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MISURE CRONOGEOLOGICHE (riscrittura)

Certe rocce della litosfera convertono la loro massa in energia in modo estremamente efficace (e questo fenomeno è detto radioattività, è perché un elemento sia radioattivo, cioè presenti un nucleo instabile, il suo peso atomico deve essere superiore ad 83, v. infra) e una percentuale del calore della Terra, per esempio, può essere attribuito proprio al decadimento spontaneo di queste rocce, cioè al rilascio d’energia dovuto al citato fatto che una parte della massa, quella che decade, si trasforma in energia (specificamente, con il decadimento s’ha un’emissione di radiazione o di particelle dal nucleo, i raggi α, β-, β+, e γ, le cui differenze qui non s’analizzano); ancora, gli elementi radioattivi decadono, sempre spontaneamente, in altri elementi, cioè i loro nuclei atomici instabili, i nuclei radioattivi, subiscono una modificazione nella loro struttura, un decadimento radioattivo, che permette loro di trasformarsi, in genere, in un nucleo diverso, proprio a un altro elemento o a un isotopo dello stesso elemento; alcuni decadono poi in un solo passaggio (per esempio, 14C), altri, invece, decadono attraversano una serie di passaggi, o catena, e il processo di decadimento continua finché il nucleo non diventa stabile; perché il processo sia poi classificato come spontaneo questo decadimento si deve verificare in un tempo che non può superare i 1010 anni, altrimenti il nucleo atomico è ritenuto stabile o il decadimento indotto); il materiale radioattivo inoltre, e quale che sia, per decadere della metà impiega sempre lo stesso tempo (o tempo di dimezzamento o emivita, t1/2), e questo suo valore, ch’indica il numero degli atomi instabili che decade in un cert’arco di tempo, rimanda a un dato statistico, medio, ossia alla metà della sua vita media, con la clausola che, dopo la prima emivita, la seconda è metà della metà della quantità iniziale, cioè un quarto, e via via scalando, come dire che la velocità di decadimento può essere usata come un indicatore temporale (infatti, poiché la quantità d’un elemento radioattivo che si trova in un minerale decade con un tasso costante, è poi possibile ricostruire la durata del tempo intercorso a partire dalla formazione del minerale stesso misurando la quantità dell’isotopo, v. infra, prodotto dal decadimento stesso,), come dire, ancora, che conoscendo la quantità di radioattività presente in un materiale e la sua emivita, se ne può calcolare l’età indipendentemente dai fattori propri all’habitat che lo ospita (quali le condizioni di pressione, temperatura, magnetismo o d’ambiente chimico). L’emivita può poi presentarsi con valori che vanno dall’ordine del microsecondo a quello paragonabile all’età della Terra, per cui per il tramite dello studio delle rocce, della loro struttura e composizione, è possibile definire i tempi dell’evoluzione della Terra e mettere tra loro in correlazione configurazioni geologiche avvenute in zone fra loro anche molto lontane dal punto di vista geografico (assieme ai fossili, come visto sopra, che spesso esse intrappolano; flora e fauna, infatti, sono state presenti in vastissime zone di distribuzione, o areali). Per esempio, presenti in molti minerali della litosfera si trovano isotopi radioattivi come quelli dell’uranio 238 (238U), che hanno un’emivita dell’ordine di 4,510 miliardi d’anni (t1/2=4,510x109), e sono utilizzati per le datazioni geologiche di materiale inorganico (ossia, rocce; v. infra), mentre sono utilizzati per la datazione di materiali organici, quali conchiglie, ossa, legni fossili, semi o manufatti con età compresa tra 1 000 e 70 000 anni etc., e risalenti a non più di 50-70 mila anni fa, gli isotopi radioattivi del carbonio 14 (14C), che presentano un’emivita di 5730 ±40 anni  in quanto, dopo 8 emivite, rimane solo lo 0,39% del carbonio radioattivo originale, cioè una quantità irrisoria per consentire misurazioni attendibili. Da sottolineare che questo livello di 14C presente in un organismo vivente, flora o fauna che sia, s’è formato e si forma nell’alta atmosfera dove i raggi cosmici, composti per la maggior parte di nuclei d’atomi d’idrogeno, producono, grazie alla collisione/trasformazione continua dell’azoto colpito dai raggi, il carbonio 14, 14C; questo, in combinazione con l’ossigeno, ha dato luogo a diossido di carbonio radioattivo, 14CO2 (presente in modo costante nell’atmosfera grazie all’equilibrio di 14C che decade e 14C che, come detto, si forma in continuazione), ch’è stata assimilata dagli organismi viventi, autotrofi e eterotrofi (v. infra), grazie ai cicli della loro attività metabolica, vuoi d’origine fotosintetica (infatti, la fotosintesi clorofilliana, v. infra, utilizza il diossido di carbonio atmosferico per costruire le sostanze organiche, le quali contengono 14C non radioattivo nella stessa proporzione con cui lo contiene il 14CO2 utilizzato), vuoi attraverso la catena alimentare (per esempio, la stessa proporzione citata di 14C, presente nel 14CO2 utilizzato dalle piante, è presente negli erbivori che si nutrono delle piante e nei carnivori che si cibano di erbivori etc.); vale a dire che il livello di 14C è uguale a quello presente nell’ambiente, o serbatoio di scambio, in cui l’organismo (flora, fauna) ha vissuto; dopo la sua morte, mentre il carbonio 12, 12C, rimane costante, il carbonio 14, 14C, comincia a decadere con un tasso pari a quello sopra citato trasformandosi in azoto e senza che il carbonio dell’ecosistema in cui l’organismo ha vissuto possa essere reintegrato nel processo della sua evoluzione necrotica, tanto che la sua radioattività rivela qual è il tempo trascorso dalla sua morte (questo in linea di massima, cioè salvo contaminazioni dei campioni usati). Con questo metodo si scoprono così in modo assoluto (cioè con una datazione fondata su procedure fisico-chimiche) le varie età della Terra sopra delineate (le rocce) e gli accidenti ch’essa ha ovviamente presentato (le biocenosi). Per esempio, le variazioni delle temperature dell’aria e della superficie degli oceani, l’estensione nello spazio e nel tempo delle ere glaciali, i vari livelli in percentuale dell’ossigeno presente nell’atmosfera e nei mari, e questo grazie agli isotopi dell’ossigeno 16, 16O, e dell’ossigeno 18, 18O (ossia al rapporto ch’esiste tra un isotopo stabile dell’ossigeno, 18O, e l’ossigeno ordinario, 16O, ch’è all’incirca di 1 a 500), che s’accumulano a differenti velocità secondo di quanto ossigeno o diossido di carbonio sono presenti nell’atmosfera o nei mari e che, messi a confronto nei loro diversi tassi di deposito nelle rocce calcaree prodotte dalla sedimentazione dei gusci degli organismi presenti sul fondo degli oceani, o planctonici, permettono ai geochimici di decifrare i citati accidenti del passato e molto altro ancora (gusci, questi, costruiti dagli organismi con il carbonato di calcio, CaCO3, ottenuto combinando l’ossigeno estratto dall’atmosfera con il carbonio). Il rapporto isotopico 18O:16O s’usa, infatti, perché quando l’acqua evapora dagli oceani, evapora più facilmente l’isotopo meno pesante, 16O, rispetto a quella dell’isotopo più pesante, 18O, e l’acqua che resta negli oceani contiene pertanto, secondo le variazioni apportate o meno dal ciclo idrologico, più o meno 18O secondo la temperatura presente, ed è possibile così misurare la concentrazione di quest’isotopo del passato (v., infra, δ18O) perché lo si ritrova incorporato nei carbonati dei gusci dei Foraminìferi (v. infra)  i cui resti, vissuti in acque calde o fredde, si sono sedimentati, con il tempo, in rocce; rocce calcaree di cui si può calcolare poi l’età utilizzando il citato metodo delle decadenza radioattiva. E, per continuare e precisare l’esempio sopra iniziato, valgano per la datazione delle rocce il decadimento del samario 147, 147 Sm, in neodimio 143, 143Nd, con un’emivita di 106 000 milioni d’anni; quello del rubidio 87, 87Rb, in stronzio 87, 87Sr, con un’emivita di 47 000 milioni d’anni; quello del torio 232, 232Th, in piombo 208, 208Pb, con un’emivita di 13 900 milioni d’anni; dell’uranio 238, 238U, in piombo 206, 206Pb, con un’emivita di 4 510 milioni d’anni; del potassio 40, 40K, in argon, 40Ar, che ha un’emivita di 1 300 milioni d’anni (questo fatto salvo che la roccia che lo contiene non sia stata esposta a temperature superiori a 125 °C, perché in questo caso la fuga d’argon lascia determinare soltanto l’ultimo episodio di riscaldamento ch’essa ha subito); dell’uranio 235, 235U, in piombo 207, 207Pb, con un’emivita di 713 milioni d’anni o dell’uranio 238, 238U, nel torio 230, 230Th, con un’emivita di 80 000 anni, usato per datare i sedimenti marini, questo perché il 238U presente nei mari decade in  230Th e precipita nei sedimenti dei fondali permettendo, con la sua concentrazione, di ricostruirne l’età, e altri decadimenti ancora. Questi valori ci danno poi la datazione assoluta (differenti dai valori delle datazioni relative che si basano sullo studio degli strati delle rocce sedimentarie, organogene o meno, e del reperimento negli strati di fossili guida, nel qual caso questi valori non sono numerici in quanto permettono soltanto d’affermare la consequenzialità cronologica degli strati, e sempre che non siano intervenuti fenomeni tettonici di disturbo della sequenza stratigrafica, cioè che uno strato, o un fossile guida ch’è qui contenuto, è o più antico o più recente nei confronti d’un altro che lo precede o lo segue), datazione che oggi si classifica come datazione radiometrica, e l’attendibilità di questi valori e legata a un margine d’oscillazione (range) in anni, o margine d’errore, in più o in meno rispetto al valore dato ), e lo standard d’accettabilità di questo errore dipende dall’età del reperto, per esempio in caso di rocce molto antiche (e le rocce più antiche finora datate, reperite in Groenlandia, risalgono a 3700 milioni di anni fa), è  100 000 anni per ogni periodo di 100 milioni d’anni [?]. Un altro metodo di reperimento di valori assoluti è la magnetostratigrafia, metodo basato sull’analisi dei minerali ferromagnetici (cioè capaci di magnetizzazioni) presenti non solo rocce sedimentarie, ma anche in quelle ignee (v. infra), e qui l’analisi investe lo studio della successione delle inversioni di polarità, cioè d’orientamento delle linee di forza del campo magnetico terrestre, o campo geomagnetico, che le rocce stesse manifestano come magnetismo residuo e ch’esse conservano nella direzione d’allineamento al campo geomagnetico (v. infra); direzione che si mostra o nella deposizione e compattazione (litificazione) delle rocce sedimentarie (detta magnetizzazione residua detritica) o nel raffreddamento e solidificazione al di sotto d’una data temperatura delle rocce ignee (detta magnetizzazione termoresidua; si ricorda che oltre una certa soglia di calore un materiale magnetico perde questa sua proprietà, detta punto di Curie, ch’è, per esempio, di 578 °C per la magnetite), questo grosso modo a partire dal Triassico e dal Giurassico (cioè a partire da 245 milioni d’anni fa, quando la Pangea si frammenta e, in Gondwana, l’America meridionale inizia a separarsi dall’Africa e inizia la formazione dell’Oceano Atlantico, v. infra), cui consegue un loro riordino cronologico in epoche ed eventi magnetici. Infatti, i minerali ferromagnetici (per esempio, la magnetite, Fe3O4), presentano una magnetizzazione acquisita ch’è proporzionale all’aumento d’intensità del campo geomagnetico tanto che, quando raggiunge un valore massimo, o di saturazione, ne conserva la memoria stabile anche se si rimuove il campo magnetico che l’ha prodotta (e quest’ereditarietà si definisce, se investe le rocce a partire dal Triassico, direzione fossile di magnetizzazione); campo magnetico terrestre che poi ha subito (e subisce tuttora) variazioni che riguardano il senso della direzione delle linee di forza del campo magnetico, e per convenzione la polarità di questo campo si dice normale quando presenta inclinazione positiva nell’Emisfero boreale (definendo positiva la direzione di magnetizzazione verso il basso, cioè verso il Polo Nord magnetico attuale) e inversa quando nello stesso Emisfero l’inclinazione si presenta negativa (dove negativa è detta la direzione di magnetizzazione inclinata verso l’alto e verso il Polo Sud magnetico attuale, tenendo poi presente che questi Poli non coincidono con quelli geografici, ma sono loro prossimi) e la scala cronologica di queste inversioni del campo magnetico che suddividono il tempo geologico in intervalli costanti di tempo con polarità magnetica normale o inversa ci dà, appunto, la sequenza ordinata delle unità di polarità magnetostratigrafica (o magnetozone). La figura seguente mostra a sinistra la sequenza delle inversioni di polarità dal Triassico al Cretacico (245-66,5 milioni d’anni fa) e quella a destra la sequenza dal Pliocene al Pleistocene (5,2-00,1 milioni d’anni fa; il nome qui attribuito alla epoche magnetiche, Gilbert, Gauss, Matuyama e Brunhes, deriva dai nomi dei primi studiosi del paleomagnetismo; all’interno di ciascuna di queste epoche sono poi stati rilevati dei periodi di magnetizzazione opposta a quella dell’epoca di appartenenza, con una durata che va dai 10 000 ai 100 000 anni, detti eventi, in figura non nominati, per esempio, il già citato Olduvai, un evento magnetico normale all’interno dell’epoca magnetica inversa di Matuyama e, sempre in Matuyama, un evento magnetico normale collocabile tra i 940 000 e gli 880 000 anni fa, detto Jaramillo; Olduvai e Jaramillo sono poi nomi di località nella Great Rift Valley, in Africa orientale, sede di fenomeni di ritrovamenti fossiliferi della linea che porta a Homo sapiens, v. infra):


