Semplificando
quanto si dirà in modo dettagliato a seguire (v., infra, la meteorologia), alle alte latitudini i raggi del Sole colpiscono
la Terra con bassa inclinazione e ne riscaldano la superficie in modo inferiore
che non alle basse latitudini, per esempio nelle zone attorno all’Equatore; ed
è all’Equatore che si pensa quando si parla di circolazione planetaria dell’atmosfera,
là dove si fa incominciare il tutto con la presenza d’un’aria calda che, in
quanto più leggera, sale verso l’alto e inizia a fluire, a tappe, verso le alte
latitudini, cioè verso i Poli, e contemporaneamente redistribuisce il calore
del Sole accumulato all’Equatore su tutta la superficie della Terra (nella misura
di ca. l’80%, essendo la restante parte redistribuita dalle correnti oceaniche);
quest’aria calda ascendendo ad alta quota e distribuendo calore gradualmente si
raffredda e perde la capacità di trattenere il vapor d’acqua, tanto che si
sviluppa una cintura equatoriale delle piogge; quando quest’aria giunge all’altezza
delle latitudini subtropicali (25-35°) una parte ridiscende e spostandosi lungo
la superficie (venti Alisei) ritorna all’Equatore e nel mentre discende dà
origine, in quanto si comprime, a una zona d’alta pressione subtropicale (e in
pari tempo, la compressione impedisce la cessione di vapor d’acqua, per cui l’aria
è secca); il resto dell’aria d’alta quota non ridiscesa, giunge a latitudini
medie (35-60°) presso un sistema di basse pressioni e di piogge, e prosegue poi
verso i Poli continuando il suo raffreddamento là dove, giunta nelle regioni
polari, ritorna come aria fredda di superficie (venti Polari) verso le regioni
equatoriali, là dove ricominciano le già citate tappe. La figura seguente mostra
quanto s’è cercato di descrivere:
Figura
n. . Fonte: van Andel, 1988, p. 59.
Questo
quadro è poi complicato dai fenomeni di stagionalità che rendono disuniforme il
riscaldamento nelle regioni a clima temperato e polare, dalla forza di Coriolis
(v. infra) che influisce sulla
direzione d’ogni corrente (sia atmosferica che oceanica), dalla presenza dei
continenti e dei bacini oceanici che modificano ulteriormente il flusso delle correnti
atmosferiche, dall’estensione o meno dei ghiacciai e delle superfici innevate
(effetto albedo, v. infra), dall’evaporazione
degli oceani caldi che determinano una copertura di nubi fitta ed estesa (che,
con la loro azione di filtro delle radiazioni solari, hanno un effetto di retroazione
negativa, cioè di raffreddamento dell’acqua, ciò che riduce la coltre di nubi
sino alla ripresa del ciclo), insomma s’alterano le modalità di trasferimento
del calore e tutta la complessa casistica che rende il tempo meteorologico estremamente
variabile. Ora, dire clima e dire tempo meteorologico è dire due cose diverse,
giacché il clima si distingue dal tempo meteorologico in quanto quest’ultimo è,
come sopra s’è cercato d’esemplificare, solo un’episodica congiuntura di
condizioni d’irraggiamento solare, di temperatura, di precipitazioni, di pressione,
d’umidità etc., e rappresenta
un’instabilità ch’è sempre a breve termine; mentre il clima, al contrario,
elimina con le sue medie queste instabilità episodiche e rimanda a delle serie
periodiche che possono essere più o meno cicliche (per esempio, una stagione
umida per precipitazioni eccessive non è significativa in quanto episodica, ma
una serie prolungata di stagioni umide possono segnalare un cambiamento di
clima), giacché con clima s’intende il complesso delle condizioni
meteorologiche, che caratterizzano un’area più o meno estesa e relativamente a
lunghi periodi di tempo. Il clima, infatti, è la descrizione statistica, in
termini di valori medi validi per ampi areali, della variabilità dei tratti
distintivi atmosferici (i regimi dei venti, la pressione atmosferica, gli
schemi d’irraggiamento solare, l’umidità o meno dell’aria, i gradienti delle
precipitazioni etc.) in un periodo di
tempo che può andare da una scala umana, cioè di pochi decenni, a quella delle
ere geologiche di milioni d’anni e più, come dire che queste serie statistiche
sono poi delimitate da fattori quali la latitudine, l’altitudine, la distanza
dal mare, l’orientamento delle masse continentali e dei sistemi orogenetici, l’andamento
delle correnti oceaniche, la variabilità della morfologia areale, il periodo cronologico
preso in esame (in quanto il clima, in una stessa area, può essere soggetto a
variazioni dovute, per esempio, alla deriva continentale, ai movimenti
tettonici, all’apertura/chiusura di bacini oceanici, alla variazione dell’inclinazione
dei raggi solari etc.), ossia da un
insieme di fattori tutti tra loro determinati e che determinano, a loro volta,
il regime ecologico, cioè floristico e faunistico, degli areali presi in
considerazione, e con questi le modalità d’esistenza della catena alimentare e,
se in periodo protostorico o storico, la tipologia dell’azione antropica
possibile etc.; come dire, ancora,
che il clima, nel suo complesso, è un dispositivo ch’assembla in modo
statisticamente variabile la terraferma, gli oceani, l’atmosfera, gli organismi
e li coordina come insieme strutturato con l’irradiazione del Sole, cioè con l’irradiazione
che riscalda il terreno, l’acqua e l’aria e fa vivere gli organismi producendo così
effetti di retroazione a catena riconducibili, alla fin fine, a dei modelli seriali
macroclimatici. Ed è a questo dispositivo, sia pure opportunamente articolato,
che ci si riferirà nel prosieguo della descrizione.
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