differenza della sola curva continua che si presenta nelle scimmie antropomorfe, curva che, osservata frontalmente, è un po’ concava, ciò che rende instabile il busto quando la scimmia è in posizione eretta in quanto questo è proiettato in avanti rispetto al bacino); precisamente nell’uomo si presenta una curva inferiore, detta lombare, ch’è formata da 5 vertebre lombari (le antropomorfe, di solito, ne hanno il 50% nel numero di 3, il 50% nel numero di 4 e una minutissima frazione nel numero di 5), molte delle quali hanno una forma a cuneo che permette loro d’incurvare la parte inferiore della spina dorsale verso l’interno, sopra il bacino, ciò che abilita a posizionare stabilmente il busto al di sopra dei fianchi (convessità detta lordosi lombare, nelle femmine più accentuata durante la gravidanza per riportare il baricentro del corpo sopra i fianchi nonostante il carico lombare del feto, della placenta etc., fino ad un aumento del carico che oggi, al termine della gravidanza, raggiunge i 7 kg, ciò che rende instabile la postura eretta, a meno di non contrarre di più i muscoli della schiena o di piegarsi all’indietro, nonostante che nelle femmine il numero delle vertebre su cui inarcano la parte inferiore sia di 3, a differenza dei maschi che ne hanno 2, ciò che permette, assieme alle articolazioni più rinforzate, di ridurre e meglio sopportare le forze di taglio sulla colonna vertebrale, adattamenti, questi, già presenti nelle colonne vertebrali degli esemplari femminili dei primi ominini fino ad ora scoperti); l’altra curva, superiore, detta lordosi cervicale, orienta le prime vertebre del collo verso il basso anziché all’indietro rispetto al cranio; complessivamente, in Homo sapiens, le vertebre della colonna vertebrale sono in numero di 33-34, e partendo dall’alto si presentano 7 vertebre cervicali, 12 toraciche o dorsali (con una curvatura, detta cifosi dorsale, a cui s’attaccano 12 paia di coste che formano la cassa toracica), 5 lombari, 5 sacrali e 4 o 5 coccigee; escluse le sacrali e le coccigee, saldate in un corpo unico, le vertebre tra di loro sono collegate da legamenti che rendono possibili i movimenti del rachide; la figura seguente mostra la forma a doppia curva, o a S, della colonna vertebrale (i numeri che seguono le cinque regioni della colonna vertebrale, ripetono le quantità di vertebre sopra indicate e proprie a ogni regione):


Figura n.  . Fonte: Cavalli-Sforza e Cavalli-Sforza, 2010 a, p. 215.

Ancora, il foro occipitale, che permette la comunicazione della cavità cranica con il canale vertebrale (l’osso occipitale è quello che forma poi la parte inferiore e posteriore del cranio e presenta, appunto, questo grosso foro, detto foramen magnum, che permette al midollo spinale della colonna vertebrale di penetrare nella cavità cranica come midollo allungato), può presentarsi in varie posizioni; nell’uomo, grazie all’espansione della squama dell’occipitale, il foramen magnum s’è spostato in avanti fino a occupare una posizione mediana sulla base cranica, ciò che consente di mantenere in perfetto equilibrio la testa sulla colonna vertebrale, come dire che il foro occipitale s’è venuto a trovare in linea con la colonna vertebrale e ha reso verticale il tronco permettendo il bilanciamento della testa sul busto e la posizione ortograda, mentre nelle scimmie antropomorfe il foro occipitale si presenta arretrato nel cranio (ciò che richiede lo sviluppo dei muscoli nucali al fine di potere mantenere la testa in equilibrio su un tronco inclinato, quale quello della postura clinograda, v. infra); per esempio, il cranio di Sahelanthropus tchadensis (v. infra), uno dei primi ominini, mostra un foro occipitale che s’è anteriorizzato e non è arretrato come quello delle scimmie antropomorfe, ma in posizione mediana, tanto che quando Sahelanthropus tchadensis era in posizione eretta o camminava, la parte superiore del collo era quasi verticale, configurazione ch’è possibile soltanto se la colonna vertebrale s’incurva all’indietro (lordosi) nella parte inferiore o nel collo, o in entrambi i punti; la figura che segue mostra il foro occipitale nell’uomo (b) e nelle scimmie antropomorfe (a, qui uno scimpanzé):


Figura n. . Fonte: Biondi e Rickards, 2012, p. 58.

Ancora, rispetto allo scimpanzé, negli ominini il femore (l’osso della coscia che, nella parte superiore, s’articola con l’osso iliaco formando l’articolazione dell’anca e, nella parte inferiore s’articola con la tibia, con la quale forma l’articolazione del ginocchio) s’è allungato in misura superiore rispetto all’òmero (cioè all’osso che costituisce il braccio, ossia al segmento dell’arto superiore che va dalla spalla al gomito e che s’articola con il tronco a livello del cinto scapolare); ancora, altro adattamento importante è quello del piede (che s’è specializzato, oltre che in funzione del bipedismo, anche per la necessità di sostenere il corpo nella stazione eretta); mentre nelle scimmie antropomorfe manca l’arco plantare, ciò che fa sì che quando camminano s’appoggino sul lato esterno del lungo piede, in Homo sapiens l’arco plantare (vale a dire la struttura a volta della pianta del piede dovuta alla particolare conformazione dell’impalcatura scheletrica, e che presenta un arco longitudinale e uno trasversale, o metatarsale) è quello che permette d’appoggiare prima il tallone e poi, mentre il resto del piede entra il contatto con il suolo, d’irrigidirlo, cosa che, alla fine dell’appoggio, rende possibile spingere il corpo in alto e in avanti, principalmente con l’alluce; cui s’aggiunga che le superfici delle articolazioni tra le dita e il resto del piede sono arrotondate e puntano verso l’alto, ciò che permette ai piedi e di piegarsi a un angolo estremo quando Homo sapiens lo stacca da terra (o iperestensione) e di scaricare le sollecitazioni trasmesse dalla tibia ad ogni passo (infatti, l’assenza d’arco plantare nelle antropomorfe impedisce loro di premere con il proprio corpo su un piede in tensione e, allo stesso tempo, le punta delle dita non sono in grado d’estendersi come quelle degli uomini; per esempio, uno dei primi ominini, Ardipithecus ramidus (v. infra), a differenza degli scimpanzé aveva piedi in grado di produrre una spinta efficace durante la deambulazione eretta grazie alla parte centrale, in parte irrigidita, è un’articolazione delle dita in grado di piegarsi in avanti al termine del movimento, anche se non capace di torsione come un piede umano); la figura seguente mostra come le aree di carico sul piede si spostano sull’arco plantare, cioè come il peso del corpo si trasferisca dal calcagno (è l’osso del tallone) all’avampiede e poi all’alluce (i tre punti su cui poggia il piede sono poi detti tripode plantare):


Figura n.  . Fonte: Parker, 2008, p. 45.

Gli adattamenti imposti dal bipedismo implicano dunque le modificazioni della parte inferiore della colonna vertebrale, del bacino e degli arti inferiori, modificazioni che permettono l’abbandono della postura clinograda, in cui l’asse principale del corpo in movimento è inclinato rispetto al terreno che lo sostiene (come è nelle scimmie antropomorfe), e il progressivo sviluppo della postura eretta (cioè la postura ortograda in cui il citato asse è perpendicolare al terreno e cranio, bacino e piedi sono allineati col baricentro sulla verticale); mentre nelle scimmie antropomorfe l’andatura al suolo è poi basata sull’appoggio a terra del dorso della mano ripiegata sulle seconde falangi della mano (knuckle-walking, o andatura clinograda), la locomozione, o deambulazione, bipede dell’uomo è data dalla differenziazione funzionale degli arti in cui quelli posteriori (plantigradi) consentono, assieme al movimento degli arti pelvici, la spinta propulsiva in avanti e quelli anteriori, liberati dalla knuckle-walking, presentano mani capaci di prensione e manipolazione, cui seguono una maggiore statura e massa corporea; valga, a illustrazione di quanto affermato, la figura seguente:


Figura n. . Fonte: Biondi e Rickards, 2012, p. 58.

La figura seguente illustra, mettendo a paragone un uomo e uno scimpanzé (in posizione ortograda), alcuni adattamenti alla posizione eretta e al bipedismo presenti nell’uomo di cui s’è parlato in parte sopra:


Figura n.  .  Fonte: Lieberman, 2014, p. 15.

Ora, se ci si domanda qual è il motivo per cui il bipedismo come variazione adattativa ha iniziato a manifestarsi, occorre ritornare alle variazioni ambientali che si sono presentate nella Great Rift Valley nel passaggio dall’ultimo antenato comune (o LCA, last common ancestor) a uomini e scimpanzé (volendo chimpanzee/human last common ancestor, o CHLCA), cioè quando la pressione selettiva durante il processo di ominazione ha incominciato a favorire chi era più abile a reperire le risorse trofiche, specificamente la frutta degli alberi legata alle difficoltà di reperimento e il ricorso obbligato a cibi di ripiego, di bassa qualità (questa è perlomeno l’ipotesi qui riportata, scelta fra una dozzina di quelle in circolazione, alcune delle quali non sono più accettate, mentre altre sono in competizione fra loro); gli scimpanzé prediligono, nell’alimentazione, la frutta matura (sono frugivori) e può capitare che la frutta, in periodo di scarsità, possa essere più difficile da cogliere, ma se (come è il caso nel mutamento d’un ecosistema) s’appetisce la frutta matura e la competizione è forte, la stazione eretta come adattamento posturale a una locomozione sui rami flessibili, cioè al di sotto dei 4 cm di diametro, può forse permettere di coglierne di più, come fanno oggi, per esempio, gli oranghi (per esempio, l’orangutan di Sumatra, Pongo abelii) che spesso, sugli alberi, stanno in posizione quasi ortograda, tenendo le ginocchia dritte e appoggiandosi a un altro ramo per massimizzare la stabilità (detto bipedismo assistito), e raggiungono con il braccio senza appoggi, cioè pènsile, cibi che penzolano poco lontano, tanto che quelli che saranno i primi ominini, quelli con un bacino in posizione più laterale (e con altre caratteristiche che li aiuteranno a essere bipedi, v. supra), avrebbero avuto un vantaggio sugli altri competitori che non presentano un bacino siffatto perché avrebbero consumato meno energie, questo in quanto più abili grazie a questa specializzazione posturale che avrebbe permesso posizioni di raccolta più stabili e più vantaggiose dal punto di vista trofico; ominini che, sempre con il ricorso a questa stazione eretta loro facilitata, avrebbero anche potuto trasportare più frutta, come fanno oggi gli scimpanzé quando praticano una deambulazione bipede occasionale, cioè quando usano gli arti superiori per il trasporto delle risorse nei casi in cui la competizione si presenta particolarmente intensa); inoltre, il potere essere bipedi, oltre che all’adattamento arboreo, potrebbe avere aiutato i primi ominini a conservare energia durante gli spostamenti rispetto ai loro competitori (infatti, lo knuckle-walking degli scimpanzé, per esempio, è estremamente dispendioso in termini energetici, ancora di più se non ci si può a volte spostare altrimenti che a terra a causa della riduzione e frammentazione della foresta che si riempie di radure, dispendio nella deambulazione bipede dovuto all’uso della forza muscolare, cioè alla contrazione dei muscoli della schiena, del bacino e delle cosce al fine d’evitare di cadere per terra, come mostrano gli scimpanzé con le loro zampe più corte, le oscillazioni da un lato all’altro del busto e il camminare tenendo sempre le ginocchia e le anche piegate, v. infra) e, visto che oggi il dispendio d’uno scimpanzé che percorre 2-3 km al giorno è pari allo stesso consumo energetico d’un uomo che percorre 8-12 km, si può anche supporre che, se i primi ominini fossero stati soltanto anche di poco in vantaggio rispetto ai competitori nel risparmiare energia in questo modo, non sarebbe stata questione effimera; infatti, è stato calcolato che il dispendio d’energia tra la deambulazione bipede e quella knuckle-walking (o bipede occasionale) nel percorrere una stessa distanza su un terreno piano è grossomodo pari a un rapporto di 1 a 4 (il percorso, per l’uomo, è meno costoso all’incirca del 75%, cui s’aggiunga il fatto che, in linea di massima, è anche più dispendioso, dal punto di vista energetico, spostarsi sugli alberi che non camminare), tanto che questo risparmio energetico nell’apparato locomotore dovuto all’efficienza posturale sarebbe stato un adattamento estremamente vantaggioso nel contesto d’un mutamento dell’ecosistema, quello avvenuto nel tardo Miocene che, supponendo una topografia come quella attuale, modifica sia la disponibilità che la localizzazione delle risorse trofiche (e questo già a partire da Sahelanthropus tchadensis, v. infra, in cui l’angolo del foro occipitale, come detto, indica che le prime vertebre del collo erano verticali, ciò ch’è un chiaro indizio di locomozione bipede, per arrivare a Ardipithecus ramidus, v. infra, un esempio certo di bipedismo, se pure imperfetto in quanto aveva anche adattamenti per potersi arrampicare verticalmente sugli alberi, o tree-climbing, come una caviglia leggermente piegata verso l’interno, dita dei piedi lunghe e curve, un alluce muscoloso e divergente in grado d’avvolgersi ai rami, braccia lunghe e molto muscolose e da dita delle mani lunghe e ricurve); ora, gli scimpanzé d’oggi, che prediligono nell’alimentazione, come detto, la frutta matura, possiedono per questo un muso pronunciato e grossi incisivi a forma di spatola, molto adatti per mordere la frutta, e molari con piccole cuspidi, perfetti per sminuzzare la polpa di frutti fibrosi, nel mentre nei primi ominini, per esempio, i citati Sahelanthropus tchadensis e Ardipithecus ramidus (v. infra), si presentano invece molari leggermente più grandi e più spessi che permettono di masticare meglio cibi più duri come gli steli fibrosi e le foglie delle piante, canini più piccoli e corti utili per masticare cibi più duri e fibrosi e un muso meno pronunciato grazie alla posizione più avanzata degli zigomi e a un volto più verticale, configurazione che fa sì che i muscoli deputati alla masticazione possano esercitare una forza maggiore, efficace per demolire cibi più coriacei della frutta; e s’è vero, come sopra detto, che le variazioni tettoniche e climatiche hanno ridotto e frammentato all’altezza di 7 milioni d’anni fa le foreste pluviali e espanso gli ambienti aperti della savana, è anche vero che la disponibilità di frutta diminuisce, specie ai margini dei residui d’una foresta pluviale già rada, per cui occorre che in un mutato ecosistema forestale, con differenti risorse trofiche, ci si debba spostare per cercare la localizzazione della frutta e, anche, che ci s’adatti come ripiego ai cibi più abbondanti, ma d’inferiore qualità nutritiva rispetto alla frutta (o fallback foods, FBF), come gli steli fibrosi e le foglie (come fanno, oggi, gli scimpanzé cui capita d’essere costretti a vivere ai margini della foresta pluviale, o gli oranghi, frugivori che s’adattano a mangiare steli legnosi e, s’è il caso, pezzi di corteccia); e s’è vero tutto questo, allora è anche vero che una differenza nella deambulazione (anche se non ancora obbligata come locomozione bipede, vista la convivenza nel repertorio posturale con la locomozione arboricola) e nell’assetto dentario possa fare una differenza nella sopravvivenza e nella riproduzione, giusto quello che potrebbe essere capitato con i primi ominini che, in un periodo di grandi cambiamenti climatici su scala globale (v. supra), sono sottoposti al regime imposto dai rilievi dell’Africa orientale (altipiani e catene montuose, quali quelle del Virunga e del Ruwenzori), rilievi i cui sollevamenti sono dovuti ai movimenti tettonici nella Great Rift Valley, che funzionano da barriera all’avanzata del regime atlantico, cioè alle piogge, ciò che crea ambienti subaridi e aperti nella parte orientale della fascia equatoriale (è, questo, il fenomeno dovuto alla conformazione orografica che dà origine a una regione detta in ombra pluviometrica, fenomeno che si spiega con il fatto che le masse d’aria portate dal regime atlantico, nel risalire il versante, si raffreddano e perdono l’umidità sotto forma di precipitazioni prima di superare il versante, tanto che nell’area a valle che lo segue la massa d’aria, prima calda e umida, dopo aver superato il versante è asciutta e assorbe l’umidità disponibile rendendo pertanto la regione arida e causando, come detto, la diffusione della savana a mosaico, caratterizzata da precipitazioni fortemente stagionali, distribuzione discontinua di alberi e una vegetazione C4, v. infra, adattata al clima, coriacea e resistente alla siccità); questi ominini, infatti, iniziano a divergere dalla linea evolutiva di quelli che diventeranno gli scimpanzé, evoluti solo nei bassopiani forestali sottoposti al regime atlantico, cioè umidi, dell’Africa occidentale (sempre nella fascia equatoriale; Pan troglodytes negli areali che s’estendono dalla Sierra Leone e dalla Guinea fino ai laghi Tanganica e Vittoria; Pan paniscus esclusivamente nella parte orientale del bacino del fiume Congo, v. infra); il che è ipotizzare che la selezione naturale sia stata spinta dai fattori tettonici e climatici (l’emergere di barriere che creano la polarità umido vs arido e che favoriscono, in queste aree separate da barriere che ostacolano il flusso genico fra popolazioni derivate da un antenato comune e ora isolate, una speciazione allopatrica, v. supra, ciò che comporta l’accumulazione di caratteri genetici che differenziano sempre più queste due popolazioni conspecifiche) a favorire in modo tendenziale anche il bipedismo dal punto di vista anatomico e comportamentale al fine di migliorare la fitness di determinati organismi (lo stile di vita di questi primi ominini è perdurato per almeno 2 milioni d’anni e il bipedismo è poi diventato obbligato con Homo ergaster, v. infra, a partire da poco meno di 2 milioni d’anni fa; è da sottolineare, inoltre, che tra i taxa dei mammiferi che si sono adattati al clima arido sono coinvolti in modo sincrono, oltre agli ominini, anche i bovidi); la figura seguente mostra l’albero evolutivo di uomini, scimpanzé e gorilla, cioè la sottofamiglia Homininae nelle sue due tribù, Hominini (uomo e scimpanzé) e Gorillini (gorilla); si ricorda, e sia detto per inciso, che il tratto del bipedismo, presente nell’antenato ancestrale a uomini e scimpanzé, nel contesto forestale degli scimpanzé ha una funzione opportunistica, ma che quando lo stesso tratto insorge poi in un mutato contesto dov’è diversamente articolato da un’altra specie, cioè negli ominini, acquisisce un’importante funzione nel determinare il destino della specie stessa, meccanismo detto d’esaptazione; ancora, che i meccanismi del bipedismo dell’orango sono in ogni caso più simili a quelli degli esseri umani moderni che non quelli dello scimpanzé o del gorilla):


Figura n.   .  Fonte: Lieberman, 2014, p. 8.