Figura n.   . Fonte: Polticelli, 2003, p. 33.


Va da sé che i metodi di datazione sopra indicati sono solo una parte d’una più vasta modalità d’indagine cronologica, qui non illustrata, che va dalla datazione del materiale interstellare a quella dei manufatti preistorici (tra cui si trovano la spettrometria di massa ultrasensibile, la racemizzazione degli aminoacidi, la termoluminescenza, la metodologia dell’Electron Spin Resonance, ESR etc.). 

FOSSILIZZAZIONI


Le categorie tassonomiche che classificano gli organismi in vita (come detto, specie, genere, famiglia, ordine, classe, phylum e regno) sono le stesse, s’è visto, che classificano gli organismi fossili. Un fossile è il resto conservato d’un organismo, animale o vegetale, unicellulare o pluricellulare che sia, vissuto in tempi geologici, conservazione ch’è solitamente presente a partire dalle parti più resistenti, quali tessuti fibrosi nella flora, e nella fauna gusci calcarei o silicei, ossa, denti, scheletri (o, in condizioni eccezionali, le parti a corpo molle) e presente negli strati della litosfera, cioè nella crosta terrestre e purché gli strati siano dovuti, in linea generale, a fenomeni di sedimentazione (v. infra); si considerano fossili, inoltre, anche le tracce di resti d’attività in vita (dette ichniti), quali impronte lasciate all’epoca in sedimenti non ancora consolidati, oggi pietrificati, lo stesso che i segni rimasti a seguito d’attività di predazione o di residui dell’alimentazione, come gli escrementi fossili, o coproliti (e la disciplina che studia questi ichnofossili si chiama paleoicnologia). Lo studio dei fossili permette poi la conoscenza degli organismi scomparsi, la possibilità d’identificare legami di parentela evolutiva (cioè di ricostruire la filogenesi dei singoli gruppi), le loro associazioni al fine di ricostruire gli ecosistemi che li permettono e in che areali, nonché l’evoluzione degli ambienti stessi in un arco temporale. Va da sé che le informazioni fornite dai fossili, in quanto riguardano soltanto le tipologie d’organismi dotati di parti resistenti, sono inevitabilmente parziali (secondo una stima, il rapporto esistente tra fossili ritrovati e organismi esistiti è di 1 specie su 120 000), e anche se i più antichi fossili conosciuti risalgono a oltre 3,5 miliardi di anni fa (si tratta delle Alghe unicellulari che formano le Stromatoliti, v. infra, e di batteri di forma allungata del genere Eobacterium), una documentazione fossile consistente s’ha solo a partire dal Paleozoico (541-245 milioni di anni fa), quando s’affermarono i primi organismi non più dotati di solo corpo molle, ma anche di parti resistenti, e inizialmente propri a organismi marini invertebrati e a Alghe, successivamente a Vertebrati e a Piante e, eccezionalmente, come detto, a Fossili con parti molli (e capaci di mostrare la configurazione d’organi interni o dell’involucro esterno). Trattandosi in ogni caso di resti reperiti in successioni di strati sedimentari (o serie stratigrafiche), si valorizzano tra questi specialmente quelli che mostrano una breve distribuzione verticale e una larga diffusione spaziale (detto altrimenti, si tratta d’organismi scelti perché presentano un taxon a rapida evoluzione, un notevole grado d’adattamento ecologico che ne ha permesso una diffusione geografica estesa, se pure breve in quanto la loro linea filetica legata alla rapida estinzione è ristretta a un tempo geologico limitato), questo giacché permettono di meglio definire la successione degli strati e la sincronizzazione fra areali variamente dislocati sulla superficie della terra, ed è per questo si chiamano fossili guida (o markers; la biostratigrafia è poi quella disciplina che ne studia la stratificazione, laddove un intervallo stratigrafico che porta un contenuto fossilifero che ne permette la distinzione fra altri è detto biozona); per esempio, sono fossili guida del Paleozoico le Trilobiti e le Graptoliti (v. infra), del Mesozoico (245-66,5 milioni d’anni fa) le Ammoniti (v. infra) e per il Cenozoico le Nummuliti (v. infra). Se poi è presente in un bacino sedimentario l’associazione di resti fossili d’una biocenosi, ossia di fossili e della fauna e della flora d’epoca (autoctona, cioè propria all’ecosistema originario, e non alloctona, vale a dire data da organismi che s’aggiungono dopo morti giunti da altri luoghi, da altre biocenosi, e qui trasportati in qualsivoglia modo), si può come detto analizzare quest’associazione, detta tanatocenosi, per ricavarne informazioni sull’ecosistema d’origine, sulla sua diffusione sincronica in areali geograficamente distanti e sulla sua evoluzione diacronica. Ancora, va da sé che i processi che portano a questi resti richiedono una precisa modificazione dell’organismo morto, animale o vegetale che sia, in una stabilizzazione fossile che si struttura in modo dato nel tempo coinvolgendo con meccaniche varie le trasformazione biologiche, chimiche e fisiche che l’organismo è costretto a subire, cioè a un processo di fossilizzazione, e la prima condizione di questo processo è che l’organismo sia sottratto in modo repentino all’azione degli agenti biologici e atmosferici (cioè alla decomposizione biologica, o necrolisi, giacché altrimenti le trasformazioni post-mortem ne prevedrebbero la decomposizione biologica, cioè la sua completa disgregazione e riutilizzazione), dunque ricoperto da sedimenti in modo tale che i processi ch’intervengono a seguire portino l’organismo ad acquisire una stabilità compatibile con il mezzo che l’ingloba a sé, cioè la possibilità chimico-fisica di poterlo conservare (ed è per questo che le  probabilità ch’un organismo divenga fossile sono generalmente molto basse e facilitate se questi presenta parti già parzialmente mineralizzate come i già citati gusci etc. o se il bacino sedimentario che l’accoglie è, per esempio, marino, nel qual caso la velocità di deposizione dei sedimenti, generalmente fini e compatti, può superare quella della sua degradazione, ed è anche per questo che la somma dei fossili  marini supera abbondantemente quella dei fossili terrestri). Una volta che l’organismo sia poi fossilizzato, si devono in seguito analizzare i processi di trasformazione fisica e chimica che i sedimenti subiscono nel corso del tempo (o diagenesi, per esempio, l’azione meccanica di compattazione dei sedimenti, la solubilizzazione di alcune specie mineralogiche e la ricristallizzazione d’altre etc.), e la disciplina che studia l’evolversi delle tappe che portano al fossile, dalla morte dell’organismo alle trasformazioni diagenetiche dello strato sedimentario che l’accoglie, si chiama tafonomia. La fossilizzazione, infine, può essere data da processi di mineralizzazione, in cui le sostanze organiche di cui è composto l’organismo sono via via sostituite da sostanze inorganiche, generalmente grazie all’acqua che, filtrando attraverso i sedimenti, lascia all’organismo i sali che porta disciolti in soluzione (silice, carbonati di calcio, fosfato di calcio) e che per processi chimici di sostituzione dell’organico in inorganico risultano così essere mineralizzate (come dire che, a livello molecolare, i sali si sostituiscono di fatto alle sostanze organiche di cui è costituito l’organismo modificandone però la composizione chimica); da processi d’incrostazione dovuti all’acqua che, ricca in bicarbonato di calcio, deposita sugli organismi cristalli di calcite che formano un calco che ne riproduce la morfologia esterna; da processi d’inglobamento che isolano l’organismo prima che si manifesti la necrolisi mantenendone l’integrità, per esempio, se si tratta d’insetti, pollini etc., la conservazione nella resina in fase fluida prodotta dagli alberi, cioè nel loro prodotto fossile, l’ambra delle piante; da processi di riempimento, in cui la degradazione delle sostanze organiche molli può essere sostituita da materiale più o meno fine o grossolano, ciò che offre come detto la possibilità di avere restituita la conformazione interna dell’organismo; da processi di crioconservazione, in cui l’organismo è inglobato e isolato nel ghiaccio, com’è il caso dei mammuth nel permafrost della tundra siberiana (v. infra); da processi di mummificazione, dovuti alla perdita dei liquidi (o essiccamento) e alla seguente azione da parte di microrganismi che portano all’indurimento dei tessuti molli, processo di fossilizzazione, questo, proprio agli ambienti secchi, caldi e ventilati, quali i deserti; da processi di carbonizzazione, dove negli organismi vegetali i composti volatili e liquidi (costituiti da idrogeno, ossigeno e azoto), grazie all’azione fermentante di microrganismi che operano in carenza di circolazione d’ossigeno, in ambiente riducente, sono eliminati fino a lasciare un residuo composto principalmente da carbonio (v. infra).

LA BIOSFERA

Dato per assodato che, sulla Terra, la fascia (o biosfera) che ha permesso per 3,6 miliardi d’anni le condizioni fisiche e chimiche indispensabili per mantenere in essere i viventi, dunque la fascia che ha contenuto e contiene tutte le forme di vita attualmente conosciute, presenta uno spessore di 20 km in tutto, comprese le parti basse dell’atmosfera, le poche decine di metri (2 km ca.) ch’arrivano dalla pedosfera al sottosuolo e, nei mari, le fosse oceaniche che della biosfera ne sono il limite inferiore (il tutto, all’incirca 10 km sopra e sotto la crosta terrestre), e intendendo con vita il discrimine tra ciò ch’è animato dall’inanimato, e fatto salvo il fatto che la biosfera, nei limiti della sua resilienza (v. infra),  è sempre stata soggetta a trasformazioni (geologiche o storiche che siano) ch’hanno investito e la morfologia del pianeta e le variazioni climatiche che, nelle loro interrelazioni, hanno comportato e speciazioni e estinzioni (cioè l’ambiente e l’andamento dei processi biotici), assodato e fatto salvo tutto questo, per spiegare l’origine della vita (il Big Birth, la grande nascita, o biogenesi, cioè un evento che s’è manifestato solo una volta, ma i cui effetti di trasmissione ancora governano tutto il vivente, dai batteri alle piante, dalle muffe a noi) che si presenta in quest’irrisorio spessore, partiamo dall’ipotesi della panspermia, che suppone che le sostanze organiche che compongono i viventi siano esogene, vale a dire formate nello spazio e giunte sulla Terra attraverso asteroidi, o loro frammenti, come le meteoriti, o comete e, dunque già esistenti nel Sistema solare prima della comparsa della vita sulla Terra. Per esempio, nella materia di cui sono composte le nubi molecolari è possibile ritrovare, oltre ad idrogeno ed elio, tracce di composti capaci di resistere nelle condizioni dello spazio interstellare, quali monossido di carbonio (CO), formaldeide (H2CO), alcol metilico (CH3OH), acqua, acido cianidrico (HCN), glicolaldeide (C2H402, uno zucchero a otto atomi), composti di silicati (cioè minerali contenenti silicio, ossigeno, magnesio, ferro) e altro ancora, e visto che questa materia è nelle regioni fredde dello spazio, composti volatili come l’acqua e il metano (che congela a -182 °C) si condensano sulla polvere interstellare e possono formare molecole ancora più complesse, molte simili a quelle che ritroviamo negli esseri viventi. Ora, nelle meteoriti che cadono sulla Terra resta traccia di questa materia, quale quella ritrovata in una meteorite caduta in Messico nel 1969 (dove è stato escluso il rischio d’inquinamento biologico di materiale preesistente), è stata scoperta la presenza di numerosi aminoacidi (o amminoacidi, cioè sostanze organiche che rappresentano i costituenti fondamentali delle proteine, v. infra), destrogiri; e, sempre nel 1969, in Australia, in una rara meteorite di condrite carbonacea, la cui nascita è stata fatta risalire a 4,6 miliardi d’anni fa (si tratta probabilmente di frammenti di materia da cui ebbe origine il sistema solare), sono stati trovati oltre 90 tipi diversi di aminoacidi formatisi nello spazio (8 dei quali coinvolti nella formazione delle attuali proteine) in una miscela racemica (cioè suddivisi in parti uguali, anche se la questione è dibattuta), dunque sia levogiri che destrogiri (v. infra), cui s’aggiungano complesse sequenze di zuccheri, chiamate polioli, contenenti più gruppi ossidrile (-OH) e prima d’allora mai rinvenuti sulla Terra e di alcuni nucleotidi che sono i monomeri degli acidi nucleici (RNA e DNA, v. infra); ancora, in una meteorite proveniente da Marte (caduto ca. 13 000 anni fa sulla Terra, in Antartide, e datato 4,5 miliardi d’anni fa, in sigla ALH 84001) si sono ritrovate, ma la questione è estremamente controversa, forme fossili di microrganismi con un diametro tra 20 e 100 nm, individuati come nanobattèri, cioè decisamente più piccoli dei più piccoli batteri conosciuti (la meteorite presenta, infatti, catene di microscopici cristalli magnetici d’un minerale di ferro, la magnetite (un minerale raro costituito di ossido ferroso-ferrico, d’un nero lucente e con evidente polarità magnetica), indistinguibili da quelli che si trovano all’interno di batteri, detti magnetotattici, che ne fanno uso per orientarsi); delle micrometeoriti (che sono più piccole di 5×10−4 m) si sa che, attualmente, portano sulla Terra una quantità di carbonio di ca. 500 tonnellate all’anno, per cui si può supporre che nei milioni di anni trascorsi prima d’arrivare a forme di vita (3,9 miliardi di anni fa) una quantità enorme di carbonio si sia accumulata in misure decine di volte superiori maggiori di quella presente nella biosfera odierna, e poiché nelle micrometeoriti sono state individuate sostanze organiche complesse, non si può escludere a priori un loro significativo contributo all’evoluzione biochimica sulla Terra primordiale. Ancora, nelle cometa di Halley sono state identificate numerose molecole organiche, tra cui pirimidine e purine (cioè molecole costituenti le basi azotate degli acidi nucleici; per esempio, la purina si ritrova in derivati aminici, quali adenina e guanina che partecipano alla costituzione degli acidi nucleici) e analisi spettrografiche di composti organici nelle nebulose hanno mostrato la presenza di 130 molecole organiche (tra cui la formaldeide, H2CO, e l’acido cianidrico, HCN, che risultano essere le molecole organiche più abbondanti); e si sa che la formaldeide potrebbe essere un buon punto di partenza per la produzione di zuccheri, quale il ribosio C5H10O5, che presenta una formula pari a cinque volte quella della formaldeide, e il ribosio è un monosaccaride a cinque atomi di carbonio, cioè un pentoso che fa parte dell’RNA e dell’adenosina trifosfato, ATP, v. infra; così come si sa che l’adenina, C5N5H5, è una base azotata costituente degli acidi nucleici, RNA e DNA, che mostra una formula pari a cinque volte quella dell’acido cianidrico), cui s’aggiunga la presenza dell’aminoacido glicina (H2N−CH2− COOH, C2H5NO2, forse formato per esposizione ultravioletta di ghiaccio d’acqua contenente molecole organiche di metano e d’ammoniaca), l’α-aminoacido più semplice e componente normale nelle proteine (v. infra); ora, se è pur vero che gli aminoacidi presenti negli esseri viventi terrestri sono tutti levogiri, il fatto di averne trovati di destrogiri non può impedire di pensare che l’ambiente terrestre possa averli utilizzati ai primordi cancellandone la firma, o che forse una sostanza organica esogena abbia casualmente trovato le condizioni ideali per rendere possibile la conversione dei monomeri in polimeri (cioè dall’unione, o polimerizzazione, spontanea di più molecole uguali, o monomeri; in altre parole, aver effettuato il primo passo per la creazione delle proteine e degli acidi nucleici), vale a dire una configurazione che ne ha permesso la sussistenza e la riproduzione. In ogni caso, tutti gli elementi che ritroviamo sulla Terra, con la possibile eccezione dell’idrogeno, sono stati creati dalla nucleosintesi cosmologica e stellare e nella fasi finali della formazione del pianeta, nel periodo del bombardamento meteoritico (impact clusterings, v. supra) iniziato ca. 4,5 miliardi d’anni fa e durato fino a 3,9 miliardi d’anni fa, sono state portate sulla Terra acqua (formatasi o negli spazi prima della nascita del Sistema solare o all’interno della nebulosa che ha portato al Sole e ai suoi pianeti) e sostanze chimiche ch’evaporano a temperature relativamente basse, quali diossido di carbonio, metano e ammoniaca, elementi, tutti, che contengono carbonio (C), idrogeno (H), azoto (N), ossigeno (O), fosforo (P) e zolfo (S), cioè la famiglia CHNOPS, vale a dire gl’ingredienti fondamentali, o biogenici, per lo sviluppo della vita sulla Terra, ch’inizia appunto ca. 100 milioni d’anni dopo la fine di questi impatti, come mostra l’abbondanza d’un isotopo del carbonio 12C nelle rocce del periodo, indizio certo di resti d’una qualsivoglia forma di vita che ad un isotopo più pesante del carbonio preferiscono il 12C perché attraversa più facilmente le membrane cellulari.
Fatta salva quest’ipotesi della panspermia (che non è attualmente più di tanto accreditata, anche se studiata dall’esobiologia, che indaga, per il tramite dello studio dei corpi celesti, se al di fuori della terra esistono meccanismi che possono dare origine alla vita e se questa può interagire o meno con la vita sulla Terra), si suppone, con la Teoria della sintesi prebiotica (ossia esente da processi biologici, abiogenica), che le prime tracce di vita sulla Terra siano probabilmente dovute a una capacità della materia inorganica ad essere portatrice d’istruzioni d’autorganizzazione in strutture ordinate (cioè in composti organici fondamentali, quali gli aminoacidi, le proteine e gli acidi nucleici) idonee a loro volta, con fonti d’energia esterne, a autoreplicarsi e svilupparsi in una cellula biologica contenente materiale genetico da cui si sono, in seguito, originati in dati ecosistemi degli organismi prima monocellulari (Procarioti, Archaea) e, in seguito, pluricellulari (Eucarioti); e poiché tutti gli organismi viventi (secondo la Teoria monofiletica) sono organizzati in modo uniforme a partire da quattro basi azotate che rimandano alla diversità degli acidi nucleici e a una ventina d’aminoacidi che rimandano a quella delle proteine, sono qui necessarie alcune precisazioni ch’investono, appunto, gli aminoacidi, le proteine e gli acidi nucleici; un aminoacido è un composto organico che presenta nella sua molecola uno o più gruppi carbossilici (cioè i composti organici che contengono uno o più gruppi formati da un atomo di carbonio, due di ossigeno e uno di idrogeno, -COOH) e uno o più gruppi aminici (vale a dire i composti organici che contengono uno o più gruppi formati da un atomo di azoto e due di idrogeno, -NH2); gli aminoacidi conosciuti sono 23 e questi, legati tra loro, formano le proteine (o protidi o molecole proteiche), ossia quelle molecole, presenti in tutti gli organismi viventi (animali o vegetali che siano, dai batteri all’uomo e alle piante, e nel corpo umano esistono almeno 100 000 tipi diversi di proteine, e l’elenco non è del tutto noto, e in ogni sua cellula sono presenti ca. 20 000 tipi diversi di proteine per un numero complessivo da ca. 100 milioni), che delle cellule sono tanto gli elementi costitutivi predominanti, quanto gli elementi indispensabili per il loro funzionamento (questo date le loro caratteristiche strutturali, energetiche ed enzimatiche, per esempio, nell’uomo, esse formano moltissime strutture, la pelle, i capelli, le unghie, le ossa, i tendini, le fibre elastiche contenute nelle pareti delle arterie e parte del sangue e permettono la contrazione muscolare, la trasmissione degli impulsi nervosi, svolgono la funzione d’enzimi, cioè, come detto, catalizzano la maggior parte delle reazioni chimiche ch’avvengono nell’organismo, difendono il corpo dalle infezioni, trasportano altre molecole e così via, v. anche infra); gli aminoacidi, inoltre, costituiscono importanti intermedi di numerose reazioni metaboliche, anche se vi sono negli organismi alcuni aminoacidi in forma libera che non entrano nella costituzione delle proteine; sono poi detti essenziali gli aminoacidi (nel numero di 8 su 20) che gli organismi animali non riescono a sintetizzare (gli organismi animali, infatti, attraverso la catena alimentare riescono a sintetizzare solo 12 aminoacidi, mentre gli organismi vegetali, al contrario, sono capaci di sintetizzare tutti gli aminoacidi da acqua, diossido di carbonio, azoto e altri composti inorganici, attraverso la fotosintesi); non essenziali gli altri; gli aminoacidi essenziali e non (nel numero detto di 20) che vanno a costituire le proteine rientrano poi nella categoria α (alfa, e sono detti α-aminoacidi) e presentano la seguente struttura (NH2CHRCOOH):