Gli adattamenti a mangiare risorse trofiche che esulano dalla frugivoria (che, di per sé, e al fine di raggiungere il fabbisogno di calorie richieste da questo regime alimentare, implica che molta parte della giornata sia dedicata alla ricerca di frutta selvatica, ricca di fibre e di semi, e che il processo di masticazione sia prolungato nel tempo come avviene, per esempio, nello scimpanzé che passa all’incirca meta del suo tempo quotidiano a masticare quantità enormi di frutta, o germogli, o foglie, all’incirca 1 kg all’ora, seguito da una pausa di 2 ore per svuotarsi, a seguito della quale pausa riprende la masticazione), cioè un cambiamento nella dieta, sono avvenuti, come visto, nei primi ominini che hanno fatto ricorso anche a cibi di bassa qualità; ora, ca. 4 milioni d’anni fa, nella fase finale del Pliocene, s’è presentata un’accelerazione a favore d’una dieta ancora più variata, ciò che ha messo in moto la seconda trasformazione fondamentale nell’evoluzione del corpo umano ch’è durata all’incirca fino a 1,3 milioni d’anni fa, agli inizi del Pleistocene, e che ha investito le specie che vanno sotto il nome di Australopitecine (i cui reperti sono stati localizzati a Est e a Sud dei movimenti tettonici propri alla Great Rift Valley e che si suddividono, per comodità esplicativa, in gracili e robuste; per i dettagli, v. infra); questi ominini pliopleistocenici presentano in media un’altezza che, per i maschi, è di 1,4 m, con un peso che varia tra i 40-50 kg e che, per le femmine, è di 1,1 m, con un peso che varia da 28 a 26 kg , dimorfismo sessuale elevato in cui i maschi sono all’incirca il 50% più grossi delle femmine, una differenza di taglia che si ritrova in specie come i gorilla o i babbuini in cui i maschi sono in forte competizione tra loro per accedere sessualmente alle femmine (il dimorfismo sessuale è poi generalmente indice d’una organizzazione sociale in cui i maschi sono poligami; si presume che la durata della gravidanza sia a cavallo tra quella degli scimpanzé e quella dell’uomo e che il tasso di riproduzione sia analogo a quello degli scimpanzé, in cui le femmine, dato che i nati impiegano ca. 12 anni a divenire adulti, partoriscono ca. ogni 5 o 6 anni, ciò che richiede in ogni caso lunghe cure parentali); i crani, che presentano pareti relativamente sottili (ma con spigoli forti sopra le orbite, nella parte posteriore e lungo i margini delle zone che richiedono degli inserimenti muscolari), mostrano cervelli piccoli, con valori medi tra 400 e 500 cm3, poco più grandi di quelli degli scimpanzé se non si considera il volume cerebrale relativo, nel quale il rapporto massa del cervello/corpo mostra che le Australopitecine hanno un cervello del 25% ca. più grande dello scimpanzé (indizio d’un probabile processo d’encefalizzazione, come mostra l’architettura del cervello che presenta circonvoluzioni più complesse), inoltre le facce sono più ampie e più allungate con zigomi che si protendono in avanti; l’apparato masticatorio è molto sviluppato e presenta mandibole massicce generalmente senza mento osseo e l’apparato dentario mostra denti appiattiti e molari e premolari molto grandi (gli incisivi sono piccoli e taglienti e i canini sono ridotti, ciò che permette lo spostamento laterale della mandibola; i canini presentano poi poco dimorfismo sessuale rispetto, per esempio, allo scimpanzé); le gambe sono relativamente corte e le braccia relativamente lunghe (presentano un alto indice brachiale, dato dal rapporto fra la lunghezza dell’avambraccio e del braccio; infatti, braccia e spalle presentano muscoli che indicano che le Australopitecine mostrano capacità d’adattamento arboricolo, per esempio, per eludere i predatori, questo nonostante il loro bipedismo molto, ma molto più efficace rispetto ai primi ominini); il bacino è basso e largo con un’ampia superficie per attaccare muscoli i delle natiche (glutei), dunque adatto all’andatura bipede; le dita delle mani, infine, sono relativamente lunghe e curve; ma, se le falangi sono curve, il piede, per esempio quello di Australopithecus afarensis, v. infra, è rigido e particolarmente arcuato, con un alluce corto e allineato alle altre dita (ciò che gli permette un’andatura più simile a quella di Homo sapiens); per cui si può riassumere il tutto dicendo che le Australopitecine presentano le basi morfologiche (foro occipitale, colonna vertebrale, bacino, femore e piede) necessarie per la postura eretta e per la locomozione bipede, questo in vista di una più ampia dispersione delle risorse trofiche da ricercare deambulando nel loro areale (e questo laddove i cambiamenti climatici hanno determinato uno spostamento della disponibilità delle risorse, cioè un mutamento dell’habitat) e un rimodellamento del cranio, pari ai cambiamenti dell’apparato masticatorio e dell’articolazione cranio-vertebrale, in vista d’una diversa composizione e articolazione della dieta; la quale variazione della dieta rispetto ai primi ominini è poi nel fatto che le Australopitecine mangiano molta meno frutta e s’alimentano in maggior misura di cibi di ripiego edibili quali bulbi, tuberi, radici e rizomi, semi e noci con guscio spesso, foglie, steli delle piante, erbe e altri cibi duri e coriacei e insetti come termiti e larve e piccoli invertebrati, infine, ma la questione è assai controversa, con il ricorso a una carnivoria occasionale, ossia a carne di selvaggina abbattuta (piccoli mammiferi, rettili e uccelli) o a carne di carcasse d’animali altrimenti uccisi e senza competere con i predatori (con un comportamento da scavenging, cioè d’utilizzazione a scopo alimentare di animali post-mortem; da scavenger, che vuol dire animale necrofago, spazzino), ciò che li porta ad essere in grado, per esempio, di rompere gusci, insetti o altri piccoli invertebrati protetti da esoscheletri duri (e forse le ossa, per il midollo, cioè alimenti meccanicamente resistenti) con i premolari e abili masticatori, cioè ad avere denti più grandi (per esempio, rispetto a quelli citati di Sahelanthropus  e Ardipithecus ramidus), con lo smalto dentario ispessito che aiuta a proteggere i denti dalle fratture, dalla rottura e dall’abrasione quando si ricorre a cibi duri (lo smalto sottile, infatti, e come si vedrà a seguire, è tipico delle antropomorfe frugivore; in ogni caso lo smalto più spesso è poi maggiormente presente nelle Australopitecine robuste rispetto a quelle fragili, probabilmente perché queste consumano, come mostra la dentatura, materiali vegetali più fibrosi e abrasivi), mandibole più pronunciate e, come già detto, una morfologia facciale ch’è tale in funzione di muscoli masticatori più pronunciati e sviluppati (specialmente tra le Australopitecine robuste, tra cui il più specializzato, con la sua dieta di bacche, noci, tuberi, radici etc., è Australopithecus boisei, v. infra), come dire che, in relazione ai cambiamenti della dieta, s’è manifestata nelle Australopitecine un progressivo ampiamento del massiccio facciale (cioè del sostegno scheletrico al tratto anteriore del tubo digerente, o splancnocranio); per quanto riguarda l’ambiente in cui sono vissute le Australopitecine, questo è diverso da quello forestale dei primi ominini (non ci sono, infatti, evidenze di grandi foreste pluviali negli ecosistemi frequentati dalle Australopitecine), e l’ambiente frequentato è poi probabilmente quello che esula dalle foreste e si ritrova nell’habitat delle aree boschive aperte e della savana con le sue praterie d’erbe alte che vanno verso la desertificazione, con la differenziazione progressiva del clima, e quindi della vegetazione (per lo più lungo le sponde dei fiumi e le rive dei laghi profondi, formati questi dagli sconvolgimenti e assestamenti tettonici della Great Rift Valley); tanto che, mentre nelle foreste si ha la predominanza delle piante C3 (così dette perché tramite il metabolismo fotosintetico nella conversione della CO2, la prima molecola stabile che si forma è un composto a tre atomi di carbonio), cioè dei prodotti vegetali teneri, negli ambienti di savana si presenta, come accennato, la predominanza di piante C4 (così dette perché il primo prodotto stabile è un acido organico a quattro atomi di carbonio ch’è poi il risultato d’un adattamento alle condizioni proprie ad ambienti caldi e tendenzialmente aridi, dove queste piante limitano la perdita d’acqua e aumentano la loro efficienza fotosintetica), vale a dire la presenza di prodotti vegetali coriacei, ossia un ambiente che provoca così un’ampia diminuzione, ma non la sparizione, della disponibilità di frutta (ciò che impone una forte pressione selettiva fra le Australopitecine che devono diventare abili a cercarsi altre risorse di ripiego, quelle che segnano il discrimine tra sopravvivere e morire), ma in pari tempo permette una diversità di risorse trofiche distribuite in una pluralità di nicchie che s’adatta bene all’elenco dietetico misto dei cibi di ripiego sopra presentato (e agli adattamenti richiesti per cibarsene), cioè all’utilizzo d’una vasta gamma di risorse vegetali e, forse, animali; infatti, sul finire del Pliocene e durante il Pleistocene, un periodo di particolare importanza per l’evoluzione delle Australopitecine, si presentano crisi climatiche ed ecologiche; le crisi climatiche cambiano il clima, che da caldo e umido si fa più freddo e asciutto e con un ventaglio di variabilità stagionali (tra cui la stagione secca), e questa tendenza, iniziata tra 3,5 e 3,2 milioni d’anni fa, diventa più evidente 2,6 milioni d’anni fa e raggiunge un picco massimo d’aridità attorno a 1,8 milioni d’anni fa e questa tendenza è stata una delle cause ecologiche (quanto meno, la principale a livello della presenza di determinate risorse trofiche) che ha portato al differenziarsi adattativo delle Australopitecine nell’Africa orientale e meridionale (o australe) e al manifestarsi del genere Homo; infatti, è da sottolineare, riguardo ai sopracitati cibi di ripiego, quali semi, foglie, steli delle piante, erbe, che questi sono molto ricchi di fibre, ma poveri di amidi, e sono quindi poco calorici, a differenza di bulbi, tuberi, radici e rizomi (detti, collettivamente organi di riserva sotterranei o USO, underground storage organs) che sono cibi ad alto valore nutritivo; ora, è vero che gli USO sono difficili da trovare e richiedono, per l’estrazione, un certo sforzo e una certa abilità (v. infra), ma resta che sono disponibili tutto l’anno, anche nella stagione secca (il che è dire che, stagionalmente, possono arrivare a costituire fino al 100% della dieta; di qui la loro importanza in epoche di mutamenti climatici e ambientali), e possono arrivare a costituire una percentuale sostanziale dell’apporto calorico e così diventare più importanti della frutta, questo perché bulbi, tuberi, radici e rizomi presentano un contenuto inferiore di fibre, sono più ricchi di sostanze glucidiche di riserva per la crescita della pianta, quali gli amidi (tra i carboidrati, o glucidi, l’amido presenta una delle strutture più complesse, è un polisaccaride, e costituisce il carboidrato più importante nell’alimentazione; v. infra), e rappresentano per questo una valida fonte energetica, cioè un contenuto calorico ch’è maggiore di quello di molti frutti selvatici, cui s’aggiunga che sono anche un’ottima risorsa d’acqua (e si ritiene che le Australopitecine si siano servite, scavando, anche di strutture ipogee, cioè sotterranee, per potere avere sempre a disposizione uno stoccaggio di riserva di questi cibi ad alto valore nutritivo; e s’è poi vero che gli amidi possono rappresentare un surplus decisivo nella dieta delle Australopitecine, e se la digestione degli amidi, cioè la trasformazione dei polisaccaridi in monosaccaridi, o zuccheri, gli unici ad essere assorbiti e a entrare nel sangue, è dovuta all’amilasi, vale a dire agli enzimi prodotti dalla saliva e dal pancreas, allora è anche necessario che la pressione selettiva si sia indirizzata anche a chi è in grado di produrre una maggiore quantità degli enzimi necessari per digerirlo e ridurlo in zuccheri a partire dalla masticazione, v. infra); e la gestione degli USO, ancora, può in parte spiegare la localizzazione dei frugivori, gli scimpanzé, nelle foreste pluviali che sono dislocate nella parte centro-occidentale dell’Africa, là dove s’evolvono in modo divergente dall’antenato comune rispetto a come s’evolverà Homo che trova, nella permanenza e nella diffusione delle Australopitecine negli areali colonizzati in Africa orientale e in Sudafrica, la sua genesi prima, e questo nonostante l’avanzare del clima arido e la rarefazione progressiva delle risorse più appetibili, il che è dire che si propone che un cambiamento importante per l’evoluzione degli ominini a partire dall’ultimo antenato comune condiviso con gli scimpanzé possa essere dovuta anche alla sostituzione del cibo di riserva, da quello ipocalorico consumato dagli scimpanzé in caso di carestia frugivora a quello con gli organi di riserva sotterranei ricchi d’amido consumati dalle Australopitecine in caso di clima arido, cioè in una mutazione adattativa all’ecosistema grazie all’uso di nuovi alimenti di ripiego, il tutto dovuto dunque a diversi fattori critici limitanti presenti in habitat diversificati che mettono in moto una divergenza evolutiva che determina l’anatomia degli apparati dentari e la fitness degli organismi; la tabella seguente indica, con beneficio d’inventario, quando e dove si sono presentate le varie specie delle Australopitecine (per molte delle quali, v. anche infra):

SPECIE
DATA (IN MILIONI D’ANNI)
LUOGHI DI RITROVAMENTO
FRAGILI [1]
AUSTRALOPITHECUS ANAMENSIS
4,3 - 3,9
KENYA, ETIOPIA [4]
AUSTRALOPITHECUS AFARENSIS
3,9 - 3
TANZANIA, KENYA, ETIOPIA [4]
AUSTRALOPITHECUS AFRICANUS
3 - 2
GAUTENG [5]
AUSTRALOPITHECUS SEDIBA
2 - 1,8
GAUTENG [5]
AUSTRALOPITHECUS GARHI
2,5
ETIOPIA [4]
AUSTRALOPITHECUS PLATYOPS
3,5 - 3,2
KENYA [4]
ROBUSTE [1], [2]
AUSTRALOPITHECUS AETHIOPICUS
2,7 - 2,3
KENYA, ETIOPIA [4]
AUSTRALOPITHECUS BOISEI
2,3 - 1,3 [3]
TANZANIA, KENYA, ETIOPIA [4]
AUSTRALOPITHECUS ROBUSTUS
2 - 1,5
GAUTENG [5]

[1] Le differenze riguardano l’altezza, la struttura scheletrica e la massa muscolare
richiesta (maggiore se la struttura scheletrica è più forte).
[2] Rientrano nel genere dei Parantropi (Paranthropus).
[3] La scomparsa definitiva delle Australopitecine è probabilmente da legarsi alla loro
estrema specializzazione, dunque all’incapacità d’adattarsi alle nuove e ripetute
trasformazioni ambientali cui riesce a far fronte soprattutto il coevo Homo erectus
(cui s’aggiunga anche il loro isolamento geografico).
[4] In Africa orientale.
[5] In Sudafrica (Africa meridionale).

Figura n.   . Fonte (adattata): Lieberman, 2014, p. 34.

Detto questo, è però necessario andare oltre ai cenni sopra offerti e meglio spiegare come la difficoltà a reperire le risorse trofiche abbia, da un lato, accelerato la variabilità della dieta, e dall’altro influito sull’evoluzione del corpo degli ominini, al fine di potersi procurare questi cibi e, soprattutto, d’essere in grado di mangiarli, quella che sopra s’è indicata come la seconda trasformazione fondamentale nell’evoluzione del corpo umano, là dove gli adattamenti anatomici più strettamente legati all’alimentazione sono la morfologia dei denti, l’anatomia dell’intestino e le strutture coinvolte nella locomozione; partiamo dunque dai denti, con la constatazione che questi subiscono, da parte della selezione naturale, un’azione adattativa considerevole poiché la forma e la struttura di ogni dente determina, in gran parte, la capacità d’un organismo di potere prendere e ridurre meccanicamente il cibo, cioè masticare e frazionare il cibo in parti più piccole che offrano una maggior superficie agli enzimi digestivi, cioè per potere poi essere meglio processate nell’intestino (v. infra) al fine d’estrarne le componenti nutritive e assimilarne l’energia, e più i frammenti sono piccoli, più è l’energia che si riesce a produrre, tanto che la capacità di masticare e frammentare incide in modo determinante sulla fitness dell’organismo; ora, i denti sono formati da uno strato di dentina (o avorio), costituita da tessuto connettivo calcificato, e presentano una porzione esterna (o corona) che emerge dalla parte ricoperta dalla gengiva (o colletto) e una parte impiantata in un alveolo del tessuto osseo spugnoso della mascella e della mandibola (o radice, mantenuta in sede da una membrana periodontale formata da fibre elastiche e possono essere presenti da una a tre radici; la dentina della corona racchiude poi una cavità che contiene la polpa che penetra nella radice formando il canale radicale, riempiti l’una e l’altro da un tessuto connettivo attraversato da nervi, vasi sanguigni e linfatici, cioè innervato e vascolarizzato); mentre la dentina della radice e del colletto è rivestita dal cemento, un tessuto simile al tessuto osseo, quella della corona è poi rivestita dallo smalto, uno strato fortemente mineralizzato (i sali minerali, costituiti da fosfato e carbonato di calcio, superano il 90%) che presenta il tessuto più duro di tutto l’organismo e che ha lo scopo resistere alle pressioni (un rinforzo strutturale per prevenire le tensioni di trazione che portano a fratture nei denti) e agli sfregamenti durante la masticazione e di proteggere la dentina da sostanze acide che potrebbero che potrebbero danneggiarla; la tipologia della corona caratterizza poi incisivi, premolari e molari che si presentano in ognuna delle 4 emiarcate (i denti, infatti, sono ugualmente distribuiti nelle due arcate, superiore e inferiore, e disposti simmetricamente in ogni metà dell’arcata, o emiarcata), e in ogni emiarcata si trovano 2 incisivi, 1 canino, 2 premolari, 3 molari (per un totale di 32 denti permanenti che erompono fra i 6 anni e l’età adulta, cioè 8 incisivi, 4 canini, 8 premolari e 12 molari, e poiché la dentatura è costituita da denti con struttura e funzione diversificate, si parla di eterodonzia); gli incisivi si trovano in posizione anteriore, uno centrale (o mediale) e uno laterale, e hanno una forma a scalpello, ossia con un margine occlusale diritto e tagliente per facilitare il morso e il taglio del cibo; per lacerarlo e ridurlo in pezzi si trovano, dietro gli incisivi, tre denti a cuspide (ossia con un rilievo a punta), specificamente il canino, posto dietro all’incisivo laterale, che ha una forma ellittica (o lanceolata) e una sola cuspide appuntita, mentre gli altri due, i premolari, hanno una forma cuboidale e una superfice (o faccia) occlusale con 4 angoli smussati ciascuno con 2 cuspidi separate da un solco; dietro ai premolari si trovano tre molari (compreso il dente del giudizio, che può non fare eruzione per cui i molari possono ridursi a due) che presentano anch’essi una corona a forma cuboidale, con faccia occlusale ampia e relativamente piatta (fornita di 4 o 5 cuspidi nei molari inferiori, 4 nei superiori, sempre divise da solchi) adatta a frantumare e a macinare il cibo in modo da renderlo digeribile (il fatto d’avere superfici occlusali con cuspidi è poi in vista del fatto che la forza esercitata durante la masticazione è così, su aree più vaste, meglio distribuita ed esercitata, pressione che corrisponde poi
a 70 kg per cm2); da ricordare, infine, il piano occlusale che, mettendo a contatto le parti occlusali inferiore e superiore della dentatura, ci offre la superfice masticatoria utilizzata; la figura seguente mostra la struttura d’un dente umano (si noti, sulla superficie occlusale, la presenza delle cuspidi e del solco):

 

Figura n.  . Fonte: Cavalli-Sforza e Cavalli-Sforza, 2010 a, p. 173.