Figura n. . Fonte:

dove si nota che un gruppo carbossilico (-COOH) e uno amminico (-NH2) sono legati a un atomo di carbonio (detto carbonio α), a sua volta legato un gruppo variabile (R; per esempio, nell’α-aminoacido più semplice, la glicina, il gruppo R è costituito da un solo atomo di idrogeno, mentre tutti gli altri presentano gruppi R, detti radicali, più complessi, costituiti da atomi di carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto e zolfo); un aminoacido, come sopra detto, può poi avere una conformazione levogira (L, cioè che devia il piano della luce polarizzata verso sinistra, in senso orario) o destrogira (D, che devia il piano della luce polarizzata verso destra, in senso orario), e qui bisogna sottolineare che in tutti i composti viventi gli α-aminoacidi sono levogiri (in formula, L-α-aminoacidi); se andiamo ora a livello dei ribosomi, cioè degli organelli fondamentali all’interno delle cellule di organismi Procarioti (unicellulari e primitivi) o Eucarioti (pluricellulari ed evoluti) che presentano una struttura differenziata cui è delegata la funzione della sintesi nucleica, gli L-α-aminoacidi s’uniscono in sequenze lineari formando quella ch’è la struttura primaria delle proteine (e questo è possibile grazie al processo della sintesi proteica, che procede secondo le informazioni contenute nel e dettate dal DNA, con la mediazione dell’RNA, cioè dagli acidi nucleici, v. infra) e affinché due alfa-aminoacidi s’uniscano, il gruppo -COOH d’un aminoacido deve reagire con il gruppo -NH2 d’un altro aminoacido adiacente (cioè si deve formare un legame tra l’atomo di azoto N del gruppo amminico e l’atomo di carbonio C del gruppo carbossilico); con questa reazione, detta di condensazione, si libera una molecola d’acqua e tra i due aminoacidi si costituisce così un legame covalente -CO-NH-, detto peptidico, come mostra la figura seguente;


Figura n.  . Fonte: Cavalli Sforza e Cavalli Sforza, 2010a, p. 15;

reazione che deve ripetersi sino alla conclusione della citata sintesi proteica che porta così alla formazione d’una lunga catena che ci dà il polipeptide (che può contenere da 15-20 aminoacidi fino a molte migliaia); per diventare una proteina in grado di svolgere la sua funzione specifica, il polipeptide subisce in molti casi delle modificazioni ad opera d’enzimi (mentre i citati gruppi R dei diversi aminoacidi della catena interagiscono poi tra di loro a causa delle cariche elettriche di cui sono portatori e della loro composizione chimica, formando o legami chimici deboli, tipo legami idrogeno, o forti, tipo ponti disolfuro, legami che determinano poi la morfologia a tre dimensioni  del polipeptide, ossia le sue modalità di ripiegamento, di torsione, là dove gli aminoacidi idrofobici sono rivolti verso l’interno e quelli idrofilici verso l’esterno, liberi così d’interagire con altri composti); i polipeptidi, tramite legami deboli, possono poi unirsi ad altri polipeptidi (uguali o differenti, non importa) formando una proteina composta da più subunità; una proteina può dunque definirsi come una macromolecola formata da una o più catene non ramificate (ma spazialmente ripiegate) d’aminoacidi di diverse specie (con un numero complessivo che va da una cinquantina a migliaia di unità) uniti tra loro da legami peptidici in modo che risultano liberi solo il gruppo -NH2 del primo aminoacido e quello -COOH dell’ultimo; da ogni terzo atomo di carbonio sporge poi dalla catena un residuo dei diversi aminoacidi (indicati con il nome di catene laterali) che, grazie alla loro natura chimica, al loro numero e alla loro disposizione localizzata nella sequenza caratterizzano la proteina stessa; ora, la struttura primaria della proteina è data da una sequenza d’aminoacidi (ch’è specifica per ogni proteina), mentre la sua struttura secondaria è data dall’esistenza, in porzioni consecutive della stessa catena peptidica, di legami idrogeno tra i gruppi NH e CO che la portano a una torsione nello spazio ch’assume una configurazione finale ad elica (e con le citate catene laterali disposte all’esterno); queste eliche possono poi ripiegarsi nello spazio a tre dimensioni secondo tre modalità, cioè o affiancate l’una all’altra in senso longitudinale, o intrecciate l’una all’altra in spire, o avvolgersi, infine, con morfologie a sfera o ellissoidi, con la clausola ch’ogni specie proteica deve ripresentare poi sempre la stessa modalità di ripiegamento spaziale adottata; per quanto riguarda, infine, gli acidi nucleici, essi sono di due tipi, l’acido desossiribonucleico, o DNA, ch’è il depositario del patrimonio genetico contenuto in ogni cellula ed è costituito da due filamenti (complementari) avvolti a doppia elica, e l’acido ribonucleico, o RNA, che presenta una solo filamento (e intendendo con filamento la catena polinucleotidica d’una molecola di DNA o RNA,  cioè polimeri formati da molti nucleotidi, e dove un nucleotide è formato dalla combinazione di tre molecole, una di acido fosforico o gruppo fosfato, P, una di zucchero pentoso, vale a dire a cinque atomi di carbonio, ch’è presente come ribosio nell’RNA e come desossiribosio nel DNA, Z, e quattro contenenti azoto e chiamate basi, o basi azotate, B (esse sono l’adenina, la timina, la guanina e la citosina), tre di loro uguali nel DNA e RNA e una diversa per ogni acido nucleico, v. infra; il filamento è poi una catena in cui ciascuna molecola P si alterna con una molecola Z e dove a ogni Z è attaccata una B disposta in modo da sporgere nel filamento, come mostra la figura seguente:

[…]

) e ch’è responsabile della trascrizione e della traduzione del messaggio genetico (quest’ultimo presenta tre diverse tipologie, pari a tre diverse conformazioni spaziali, l’RNA messaggero, mRNA; l’RNA ribosomiale, rRNA, e l’RNA di trasferimento, tRNA; v. infra); la struttura fondamentale di questi acidi nucleici è data, come sopra visto, da un filamento in cui sono presenti molecole di uno zucchero che s’alternano a gruppi fosfato (lo zucchero presente nel DNA è il desossiribosio e nell’RNA il ribosio, v. supra), legata poi a una base azotata (che nel DNA s’appaia da una filamento all’altro e rende complementari i due filamenti. A questo proposito, si deve sapere che l’alfabeto genetico, ch’è uguale in tutti i viventi (che è dire che si presenta lo stesso tipo d’acidi nucleici, DNA e RNA, che dà poi origine a genomi tra loro diversi, cioè a ordinamenti e strutturazioni dell’alfabeto diversamente assemblate e articolate, in quanto è diversa l’informazione genetica necessaria a implementare da una cellula duplicata un organismo vivente che deve a sua volta duplicarsi) è dato da quattro nucleotidi, che contengono l’informazione ereditaria,, segnati con le lettere A, T, G, C, che indicano, rispettivamente le già citate adenina, tiamina, guanina e citosina, che s’assemblano a coppia su ogni filamento con una sintassi obbligata (imposta dai legami chimici), ch’è replicata in ogni vivente, in cui A s’associa con T e G con C, per cui se un filamento mostra, per ipotesi, la sequenza ATGGTGC, l’altro avrà TACCACG); la sequenza con cui sono disposte le basi azotate contiene le informazioni presenti negli acidi nucleici, ed è questa la sequenza ch’è interpretata dalla cellula come una sequenza d’aminoacidi e che permette poi alla cellula la sintesi delle proteine (l’interpretazione s’attualizza grazie a un codice genetico ch’è identico in tutte le cellule di tutti gli organismi viventi, e una cellula legge e interpreta solo quei geni che hanno le informazioni che le sono necessarie per potere svolgere la sua specifica funzione, ma prima che una cellula possa leggere/interpretare/tradurre un gene è necessario che venga effettuata una copia nel nucleo e che i due filamenti del DNA si separino in modo che le coppie A/T e G/C siano separate giusto nel punto in cui si trova il gene da leggere, ed è a questo punto che in pochi secondi un duplicatore situato nel nucleo, l’RNA polimerasi, utilizza uno dei due filamenti come stampo per copiare la sequenza di A,T, G e C specifica, con la differenza che nella sequenza di lettere nella copia le timine sono rimpiazzate dall’uracile, U, come dire che la sequenza originale di partenza si compone di A, T, G, C, mentre la copia presenta A, U, G, C, una sequenza che non è più composta dal DNA, ma bensì dall’RNA, copia ch’è poi spostata al di fuori dal nucleo cellulare dov’è utilizzata dai ribosomi che leggono la copia del gene, lettura ch’implica che in una catena di basi, cioè in un gene di numero variabile da 500 a diverse centinaia di migliaia, la lettura consequenziale ne sia effettuata con tre lettere per volta, per esempio se una copia ipotetica presenta una catena composta da GUGCAC, i ribosomi leggeranno i sintagmi GUG e CAC in sequenza, dove ciascuna sequenza a tre, detta codone, o tripletta, rappresenta un dato e determinato aminoacido, e quando i ribosomi leggono una copia del gene per triplette sanno quale dei 20 α-aminoacidi, v. supra, è associato ad ogni codone, cioè, per continuare l’esempio, che GUC corrisponde alla valina e CAC alla istidina o CTA la leucina; ora, è quest’interpretazione, quella che permette alla cellula di tradurre i codoni  in aminoacidi, ch’è detta codice genetico e va da sé che un solo errore di trascrizione nella copia del gene può generare una proteina difettosa, cioè una sequenza di aminoacidi, detta mutazione, in cui uno è errato, con le conseguenze negative del caso (o positive, se la mutazione porta a un miglioramento nella formazione della proteina, con la possibilità che l’organismo mutato la trasmetta); si ricorda, ancora, che ogni nucleo di cellula contiene, avvolti su delle particelle di natura proteica, o nucleosomi, poi riavvolte con il DNA, quasi due metri di DNA, lunghezza che corrisponde a 3,2 miliardi di lettere sufficienti a consentire 103 480 000 000 possibili combinazioni, e se si tiene conto del fatto che il nostro corpo contiene ca. 10 000 trilioni di cellule s’arriva alla cifra ch’indica quanto DNA possediamo, ca. 20 000 000 di chilometri; il 97% del DNA contenuto nella cellula non è pero soggetto a trascrizione, cioè non è codificante, e non si sa, a tutt’oggi, quale sia il suo ruolo, tanto che comunemente lo si chiama DNA spazzatura, junk DNA; l’intera informazione genetica che caratterizza ogni organismo vivente, suddivisa in unità ereditarie distinte dette geni, che nell’organismo umano sono ca. 35-40 000, e codificata dal DNA, ci dà poi il genoma); sono gli acidi nucleici che presentano dunque i geni, cioè i tratti che contengono l’informazione genetica e la sua traduzione operativa, geni (ereditabili) il cui ruolo è poi quello di presiedere al metabolismo della cellula, alla regolazione della sintesi delle proteine e al controllo coordinato delle cellule, infine, dei processi di divisione cellulare, cioè della crescita dell’organismo, di un tutto superiore sì alle parti che lo compongono, ma che non esisterebbe senza la multiprocessualità coordinata delle reazioni chimiche che s’è cercato di descrivere (per inciso, con metabolismo s’intende l’insieme delle reazioni chimiche e degli effetti della richiesta energetica concomitante alle reazioni e pari alle trasformazioni delle sostanze, reazioni che avvengono nelle cellule e nei tessuti degli organismi, animali o vegetali che siano, e che ne permettono la conservazione e il rinnovamento in un ciclo vitale). Ripetiamo, per amore di comprensione, tutto il processo attraverso tre figure (in gioco c’è una cellula del corpo umano), a ognuna delle quali segue una spiegazione.


Figura n.   . Fonte: Altschuler, 2005, p. 132.

Il nucleo di ciascuna cellula contiene 23 coppie di cromosomi, nei quali è contenuto il genoma (gli istoni, in figura, sono un gruppo omogeneo di proteine semplici a carattere basico che costituiscono la struttura dei cromosomi, o proteine strutturali su cui s’avvolge il filamento a doppia elica del DNA).

Figura n.   . Fonte: Altschuler, 2005, p. 150.

Salvo le cellule germinali (o gameti, che presentano un numero cromosomico aploide, cioè con una sola serie di cromosomi, uguali nella femmina, XX, e diversi, XY, nel maschio), ogni cellula contiene 23 coppie di cromosomi (cioè è diploide); ogni cromosoma e costituito da una molecola di DNA avvolta e condensata in una matrice proteica; ogni filamento di DNA è poi un polimero (vale a dire una struttura composta di più elementi analoghi) naturale formato da un catena di nucleotidi, ciascuno dei quali comprende un gruppo di fosfati, uno zucchero (desossiribosio) e una base azotata (adenina, tiamina, citosina e guanina, A, T,C e G); il DNA si presenta sotto forma di una doppia elica estremamente regolare, nella quale un filamento s’unisce all’altro attraverso un legame idrogeno tra le coppie adenina e tiamina, A-T, e citosina e guanina,  G-T; ciascun filamento della doppia elica funge da stampo per la sintesi d’un nuovo filamento, e la replicazione produce due doppie eliche figlie tra loro identiche, ciascuna delle quali e la copia esatta dell’unico DNA parentale.


Figura n.   . Fonte: Altschuler, 2005, p. 45.

Nel nucleo d’una cellula, l’RNA è prodotto per trascrizione, in un processo simile a quello di replicazione del DNA; l’RNA sostituisce però il desossiribosio con un altro zucchero, il ribosio, e la timina con un’altra base, l’uracile, U, ed è di solito formato da un solo filamento; un tipo di RNA, l’RNA messaggero, o mRNA, trasferisce nel citoplasma della cellula le istruzioni per la sintesi proteica contenuta nel DNA; qui ciascun codone dell’mRNA, attaccandosi in modo temporaneo a un organulo citoplasmatico, il ribosoma, si lega (sotto forma di RNA ribosomiale, o rRNA, non designata in figura) a una forma specifica di RNA di trasferimento, o tRNA, contenente un codone di basi complementari e il tRNA, a sua volta, trasferisce un singolo aminoacido nella catena proteica in formazione, come dire che ciascun codone determina in modo univoco l’aggiunta d’un aminoacido alla proteina.
Ciò detto, ritorniamo al problema, cioè a cosa ha permesso l’incoatività di questo processo, illustrandone da un punto di vista statistico le modalità di autoformazione spontanee (che di qui bisogna partire) usando l’esempio del collàgene, una comune e abbondante proteina ch’è costitutiva delle fibre del tessuto connettivo, osseo e cartilagineo nei vertebrati, e ch’è formata da tre catene polipeptidiche (ciascuna delle quali lega ca. 1000 aminoacidi), cioè da tre filamenti che spazialmente s’avvolgono uno sull’altro a formare una tripla elica; ora per arrivare a sintetizzare il collagene sono necessari 1055 aminoacidi, dati, questi, in una sola ed unica sequenza prestabilita (cioè corretta), e le probabilità che questa sequenza s’autoassembli spontaneamente sono a dir poco molto basse, per non dire nulle; per valutare cosa vuol dire l’occorrenza di 1055 aminoacidi in sequenza corretta, ci s’immagini una slot machine che, invece di 3 o 4 ruote, ognuna con pochi simboli in rotazione, ne abbia 1055 e che ogni ruota abbia ben 20 simboli (uno per ogni L-α-aminoacido), e ci s’immagini, ancora, quante volte sarà necessario abbassare la leva affinché 1055 simboli si presentino nella sequenza corretta (tenendo fermo il numero dei simboli per ruota e facendo i conti con soli 200 ruote, la possibilità che si sistemino tutti in una sequenza prescritta è di 1 seguito da 260 zeri, 10260); ecco perché spiegare una presunta capacità della materia inorganica ad essere creatrice di vita è difficile, tanto che le teorie che la spiegano sono solo tentativi, e tra queste un gruppo segue un orientamento evolutivo che vede prima la cellula e, a seguire, le proteine e gli acidi nucleici, mentre un’altra teoria segue un processo evolutivo inverso che parte dagli acidi nucleici, passa attraverso le proteine e arriva alle cellule; in ogni caso s’arriva o si parte per arrivare a un qualcosa ch’è portatore d’istruzioni d’autorganizzazione in strutture ordinate, e questo qualcosa non è per niente facile da realizzare, ai limiti dell’impensabile se si valorizza il fatto che non è sufficiente la sequenza corretta degli aminoacidi perché, quand’anche avesse raggiunto questa complessità, la proteina non servirebbe a niente se non fosse in grado di riprodursi, cioè se non si chiamassero a concorrere le capacità di replicazione del DNA, che sarebbe a sua volta inutile se non ci fossero le proteine e la messa in cellula del materiale genetico; per cui, è difficile sapere quale sia stata la meccanica spontanea di quest’inizio che ha permesso l’imponderabile formazione di composti organici (cioè di molecole formate da atomi di carbonio legati a elementi quali l’idrogeno, l’ossigeno e l’azoto, con l’aggiunta di zolfo, fosforo, calcio e ferro), la possibilità della loro autoreplicazione e, infine, l’integrazione in una cellula del materiale genetico, e questo anche supponendo un metabolismo primigenio che si sia evoluto con un’archeoatmosfera riducente in una zuppa primordiale grazie a forme molecolari che si sono accumulate per sintesi, oppure che si sia evoluto nei fondali oceanici nei pressi delle bocche termali, ad alte temperature e pressioni, sulla superficie dei minerali di pirite, il tutto dovuto a un processo di riduzione del diossido di carbonio contenuto nelle acque, dunque grazie a un’interfaccia tra un solido e un liquido che ha garantito le reazioni chimiche necessarie, ossia la fissazione del carbonio con un metabolismo di superficie (ipotesi, queste, avanzate secondo la logica di formazione cellule/proteine/acidi nucleici); la figura seguente mostra uno di questi ambienti estremi (queste bocche vulcaniche dei fondali oceanici sono soprannominate spesso come fumarole nere perché i minerali disciolti nell’acqua condensano e formano nubi nere non appena l’acqua che li trasporta si scontrano con l’acqua fredda che li circonda):