Quella che segue mostra le arcate dentarie superiore e inferiore dove, per ogni emiarcata, a, b, c, d rappresentano, nell’ordine, i denti incisivi, i canini, i premolari, i molari (f indica la porzione ossea della mascella inferiore, o mandibola):

                         

Figura n. . Fonte (modificata): Biondi e Rickards, 2012, p. 17.

Volendo, si può scrivere la formula dentaria, che rappresenta la forma convenzionale per indicare il numero di ciascuno dei quattro tipi di denti presenti in una emiarcata superiore e inferiore nel modo seguente (il numero dei denti, per ogni tipo, è scritto in apice per l’emiarcata superiore seguito dal pedice per l’emiarcata inferiore, divisi fra loro da una barra, e dove I sta per gli incisivi, C per i canini, P per i premolari, M per i molari):

I 2/2 C 1/1 P 2/2 M 3/3

Ciò che potrebbe trovarsi scritto, per ogni emiarcata, anche così:

I1 I2 C1 P1 P2 M1 M2 M3 (emiarcata superiore)
I1 I2 C1 P1 P2 M1 M2 M3 (emiarcata inferiore)

Ora, alle Australopitecine, per potere mangiare degli USO selvatici crudi, cioè dei cibi di riserva particolarmente duri (in ordine decrescente di durezza, abbiamo poi rizomi, tuberi e bulbi), e poterne assimilare gli amidi, per esempio, è richiesta una lunga attività di masticazione (che probabilmente, al pari degli scimpanzé, investe buona parte della giornata, v. supra); per cui la caratteristica senz’altro più distintiva è che queste presentano i molari grossi e relativamente piatti (con una superficie occlusale utilizzabile più grande per potere masticare grandi quantità di cibi duri di bassa qualità, meccanicamente difficili da processare), con uno spesso strato di smalto e radici lunghe e grandi, un insieme adatto per alimentarsi d’organi di riserva sotterranei; quelli gracili, come l’Australopithecus africanus, presentano molari più grandi del 50% e più piatti rispetto a quelli degli scimpanzé e la corona smaltata è due volte più spessa (è però fatta salva la formula dentaria, ch’è comune al gorilla, allo scimpanzé, al macaco etc., giacché l’apparato dentario, dal punto di vista evolutivo, è relativamente immodificabile, tanto che la dentatura dell’uomo e delle antropomorfe conserva le caratteristiche di base, a partire da smalto, dentina, cemento e polpa, acquisite all’incirca 20 milioni d’anni fa); ancora, nelle australopitecine robuste, per esempio, l’Australopithecus boisei, i molari sono più grandi più del doppio e lo smalto è spesso tre volte tanto rispetto agli scimpanzé (detto altrimenti, le Australopitecine hanno grandi denti a forma di macina ben adatti a un movimento pressoché continuo di masticazione e frantumazione degli alimenti duri, questo se la nicchia frequentata non offre altra disponibilità di risorse trofiche); l’aumento di dimensione dei molari, poiché lo spazio per i denti nelle mascelle è limitato, cioè non permette un eccessivo affollamento dentale, fa sì che sparisca il diastema presente nell’arcata superiore e inferiore presente negli scimpanzé fra l’incisivo laterale e il canino (v. supra) e, soprattutto, che gli incisivi diventino più piccoli e verticali (mentre quelli delle prime Australopitecine, per esempio, Australopithecus afarensis, sono più ampi e proiettati in avanti, simili in questo a quelli degli scimpanzé) e che anche i canini si riducano fino alle dimensioni degli incisivi, ciò che ci traduce anche il parziale declino d’una dieta frugivora; la figura seguente mette a confronto la mascella e la mandibola di Australopithecus africanus (forma fragile) con quella di Australopithecus boisei (forma robusta), là dove si noti l’aumento di dimensione dei postcanini, cioè premolari e molari, nel passaggio dalla forma fragile a quella robusta:


Figura n.  . Fonte (modificata): Ungar e Sponheimer, 2011, p. 190.

Detto dei denti, vediamo ora l’apparato dei muscoli che permette la masticazione, un apparato formato da 4 muscoli  principali (presenti specularmente su ogni lato della faccia) che dalla scatola cranica s’innestano nella mandibola e, lavorando in sinergia, ne permettono i movimenti (e sono i muscoli del collo che stabilizzano poi la testa durante la masticazione); di questi, vediamone in dettaglio 2, il muscolo massetère, il muscolo masticatorio più potente, e quello temporale; il muscolo massetere è un muscolo corto e spesso composto di due fasci di fibre sovrapposti e inclinati secondo angolature diverse a formare una X, ed è situato simmetricamente nella regione della guancia, e presenta una forma quadrangolare in quanto è inserito, da un lato, sull’arcata zigomatica e, dall’altro, sulla faccia esterna della branca montante della mandibola, ed è uno dei muscoli, come detto, che ha la funzione d’elevare la mandibola per la masticazione (innalza la mandibola come nell’atto di chiudere la bocca); il muscolo temporale, che si presenta simmetricamente nelle tempie, cioè nella regione laterale simmetrica del cranio ch’è situata lateralmente alla fronte (e ch’è compresa tra le regioni orbitaria in avanti, occipitale all’indietro, fronto-parietale in alto e la faccia in basso), è un muscolo appiattito con fibre orizzontali, verticali e oblique che mostra una disposizione a forma di triangolo (o ventaglio) con la base rivolta verso l’alto e l’apice che punta in basso (la parte centrale di questo muscolo s’estende dalle tempie agli zigomi fini a inserirsi nelle mascelle) e la cui azione, nella masticazione, consiste nel serrare la mandibola contro la mascella e di presentare un movimento di retrusione, cioè di spostamento posteriore; gli altri 2 muscoli, sempre speculari, sono il pterigoidèo esterno (o laterale), e il pterigoideo interno (o mediale), l’uno che si contrae e porta in avanti la mandibola, cioè effettua un movimento di protrusione, imprimendole anche movimenti laterali, l’altro ch’eleva e abbassa la mandibola, come si verifica nell’apertura della bocca, e le imprime anche movimenti di lateralità tipici della triturazione del cibo); le figure seguenti mostrano i muscoli che s’è cercato di descrivere sopra (nella prima figura sono indicati l’articolazione temporo-mandibolare e l’arcata zigomatica; la prima è una cerniera che articola l’osso temporale con quello mandibolare, ciò che permette alla mandibola di muoversi rispetto alla mascella, come dire ch’è quella che grazie ai muscoli sopra citati consente alla mandibola i movimenti necessari per la masticazione, cioè i movimenti d’innalzamento, d’abbassamento, di proiezione antero-posteriore e di lateralità; la seconda è quella che costituisce un ponte tra l’osso mascellare e le ossa della regione, o fossa, temporale; in entrambe le figure, M. sta poi per  muscolo):



Figura n. . Fonte (modificata): Balboni, Bastianini, Brizzi et alii, 1991, p. [?].


Figura n. . Fonte (modificata): Balboni, Bastianini, Brizzi et alii, 1991, p. [?].

Ora, nelle Australopitecine, il muscolo temporale ha un’estensione a ventaglio talmente grande che sopra il cranio e nella sua parte posteriore crescono delle creste ossee per offrire a questo muscolo masticatore più superficie su cui inserirsi (dette creste sagittali); è inoltre così spesso da costringere gli zigomi a emergere di molto dal piano della faccia, a porsi più lateralmente e a farsi più lunghi sul lato (lasciando così più spazio anche per il muscolo massetere consentendogli d’applicare, durante la masticazione, una forza verticale e trasversale); la grandezza e lo spessore del muscolo temporale rendono poi le facce tanto allungate (protruse), quanto allargate e mettendo assieme tutte le forze applicate da ogni muscolo si può stimare che Australopithecus boisei, per esempio, è potenzialmente in grado di masticare per lungo tempo con una forza ca. 2,5 volte superiore a quella umana; ancora, le specie che applicano una forza masticatoria intensa potrebbero presentare delle fratture alle ossa del volto e delle mascelle (non solo dei microtraumi, normali e previsti e che permettono alle ossa di ripararsi e ispessirsi), e per ovviare a queste fratture la mascella e la mandibola sono più spesse, più alte e più ampie, ciò che permette di diminuire le tensioni causate da ogni singolo movimento masticatorio nell’impalcatura facciale; la figura seguente mette a confronto lo schizzo della vista laterale di Australopithecus africanus con quella di Australopithecus boisei, dove risulta evidente l’aumento dello sopra citata protrusione (in figura, Au. sta per Australopithecus, P. sta Paranthropus, v. infra, un’altra denominazione per la forma robusta):


Figura n.  . Fonte (modificata): Ungar e Sponheimer, 2011, p. 190.

Si noteranno dunque le differenze delle dimensioni e della morfologia craniodentale, differenze che sottolineano l’importanza della dieta per iniziare a comprendere le pressioni selettive che questa differenza la producono, come mostra del resto, nella figura seguente, la messa a confronto tra il cranio d’uno scimpanzé (frugivoro), d’un Australopithecus afarensis (forma gracile, consumatrice di cibi di ripiego e parzialmente di cibi sotterranei) e d’un Australopithecus boisei (forma robusta, forte consumatrice di rizomi, tuberi e bulbi); e anche se qualcuno avanza il fatto che l’analisi della microusura dei molari non offre prove che sostengano che il regime alimentare di Australopithecus boisei sia stato di forte consumo degli USO, si può però sostenere che uno può sì scegliere cibi altri, cioè quelli preferiti, che possono essere anche meccanicamente meno impegnativi rispetto a quelli della nicchia per cui l’organismo può essere stato conformato, cioè ch’è possibile adottare una dieta con una base di sussistenza allargata, variata (per esempio, frutta, fallback foods e organi di riserva sotterranei); ma in questo contesto climatico instabile una possibilità d’adattamento alimentare alla variabilità trofica allargata dell’ambiente (o euritopica) non è conosciuta o data e s’impone pertanto un ambiente con risorse relativamente invariabili (o stenotopico) che può rendere plausibile l’impossibilità di potere scegliere il cibo, cioè una dipendenza crescente dall’alimentazione degli organi di riserva sotterranei; come dire che se anche non ci sono prove definitive sulla diete delle Australopitecine, non si può però arrivare al paradosso d’affermare che una specializzazione morfologica (denti e crani robusti) è senza identità adattativa (cioè senza una dieta in via di dipendenza verso i cibi duri che ne avrebbe conseguentemente conformato la specializzazione morfologica) e non si può, in ogni caso, non notare che può esistere un legame evolutivo tra la morfologia dei denti e la morfologia del cranio, cioè che questi crani presentano forme che si modificano e s’ampliano via via che i cambiamenti climatici che si susseguono impongono dei regimi alimentari che passano dalle risorse facili da masticare a quelle difficili, fino a manifestare una specializzazione nella morfologia craniodentale, con mascella e mandibola più spesse, più alte e più ampie (o megagnatia) e denti postcanini più grandi e più spessi, (o megadontia) con caratteristiche che suggeriscono la capacità di resistere alle sollecitazioni pesanti o alla rottura dovuta a carichi di masticazione duri e ripetitivi e, infine, dei muscoli masticatori che, oltre a essere grossi, sono anche configurati per essere più efficaci (in figura, a differenza dello scimpanzé e dell’Australopithecus africanus che mostrano la conformazione cranica completa, il cranio di Australopithecus boisei manca della mandibola, ciò che rende relativamente incompleta la comparazione proposta, ma v. figura precedente):


Figura n. . Fonte (modificata): Lieberman, 2014, p. 43.

Detto dei denti, dei muscoli masticatori e del cranio, e tralasciando per ora l’anatomia dell’intestino (v. infra), restano da affrontare le strutture coinvolte nella locomozione delle Australopitecine, e per questo si riprenderà l’argomentazione dalla già citata deambulazione degli scimpanzé nelle foreste pluviali al fine di poter meglio valorizzare l’emergere degli ulteriori adattamenti al bipedismo, in un mutato contesto ambientale, nelle Australopitecine; nelle foreste pluviali le risorse trofiche, frutta o cibi di ripiego come foglie, erbe e steli delle piante, non richiedono che uno scimpanzé debba spostarsi in un’area dall’ampio raggio, visto che lo spostarsi, per esempio da un albero da frutta a un altro, comporta che in media un maschio compia all’incirca 3 km al giorno con andatura bipede (una femmina 2), lo stesso se deve ricorrere ai fallback foods, tanto che si può affermare che gli scimpanzé sono circondati da risorse trofiche che scelgono d’ignorare; ora, quando uno scimpanzé cammina il suo bipedismo è imperfetto, inefficiente, in quanto le anche, le ginocchia e le caviglie sono disallineate e sono piegate a un angolo estremo, ciò che richiede, come visto, che i muscoli delle natiche, delle cosce e del polpacci debbano sempre essere contratti per permettere che il centro di massa del suo corpo s’alzi nella prima metà del passo e s’abbassi nella seconda metà; per meglio comprendere questa dinamica s’osservi la figura seguente che mostra l’andatura di Homo sapiens:


Figura n. . Fonte (modificata): Lieberman, 2014, p. 47.

e s’osservino il pallino nero (il centro di massa del corpo) che si sposta lungo la linea tratteggiata e la linea grigia che percorre la coscia e la gamba, ciò che indica quando l’azione dei muscoli la sposta; quando la gamba si sposta in avanti, il centro di rotazione è il bacino, mentre quando la gamba poggia per terra e sostiene tutto il corpo, il centro di rotazione dal bacino si sposta nella caviglia attraversando la linea grigia e rendendo la caviglia il nuovo centro di rotazione, ciò che vuol dire che quando i muscoli della gamba si contraggono per spingere la gamba verso il basso, il peso del corpo si sposta sul piede e sulla caviglia, ciò ch’innalza il centro di massa del corpo (come mostra la linea tratteggiata), ciò che, ancora, vuol dire che il centro di massa ha accumulato un’energia potenziale (come se fosse un peso che s’alza da terra), energia ch’è rilasciata come energia di movimento, o cinetica, quando il centro di rotazione si sposta nella caviglia (come se fosse il peso che s’è alzato da terra che si lascia andare a terra), e visto che il bacino, le ginocchia e le caviglie sono allineate, ciò permette di risparmiare energia (calorie) e di percorrere più lunghi tragitti visto che la falcata s’allunga; risparmio, come sopra detto, che non è dato agli scimpanzé in quanto questi, muovendo il bacino, le ginocchia e le caviglie in modo disallineato, d’energia calorica ne consumano molta di più per contrarre i muscoli che permettono loro il bipedismo; infatti, visto che la forza di gravitazione tende a flettere con angolo ottuso le articolazioni disallineate verso il basso, uno scimpanzé per innalzare il centro di massa del corpo quando la caviglia è il centro di rotazione, cioè per accumulare energia potenziale da rilasciare come energia cinetica, deve tenere sempre contratti i muscoli delle natiche, delle cosce e del polpacci (e non dimenticando che il piede, con l’alluce opponibile, osta il percorso); la questione si spiega con la messa a confronto del femore dell’uomo e dello scimpanzé, là dove il femore di Homo sapiens presenta un’angolatura tra il ginocchio e l’anca (un femore angolato) tale che l’articolazione del ginocchio si trova lungo la linea di carico del peso corporeo che va dall’anca alla caviglia (o asse portante, quello lungo il quale si scarica il peso del corpo), come dire che è l’articolazione ad essere allineata (e non il femore), e questo permette che l’estensione della gamba allinei il femore della coscia con la tibia e lo sperone della gamba, estensione che non è possibile nello scimpanzé visto che il suo femore è diritto, senza la sopra citata angolatura, motivo per cui sono le ossa ad essere allineate, ma non le articolazioni, come dire che l’articolazione del ginocchio non si trova lungo la linea dell’asse portante che va dall’anca alla caviglia e che pertanto il ginocchio è disallineato (simile in questo al ginocchio varo), ciò che ne comporta, dell’articolazione, lo spostamento di lato, ossia la sopra citata flessione ad angolo ottuso che si ha quando s’esercita il carico del peso corporeo sul ginocchio, flessione che lo scimpanzé controlla, lo si ripete, con i muscoli delle natiche, delle cosce e del polpacci durante il bipedismo occasionale; nella figura seguente sono messi a confronto l’inclinatura del femore dell’uomo e l’assenza d’inclinatura nello scimpanzé:

Figura n.  . Fonte: [?]