Figura n.  . Fonte: Clark, 2010, p. 127.

Oppure che il metabolismo primigenio si sia evoluto grazie al ruolo giocato dai microcristalli inorganici contenuti nell’argilla che hanno preceduto la comparsa degli acidi nucleici, microcristalli in cui gli ioni dei metalli sono portatori d’una informazione genetica, cioè autoreplicantesi, come lo saranno, a seguire, le basi nucleotidiche d’una molecola di RNA (e in grado di dare teoricamente origine, nell’interazione con delle molecole intrappolate nell’argilla, a materiali protorganici a loro volta autoreplicantesi secondo le regole imposte dall’argilla madre), oppure grazie a un avvio semplificato in presenza di pochi aminoacidi e pensando che in grado di autoreplicarsi, in un ambiente complesso, sia stata inizialmente una forma di RNA, cioè un polimero ch’assolve e la funzione degli acidi nucleici (cioè quella d’essere i depositari dell’informazione da replicare) e, in pari tempo, quella delle proteine (ossia quella di permettere la catalizzazione), simultaneità che risolve il problema se si sia evoluta prima l’informazione genetica o la catalisi (ipotesi, queste ultime, avanzate secondo la logica di formazione acidi nucleici/proteine/cellule); nell’assenza di certezze, s’accetti dunque il caso dell’ultima teoria citata, vale a dire che una forma di vita che presenti come struttura di base una forma primitiva, dovuta a reazioni prebiotiche, di RNA sia più semplice da realizzarsi, e che questa sorta di paleo-RNA possa non solo replicarsi, cioè creare copie di se stesso, ma, primo, possa trasmettere anche (in pari tempo) alle copie la capacità di replicarsi sfruttando i prodotti fisico-chimici dell’ambiente circostante (come dire che questo paleo-RNA si presenta come molecola in grado e di autocatalizzare, cioè autoaccelerare, la propria sintesi e di contenere l’informazione genetica, cioè di presentare contemporaneamente capacità metaboliche e ereditarie, genetiche, senza l’ausilio d’una proteina); secondo, può presentare una transizione evolutiva (dovuta forse alla cooperazione fra paleo-RNA ad assemblarsi in rete, secondo la logica che A aiuta B ad autoassemblarsi, B aiuta ad assemblarsi C e C aiuta A, cioè creando efficienti cicli d’autoassemblaggio e di selezione cumulativa e adattativa capace, per esempio, d’associarsi con proteine attraverso un rapporto parassitario prima, mutualistico e capace d’equilibrio stabile poi, cioè omeostatico, attraverso dispositivi capaci di regolare il variare delle condizioni esterne in quanto finalizzate a uno scopo previsto dal programma di funzionamento stesso) passando dallo stato di precursore ancestrale del materiale genetico a RNA e, a seguire, di DNA, ossia di passare a una modalità biochimica dominata dalle proteine, cui spettano compiti metabolici e strutturali, e in cui RNA e DNA hanno il ruolo d’immagazzinare ed elaborare l’informazione genetica ereditaria; in ogni caso, supposto che prima di questi batteri sia esistita un’archeologia chemiosintetica che s’è manifestata prima dell’esistenza delle cellule procariote e eucariote da noi conosciute (anche se oggi, più che la dicotomia Procarioti/Eucarioti che si basa sulla morfologia percepita degli organismi, cioè nella suddivisione tra cellule semplici e cellule complesse, si preferisce la tricotomia basata sulla comparazione, non percepibile con l’osservazione diretta, delle sequenze molecolari di RNA ribosomiale, tricotomia data dagli Eubatteri, Bacteria, che con linguaggio comune, si chiamano batteri; dagli Archeobatteri, Archaea, che non sono organismi procarioti né eucarioti e sono così chiamati perché, come visto, vivono in habitat con condizioni di vita estreme, e dagli Eucarioti, Eukarya, ossia quelli che comprendono gli organismi pluricellulari; questi tre domini, in cui i primi due, calcolando tutta la massa degli esseri viventi, dai batteri alle piante e agli animali, cioè a livello di biomassa, sono più dell’80%, sono poi illustrati dall’albero filogenetico universale della vita raffigurato a seguire, in cui gli uomini rientrano negli animali, Animalia, cioè in un frammento collaterale di un misero 20% che totalizza la biomassa degli animali e anche quella di tutte le piante, Plantae, e dei funghi, Fungi, a sottolineare che la più estesa biodiversità sulla Terra appartiene ai batteri e agli archeobatteri, e senza dimenticare che questi sono stati dominanti per più della metà della vita sulla Terra, cioè ben 2 miliardi d’anni e ch’è necessario aspettare un altro miliardo d’anni per vedere animarsi la storia evolutiva degli Eukarya, cioè la nascita di nuovi taxa:


Figura n.  . Fonte: Creative Commons)

e che ciascuna delle linee cellulari appena citate sia evoluta da primo organismo ancestrale  cellulare che avrebbe utilizzato l’RNA, come mostra la somiglianza nella biochimica di tutte le cellule odierne (infatti, dal punto di vista della filogenesi, con rare eccezioni, il codice genetico è il medesimo dagli organismi semplici a quelli complessi, e lo stesso dicasi del processo di sintesi delle proteine; quello che cambia è il genoma, le cui differenze si presentano tra specie diverse ch’evolvono da un antenato ancestrale, tanto che si confrontano uno ad uno i nucleotidi del DNA di geni corrispondenti nelle diverse specie s’ha una misura del loro grado di parentela, e più la differenza è piccola, più la parentela è avvicinata), e che avrebbe dato origine all’evoluzione attuale dei tre domini sopra citati e ch’è conosciuto con il nome di progenote; quest’ultimo antenato comune universale (Last Universal Common Ancestor) che sta alla base dell’albero evolutivo è una cellula ancestrale che sarebbe vissuta nei fondali oceanici nei pressi d’una zona tettonicamente attiva e vulcanica da dove, a tutt’oggi, fuoriesce da delle fenditure dell’acqua alcalina fortemente riscaldata e povera di particelle cariche, o protoni, che si mescola all’acqua oceanica che, invece, n’è ricca, ed è in quest’ecosistema, cioè nei pressi di queste bocche geotermiche o idrotermali, che una cellula avrebbe elaborato una membrana porosa capace di sfruttare il differenziale di concentrazione dei protoni per produrre una molecola d’ATP, cioè l’adenosina trifosfato, che è l’energia che serve per i processi metabolici della cellula (v. infra), membrana ch’appunto avrebbe utilizzato la sua porosità per regolare il flusso in entrata e in uscita dei protoni; il passo successivo sarebbe stato quello d’una colonizzazione d’altri ecosistemi ch’avrebbe portato alla modificazione della membrana in vista d’una diversa modalità di produzione d’ATP per il tramite d’una diversa pompa protonica in grado d’espellere i protoni e consentirne il flusso, dunque archeobatteri e batteri, il passaggio dagli ambienti alcalini a quelli acidi e via via a seguire; oppure, è un’altra ipotesi, che agli inizi della vita vi sia stato non un organismo ancestrale, bensì una comunità d’organismi che ha sfruttato la meccanica del trasferimento genetico orizzontale per scambiare materiale genetico che ha reso possibile una condivisione dell’informazione genica, cioè un superorganismo con un unico pool genico che scompare quando un solo organismo sfrutta la meccanica del trasferimento genetico verticale, cioè il meccanismo dell’ereditarietà ch’implementa processi di selezione e competizione, ossia ancora una volta un progenote, un organismo ancestrale; progenote che, per riassumere il percorso in uno schema, avrebbe dato vita ai primi organismi ch’utilizzano materia bioinerte (attraverso un processo d’abiogenesi o per panspermia, impossibile deciderlo) per generare l’RNA che, diventata la prima molecola in grado di autoreplicarsi, ha sviluppato organismi con genoma a RNA e sistemi biochimici relativamente semplici che, a loro volta, si sono evoluti in organismi più complessi in grado di sintetizzare proteine e, infine, in cellule con genomi a DNA e apparati biochimici complessi; ebbene, organismi che si possano far risalire a questa genealogia biochimica sono stati ritrovati in rocce che risalgono a 3,85 miliardi d’anni fa, a ridosso della formazione della crosta terrestre, e presentano la forma più arcaica di vita cellulare finora ritrovata; si tratta d’organismi unicellulari eterotrofi (cioè inadatti a sintetizzare in proprio composti organici) capaci di ricavare energia per il loro metabolismo da reazioni chimiche inorganiche (cioè attraverso la trasformazione di composti dello zolfo) e di vivere in condizioni anaerobiche ed estreme; in condizioni anaerobiche perché, come detto sopra, dovrebbero vivere  senza ossigeno, allora non dato in un’atmosfera ricca di diossido di carbonio (e la cui assenza, per non avvenuta ossidazione, avrebbe dovuto favorire questi processi di formazione abiotica della vita); in condizioni estreme perché gli habitat che dovrebbero permettere la vita di questi che sono batteri a tutti gli effetti manifestano, a dire poco, l’essenza dell’inospitalità; nell’impossibilità di descrivere quest’inospitalità d’epoca, si può fare un elenco di queste condizioni estreme oggi per averne un’idea, ciò che ci porta a parlare dell’assenza di luce solare (propria a organismi viventi al di sotto della soglia della cd. zona fotica situata a 200 m); delle temperature molto basse o molto elevate (da -20 °C fino a un massimo di 120 °C); delle acque con alti gradienti di salinità, o con pH alto, cioè acide, o sature di zolfo (dunque con un metabolismo fondato sulla chemiosintesi e non sulla fotosintesi), degli ambienti sotterranei ad alte pressioni; per  continuare l’esempio, oggi abbiamo archeobatteri in grado di vivere nelle pareti delle bocche idrotermali, buie, calde fino a 350-400 °C e ad altissima pressione, sul fondale degli oceani, oppure nelle profondità dei ghiacci antartici, in assenza d’acqua liquida, o in rocce profonde della litosfera riscaldate da processi geotermici, giacché s’è scoperto (ora come allora) che fintanto che ci sono acqua allo stato liquido e una fonte d’energia chimica, e quale che sia il gradiente d’ostilità d’un habitat, c’è possibilità di vita stabile (attualmente, infatti, ci sono organismi che possiamo immaginare simili ai paleobatteri d’allora, cioè i citati archeobatteri, quali gli ipertermofili, che vivono ai limiti dei 121 °C, e che morirebbero se la temperatura dell’acqua che li circonda scendesse al di sotto dei 90 °C; i criofili, che vivono fino ai limiti dei -20 °C; gli alofili, che vivono in ambienti altamente saturati di sale; gli acidofili, che vivono in pH alti; i barofili, che vivono sottoposti a pressioni superiori a mille atmosfere, i litotrofi che si cibano dei minerali contenuti nelle rocce, le Halomonadaceae che incorporano arsenico nel loro DNA etc., cioè tutta quella categoria d’organismi, oggi detti anche estremofili, che trova in queste condizioni di passaggio dalla non vita alla vita il suo ecosistema o habitat congeniale e che ci permette, come detto, d’immaginare o d’esemplificare quale può essere stato il passaggio dalle cellule più semplici a quelle più complesse); ora, si presume che questo mondo, in cui questi batteri sono l’unica forma di vita, abbia avuto una durata di poco meno d’un miliardo d’anni e che solo 3,1 miliardi d’anni fa si siano evoluti, nelle acque al di sopra della litosfera, degli organismi capaci di sfruttare l’energia solare, la sua radiazione elettromagnetica, attraverso un processo di fotosintesi (e per questo detti fotoautotrofi, autotrofi perché adatti a sintetizzare composti organici a partire da sostanze inorganiche, fotoautotrofi perché utilizzano nel loro metabolismo la luce solare); questi organismi unicellulari, che s’aggregano in colonie o formano filamenti, probabilmente evoluti dai sopra citati batteri (cioè estremofili chemiosintetici e anaerobici d’epoca risaliti nelle acque di superficie), sono detti cianobatteri, e sono organismi (detto in modo semplificato) capaci d’utilizzare l’acqua e il diossido di carbonio come fonte chimica e la luce solare come fonte di energia, di trasformare cioè in materia organica (carboidrati) il carbonio ricavato dalla combinazione di diossido di carbonio e d’acqua e di liberare ossigeno molecolare, O2, come prodotto di rifiuto (in un processo detto di fotosintesi ossigenica), ossigeno che, in quanto più leggero dell’acqua in cui è stato prodotto, si libera poi nell’atmosfera, evento che rappresenta la più importante, e tuttora importante, innovazione metabolica nella storia della vita sulla Terra (fotosintesi che non è però da confondere con quella delle piante, ch’è episodio evolutivo più tardo, v. infra, anche se questa fotosintesi s’è probabilmente evoluta per endosimbiosi quando un cianobatterio ha colonizzato un protista, v. infra). Ossigeno che, nell’arco temporale tra i 2,5 e i 1,75 miliardi d’anni fa, si lega chimicamente con il ferro per formare ossidi ferrici ch’arrivano a rilasciare, sui fondali degli oceani, dei depositi a strati di rocce ferrose; oltre a ciò, le colonie di cianobatteri, riuscendo a intrappolare nei loro tappeti mucillaginosi, e non solo nei fondali bassi, microparticelle di residui carbonatici (carbonato di calcio) e residui organici, sono poi in grado di cementare il tutto, strato su strato, in loco formando delle strutture che saranno poi sedimentarie per diagenesi (v. supra) e denominate Stromatoliti, una specie di roccia calcarea viva che si sviluppa in modo estremamente lento (in verticale durante il giorno, cioè a contatto con la luce, in orizzontale la notte; si stima che un metro quadrato di queste rocce riesca a contenere una colonia di ca. 3 miliardi di cianobatteri e che per arrivare a un metro d’altezza siano necessari due miliardi d’anni) che dà origine a un mutuo rapporto di vantaggio fra i cianobatteri che vivono in superficie e i batteri, oggi archeobatteri, che vivono nei fondali, di fatto il primo ecosistema nella storia della Terra. Esauriti i legami chimici dell’ossigeno con i minerali riducibili (tra cui dominante è il ferro) disponibili negli oceani, il nuovo ossigeno molecolare di scarto prodotto dai cianobatteri si rende disponibile e inizia ad accumularsi nell’acqua degli oceani e a diffondersi nell’atmosfera ossidando in pari tempo i minerali riducibili anche sulle terre emerse, aumento in percentuale dell’ossigeno nelle acque che provoca poi la prima grande estinzione di massa (v. infra), quella degli organismi anaerobi che si riducono quindi alla categoria degli estremofili adattatasi a vivere nelle nuove condizioni; nell’atmosfera l’ossigeno modifica l’atmosfera primigenia con la sua permanenza e con l’ossidazione del metano a diossido di carbonio che, avendo un effetto serra (cioè surriscaldante) inferiore a quello prodotto dal metano, e a fronte d’una radiazione solare più debole dell’attuale (v. supra) partecipa a un raffreddamento che sfocia in una glaciazione che s’estende su tutta la Terra (tra 2,4 e 2,1 miliardi d’anni fa); a seguire, affinché quest’ossigeno prodotto per fotosintesi sia in grado di modificare la troposfera è stato necessario il trascorrere di 1,5 miliardi d’anni (e s’è passati dallo 0,1% d’ossigeno presente nell’atmosfera a percentuali pari o superiori al 10%; oggi l’ossigeno, come sopra detto, è al 21%), dopo di che, a partire da 800-600 milioni d’anni fa si sono presentati nei mari degli organismi pluricellulari (ciò che rappresenta uno dei più importati passaggi evolutivi nella storia della vita sulla Terra), cioè degli organismi in grado di sfruttare l’ossigeno (o specie aerobie) per trasformare i nutrienti  e ricavarne dell’energia ch’è decisamente superiore a quella utilizzata dalle specie anaerobie, di fatto la possibilità d’evolversi degli organismi Eucarioti (fino all’uomo), il tutto nel mentre nella stratosfera si forma la fascia d’ozono in grado di preservare queste forme di vita dall’azione distruttiva (o mutagena) dei raggi ultravioletti provenienti dal Sole (v. supra); solo 400 milioni d’anni fa ca. questi organismi marini hanno iniziato a colonizzate le terre emerse dando origine a altre forme di vita; ed è qui necessario un inciso che valorizzi i termini procariote e eucariote e di ciò che sta alla base