Mentre, nella prossima figura, sono messi a confronto il femore dell’uomo e dello scimpanzé mostrando che l’asse portante che va dall’anca alla caviglia allinea l’articolazione del ginocchio nell’uomo grazie all’angolazione del femore, cosa che non si presenta nello scimpanzé in cui il femore è diritto e l’articolazione del ginocchio è disallineata (in figura, a sta per il femore, b per la tibia, c per l’asse d’appoggio o portante):


Figura n.  . Fonte (modificata): Zihlman, 1984, p. 15.

E a questo, s’aggiunga anche che la falcata dello scimpanzé s’accorcia rispetto a quella dell’uomo, tanto che per ogni passo la distanza percorsa è minore, complesso di fatti che, come visto sopra, aumenta il costo energetico (calorie consumate) della deambulazione del 75% all’incirca rispetto all’uomo; detto questo, le Australopitecine sono però, nella deambulazione, più efficienti degli scimpanzé, anche se meno efficienti di Homo sapiens e, ripartendo dai piedi, specie come Australopithecus afarensis e Australopithecus africanus, per esempio, presentano alluci non opponibili e allineati con le altre dita, corte e tozze, con articolazioni alle base delle dita orientate verso l’alto (efficace per spingere il corpo in alto e in avanti) e un arco longitudinale parziale che rende possibile l’irrigidimento di parte del piede, e alcune specie, come Australopithecus afarensis, presentano un calcagno grosso e piatto adattato alle forze ad alto impatto causate dall’appoggio del tallone, indizio d’una falcata ampia; ancora, presentano come Homo sapiens un femore angolato rivolto verso l’interno che, come detto, consente un risparmio energetico, e le articolazioni dell’anca e del ginocchio sono grosse e ben protette e in grado d’assorbire le forze intense che si sviluppano camminando con il corpo appoggiato su una gamba sola, e le caviglie, ancora, presentano in linea di massima un orientamento simile al nostro (sono, al fine d’evitare le distorsioni, più stabili e meno flessibili rispetto a quelle degli scimpanzé); la figura seguente mostra il femore angolato d’una Australopitecina non meglio identificata (in figura, a sta per il femore, b per la tibia), e si coglie l’occasione per ricordare che non si sono ritrovati femori antecedenti le Australopitecine, per cui non si può determinare se il femore angolato è caratteristica esclusiva delle Australopitecine, oppure se si sia evoluta precedentemente, per esempio, in ominini come gli Ardipitechi:

Figura n.  . Fonte (modificata): Zihlman, 1984, p. 15.

Oltre a quelli citati, altri adattamenti riguardano la stabilizzazione della parte superiore del corpo durante il mantenimento della postura eretta, a partire dalla colonna vertebrale lunga e incurvata nella regione lombare (v. supra) che posiziona il busto sopra le anche, presente in Australopithecus afarensis e Australopithecus sediba, cui s’aggiunga la regione pelvica ampia, incurvata sui lati (il bacino ampio e orientato lateralmente, come detto, permette ai muscoli sul lato dell’anca di stabilizzare la parte superiore del corpo quando soltanto una gamba è appoggiata al suolo); tutto un insieme d’adattamenti che gli scimpanzé, che continuano a vivere nell’habitat della foresta pluviale relativamente ricco di risorse trofiche, non presentano; questo a differenza delle Australopitecine,  che degli adattamenti verso il bipedismo hanno bisogno in quanto vivono in habitat particolarmente poveri di risorse trofiche, ragione per cui dovendo cercare queste risorse in un ambiente più vasto dove non è sufficiente spostarsi per 2-3 km alla ricerca d’un albero da frutta come fanno gli scimpanzé, ma bisogna percorrere più e più chilometri perché queste sono sparse in un habitat parzialmente aperto, ciò che richiede un’efficienza nel camminare che eviti lo spreco energetico; e s’immagini una femmina d’Australopiteco, del peso di 30 kg, che deve camminare il triplo di quello ch’è usa fare la femmina dello scimpanzé durante il giorno, cioè 6 km; ora, se questa femmina avesse la metà dell’efficienza di locomozione d’una femmina di Homo sapiens, percorrerebbe più spazio nello stesso tempo rispetto alla femmina di scimpanzé, con l’aggiunta d’un risparmio di ca. 70 calorie al giorno (quasi 500 calorie in una settimana) e l’opportunità d’una facilitazione nel trasportare il cibo e nello scavare a ricerca di USO, ciò che in tempi di persistente crisi trofica rappresenta un notevole vantaggio dal punto di vista evolutivo, fatto salvo il fatto che il bipedismo, in un ambiente ostile per la presenza di predatori carnivori, non permette però di correre rapidamente come può fare uno scimpanzé; riguardo poi allo scavare alla ricerca d’organi di riserva sotterranei da parte delle Australopitecine, bisogna sottolineare che questi si nascondono nel sottosuolo a profondità di decine di centimetri, e possono volerci dai 20 ai 30 minuti di scavi con un bastone per tirarli fuori e la forma delle loro mani, ch’è intermedia tra quella degli scimpanzé e quella degli uomini (con pollici più lunghi e dita più corte rispetto agli scimpanzé), indica pertanto che afferrare e usare un bastone è fattibile con questa anatomia; ora, è documentato che la pratica di scavare  tuberi, radici e rizomi è utilizzata oggi anche da una popolazione rarefatta di scimpanzé orientali, Pan troglodytes schweinfurthii, che in Tanzania occidentale, nella regione Ugalla, si trova in una localizzazione intermedia tra i margini estremi della foresta e la savana aperta, in uno degli habitat più secchi e stagionali tra quelli marginali e in cui è possibile situare il confine ultimo di penetrazione degli scimpanzé (anche se gli USO sono stati scavati durante la stagione delle piogge); questo fatto, se pure relativizza la divergenza scimpanzé/uomo sopra affermata relativamente agli effetti climatici in Africa orientale, ha però anche il vantaggio di mostrare che l’incorporazione della pratica USO nella dieta delle Australopitecine è alla portata e cognitiva e tecnologica per un cervello poco più grande di quello degli scimpanzé e che varia, come detto, da 400 a 500 cm3 in media e là dove la tecnologia delle Australopitecine è poi da ritrovarsi nel rapporto di omologia con l’uso dei bastoni come strumenti di scavo da parte degli scimpanzé orientali, che li usano nel caso che la superficie si presenti dura, ciò che porta a supporre che le Australopitecine, con i bastoni da scavo, inizino la pratica d’una produzione intenzionale di strumenti da lavoro, o toolmaker, per migliorare l’efficienza della raccolta alimentare, e senza dimenticare che anche cercare insetti e invertebrati, solitamente difficili da scovare e che arricchiscono la dieta con lipidi e proteine, richiede intelligenza operativa, pratica ancora una volta all’altezza dell’intelligenza degli scimpanzé che modificano i bastoni per catturare le termiti (entomofagia) e infilzare piccoli mammiferi, il che è dire che la selezione della capacità di scavare con un bastone o di modificarlo per scopi alimentari, potrebbe avere gettato le basi per la selezione, più tardiva, a utilizzare strumenti anche di pietra (ed è, infine, da farsi salvo il fatto che l’emancipazione delle mani dall’attività di locomozione per favorire capacità come il fabbricare e utilizzare strumenti di qualsivoglia tipo, ciò che avrebbe probabilmente favorito, a seguire, la selezione di cervelli più grandi, di inedite capacità cognitive e del linguaggio, ha richiesto un numero non indifferente d’anni, giacché l’uso di strumenti litici risale a non prima di 2,5 milioni d’anni fa, alla Pebble culture di Homo habilis, contemporaneo delle Australopitecine robuste, v. infra, e dunque rimanda a comportamenti e pratiche che non furono una subitanea conseguenza del fatto d’avere degli arti superiori liberi per altri compiti); detto questo, l’evoluzione del corpo umano che segue a quelle sopra illustrate, è coeva a quella delle Australopitecine robuste e s’ha quando si presenta appunto Homo habilis, ch’è discendente a pari titolo da Australopithecus africanus come lo sono le Australopitecine robuste (o Paranthropus), quando nell’Africa orientale, a partire da ca. 2,5 milioni d’anni fa, s’afferma il cambiamento climatico ch’è tale anche su scala globale e che ha dato inizio a quella che sopra s’è definita era glaciale del Neozoico (o Quaternario); ora, mentre i Parantropi, come visto, mostrano un’evoluzione che prende il via dalla specializzazione della morfologia dentaria (ipertrofica) funzionale a un’alimentazione vegetariana complessivamente detta granivora, il primo rappresentante del genere Homo (la specie Homo habilis) inizia a intraprendere, sempre a seguito d’una pressione selettiva dettata dalle stesse condizioni ambientali, una strategia dietetica altra per affrontare i cambiamenti dell’habitat ch’è quella della caccia e della raccolta, strategia che richiede di continuare a raccogliere i tuberi e le altre piante (a tutt’oggi, i cacciatori-raccoglitori rimasti si basano per la loro sopravvivenza sugli organi di riserva, che arrivano a costituire 1/3 della loro dieta, se non oltre, v. infra), ma che incorpora nuovi comportamenti manipolativi, tra cui integrare nel regime alimentare a base vegetale con l’alimentazione carnea, usare degli strumenti per estrarre e lavorare gli alimenti e adottare una collaborazione sociale ineludibile e utile e per procacciarsi e condividere il cibo e per altri compiti (infatti, le procedure della caccia e raccolta rimandano a un sistema fortemente integrato in cui l’aspetto operativo, raccogliere/cacciare/preparare/mangiare, non può prescindere delle dinamiche di collaborazione/condivisione fra i tutti i membri d’un gruppo sociale); e questa nuova strategia adattiva, per essere elaborata e mantenuta, non ha richiesto che l’adattamento chiave iniziale da selezionare sia da reperirsi nei grossi cervelli (Homo habilis, per esempio, presenta un volume del cervello solo di poco più grande di un’Australopitecina, v. infra), ma nella materialità dell’adattamento dei corpi a una forma simile a quella moderna, come affermare ch’è stato il sistema di caccia e raccolta, cioè l’integrazione nella dieta di proteine d’origine animale tramite  nuove modalità d’approvvigionamento alimentare quali lo scavenging e la predazione, a permettere al nostro corpo d’assumere la forma che ha oggi; le varie specie di Homo saranno illustrate a seguire, per ora, al fine di valorizzare le novità nella forma del corpo, qui s’affronta il caso di Homo erectus (questo perché quanto c’è stato prima di lui è più simile alle antropomorfe, mentre quello che viene dopo ha caratteristiche via via più simili alle nostre; solo in questo contesto, anche se la questione è assai controversa, Homo ergaster, che precede Homo erectus, s’identifica poi come appartenente alla stessa specie e non a un taxon diverso; su questa questione, v. infra), una specie originaria dell’Africa, all’altezza di 1,9 milioni d’anni fa, che con la diaspora Out of Africa I (v. infra), s’è diffusa in aree diverse (Indonesia, Cina, Europa, Africa) ed è sopravvissuta in Asia fino a poche centinaia di migliaia d’anni fa (c’è chi afferma fino a 20 000 anni fa, v. infra); il suo aspetto, date le modalità di diffusione, è molto variabile, ma si possono riassumere gli aspetti generali della sua conformazione affermando che il peso dei maschi varia da 40 a 70 kg, l’altezza da 122 a oltre 185 cm, che è presente uno spiccato dimorfismo sessuale (le femmine sono molto più piccole), che le spalle sono basse e larghe e il torace è ampio e a forma di botte, che le braccia sono relativamente corte e le gambe relativamente lunghe (con piedi completamente moderni), che la vita è stretta, ma i fianchi sono più larghi dei nostri, che il volto è lungo e scavato e caratterizzato da un’arcata sopraorbitaria enorme (soprattutto nei maschi), che la dentatura è quasi identica alla nostra (con denti solo un poco più grandi), che il volume del cervello (tra i 720 e i 1 350 cm3) è intermedio tra quello delle Australopitecine e quello di Homo sapiens e, infine, che i crani sono allungati, appiattiti in cima, oltre che angolati sul retro (rispetto ai nostri, più arrotondati) e con pareti spesse; ora, fatto salvo il fatto che c’è chi afferma che non sussistono evidenze archeologiche d’attività sistematiche di caccia fino a Homo sapiens e che pertanto i resti d’animali antecedenti a 100 000 anni fa associati alle industrie litiche (v. infra) indicano solo che Homo habilis e Homo erectus hanno praticato lo scavenging, fatto salvo questo, in base ai resti fossili e agli artefatti che le ricerche su Homo erectus hanno restituito e legando a queste le informazioni che possono offrire i ricercatori sull’attuale stile di vita dei cacciatori-raccoglitori (o Hunter-Gatherer; per esempio, i pigmei Aka della foresta pluviale in Africa centrale, i !Kung San, o boscimani, del deserto del Kalahari, in Africa meridionale, gli Hadza della Tanzania, in Africa orientale, gli aborigeni del deserto australiano, gli Yanomami, o Yanomamö, della foresta pluviale amazzonica tra Venezuela e Brasile, gli Hiwi delle savane neotropicali del bacino dell'Orinoco, nel Venezuela Sudoccidentale e altri ancora), è possibile congetturare (con beneficio d’inventario e cercando di non proiettare i dati etnografici del presente sul passato) quale potesse essere il repertorio operativo che porta alla dieta di Homo erectus; pertanto può risultare utile per legittimare l’illustrazione di questo repertorio operativo indicare, in linea di massima, quali caratteristiche presentano le odierne e rarefatte società di caccia e raccolta (dette anche società acquisitive, cioè di prelievo delle risorse trofiche in un’economia di sussistenza) che sono oggi tali in quanto isolate in ambienti marginali dove possono avere la possibilità di mantenere dei tratti distintivi ch’è ipotizzabile ritenere comparabili con quelle di Homo erectus, in special modo se si può istituire un’analogia dettata dalle modalità con cui queste società, al pari di Homo erectus, si sono adattate a uno specifico habitat caratterizzato da spazi più aperti, con fenomeni di stagionalità e una bassa densità di piante commestibili, cioè alla scarsità delle risorse utili per la sussistenza (nutrienti quali, proteine, grassi, carboidrati, vitamine, sali minerali e acqua), scarsità ch’è poi tale, come detto, in base alla dispersione delle dette risorse sul territorio (sfruttabili solo con il ricorso alla locomozione bipede, ossia coprendo a  piedi, in media, una distanza di 9 km le femmine e di15 km i maschi), alla variabilità stagionale con cui queste si possono trovare e utilizzare e, infine, scarsità che dipende anche dalle tecnologie disponibili, tutte basate sulla forza muscolare (bastoni da scavo per i raccoglitori delle società di caccia e raccolta e per Homo erectus; bastoni di legno appuntito e industria litica acheuleana, v. infra, per i cacciatori della specie Homo erectus; arco, frecce, clave e aste per i cacciatori delle società di caccia e raccolta, e per inciso, l’arco e la freccia risalgono a non più di 100 000 anni fa e le più semplici punte di lancia a 50 000 anni fa all’incirca); un insieme di fatti che, conseguentemente, produce fenomeni di mobilità nello spazio (nomadismo) in base alle opportunità di ritrovamento e alle preconoscenze acquisite sulle specie raccolte o sul movimento delle prede, e un numero variabile di componenti in una data aggregazione sociale ch’è sempre, comunque, a bassa densità (all’incirca 0,1 - 0,5 abitanti per km2, dunque con poche decine d’individui che si spostano su territori abbastanza vasti, dell’ordine di decine di chilometri quadrati), aggregazione che non sfrutta poi mai del tutto le capacità di carico dell’ambiente in quanto il superamento dei limiti dell’ecosistema si traduce in una riduzione della produttività dell’ecosistema stesso, cioè la scomparsa d’una altrimenti garantita sicurezza alimentare, e questo se la popolazione aumenta oltre questa capacità di carico (come dire che questo superamento s’evolve storicamente o come declino della popolazione o come abbandono obbligato dell’area depauperata se non s’obbedisce all’equilibrio che s’impone tra le attività antropiche di prelievo e il funzionamento di quell’ecosistema), e questi gruppi sono poi classificati come bande; in linea di massima, queste bande vivono sui prodotti della raccolta da parte delle femmine e dei bambini di cibo vegetale a crescita spontanea (cibi di ripiego edibili quali bulbi, tuberi, radici e rizomi, semi, foglie, piante, germogli, funghi, bacche, frutti e frutta a guscio, tipo noci) con una tecnologia elementare costituita, come detto, da bastoni da scavo e per un ammontare che corrisponde grossomodo al 60-70% delle calorie introdotte nella loro dieta (ma il dato è controverso, perché c’è chi afferma che le calorie introdotte con la carne superano il 50%), cui s’aggiunga la raccolta di fonti proteiche (forme larvali, vermi, insetti, molluschi, uova, piccoli invertebrati) e di prodotti d’estrazione di sostanze zuccherine d’origine animale, quali il miele, in ogni caso abbisognano d’un ventaglio ampio di risorse, e generalmente si tratta di fare ricorso a decine di piante (come, per esempio, i sopra citati !Kung San che usano ricorrere a oltre 23 specie di piante alimentari, mentre i Kadi San, sempre del Kalahari, utilizzano alimentarmente 80 tipi di piante), questo anche s’è vero che molte bande s’affidano ad alcune piante chiave per il maggior cumulo giornaliero di risorse energetiche (per esempio, la dieta base degli Hadza è rappresentata da numerose tipologie di miele, prodotto dalle api con il ricorso al nettare prelevato da varie specie di fiori; per i !Kung San la dieta base ricorre invece alla noce mongongo, Schinziophyton rautanenii, la cui percentuale d’utilizzo, in peso, assomma al 50%  degli alimenti consumati etc.); la tabella seguente mostra, a titolo d’esempio, le percentuali medie di consumo di risorse vegetali da parte degli aborigeni australiani:
TIPOLOGIA RISORSE VEGETALI SELVATICHE
% CONSUMATA NELLA DIETA VEGETALE
FRUTTA
41
SEMI E NOCI
26
STRUTTURE DI STOCCAGGIO SOTTERRANEO (TUBERI, RADICI E BULBI)
24
FOGLIE, FRUTTA SECCA, FIORI, GOMME1, E PARTI DI PIANTE VARIE
9
1 Le gomme vegetali sono ottenute per coagulazione
  e lavorazione del làtice, un liquido acquoso ricavato
  mediante incisione della parte legnosa di ca. 300
  piante tropicali.

Tabella n.  . Fonte: Cordain et alii, 2000, p. 686.
Molte di queste piante sono poi laboriose da estrarre e difficili da trovare (ciò che richiede una mappatura spaziale del territorio, mappatura già disponibile come risorsa mentale a partire dagli scimpanzé e nel genere Homo più sofisticata), e che possono assommarsi, secondo studi sui cacciatori-raccoglitori africani d’oggi, in una raccolta quotidiana da parte delle donne d’alimenti vegetali che vanno dalle  1 700 alle 4 000 calorie quotidiane (le madri che allattano, ingombrate dai neonati, sono situate però nella fascia più bassa di quest’intervallo); alla restante parte del fabbisogno nutrizionale proteico e lipidico provvedono i maschi adulti con la carne predata durante la caccia (i !Kung San, per esempio, cacciano regolarmente 17 specie d’animali e i Kadi San ca. 50 tipi d’animali, anche se la carne, per loro, costituisce il 20% della dieta; e anche se quest’apporto calorico non è poi dato in modo prevedibile e costante, può arrivare ad essere tra le 3 000 e le 6 000 calorie in un proficuo giorno di caccia e dove si stima sia compresa, nella pratica dello scavenging, anche un’utilizzazione della carcassa commestibile ben superiore al 50% del peso dell’animale vivo), con la clausola che il cibo cacciato è più condiviso delle risorse vegetali e ch’è poi oggetto di spartizione fra i soli componenti maschili della banda e ch’è con la loro mediazione che quest’importante risorsa proteica è utilizzata anche da tutti gli altri componenti della banda (per inciso, per oltre il 99,9% della storia del genere Homo e per il 95% della storia della specie Homo sapiens, questo modo di produzione è stato l’unico ad essere presente); data la condivisione delle risorse trofiche vegetali e carnee, resta, infine, la preparazione del cibo per l’assimilazione, e tanto i vegetali quanto la carne sono poi difficili da preparare, le piante perché non sono coltivate e presentano pertanto un alto contenuto di fibre non digeribili che vanno in un qualche modo rese assimilabili, la carne perché i denti di Homo sapiens non sono in grado di tagliare le dure fibre carnee della selvaggina cruda (poco grassa e ricca di collagene e le cui fibre sono rigide e resistenti) e, in assenza di preparazione, bisognerebbe masticare e ancora masticare (gli uomini moderni hanno denti piatti e piccoli, al pari degli scimpanzé e, tanto per fare un esempio, uno scimpanzé che cattura un piccolo di Colobo rosso può impiegare fino a 11 ore per masticare i pochi chili di carne di questa scimmia; per l’alimentazione carnea degli scimpanzé, v. infra), e come minimo, con la strumentazione adatta, bisogna frantumare le pareti cellulari e le altre fibre non digeribili delle piante per renderne più facile la masticazione (se proprio non sono altrimenti assimilabili, i cacciatori-raccoglitori consumano le piante con una tecnica speciale nota come wadging, che consiste nel masticarle a lungo per estrarre tutti i nutrienti, finché non si sputa quello che n’è rimasto) e, in pari tempo, bisogna tagliare la carne cruda in piccoli pezzi al fine di poterla mangiare e digerire, pratiche che aumentano sostanzialmente la quantità di calorie apportata ad ogni morso in quanto ne facilitano la digestione e l’assimilazione, compiti questi tutti preparatorii, ulteriormente facilitati dall’uso culinario del fuoco che coinvolge solo una parte delle risorse utilizzate (da ricordare che, se la presunta capacità da parte di Homo erectus di potere controllare il fuoco opportunistico, cioè creato con la caduta stagionale dei fulmini durante la stagione secca, risale all’incirca a 700 000 anni fa, secondo altri a 1 milione d’anni fa, la capacità documentata d’usare e controllare il fuoco di Homo erectus è però mostrata dagli strati di cenere, di carboni e d’ossa combuste della caverna di Zhoukoudian, in Cina, risalente all’incirca a 400 000 anni fa; l’uso accertato della tecnologia del fuoco, cioè la capacità d’usare un fuoco non opportunistico che contempla anche la diffusione della cottura degli alimenti, s’ha poi a partire da 125 000 anni fa, altri dice tra 70 000 e 40 000 anni fa, con la diffusione di Homo neanderthalensis, v. infra); complessivamente si tratta dunque d’un regime alimentare che incorpora carboidrati (o glucidi), grassi (o lipidi), proteine (o protidi), vitamine, sali minerali, fibre e acqua (sui nutrienti, in generale, v. infra), regime che richiede un rigido e integrato pacchetto di comportamenti operativi e collaborativi al fine di risolvere il problema di potere usufruire d’una maggiore quantità di cibo di più alta qualità nutritiva; comportamenti operativi che devono essere svolti sincronicamente e collettivamente, con le femmine che operano per la raccolta dei vegetali e coi maschi che cacciano per il procacciamento della carne, comportamenti preceduti dalla fabbricazione degli strumenti necessari ai vari compiti e poi seguiti dalla preparazione del cibo; comportamenti  collaborativi, infine, che perseguono lo scopo di potere condividere il cibo fra tutti; ed è questo pacchetto integrato così definito quello che presenta poi quei tratti distintivi ch’è possibile utilizzare per  potere comparare i comportamenti operativi e collaborativi dei cacciatori-raccoglitori con quelli di Homo erectus, vale a dire i tratti raccogliere/cacciare/ collaborare/fabbricare-preparare/condividere; fatto salvo ch’è stato stimato che la composizione media in macronutrienti (v. infra), in % d’energia, nella dieta dei primi rappresentanti del genere Homo, è  del 22% di grassi, 37% di proteine ​​e 41% di carboidrati (i grassi utilizzati sono poi in prevalenza monoinsaturi, ma anche saturi e polinsaturi, tra cui i grassi essenziali, quali l’omega 3, v. infra, ricavati principalmente da carne e frutta secca; i carboidrati sono essenzialmente ricavati dalle risorse vegetali; le proteine provengono in modo predominate da vegetali e carne, mentre gli organi degli animali, come il fegato, il cuore, il midollo e il cervello, oltre ai grassi, forniscono anche dei micronutrienti, v. infra, quali zinco, ferro etc.), e partendo dal tratto distintivo della raccolta, negli habitat in cui vive Homo erectus, i vegetali probabilmente coprono il 70% della dieta, ed essendo questi ambienti aperti, con le risorse vegetali sparse, è implicito un percorso che copra 9  km al giorno (secondo le abitudini dei cacciatori-raccoglitori odierni), così com’è implicito che molte di queste risorse siano sotterranee (tuberi e altro) o protette da un guscio duro (noci e simili) e che molte altre possono essere difese da una tossina (come bacche e radici), e che, infine, essendo le piante commestibili stagionali, è necessario avere un ampio ventaglio di risorse vegetali a disposizione, se pure, a fronte di queste difficoltà, il vantaggio è nel fatto ch’è possibile prevedere in modo affidabile dove trovarle; ancora,  essendo la densità nutritiva di queste risorse bassa, il ventaglio deve pertanto comprendere decine e decine di piante fra loro diverse; ora, una femmina di 50 kg di Homo erectus ha bisogno, secondo calcoli approssimativi (o spannometrici), di ca. 1 800 calorie al giorno, e di 500 calorie aggiuntive s’è incinta o allatta (per inciso, si suppone una media di nascita d’un bambino ogni 3-5 anni), e se ha anche un figlio già svezzato, ma incapace di procurarsi il cibo in modo autonomo, ecco che la prole dipende da lei, tanto che ha bisogno tra le 1 000 e le 2 000 calorie aggiuntive, tanto che, ancora, sommando questi fattori si può arrivare a un’ipotetica somma di 3 000 – 4 500 calorie che questa madre deve quotidianamente procurarsi e, se quanto detto sopra sulle femmine raccoglitrici delle società di caccia e raccolta d’oggi è vero, ed è fatto salvo ch’è improbabile che una femmina di Homo erectus incinta possa competere con un’analoga raccoglitrice incinta d’oggi (che, come detto, si presenta nella fascia più bassa del ventaglio sopra detto delle 1 700 – 4 000 calorie raccolte individualmente dalle altre), ecco che, grosso modo, queste calorie sono per lei difficili da accumulare, per cui ha bisogno di sommare alle calorie ottenute dai vegetali anche delle calorie procurate con la carne; per quanto riguarda la caccia (e tenendo conto del fatto che qui non si valorizza il pescato), la questione è dibattuta, e anche s’è documentato che a partire da 2,6 milioni d’anni fa l’uso della carne era accessibile, come mostrano le ossa degli animali, restituite dai siti, che presentano tagli dovuti a strumenti di pietra per asportarne la carne e mostrano fratture ch’indicano ch’è avvenuta un’estrazione del midollo che v’era contenuto, il problema è nel come la procuravano e quanta ne mangiavano; s’è detto, sopra, che qualcuno ritiene in base ad evidenze archeologiche che la pratica della caccia risalga a Homo sapiens e che fino ad allora, cioè fino a 100 000 anni fa, s’è praticato per procurarsi la carne, da parte delle specie precedenti di Homo, solo lo scavenging, cioè s’è utilizzata la carne d’animali già uccisi da altri animali predatori dopo averne macellato e disarticolato le carcasse, resta però che la fabbricazione d’utensili litici da parte di Homo erectus, utensili che sono ben più complessi rispetto ai choppers utilizzati da Homo habilis (v. infra), possa essere stata utilizzata per la caccia; infatti, si ritrovano tra questi strumenti litici, per esempio, i bifacciali (Modo II o industria litica acheuleana, v. infra), strumenti che presentano il vertice appuntito, i margini laterali diritti e taglienti e una base adatta a essere impugnata, cui possono benissimo legarsi delle tattiche predatorie non saprofaghe (v. infra, corsa di persistenza) ch’implicano, tra l’altro, una memoria progettuale e anticipatoria e una capacità strategica di coordinamento fra i cacciatori d’una banda (evento plausibile visto che la costruzione d’un bifacciale richiede un’impronta mentale cui ci si deve attenere per dare forma all’utensile, questo perché è necessario e il rispetto di proporzioni e d’una simmetria operativa), ragione per cui si può supporre che Homo erectus sia, oltre che oltre praticante lo scavenging con un’utilizzazione piena della carcassa commestibile (al pari dei cacciatori-raccoglitori), anche un cacciatore d’animali di media-piccola taglia, quali le gazzelle, e che faccia entrare nella dieta ca. 1/3 d’alimentazione carnea e che questa sia procurata per la maggior parte dagli uomini, secondo una divisione del lavoro basata sulle differenze sessuate impostesi con il problema della riproduzione biologica (la prole curata dalle femmine) e della condivisione, pena la sopravvivenza, delle risorse vegetali e carnee; s’è ipotizzabile che un maschio di Homo erectus che caccia percorra in media 15 km al giorno per fare in modo che possa apportare con la carne tra le 3 000 e le 6 000 calorie (ritenendo chilometri e calorie pari a quelle d’un cacciatore d’una società odierna di caccia e raccolta), queste arrivando a sommarsi con quelle vegetali, necessarie al maschio perché la caccia non è quotidianamente proficua, possono arrivare a dare 6 000 – 10 500 calorie al giorno per un nucleo basico composto da femmina, prole e maschio; il tratto della condivisione delle risorse trofiche, infatti, è alla base del come s’è imposta una divisione del lavoro tra femmine e maschi e del perché i raccoglitori-cacciatori sopravvivono oggi e del perché è sopravvissuta la specie Homo erectus, condivisione, per gli uni e gli altri, che non è però focalizzata sulla distribuzione del cibo tra femmina/prole/maschio, ma è allargata ai componenti di tutta la banda (in un ambiente ostile, infatti, la distribuzione a tutti del cibo non avviene in nome d’una virtù civica, ma è basata sul fatto che rifiutarsi alla reciprocità nella condivisione può fare, nel corso del tempo, la differenza tra la vita e la morte) e per converso richiede anche la reciprocità d’una collaborazione sociale intensa ch’investe la distribuzione del carico dei figli non solo alla madre naturale, questo perché le donne portano con sé alla raccolta il proprio figlio solo fino a quando ha 3 anni, dopo di che lo si ritiene svezzato e rimane in custodia agli adulti presenti nel campo base (si tratta d’un maternage collettivo) mentre le madri vanno alla ricerca di risorse vegetali; ancora, la reciprocità della collaborazione richiede la cura degli anziani, l’organizzazione della caccia di gruppo, la preparazione del cibo e altro ancora, collaborazione probabilmente facilitata per Homo erectus dalla presenza d’un linguaggio rudimentale (v. infra; e, sia detto per inciso, la cura degli anziani è poi legata alle loro importanti conoscenze sull’habitat acquisite con la pratica, non solo dei luoghi dove trovare cibo e materie prime per costruire i vari utensili in uso, ma anche nel dove reperire le piante medicinali e nell’uso che si deve farne, e un repertorio completo si stima assommi a qualcosa come la conoscenza di 200 tipi di piante, tutto un insieme che diventa preconoscenza da trasmettere e fare assimilare ai componenti attivi della banda); per quanto riguarda l’ultimo tratto, la preparazione del cibo, è necessario ricordare che gran parte delle risorse consumate da Homo erectus è difficile da estrarre (un tubero, per esempio, può richiedere fino a 20 minuti di scavo), dura da masticare e sgradevole da digerire a causa dell’alto tasso fibroso, e la carne della selvaggina cruda, che, tra l’altro, non ha depositi di grasso apprezzabili come il bestiame allevato, presenta poi fibre che, come sopra detto, sono difficili da tagliare con i denti appiattiti, ragione per cui bisogna fare come i cacciatori-raccoglitori, cioè preadattare al consumo le fibre vegetali e carnee con una tecnologia semplice, questo, per esempio, con strumenti litici semplici come i choppers (Modo I o industria litica olduvaiana, v. infra) che altro non sono che il risultato d’una pietra che, scheggiando un’altra pietra, riesce a produrre strumenti di taglio con bordi lunghi e affilati (e la loro semplicità di produzione non inganni, perché questa va ben oltre le capacità d’uno scimpanzé), si può tagliare la carne a pezzettini rendendola facile da masticare e digeribile, si possono tagliare tuberi e con un pestello si possono frantumare le fibre non digeribili dei vegetali (per l’uso del fuoco a scopi alimentari, v. supra), per cui si può affermare che in un periodo di grandi cambiamenti climatici Homo erectus utilizza, a differenza dei suoi predecessori, non solo cibi di ripiego, ma risorse più ampie che ricorrono, su una base di sopravvivenza vegetale, all’apporto proteico aggiuntivo della carne, e la combinazione di questi tratti distintivi, raccogliere vegetali, cacciare e mangiare carne, collaborare, fabbricare strumenti, preparare il cibo e condividerlo (si perdoni la ripetizione), è specifica unicamente del nostro genere e sono questi quei tratti che, basandosi sulla modificazione della morfologia dei denti, dell’anatomia dell’intestino (v. infra) e delle strutture coinvolte nella locomozione, ci hanno morfologicamente riplasmato; affermato questo, bisogna ora domandarsi quali adattamenti sono stati selezionati da questo modo di produzione e di riproduzione sociale per rendere adatti i corpi al prelievo delle risorse trofiche in un’economia di sussistenza, e s’è vero che gli individui adulti di Homo erectus hanno più o meno le stesse dimensioni dei moderni cacciatori-raccoglitori e vivono in un habitat simile al loro, è presumibile anche uno stesso fabbisogno calorico, ma soddisfatto con un corpo che non è più quello delle Australopitecine, bensì quello adattato a percorrere distanze che vanno dai 9 ai 15 km alla ricerca di risorse trofiche; per prima cosa, nel repertorio adattativo, rientrano le gambe lunghe, perché queste hanno una falcata che permette di percorrere in minor tempo e con minore costo energetico una distanza maggiore; siano, per esempio un’Australopitecina e un Homo erectus appaiati nel percorso e abbia quest’ultimo, com’è nei fatti, una gamba del 10-20% più lunga di quella di un’Australopitecina (lo si dice tenuto conto delle differenze nelle dimensioni del corpo), ebbene le gambe più lunghe, visto che il costo per muoversi per una data distanza dipende dalla falcata, richiedono per percorrere la stessa distanza meno consumo energetico rispetto a gambe più corte, e Homo erectus avrebbe quasi dimezzato questo consumo rispetto alle Australopitecine; seguono, nel repertorio adattativo, un arco plantare completamente sviluppato (al confronto con Homo erectus, un’Australopitecina presenta un’andatura da piedi piatti) e un ingrandimento e ispessimento delle ossa (per esempio, il femore) e un irrobustimento delle articolazioni delle anche, del ginocchio e delle caviglie, questo per meglio resistere alle sollecitazioni d’uno stile di vita fortemente locomotorio che potrebbe portare a fratturazione le ossa e a danneggiamento le articolazioni; infine, nel repertorio, si presentano tutta una serie di adattamenti per regolare la temperatura corporea (la regolazione omeostatica della temperatura corporea, ossia l’equilibrio tra l’ambiente interno ed esterno, è poi conosciuta come termoregolazione, v. infra, e questa è compromessa se si superano i 40-41 °C corporei, quando nelle proteine si rompono i legami che coinvolgono gli atomi d’idrogeno), cioè per regolare la quantità di calore subita durante la marcia, tanto quella prodotta dal corpo sotto sforzo (d’origine metabolica) quanto quella assorbita dalla radiazione solare in habitat aridi sottoposti a forte insolazione, giusto quelli frequentati da Homo erectus; specificamente, si tratta del naso proteso in avanti rispetto al resto della faccia che fa sì che l’aria che passa dalle narici non arrivi in linea retta nella cavità nasale interna ricoperta di muco e che s’apre all’interno della scatola cranica (com’è nelle scimmie), ma che passi attraverso tre sporgenze formate dalla proiezione di tre turbinati che s’estendono dalle pareti laterali della cavità nasale e che suddividono ciascun lato della cavità nasale in una serie di passaggi convoluti, i meati, cioè in una serie di condotti obbligati che causano dei vortici caotici, delle turbolenze che aumentano il contatto fra l’aria e la superfice della membrana che si trova nella cavità nasale, ossia incrementano la superfice nasale interna, ed è questo meccanismo che permette, assieme al muco della cavità che trattiene l’acqua, una termoregolazione, vale a dire di potere umidificare l’aria calda e secca di questo habitat, di saturarla con acqua affinché i polmoni non secchino (lo stesso, durante l’espirazione, la disidratazione non si presenta perché piccole gocce d’acqua restano intrappolate negli stessi passaggi convoluti), meccanismo che permette di percorrere lunghe distanze in condizioni climatiche calde e secche senza disidratarsi, cioè una selezione adattativa che dal naso piatto delle Australopitecine porta a un naso con narici ampie (v. infra) proiettato all’infuori; ancora, partecipano della termoregolazione la postura eretta che diminuisce la superfice corporea esposta alle radiazioni solari dirette e l’allungamento della forma del corpo rispetto alle Australopitecine (con un aumento del rapporto tra la superficie e il peso al fine di favorire la termodispersione; l’aumento di statura è poi favorito dalla maggiore disponibilità di proteine d’origine animale) che presenta, relativamente alla massa, una superfice corporea più ampia che si raffredda grazie alla dilatazione dei vasi sanguigni sottocutanei (o vasodilatazione periferica), al volume d’aria inspirata ed espirata (o ventilazione polmonare) e, soprattutto, alla sudorazione permessa dalla distribuzione in tutto il corpo delle ghiandole sudoripare (che in Homo sapiens odierno sono dell’ordine dei 3 milioni; il sudore diffuso, che compensa la caduta del pelo isolante, è presente nel genere Homo, nel cavallo e nei ruminanti); il sudore consiste poi in una secrezione d’acqua e sostanze di scarto sulla superfice dell’epidermide, che con l’evaporazione crea un raffreddamento della superficie cutanea e del sangue sottostante, ciò che dissipa una grande quantità d’energia termica (il sudore, evaporando, assorbe una quantità notevole di calore, pari a 580 kcal per litro); favorisce, infine, la capacità adattativa al calore anche un’elevata pigmentazione cutanea [?]; un’ulteriore serie d’adattamenti si ritrova nell’ipotesi (non pienamente accettata da tutti gli studiosi) della corsa di persistenza (endurance running, ER, alla lettera, resistenza in esecuzione), elaborata per potere spiegare come Homo erectus abbia fronteggiato la caccia d’animali di grossa taglia, compresi quelli a loro volta predatori, in assenza d’una tecnologia superiore agli strumenti di cui dispone, come detto, bastoni appuntiti e bifacciali; per comprendere il perché di questa corsa di persistenza, ossia d’una corsa sulle lunghe distanze a velocità moderata in presenza di una notevole insolazione, occorre, infatti, valutare i modi con Homo erectus ha potuto entrare in possesso della carne; oltre al già citato scavenging, migliorato con le opportunità della corsa di persistenza, Homo erectus preda grossi animali, quali lo gnu (un erbivoro gregario con un peso tra i 140 e i 250 kg) e il cudù (un’antilope della sottofamiglia Tragelafini, Tragelaphus strepsiceros, con un peso tra i 120 e i 300 kg), come mostra la documentazione archeologica all’altezza di 1,9 milioni d’anni fa; ora, quando un animale si sente attaccato, ha una velocità di scatto superiore a quella dell’uomo e passa velocemente al galoppo, solo che il galoppo gli impedisce il raffreddamento che, in alcuni quadrupedi, per assenza di ghiandole sudoripare e per la presenza d’un manto coibentante o isolante che impedisce la circolazione dell’aria vicino all’epidermide, avviene attraverso l’ànsito, per cui dovendo raffreddarsi l’animale deve avere la possibilità di fermarsi per potere ansimare (fenomeno detto di polipnèa termica), cosa che richiede un aumento nella frequenza degli atti respiratori, con molti respiri rapidi, brevi e profondi, ciò che permette all’aria calda di penetrare, nella cavità nasale, nella bocca e nei polmoni, là dove, ritrovando delle superfici umide, ne provoca un’evaporazione, tanto che l’aria immessa diventata fredda ha un effetto veloce d’abbassamento della temperatura corporea, cioè un effetto termoregolante; Homo erectus si raffredda sempre per evaporazione come alcuni quadrupedi, come sopra detto, ma, a differenza di loro che mancano d’una specializzazioni per scaricare tutto il calore prodotto durante la corsa prolungata, egli lo scarica attraverso il sudore, dove la sudorazione non è legata ai cicli di respirazione e dove il bipedismo facilita la  variazione della frequenza respiratoria rispetto all’andatura, per cui può, senza pericolo di vita per sé, correre per resistenza (infatti, è capace di produrre più d’un litro di sudore all’ora, per un massimo giornaliero di 10 l), ossia ha un’alta capacità di dissipare i carichi di calore mentre corre, cioè può incitare l’animale al galoppo sotto il Sole, e per un lungo lasso di tempo, impedendogli il raffreddamento corporeo, ed è poi quest’assenza di termoregolazione che porta l’animale a livelli di sfinimento e d’ipertermia, cioè a temperature che sono gli sono letali e che si manifestano con un collasso, nel qual caso il cacciatore può infine uccidere l’animale in sicurezza e con una tecnologia povera; per approvvigionarsi di carne, Homo erectus ha dunque solo bisogno di poter correre e marciare per lunghe distanze (che possono avvicinarsi ai 30 km) in un habitat parzialmente aperto e soleggiato, sapere riconoscere le tracce per raggiungere l’animale se questo s’è nascosto per potere ansimare, dato che l’habitat è a visibilità variabile, ciò che comporta l’alternanza di marcia e corsa, e d’avere accesso a una fonte d’acqua potabile prima e dopo la caccia (e sono, per esempio, cacciatori di persistenza attuali i !Kung San nell’Africa meridionale e gli aborigeni australiani), e, per inciso, i cacciatori normalmente inseguono la preda più grossa perché gli animali più grandi si surriscaldano più rapidamente, giacché il calore corporeo cresce in modo proporzionale alle dimensioni del corpo, seguendo una funzione cubica, mentre la capacità di perdere calore si manifesta linearmente; un comportamento predatorio d’insieme, quello di Homo erectus, che richiede poi molteplici adattamenti che sottolineano che il bipedismo, in sé e per sé, non rappresenta per l’evoluzione del genere Homo lo iato definitivo con le Australopitecine perché è solo con il modo di produzione e riproduzione sociale della caccia-raccolta di ca. 2 milioni d’anni fa che lo iato diventa definitivo, cioè dà origine alla pressione selettiva che fa del corpo delle Australopitecine, ch’è stato bipede per ca. 4, 4 milioni d’anni, il corpo di Homo moderno, dunque escludendo l’ipotesi che il correre sia un semplice sottoprodotto del camminare (questo, almeno, stando all’ipotesi dell’Endurance running, non da tutti accettata) o, detto altrimenti, che il camminare, in sé e per sé, non riesce a spiegare molti dei cambiamenti morfologici e post-craniali (ossia dello scheletro, escluso il cranio) del corpo che distinguono Homo dalle Australopitecine, cambiamenti che hanno la prerogativa d’essere simultanei; sopra s’è accennato al repertorio degli adattamenti, che ora s’affronteranno con maggiore dettaglio partendo dalla differenza tra camminare e correre, per poi analizzare in ordine sparso gli adattamenti basandoci sulle caratteristiche strutturali rilevanti che una corsa di persistenza pone al corpo, ossia le modalità energetiche, le forze a cui lo scheletro è assoggettato, la stabilizzazione (ossia il bilanciamento in corsa; per la termoregolazione e la respirazione, v. supra), il tutto nella consapevolezza che la documentazione fossile, incompleta e limitata, complica la capacità di verificare le ipotesi evolutive riguardanti molti modificazioni strutturali (per esempio, non s’ha nessun esemplare di esemplare intero d’un piede dei primi generi di Homo, il tendine d’Achille non lascia chiara evidenze scheletriche rendendo incerta la prima apparizione d’un lungo tendine etc.); sopra s’è analizzato il camminare e s’è visto che questo implica d’alzare il centro di massa nella prima metà del passo per poi abbassarlo nella seconda metà (v., supra, fig. n. ), ora nel correre il funzionamento è altro, come mostra la figura seguente:

Figura n. . Fonte (modificata): Lieberman, 2014, p. 47.

Si noterà, osservandola, che nel correre la gamba agisce in modo simile a una molla, con i muscoli e i tendini (una struttura connettivale fibrosa, la cui funzione è quella di fissare l’estremità d’un muscolo sul segmento osseo) che s’allungano quando il centro di massa s’abbassa nella prima metà del passo (movimento che a lato è rappresentato da una linea seghettata che s’abbassa), per poi rinculare e spingere il corpo verso l’alto nella seconda metà del passo, fino a compiere il salto; infatti, quando durante la corsa il piede tocca il suolo, le anche, le ginocchia e le caviglie si flettono e il centro di massa abbassandosi allunga molti dei muscoli e dei tendini delle gambe, e nell’allungarsi questi muscoli e tendini raccolgono e conservano energia elastica (potenziale) in quanto ricchi di collagene, energia potenziale di tensione memorizzata che si converte in energia cinetica (di movimento) quando muscoli e tendini la rilasciano arretrando nella seconda metà del movimento, accumulo/rilascio d’energia ch’è quello che caratterizza la meccanica della molla, ed è questa meccanica che propriamente permette il rimbalzo e la propulsione durante la corsa (il correre, pertanto, presenta un movimento opposto a quello del camminare, in cui il centro di massa, come detto, s’alza durante la prima parte di ciascun passo); la figura seguente mostra graficamente la differenza cinematica tra il camminare (a sinistra) e il correre (a destra):

Figura n. . Fonte (modificata): Bramble e Lieberman, 2004, p. 346.

Ed è stato poi stimato che la corsa, poiché conserva e rilascia energia in modo efficace, richiede un costo calorico che varia soltanto dal 30 al 50% d’energia in più rispetto alla camminata sostenuta alla velocità di massima autonomia, costo ch’è, esclusi gli scatti, indipendente dalla velocità sostenuta; gli adattamenti affinché le gambe durante la corsa possano applicare la meccanica delle molle sono nell’arco plantare e nel tendine d’Achille (detto anche calcaneare); l’arco plantare è arrotondato e non è utilizzato quando si cammina, e le impronte e i piedi parziali di Homo erectus mostrano che questo arco è assimilabile a quello di Homo sapiens, questo a differenza delle Australopitecine che hanno sì un arco plantare, che però permette loro solo di camminare, non di correre, e un arco plantare arrotondato permette d’abbattere i costi energetici di ca. il 17% (cioè il ritorno dell’energia generata durante ogni fase d’appoggio); il tendine d’Achille, che collega i muscoli del polpaccio alla faccia anteriore del calcagno del piede, è poi spesso e lungo più di 10 cm in Homo sapiens, e nelle Australopitecine il punto del suo inserimento nel calcagno suggerisce che il loro tendine fosse più corto (com’è più corto di 1 cm quello di scimpanzé e gorilla), per cui s’ipotizza che si siano allungati per la prima volta nel genere Homo, e quest’allungamento è dovuto al fatto che, durante la corsa, si presenta l’azione combinata di due forze, la prima esercitata dal peso del corpo sul piede, la seconda dalla contrazione dei muscoli del polpaccio, tanto che, quando il tendine retrocede, si determina l’estensione dei flessori plantari del piede, mentre il muscolo ancora contratto spinge in avanti la gamba e si stima che un tendine d’Achille lungo 10 cm e oltre permetta di conservare/rilasciare quasi il 35% dell’energia meccanica generata durante la corsa (ma non durante la camminata); ancora, al fine di stabilizzare il corpo durante la corsa, il grande gluteo delle Australopitecine, modesto nelle sue dimensioni, s’è riconfigurato e modificato nel muscolo più grosso di tutto il corpo di Homo erectus e nostro, il grande gluteo (Gluteus maximus proprius), un muscolo prevalentemente quiescente, con bassi livelli d’attività durante il cammino (con il calpestio bipodalico), ma attivo per camminare su pendenze molto ripide o su terreni molto irregolari e che, soprattutto durante la corsa, si contrae con grande intensità, al fine d’evitare che il tronco perda di stabilità e, sbilanciandosi, si proietti a terra, come dire che questo muscolo permette il recupero della posizione eretta controllando la flessione del tronco e l’oscillazione della gamba; ora, fatto salvo che le Australopitecine mostrano una configurazione del grande gluteo intermedia quella tra degli scimpanzé e degli esseri umani, la figura seguente mette a confronto l’anatomia del grande gluteo di Pan troglodytes (A, B) e Homo sapiens (C, D); si noti che il grande gluteo dello scimpanzé presenta due componenti, il gluteus maximus proprius (o porzione craniale) e il gluteus maximus ischio-femorale (ischiofemoralis; o porzione caudale, che si contrae in collaborazione con i muscoli posteriori della coscia per estendere l’anca durante l’arrampicarsi verticale sugli alberi, o tree-climbing), mentre gli esseri umani hanno solo un gluteus maximus proprius che presenta una notevole espansione d’attacco e non ha un’appendice caudale in quanto presenta al posto del gluteus maximus ischio-femorale il tratto ilio-tibiale (iliotibial tract), gluteo che però funziona principalmente come il gluteus maximus ischio-femorale dello scimpanzé; le Australopitecine mantengono poi un qualche tratto di porzione caudale utilizzabile quale estensione efficace del femore nel caso sia incluso nei loro repertori locomotori un’attività di tree-climbing e s’ipotizza che la restante parte della porzione caudale si sia probabilmente espansa in una porzione craniale il cui scopo, inizialmente, è stato quello di stabilizzare l’osso sacro, ma che, a seguire, s’è manifesta in Homo erectus come un tratto derivato ch’è stato selezionato per il controllo della flessione del tronco durante la corsa di persistenza (v. infra); come dire, di là dallo scenario ipotizzato, che il gluteus maximus proprius, in Homo sapiens, si presenta come tratto distintivo caratterizzante il genere Homo e che questo gluteo è in ogni caso più spesso e più grande rispetto al gluteus maximus proprius di Pan troglodytes e delle Australopitecine (in figura, l’asterisco indica la posizione approssimativa degli elettrodi utilizzati nello studio che ha permesso la ricostruzione sotto riportata):



Figura n. . Fonte: Lieberman et alii, 2006, p. 2144.

Per inciso, si ricorda che i muscoli della natica di Homo sapiens sono distinti in grande, medio e piccolo gluteo e sono muscoli sovrapposti, nel senso che il grande gluteo è il più voluminoso e superficiale, mentre l’ultimo è il più piccolo e profondo; questi glutei, come mostra D in figura, s’inseriscono sulla cresta iliaca, sull’osso sacro e sul coccige e si portano poi in fuori e si dirigono in basso sull’estremità superiore del femore (o grande trocantère); insieme, provvedono all’estensione della coscia sul bacino e, nella stazione eretta, a fissare il bacino sulla coscia, a ruotare e ad allontanare la coscia dalla linea mediana del corpo, da quella ch’è la sua posizione di riposo, cioè a permettere il movimento dell’abduzione; un altro insieme d’adattamenti, comparsi per la prima volta negli esemplari che inaugurano il genere Homo, riguarda i meccanismi di stabilizzazione della testa durante la corsa, corsa che provoca sobbalzi rotatori della testa che non mantengono fisso lo sguardo e che offuscano, se non corretti, la vista, movimenti ancora che vanno controbilanciati; il primo problema è risolto con l’adattamento dei canali semicircolari dell’orecchio interno, il secondo con una modificazione strutturale che porta alla formazione del legamento nucale (e si dice formazione perché questo legamento adattativo è assente negli scimpanzé e nelle Australopitecine e compare solo nei primi esemplari di Homo); vediamoli in dettaglio partendo dall’adattamento dei canali semicircolari dell’orecchio interno (presente in ciascun orecchio); l’orecchio interno è un organo ch’è definibile come un labirinto con una componente ossea (con cavità scavate nello spessore dell’osso temporale, v. supra) e una componente membranosa di canali a spirale pieni d’un liquido (l’endolinfa) il cui scopo è quello di permettere le funzioni uditive e d’equilibrio (presenti in aree contrapposte); tralasciando le funzioni uditive (gestite dall’area della còclea, che si trova nel labirinto anteriore), nell’area dell’organo di senso statico, cioè d’equilibrio e di movimento, che si trova nel labirinto posteriore (o vestibolare) dell’orecchio interno, le funzioni d’equilibrio sono permesse dall’apparato vestibolare, ch’è dato da due organi recettori (il sacculo e l’utricolo), che controllano le inclinazioni del capo, e da tre canali semicircolari che permettono l’equilibrio dinamico che s’attua con il mantenimento d’una posizione del corpo, soprattutto la testa, in risposta a un’accelerazione o decelerazione rotatoria; la figura seguente mostra le strutture dell’orecchio interno sopra citate:


Figura n. . Fonte (modificata): Tortora e Derrickson, 2011, p. 633.

Quello che ora c’interessa sono questi tre canali semicircolari, che essendo tra loro perpendicolari, sono orientati secondo i tre assi dello spazio (i due verticali sono i canali semicircolari anteriore e posteriore, mentre quello orizzontale è  il canale semicircolare laterale) e sono pertanto in grado di rilevare, come detto, le accelerazioni o decelerazioni rotatorie del corpo, ma soprattutto della testa, al fine di stabilire i movimenti di risposta tra l’equilibrio dinamico della testa e la stabilizzazione (o fissità) dello sguardo; a questo proposito, si deve sapere che ogni canale semicircolare presenta un’estremità allargata, detta ampolla, che contiene una formazione di cellule ciliate, detta cresta ampollare, le cui ciglia s’estendono in una formazione gelatinosa, detta cupola, ed è quando la testa si muove che l’endolinfa del canale, che si muove per inerzia con un certo ritardo, vortica intorno alla cupola e la piega stimolando le cellule ciliate della cresta, cellule che, grazie a questo vortice, inviano poi attraverso il nervo ampollare e altre terminazioni i segnali nervosi al cervello ch’implementa così le risposte motorie per la stabilizzazione; le figure seguenti illustrano quanto s’è cercato di descrivere:


Figura n. . Fonte: Tortora e Derrickson, 2011, p. 630.



Figura n. . Fonte: Tortora e Derrickson, 2011, p. 631.

Ora, questo processo che mette in moto i riflessi di stabilizzazione del collo e degli occhi è calibrato con una grandezza dei canali ch’è pari all’intensità delle caratteristiche cinematiche messe in essere con la locomozione (come dire che la sensibilità del recettore dipende dalla grandezza), tanto che gli animali veloci tendono ad avere canali semicircolari più grandi rispetto ad animali più lenti, e visto che il labirinto posteriore osseo si conserva nei fossili, è possibile affermare che in Homo erectus, come mostrano le evidenze paleontologiche, questi canali si sono evoluti per essere molto più grandi, relativamente alle dimensioni corporee, rispetto a quelli degli scimpanzé e alle Australopitecine (le dimensioni dei cui canali sono fra loro equiparabili) e, data la relazione stabilita tra le dimensioni dei canali e il comportamento motorio, si può sostenere che quest’ingrandimento è specificamente adattativo alla corsa di persistenza; per quanto riguarda il legamento nucale, utile, come detto, per controbilanciare in modo efficace i movimenti della testa stabilizzandola in opposizione allo spostamento inerziale in avanti causato dalla corsa, esso non è altro che una formazione fibrosa, ricca di fibre elastiche, che dalla protuberanza occipitale esterna del cranio, s’estende fino alla settima vertebra cervicale (la vertebra prominente posta alla fine della curva cervicale, appena prima della curva toracica), inserendosi in pari tempo sui processi spinosi delle altre vertebre cervicali, in combinazione con la porzione cleidocranica del trapezio che collega la massa di ciascun braccio alla parte posteriore della testa nel piano sagittale mediano (la porzione cleidocranica è poi la parte muscolare che collega il cranio alla clavicola, o, meglio, che collega il cingolo scapolare, formato dalla scapola e dalla clavicola, con l’occipite); ora, quando la testa è sollevata, questo legamento mantiene la curvatura cervicale con poco sforzo muscolare, quando invece il piede tocca il suolo, la spalla e il braccio di quel lato del corpo tendono a cadere nel mentre la testa si muove in avanti e, in quanto il legamento nucale lega il retro della testa al braccio, ecco che il braccio che s’abbassa, grazie all’elasticità del legamento, spinge indietro la testa e le permette di ritornare in posizione eretta, cioè in posizione stabile; la figura seguente mette a confronto i legamenti posteriori del collo in Homo sapiens e Pan troglodytes; nell’uomo sono indicati il muscolo splenio (splenius capitis, un muscolo della nuca situato sotto il trapezio), il legamento nucale (nuchal ligament), la porzione cleidocranica (cleidocranial portion, in sigla CCT) del trapezio (trapezius, un ampio muscolo della regione posteriore del tronco e del collo) e i romboidi (rhomboideus, muscoli legati alla scapola); è inoltre mostrato, in fondo, il profilo di Homo sapiens con la messa in evidenza del legamento nucale e del trapezio; nello scimpanzé sono indicati il muscolo splenio, il trapezio, il muscolo semispinale (semispinalis capitis, un muscolo del dorso) e il muscolo atlanto-clavicolare (atlantoclavicularis, muscolo che va dalla prima vertebra cervicale, o atlante, alla clavicola); si noterà che, negli esseri umani, la testa è molto meno collegata con dei muscoli al torace e al cingolo scapolare rispetto allo scimpanzé, che l’inserimento del romboide sulla zona dell’occipite non si presenta e che manca il muscolo atlanto-clavicolare; inoltre, il trapezio e il muscolo semispinale sono molto ridotti:


Figura n.   . Fonte: Lieberman, 2011, p. 342.

Oltre a questi adattamenti alla corsa, nel repertorio s’includono molte altre caratteristiche, che probabilmente si sono evolute per la prima volta nel genere Homo; tra queste, una vita sottile e spalle basse e ampie che permettono che il tronco ruoti indipendentemente dalla testa e dalle anche, questo perché durante la corsa le gambe presentano un movimento a forbice in cui le gambe oscillano senza appoggio, per aria (come mostra la figura seguente), ciò che crea un movimento che, non controllato, farebbe ruotare il corpo verso destra o verso sinistra; per ovviare a questo, si devono simultaneamente far oscillare le braccia e ruotare il tronco in direzione opposta alle gambe, ciò che crea un movimento uguale nella direzione opposta che annulla la rotazione del corpo, ivi compresa la non oscillazione della testa da un lato all’altro:


Figura n. . Fonte (modificata): Bramble e Lieberman, 2004, p. 346.

Ancora, si presentano nei piedi gli alluci relativamente corti, che lo stabilizzano, e nelle gambe una prevalenza di fibre muscolari che si contraggono lentamente, ciò che, pur compromettendo la velocità, permette un maggiore risparmio energetico, cioè maggiore resistenza, fatto che non si presenta, per esempio, negli scimpanzé, le cui gambe presentano fibre muscolari a contrazione rapida, che permettono sì di correre rapidamente negli scatti, ma che presentando un maggior consumo energetico ne riducono la capacità di resistenza; infatti, nel muscolo del polpaccio, le fibre a contrazione lenta sono pari al 60% in un uomo e al 15-20% in uno scimpanzé, e si ritiene che anche le gambe di Homo erectus fossero per lo più costituite da fibre a contrazione lenta; ora, molti di questi adattamenti avvantaggiano la corsa e non influiscono su come Homo sapiens cammina (per esempio, il grande gluteo molto sviluppato, il legamento nucale, i grossi canali semicircolari e gli alluci relativamente corti), mentre altri adattamenti avvantaggiano sia la corsa che la camminata (v. tabella seguente); resta però che la presenza dei soli tratti specifici per la corsa suggerisce che si sia presentata una forte selezione nel genere Homo in vista della caccia e della ricerca di risorse trofiche, ciò che non ha impedito adattamenti migliorativi anche nel camminare, fatto salvo che alcuni di questi (specialmente le gambe lunghe e gli alluci relativamente corti) hanno fortemente compromesso l’abilità ad arrampicarsi verticalmente sugli alberi; la figura seguente mette a confronto con immediatezza visiva le differenze anatomiche tra Australopithecus afarensis e Homo erectus (non sono però rispettate le altezze poichè, in realtà, Australopithecus afarensis è decisamente più piccolo di Homo erectus, come s’evidenzia anche nella figura a seguire):

Figura n.  , Fonte: © Laszlo Mészöly (Harvard University)

La tabella seguente traduce le caratteristiche in figura enunciate in inglese (partendo dall’alto):

Australopithecus afarensis
(camminatore e arrampicatore d’alberi)
Homo erectus
(camminatore e corridore di resistenza)
Testa sbilanciata (muso allungato)
Testa bilanciata (muso corto)
Spalle alte e stette
Spalle basse e larghe
Torace largo
Torace stretto
Vita corta e larga
Vita alta e stretta
Avanbraccio lungo
Avanbraccio corto
Piccolo muscolo gluteo (non mostrato)
Grande muscolo gluteo (non mostrato)
Collo del femore lungo
Collo del femore corto
Piccole [1] articolazioni dell’anca, del ginocchio e della caviglia
Grosse [2] articolazioni dell’anca, del ginocchio e della caviglia
Tendine d’Achille corto
Tendine d’Achille lungo
Piccolo osso del calcagno
Grande osso del calcagno
Dita lunghe
Dita corte
Arco plantare debole
Arco plantare stabilizzabile
[1] O deboli.
[2] O forti.

Tabella n.  .

Per entrare poi nel dettaglio, la tabella seguente mostra l’elenco completo di questi adattamenti, cioè i 26 tratti distintivi legati alla sopra citata corsa di persistenza, cioè quei tratti legati alla possibilità di potere predare grossi animali in un nuovo contesto produttivo pari alla riproduzione sociale dello stile di vita di caccia e raccolta:

TRATTI DISTINTIVI
NUMERO [1]
RUOLO FUNZIONALE
R [2]
R>W [3]
PRIMA PROVA NELLA DOCUMENTAZIONE FOSSILE
Canali semicircolari posteriore e anteriori allargati

Stabilizzazione della testa e del corpo
R

Homo erectus
Sviluppo della circolazione venosa del neurocranio [4]

Termoregolazione

R>W
Homo erectus
Testa più bilanciata

Stabilizzazione della testa
R

Homo habilis
Legamento nucale
1
Stabilizzazione della testa
R

Homo habilis
Muso corto
2
Stabilizzazione della testa

R>W
Homo habilis
Forma del corpo alta e stretta

Termoregolazione

R>W
Homo erectus
Testa e cingoli scapolari [5] disaccoppiati
3
Contro-rotazione del tronco in opposizione alla testa
R

Homo erectus?
Spalle [6] basse e larghe
4
Contro-rotazione del tronco in opposizione ai fianchi
R

Homo erectus?
Accorciamento dell’avambraccio
5
Contro-rotazione del tronco


Homo erectus
Torace stretto
6
Contro-rotazione del tronco in opposizione ai fianchi
R

Homo erectus?
Vita alta e stretta tra la cresta iliaca e la cassa toracica
7
Contro-rotazione del tronco in opposizione ai fianchi
R

Homo erectus?
Bacino stretto 
8
Contro-rotazione del tronco in opposizione ai fianchi;
riduzione dello stress
R


R>W
Homo?
Ampliamento della superficie della parte centrale lombare
9
Riduzione dello stress

R>W
Homo erectus
Allargamento del pilastro iliaco [7]
10
Riduzione dello stress

R>W
Homo erectus
Stabilizzazione del giunto sacro-iliaco [8]

Stabilizzazione del tronco
R

Homo erectus
Ampliamento della superfice d’attacco dei muscoli erettori spinali [9]
11
Stabilizzazione del tronco
R

Homo erectus
Ampliamento della superfice d’attacco del muscolo grande gluteo
12
Stabilizzazione del tronco
R

Homo erectus
Gambe lunghe
13
Lunghezza del passo

R, W [10]
Homo erectus
Ingrandimento della superficie articolare (anca, ginocchio, caviglie) dell’arto inferiore
14
Riduzione dello stress

R>W
Homo erectus
Breve collo del femore
15
Riduzione dello stress

R>W
Homo sapiens
Lungo tendine di Achille 
16
Accumulo di energia; assorbimento degli urti
R
R

Homo?
Arco plantare (stabilizzato passivamente)
17
Accumulo di energia; assorbimento degli urti;
grande forza di movimento della flessione plantare
R

R>W

R>W
Homo?
Allargamento parte sporgente del calcagno [11]
18
Riduzione dello stress

R>W
Homo?
Estensione congiunta dell’articolazione calcaneo-cuboidea [12]

Accumulo d’energia;
stabilità durante la flessione plantare
R


R>W
Homo habilis (OH 8) [13]
Alluce permanentemente addotto [14]
19
Stabilità durante la flessione plantare

R>W
Homo habilis (OH 8)
Dita dei piedi corte


20
Stabilità durante la flessione plantare;
riduzione di massa distale

R>W

R>W
Homo habilis (OH 8)


[1]
Il numero rimanda alla figura n. che segue la tabella.
[2] R indica i tratti che migliorano le prestazioni della corsa di persistenza.
[3] R>W indica che le caratteristiche sono di beneficio sia a piedi che durante la corsa di persistenza (ER), ma che il loro effetto maggiore si verifica nella corsa di persistenza (ER).
 [4] Il neurocranio, in contrapposizione allo splancnocranio, è la parte del cranio che racchiude l’encefalo e gli organi sensoriali (naso, occhi, orecchi).
[5] Il cingolo scapolare, che si trova a ogni lato del corpo (o cintura pettorale), è, come sopra detto, formato dalla scapola e dalle clavicola, e il suo ruolo è di servire di sostegno agli arti anteriori allo scheletro (a volte, al posto di cingolo, si trovano i termini cinto o cintura).
[6] La spalla è un’impalcatura di sostegno (o cintura scapolare), costituita da tre ossa (testa omerale, scapola, clavicola), che permette all’arto
superiore d’articolarsi al tronco.
[7] Il pilastro iliaco è una formazione ossea a forma di colonna, con funzione di sostegno contro le forze generate dai muscoli abduttori dell’anca,
cioè da quei muscoli che facilitano l’allontanamento dell’arto dall’asse mediano del corpo.
[8] I giunti sacro-iliaci sono quelli che permettono l’incastro tra le parti (di sinistra e di destra sull’asse mediano del corpo) dell’ileo del bacino
con l’osso sacro (la parte più bassa della spina dorsale sopra il coccige).
[9] I muscoli erettori spinali sono muscoli che estendono la colonna vertebrale facilitando la postura eretta.
[10] W indica i tratti che migliorano le prestazioni della resistenza a piedi.
[11] Il calcagno è un osso di forma irregolarmente cubica che offre, posteriormente, il punto di inserzione al tendine di Achille.
[12] L’osso cuboide si trova nella parte posteriore esterna del piede, anteriormente al calcagno e l’articolazione tra le due ossa (o calcaneo-cuboidea)
è una delle due che costituiscono l’articolazione trasversa della parte posteriore del piede (o tarso).
[13] OH 8 è il codice attribuito a una forma fossile di un piede di Homo habilis.
[14] Addotto significa ch’è avvicinato alla linea mediana della mano in posizione di riposo.
 
Tabella n.   . Fonte (modificata): Bramble e Lieberman, 2004, p. 348.

Nella figura che segue a, c, rappresentano la visione anteriore e posteriore di Homo sapiens;
b, d, rappresentano la visione anteriore e posteriore di uno scimpanzé; i muscoli etichettati in b, d, collegano la testa e il collo alla cintura pettorale e, negli esseri umani, sono ridotti o assenti (sono segnalati il trapezio, i romboidi, e il muscolo atlanto-clavicolare, come detto, muscolo assente nell’uomo); e, rappresenta la ricostruzione di Homo erectus (altri dice Homo ergaster) basata principalmente su KNM-WT 15000, nome in codice di un fossile di sesso maschile ritrovato presso il lago Turkana, in Kenia, a cui mancano alcune parti dello scheletro (è completo al 40%); f, rappresenta la ricostruzione d’uno scheletro parziale di Australopithecus afarensis basata principalmente su AL-288, nome in codice di un fossile di sesso femminile ritrovato nel sito di Hadar, in Etiopia:
Figura n.   . Fonte: Bramble e Lieberman, 2004, p. 349.

Tra gli altri vantaggi, il bipedismo perfezionato con la corsa, libera poi le braccia e le mani dal ruolo primario che avevano nella locomozione (la sopra citata emancipazione da uno stile di vita arboricolo), e le libera per altri ruoli, per altre attività sempre legate a una maggiore possibilità d’avere cibo d’alta qualità nutritiva, attività che rimandano alla pratica del lancio d’oggetti (in seguito manufatti) e all’utilizzazione di strumenti litici; il gesto di lanciare intenzionalmente un oggetto  è proprio anche agli scimpanzé (che, per esempio, lanciano rami, sassi e feci), ma in questa pratica essi non raggiungono la combinazione di velocità e accuratezza propria al genere Homo, questo perché gli scimpanzé lanciano l’oggetto tenendo il braccio disteso e il gomito diritto, cioè generando la forza solo con il movimento della spalla, nei fatti usando solo la parte superiore del corpo e con questa tecnica (imposta dalla loro anatomia) possono al massimo arrivare a lanciare un oggetto a 30-35 km/h e senza accuratezza di tiro, mentre nell’uomo l’esercizio del lancio coinvolge un susseguirsi d’azioni, una geometria del movimento che investe tutto il corpo con la rapida attivazione sequenziale di molti muscoli (a partire dalle gambe e progredendo attraverso i fianchi, tronco, spalla, gomito e polso), con un lancio che può arrivare a velocità che rasentano i 160-180 km/h; la figura seguente mostra come gli esseri umani (a sinistra) e scimpanzé (a destra) si differenzino, a causa d’una diversa modalità d’orientamento della spalla, per l’abduzione di braccio e la flessione del gomito durante il lancio:



Figura n.   . Fonte (modificata): Roach et alii, 2013, p. 484.

La figura seguente (dove a sinistra è l’uomo e a destra lo scimpanzé) mostra, ancora, come l’anatomia della spalla dello scimpanzé sia diversa da quella dell’uomo, perché nello scimpanzé la spalla è più alta rispetto al tronco e più chiusa verso l’esterno, al contrario dell’uomo dove la spalla è più bassa rispetto al tronco e più aperta verso l’esterno, tanto che le differenze d’orientamento della spalla alterano la principale linea di azione del muscolo grande pettorale (Pectoralis major) influendo pesantemente sull’attività di lancio:


         
Figura n.   . Fonte (modificata): Roach et alii, 2013, p. 484.

Il tutto di questa geometria del movimento nell’uomo si ha a partire dalla posizione d’armamento, o di caricamento, che situa le gambe a forbice (con l’adesione d’un piede al terreno), ruota il tronco di lato e fa eseguire alla spalla una rotazione esterna, seguita da una flessione della spalla stessa e del gomito, cioè ponendo il braccio piegato dietro il resto del corpo; dopo di che, nella fase d’accelerazione, il corpo inizia ad accumulare energia elastica ruotando la vita e poi il tronco e poi, ancora, ruotando internamente la spalla dietro la testa e flettendola, ciò che provoca nel braccio un’estensione del gomito e del polso, insomma una torsione che produce movimenti in avanti nella spalla, nel gomito e infine nel polso, ed è nella spalla che avviene l’accumulo di quest’energia elastica (infatti, nella fase d’armamento, i muscoli, i tendini e i legamenti del braccio ruotando dietro il resto del corpo si tendono e s’allungano accumulando energia elastica che si carica e conserva, appunto, nella spalla), ciò che si traduce in energia cinetica nel rilascio dell’oggetto ch’è scagliato, con un’accuratezza senza pari e, come detto, con un’elevata velocità; la figura seguente (dove l’oggetto di lancio rimanda a una tecnologia più evoluta di quella litica) mostra quanto sopra s’è cercato d’illustrare:

ARMAMENTO DEL BRACCIO
FASE D’ACCELERAZIONE
FINE DEL PASSO
MASSIMA ROTAZIONE ESTERNA
RILASCIO
ROTAZIONE DEL BUSTO
ROTAZIONE DEL BUSTO
ROTAZIONE ESTERNA DELLA SPALLA
ROTAZIONE INTERNA DELLA SPALLA
ESTENSIONE DELLA SPALLA
FLESSIONE DELLA SPALLA
FLESSIONE DEL GOMITO
ESTENSIONE DEL GOMITO
ESTENSIONE DEL POLSO

Figura n.   . Fonte (modificata): Roach et alii, 2013, p. 484.

Questo schema motorio d’amplificazione della potenza richiede (oltre all’allenamento) anche un’anatomia appropriata, di cui alcune parti si sono evolute con le Australopitecine, ma la cui anatomia d’insieme compare con Homo erectus, cioè gambe lunghe, fianchi mobili che disaccoppino fianchi e torace permettendo una maggiore rotazione del tronco, spalle basse e ampie che permettano la contro-rotazione in opposizione ai fianchi, un’articolazione della spalla orientata lateralmente anziché in verticale, un polso molto estensibile e una bassa torsione dell’omero (la torsione omerale è data dall’angolo tra la testa omerale, in articolazione con la cavità della scapola, e l’orientamento dell’asse del gomito; normalmente l’omero ha una torsione che fa sì che l’articolazione del gomito sia piegata verso l’interno, ma riuscire con l’allenamento a rendere minore questa torsione permette di piegare maggiormente all’indietro il braccio e, data questa retroversione della testa omerale, favorire un maggiore stoccaggio d’energia elastica, dunque una maggiore velocità dell’oggetto lanciato); da sottolineare che, anche se alcune di queste caratteristiche sono probabilmente state selezionate per funzioni diverse dal lancio, la loro configurazione combinata presente per la prima volta in Homo erectus (e a seguire da uno schema motorio innato in tutto il genere Homo), come sopra detto, produce dei benefici specifici nelle prestazioni motorie necessarie al gesto di lanciare, dunque consentendo, come visto, uno stoccaggio d’energia elastica nella spalla; ora, la capacità d’utilizzare un oggetto lanciato (di tipo litico, ai primordi tecnologici) può avere di fatto fornito un significativo vantaggio evolutivo come può mostrare, per esempio, il lancio di sassi (specie se in gruppo) che potrebbe essere stato una componente nei comportamenti di scavenging, cioè una specie di lapidazione per tentare d’allontanare i predatori che hanno accesso alla carcassa ambita, oppure il lancio di sassi potrebbe uccidere una piccola preda o ferire un animale di grossa taglia, ciò che renderebbe più facile il tenerne traccia durante la caccia di persistenza, o d’ucciderlo se nonostante il collasso la preda manifestasse ancora pericolosità o imprevedibilità di comportamento, e questa capacità d’allontanare, d’uccidere o di seguire a distanza un animale fornirebbe anche una spazio vitale di distanza tra i cacciatori e la preda pericolosa, spazio utile ai fini della sopravvivenza del gruppo, cui s’aggiunga una flessibilità nei comportamenti predatori e un potenziale vantaggio nella fitness di quella particolare comunità di cacciatori-raccoglitori; l’altro ruolo liberato dal bipedismo perfezionato con la corsa riguarda solo le mani usate per fabbricare e usare strumenti, e s’è pur vero che gli scimpanzé fanno uso di strumenti, per esempio, d’un sasso per spaccare i gusci o di bastoncini modificati per catturare le termiti, resta che la capacità umana di fabbricare con le mani strumenti con intenzionalità progettuale, cioè strumenti d’uso aventi uno scopo, è decisamente più avanzata, e anche se l’area coinvolta  in cui scimpanzé e Homo erectus usano strumenti è quella del miglioramento in qualità dell’alimentazione, è l’anatomia della mano che decide in modo definitivo della nostra dipendenza dagli strumenti, specialmente a partire dall’evoluzione del sistema di caccia e raccolta; infatti, mentre gli scimpanzé usano la mano per una presa di potenza, questo ricorrendo alle dita per stringere l’oggetto sul palmo, essi sono incapaci d’una presa di precisione in quanto se prendono un oggetto piccolo, per esempio, un seme, lo fanno usando un lato del pollice e quello dell’indice, ma non sono in grado di farlo come l’uomo la cui mano è in grado di tenere un oggetto piccolo tra il lato del pollice e la punta d’un dito opposto (e quindi d’usare la presa di precisione, oltre a quella di forza, cioè le prese che sono alla base di tutte le attività di prensione), mani che, in questo modo, sono utilizzabili per tutte le attività che la presa di precisione può favorire; la figura seguente mostra una mano destra in norma palmare di uno scimpanzé (a) e d’un essere umano (b); si noti che nello scimpanzé il pollice molto corto non consente al polpastrello di toccare quelli delle altre dita e quindi di esprimere la presa di precisione, tipica, come detto, del solo uomo (b); l’uomo, infatti, che ha pollici relativamente lunghi e dita corte, può toccare col polpastrello del pollice tutti gli altri polpastrelli della mano (cioè ha il pollice opponibile), ed è questo che gli permette, appunto, la citata presa:



Figura n. . Fonte: Biondi e Rickards, 2012, p. 15.

Questa figura mostra anche come le dita dello scimpanzé (a) siano incurvate e lunghe (1), ossia impossibilitate alla presa di precisione, al contrario (2) di quelle dell’uomo (b), che ha anche muscoli del pollice forti (ipertrofia) e ossa delle dita robuste e con grosse articolazioni (utili per tollerare le elevate sollecitazioni che sono comuni durante l’uso di utensili):




Figura n. . Fonte (modificata): Biondi e Rickards, 2012, p. 15.

Le mani dell’uomo, qui Homo erectus, presentano quindi la combinazione di forza e precisione, e questo è importante per i primi cacciatori-raccoglitori, per esempio, la presa di forza è necessaria per colpire le pietre una contro l’altra mentre si fabbrica un utensile, mentre la presa di precisione, sempre per esempio, serve per tenere in mano schegge di pietra mentre si toglie la pelle e si scarnifica una carcassa o, ancora, si lancia un oggetto; come dire che nelle società di caccia e raccolta gli strumenti fabbricati con le mani servono per scavare alla ricerca di piante, per cacciare e macellare gli animali e per preparare il cibo per migliorarne la digeribilità e aumentarne l’apporto calorico in modo significativo; ed è poi questa pratica di preparare il cibo, per esempio intenerendo un tubero o sminuzzando la carne, v. supra, che ha consentito a Homo erectus d’avere muscoli masticatori e denti più piccoli, per esempio, rispetto alle Australopitecine i molari rimpiccioliscono del 25%, fin quasi alla dimensione dei molari dell’uomo anatomicamente moderno, e sono queste riduzioni dovute all’uso di strumenti per preparare il cibo che in parte consentono alla selezione d’accorciare la parte più bassa del volto e d’avere una faccia senza muso; ancora, il sistema di caccia e raccolta ha radicalmente modificato il rapporto tra il cervello e l’apparato digestivo, e per comprendere appieno perché il sistema di caccia e raccolta sono forse utili alcune informazioni preliminari, anzi tutto che il cervello e l’apparato digestivo sono organi che presentano tessuti costosi in termini energetici, sia per la crescita che per il mantenimento, in quanto consumano all’incirca la stessa energia per unità di massa, ca. il 15% del metabolismo del corpo, richiedono quantità simili di sangue per trasportare ossigeno ed elementi nutritivi e per eliminare gli scarti; inoltre, il cervello e l’apparato digestivo vuoto hanno dimensioni simile e pesano entrambi poco più d’un chilo e nella maggior parte dei mammiferi con massa corporea paragonabile alla nostra, il cervello è ca. 1/5 di quello umano e l’intestino è grande il doppio (da ricordare, infine, che  l’apparato digestivo presenta un’innervazione pari a 100 milioni di nervi, più del numero di nervi della colonna vertebrale o dell’intero sistema nervoso periferico, cioè è il solo organo a contenere un sistema nervoso intrinseco in grado d’essere autonomo dal cervello o dal midollo spinale nel mediare i riflessi, ed è per questo chiamato il secondo cervello); premesso che la dimensione del tratto gastrointestinale dipende sia dalle dimensioni del corpo che dalla qualità della dieta, qualità che fa sì che gli organismi che si nutrono di piante hanno bisogno d’una digestione più elaborata e pertanto hanno un tratto gastrointestinale più lungo, mentre i carnivori, richiedendo una digestione meno elaborata, presentano un tratto gastrointestinale più corto; per esempio, è stato affermato, sulla base di una ricostruzione della regione addominale dello scheletro delle Australopitecine, che il loro intestino è più lungo di quello del genere Homo perché queste ricorrono a un’alimentazione prevalentemente vegetale, mentre Homo erectus, che ha una regione addominale meno capiente, ha un intestino più corto perché ricorre anche alla carnivoria; la figura seguente mostra i tronchi di Australopithecus afarensis (a sinistra) e di un essere umano (a destra), dove si nota che la gabbia toracica, rispetto a Australopithecus afarensis, è molto meno prominente e capiente:


Figura n.   . Fonte (modificata): Aiello e Wheeler, 1995, p. 210.


Premesso questo s’osserva che quest’inedito asse cervello/apparato digestivo si manifesta come il prodotto finale d’una profonda dislocazione energetica che ha origine con i primi cacciatori-raccoglitori, là dove è presente un’alimentazione di più alta qualità ch’incorpora nella dieta gli amidi e la carne e include anche una preparazione del cibo che ne migliora la digeribilità e l’assorbimento dei nutrienti e ne aumenta l’apporto calorico, una specie d’esternalizzazione della digestione (resa in seguito più tecnologica con la cottura) per aumentare l’apporto energetico; asse che ha poi permesso, quale forma di bilanciamento o di compromesso, che si crei una sinergia di coevoluzione grazie alla quale l’inferiore energia richiesta per la digestione in un tratto gastrointestinale accorciato è stata sfruttata dal punto di vista evolutivo per fare diminuire via via gli intestini e far crescere via via il cervello soddisfacendone sempre le maggiori richieste energetiche, o, detto altrimenti, che il costo dell’encefalizzazione è stato compensato da una riduzione delle dimensioni d’un organo costoso, in termini metabolici, quale l’apparato digerente (nel corpo umano gli organi costosi sono il fegato, il cervello, il tratto gastrointestinale, il cuore e i reni; insieme questi organi costituiscono poco meno del 7% della massa totale del corpo, ma rappresentano all’incirca il 70% del metabolismo basale totale del corpo, e da solo il cervello, ch’è pari al 2% del peso corporeo, è responsabile del 20% della spesa energetica negli adulti, e d’oltre il 60% in un neonato; là dove il metabolismo basale è poi determinato in condizioni standard di riposo; per inciso, la scelta di riduzione cade poi sul tratto gastrointestinale poiché il cuore non può ridursi in quanto deve garantire la sua funzione, cioè pompare sangue in tutto il corpo, così come i reni che devono potere produrre urina con una concentrazione massima prima d’espellerle e così come, ancora, lo stesso fegato il cui limite è che deve potere garantire la fornitura di glucosio necessaria al metabolismo cerebrale, e pertanto le richieste energetiche del cervello non possono per definizione superare la capacità del fegato di produrre glucosio, ragion per cui tra tutti i tessuti costosi solo il cervello e il tratto gastrointestinale presentano una latitudine significativa tale da potere variare in dimensioni rispetto alle dimensioni generali del corpo, giacché la dimensione dell’intestino è determinata non solo dalla dimensione complessiva del corpo ma, come detto, anche dalla qualità dietetica e dalla digeribilità/assimilabilità del cibo; l’assioma è dunque che una dieta d’alta qualità e digeribilità sia stata necessaria, in prima istanza, per sbloccare l’espansione del cervello dai vincoli metabolici preesistenti e, in seconda istanza, che questa possibilità sia poi stata utilizzata dalla pressione evolutiva concomitante all’evolversi delle società di caccia e raccolta, questo almeno stando all’ipotesi dei tessuti costosi, expensive tissue hypothesis, o ETH, non da tutti accettata); e sebbene l’intestino non si conservi nella documentazione fossile, molti ritengono plausibile che l’aumento del cervello, che dai 400-550 gr delle Australopitecine e dai 500-700 gr di Homo habilis è arrivato ai 600-1 000 gr in Homo erectus (con un aumento del volume cerebrale percentualmente alto rispetto alle Australopitecine, aumento che, rapportato alle dimensioni corporee, è all’incirca del 33%), sia corrispondente a una diminuzione di dimensioni progressiva dell’apparato digerente, cioè un’inedita evoluzione ch’è stata permessa dai vantaggi energetici del cibo d’alta qualità, dallo sblocco di vincoli metabolici all’espansione del cervello e dallo stile di vita proprio alle società di caccia e raccolta (e senza dimenticare che questi fenomeni sono contemporanei l’aumento di dimensioni del corpo di Homo erectus e all’attenuazione del dimorfismo sessuale pari a un aumento delle richieste energetiche, probabilmente soddisfatte queste grazie a un adattamento che comporta un aumento dei depositi di grasso nel corpo, cioè dei tessuti adiposi di riserva in previsione di fluttuazioni delle risorse disponibili, e la possibilità, senza la quale l’impalcatura teorica collassa, d’avere sempre a disposizione, fluttuanti o meno, risorse trofiche d’alta qualità); s’è detto stile di vita delle società di caccia e raccolta, e il cervello n’è implicato perché questo sistema richiede un’intensa collaborazione di tutti con tutti tramite la quale potere condividere il cibo, le informazioni e altre risorse, ciò che richiede abilità cognitive decisamente al di sopra di quelle dello scimpanzé; fatta salva l’ipotesi dell’autodomesticazione (v. infra) che postula che prima di diventare cooperativo il genere Homo è diventato tollerante nei confronti dei conspecifici (ossia non aggressivo) e che la tolleranza ha preceduto le forme di cognizione più complesse che richiedono un cervello sofisticato (per esempio, la sola capacità di seguire le tracce degli animali da predare richiede la messa in atto di ragionamenti raffinati, ossia d’un ragionamento induttivo e deduttivo, dove il primo è un ragionamento che, dall’osservazione di dati particolari, passa ad una generalizzazione, cioè formula una congettura operativa, e il secondo un ragionamento che partendo da un presupposto, passa ad una immediata conclusione, operativa anch’essa); e il ragionamento sul perché della sequenza tolleranza/cognizioni complesse/cooperazione è semplice, se pure ipotetico, dato che questo cervello sofisticato e capace d’articolazione logica, ma dal metabolismo assai dispendioso, se non potesse essere utilizzato al fine di far sì che più individui alla ricerca di cibo d’alta qualità possano programmare e coordinare le loro azioni, cioè se non servisse come organo di calcolo alla cooperazione cognitiva, ebbene la selezione naturale non l’avrebbe implementato dopo lo sblocco dai vincoli metabolici preesistenti, bensì ne avrebbe semplicemente preso atto senza ricorrere a quel tipo di pressione selettiva; ora, fatta salva questa ipotesi (e dove la dimensione del gruppo è poi importante per potere massimizzare i benefici complessivi), specificamente, per potere cooperare sono necessarie la tolleranza, una capacità di differire i bisogni immediati pari a una capacità d’articolazione logica, una memoria, un linguaggio e una teoria della mente; la tolleranza presuppone il controllo dell’aggressività, cioè il controllo delle emozioni (v. infra), e la tolleranza serve per instituire una base per la cooperazione (v., infra, l’esempio scimpanzé vs Bonobo); la capacità di differire i bisogni immediati serve perché permette d’introdurre una progettualità operativa proiettata su ciò che può ancora avvenire e si basa su un calcolo che mette in rapporto vantaggi/svantaggi o costi/benefici, che prima valuta ciò che offre il contesto dato e solo in seguito decide, e questa progettualità è legata alla capacità d’articolazione logica in quanto la rinuncia (il differimento) deve ricorrere a un ragionamento che permetta il calcolo sopra citato, e questo può svolgersi solo in un tempo ch’è il tempo sociale (cooperativo, coordinativo) della comunità, e banalmente si tratta d’un differimento motivato che, se pure non produce un vantaggio immediato, permette con buone probabilità d’averne uno maggiore in futuro; una memoria a lungo termine, come detto, serve per ricordarsi dove e quando ritrovare le varie risorse trofiche e per prevedere, in una mappatura del territorio, dove potrebbe esserci del cibo (si pensa che più aree del cervello partecipino contemporaneamente all’azione del ricordare e, anche se non è ancora chiara né la loro localizzazione, né la natura delle tracce del ricordo, o tracce mnesiche, che le percorrono, si sospetta che siano distribuite a rete nel cervello e che arrivino a costituire dei circuiti neurali specializzati nelle differenti regioni coinvolte, e s’identifica una di queste ragioni nell’ippocampo, v. infra, una struttura cerebrale di fatto coinvolta nei processi di memoria); il linguaggio serve per comunicare ed è anche questo probabilmente il risultato d’una pressione evolutiva sul funzionamento del cervello in un contesto pratico, pragmatico, dove l’obbligo dell’interazione sociale deve essere codificato a partire da un’attività che per tentativi e approssimazioni tenta d’accorciare quella distanza sociale che sta tra le menti degli interlocutori (di chi comunica ciò che sta nella sua mente e di che deve rappresentarsi, attraverso la materialità del linguaggio che passa, ciò che ci s’immagina stia nell’altra mente, e viceversa), linguaggio che in ogni caso deve attribuire a una materialità, gestuale o iconica o fonica, un significato e che richiede per potere legare in modo stabile un significante (la materialità dei gesti o dei suoni, per esempio) a un significato la collaborazione e la negoziazione degli interlocutori all’interno d’una collettività, attività di codificazione che dall’instabilità segnica (e dove il segno è l’unione arbitraria, e socialmente condivisa, d’un significante con un significato) tende via via ad una stabilità ch’è fatta propria dagli appartenenti a quella comunità e ch’è può pertanto diventare una processualità trasmissibile nel tempo, insomma una tecnologia che dà nome e scopo al tessuto intersoggettivo in quanto comunicazione socialmente costruita; una teoria della mente (o mindreading), infine, serve per intuire quello che l’altro individuo sta pensando, e probabilmente anche questa capacità, come il linguaggio, è un adattamento evolutivo per inferire gli stati mentali interni, nascosti, degli altri, tra cui le loro motivazioni e intenzioni, un insieme di calcoli induttivo/deduttivi che permette in un qualche modo di regolare il proprio e l’altrui comportamento, di negoziarlo, ancora, in un tessuto sociale cooperativo e intersoggettivamente costruito, codificato (per inciso, fatta salva la questione che la priorità teorica analizzando il linguaggio la si deve collocare nel suo essere un’entità sociale, una tecnologia, e non un’entità che prende forma autonoma in un cervello avulso dai dati ricavati pragmaticamente dal contesto, seguiranno poi informazioni sulle basi anatomiche, fisiologiche e neurologiche del linguaggio nel genere Homo, cioè sulla localizzazione dei centri e delle aree del linguaggio nel cervello e sulle modalità del suo funzionamento; il tutto nella consapevolezza che non solo l’uomo, ma anche gli animali comunicano informazioni a chi appartiene la sua specie, questo attraverso vari tipi di segnali, segnali chimici che investono il gusto e l’olfatto e segnali fisici legati all’udito, al tatto e alla vista, il tutto secondo le occorrenze imposte dall’habitat in cui vivono e che la complessità del linguaggio che n’emerge, innato o trasmesso culturalmente che sia, è funzione diretta del grado di complessità dell’organizzazione sociale della specie cooperativa presa in carico, e lo stesso per gli uomini); vedremo, ma a seguire, che il costo della riproduzione sociale di questo modo di produzione basato sulla caccia e sulla raccolta, in pratica la possibilità d’una manutenzione della reciprocità e della cooperazione, ha poi un prezzo molto alto.