del tutto, la nozione di cellula; partiamo dalla chimica della cellula, chimica che si basa prevalentemente sui composti del carbonio, su molecole organiche quali le proteine, i carboidrati, i lipidi e gli acidi nucleici  e si fonda quasi esclusivamente su reazioni chimiche che hanno luogo a temperature normali in soluzione acquosa, come dire che la cellula è composta da un’alta percentuale d’acqua (da poco più del 50% fino al 98%), e il restante da molecole proteiche (che comprendono proteine strutturali ed enzimi), da carboidrati (da cui si ricava l’energia necessaria alla vita della cellula), da lipidi, che costituiscono una riserva d’energia; da acidi nucleici, che controllano i meccanismi ereditari della cellula, cui s’aggiungano molecole organiche più semplici e ioni inorganici; carboidrati, proteine, lipidi e acidi nucleici, sono dunque le impalcature che sostengono le cellule, cioè il vivente, e sono poi tutte molecole organiche, o biomolecole, legate, come detto, al carbonio; i carboidrati (detti anche zuccheri o, più correttamente, glucidi o glicidi) sono composti di carbonio, idrogeno e ossigeno, e sono, nella maggio parte, multipli pentagonali o esagonali di CH20, per esempio il ribosio ne ha cinque, C5H10O5, il glucosio sei, C6H12O6, e possono comporre lunghe catene di molecole dette polimeri, ciascuna delle quali prende il nome di monomero, diffuse sia nel mondo vegetale (saccarosio, amido, cellulosa etc.) che in quello animale (glicogeno, chitina etc.); sono poi sia zuccheri semplici, sia polisaccaridi, cioè lunghe catene di molecole di zuccheri; i lipidi (o grassi), composti anch’essi di carbonio, idrogeno e acqua come i carboidrati, ma con una diversa distribuzione numerica e spaziale, per esempio quelli semplici sono formati da lunghe catene d’atomi di carbonio terminanti sempre con il gruppo –COOH, detto, come visto, gruppo carbossilico, e tra essi i trigliceridi, i fosfolipidi (costituenti fondamentali della membrana plasmatica) e il colesterolo (che partecipa alla formazione della membrana e capostipite di composti chiamati ormoni; infine, le già citate proteine, polimeri in cui oltre a carbonio, idrogeno e ossigeno, si trova anche azoto, formate dall’unione di molte subunità, dette aminoacidi (v. supra) e gli acidi nucleici; ogni cellula, negl’organismi pluricellulari, è indipendente dalle altre, ma non isolata in quanto le cellule, da un lato, si riconoscono e interagiscono per mezzo di proteine presenti nella loro membrana esterna e, dall’altro, sono in movimento grazie a una fitta rete di filamenti proteici con proprietà contrattili che costituiscono il citoscheletro e a strutture specializzate, quali ciglia e flagelli; la cellula degli animali, in sé e per sé, è poi l’unità elementare alla base delle funzioni e del modo di funzionamento degli organismi viventi (animali e vegetali; ma quella specifica delle piante sarà descritta a seguire), per esempio estrarre energia dai nutrienti, assemblare strutture, eliminare i prodotti di scarto, respingere le aggressioni provenienti dal suo esterno, inviare e ricevere messaggi, effettuare riparazioni (tanto per dare un’idea di questo ultimo aspetto, il DNA è attaccato da agenti chimici ogni 8,4 secondi, 10 000 volte al giorno, lesioni che sono poi suturate nella cellula da un enzima, la DNA polimerasi), e presenta  dimensioni che vanno da 1 µm a qualche centimetro di diametro (come mostra, per avanzare un esempio tra gli esseri umani, la grandezza dell’ovulo, il gamete femminile, ch’è più grande di 85 000 volte, ca.0,16 mm, uno spermatozoo, il gamete maschile, che presenta nella coda una lunghezza di ca. 50 μm e nella testa ha il diametro di 4-5 μm), mentre in alcune cellule, come in quelle nervose, i prolungamenti filamentosi possono crescere fino alla lunghezza di un metro; prendendo sempre ad esempio l’uomo, le cellule alla nascita sono ca. 10 000 trilioni, ma difficilmente una cellula può vivere per più d’un mese, sebbene esistano vistose eccezioni, come quelle del fegato, dette epatociti, che possono sopravvivere per anni, mentre le cellule del cervello, i neuroni, durano tutta la vita (anche se le componenti interne di epatociti e neuroni sono sostituite dopo pochi giorni); la cellula, ancora, è costituita da varie parti, una membrana che delimita la cellula, un nucleo al centro delimitato a sua volta da una membrana e alcune sostanze che stanno tra le membrane (il citoplasma) e altre presenti all’interno del nucleo; nello specifico, nella parte centrale denominata nucleo (assente solo nei globuli rossi del sangue) si trova una matrice ialina (un succo nucleare d’aspetto vetroso), la cromatina data da un insieme di DNA e di proteine cromosomiche che durante la mitosi e la meiosi (v. infra) darà origine al materiale genetico organizzato in cromosomi, uno o più nucleoli costituiti in prevalenza di RNA e, infine, una delimitazione data da una membrana porosa (detta membrana nucleare) che consente, per mezzo di pori (di diametro variabile fra 250 e 1000 Å), gli scambi (non indiscriminati, ma di sostanze filtrate), e quindi la coordinazione funzionale tra il nucleo stesso e il citoplasma al suo esterno (i cromosomi sopra citati sono presenti, in numero, forma, grandezza costanti per ogni specie d’animali o di piante, in coppie d’elementi omologhi e il cui costituente fondamentale è il DNA e il loro ruolo è quello di determinare le caratteristiche ereditarie, per esempio nelle cellule degli umani i cromosomi sono 46 e si presentano in 23 coppie, mentre nei gatti sono 76, in 38 coppie; detto altrimenti, sui cromosomi si trovano i geni, cioè come sopra visto i segmenti del DNA sotto forma di sequenza lineare di nucleotidi, lunghi filamenti che dirigono l’informazione genetica per la fabbricazione delle proteine; ogni cellula possiede poi, grosso modo, lo stesso corredo cromosomico); il citoplasma (o citosoma) sta tra le due membrane, cioè è la parte di protoplasma ch’è compresa tra la membrana terminale della cellula, quella che la separa dall’ambiente esterno (membrana plasmatica, o plasmalemma, costituita come detto da fosfolipidi, ossia grassi contenenti fosfati) e la membrana nucleare, e vi si distinguono il citoplasma fondamentale (o ialoplasma, dato da una componente semifluida, il citosol, contenente acqua, sali minerali e molecole organiche) e, inclusi in esso, vari organelli (o organuli, o organiti, quali l’apparato di Golgi per l’impacchettamento e lo spostamento delle sostanze; il reticolo endoplasmatico per il trasporto delle sostanze e come supporto dei ribosomi; i lisosomi, per la digestione di sostanze e l’eliminazione di rifiuti e sostanze estranee ; i vacuoli per l’eliminazione delle sostanze; i ribosomi, per il montaggio delle proteine; e i mitocondri per la produzione d’energia; si sottolinea che questi ultimi, probabilmente, originano da batteri indipendenti rimasti intrappolati in altre cellule complesse ca. un miliardo d’anni fa e poi inglobati in modo indissolubile, v. infra) e differenziazioni specifiche (come le citate ciglia, flagelli, etc.); nel citoplasma, ancora, avvengono reazioni come quelle di glicolisi e quella di fermentazione, importanti per l’ottenimento di energia (sono i mitocondri, infatti, che costituiscono la sede del processo di respirazione cellulare, cioè di captazione dell’ossigeno, mediante il quale la cellula ricava energia, sotto forma di molecole di adenosina trifosfato, o ATP, e questo grazie al metabolismo terminale ossidativo di glucidi, protidi e lipidi, cioè bruciando, in presenza d’ossigeno, le molecole derivanti dalla demolizione delle sostanze nutritive; come dire che i mitocondri rappresentano le fonti energetiche della cellula in quanto, in ciascuno d’essi, si produce e si conserva l’energia chimica ottenuta, come detto, dal metabolismo del cibo e della respirazione e che è l’ATP, dunque, che trasporta e immagazzina l’energia necessaria per i processi metabolici cellulari, per il lavoro biologico dell’organismo, cioè ciò che ci mantiene in vita; infatti, una cellula del nostro corpo contiene ca. 1 miliardo di queste molecole e può sostenere l’attività metabolica solamente per una frazione di minuto, tanto che in soli due minuti queste molecole sono consumate e rimpiazzate dalla rigenerazione d’un altro miliardo d’ATP, così che, per potere vivere, dobbiamo ogni giorno produrre e utilizzare una quantità d’ATP equivalente a ca. la metà del nostro peso corporeo); nel citoplasma, ancora, si trova anche un sistema di filamenti proteici, il citoscheletro, che è coinvolto con numerose funzioni, quali il sostegno della membrana cellulare e il movimento ameboide della cellula; ora, stando all’assioma che tutti i viventi sono formati da cellule, che le cellule costituiscono le unità fondamentali di ciascun organismo e che tutte le cellule derivano da altre cellule, s’arriva alla constatazione che gli organismi viventi possono essere costituiti o da una sola cellula (ch’è in grado, dunque, di funzionare in modo autonomo) o da più cellule o da un numero molto elevato di cellule; in base a questa caratteristica, gli organismi possono essere suddivisi in unicellulari (o monocellulari) e pluricellulari; al primo gruppo appartengono i Procarioti (come detto, eubatteri e cianobatteri, cui sono da aggiungere gli Archaea); al secondo, tra gli Eucarioti, i protisti (v. infra) i funghi pluricellulari, le piante e gli animali che entrano nel dominio degli Eukarya; negli organismi pluricellulari le cellule collaborano poi a formare livelli di organizzazione superiori, vale a dire i tessuti (caratterizzati da cellule specializzate a svolgere determinate funzioni, per esempio, nell’uomo, di rivestimento nella pelle, di contrazione nei muscoli, di conduzione nei vasi sanguigni, di sostegno nell’osso e così via), gli organi (composti da più tessuti, che effettuano anch’essi specifiche funzioni, per esempio, sempre nell’uomo, sono organi interni il cuore, i polmoni, il cervello, il fegato, i muscoli etc.), i sistemi e gli apparati (nei sistemi gli organi simili collaborano alla svolgimento della stessa funzione, per esempio, il sistema muscolare, il sistema nervoso, il sistema endocrino etc.; negli apparati organi diversi interagiscono per il compimento della stessa funzione, per esempio, apparato digerente, con stomaco, fegato, intestino, apparato riproduttivo maschile, con testicoli, pene etc.), infine, l’organismo (si ricorda che ogni elemento di un livello superiore è dotato di capacità che l’elemento al livello inferiore non possiede); in entrambi i casi, unicellulare o pluricellulare che sia, la cellula possiede sempre tutte le proprietà che caratterizzano gli organismi viventi (e, in questo contesto, si sottolinea che non sono considerati viventi, in quanto mancano di metabolismo autonomo, strutture come i virus e i prioni; per esempio, il virus, nanorganismo[1] privo di cellula costituito da un acido nucleico circondato da un rivestimento proteico, è vivo solo all’interno dell’ospite, quando n’utilizza il metabolismo cellulare per produrre altri organismi virali, ossia quando integra i suoi geni in un genoma cellulare e obbliga la cellula ospite a replicarlo; del resto, un semplice batterio ha bisogno per replicarsi di migliaia di geni, mentre a un virus ne bastano anche meno di dieci), vale a dire le capacità di respirazione, nutrizione, assimilazione, demolizione e eiezione degli scarti, accrescimento, riproduzione, reattività (agli stimoli dell’ambiente esterno), cioè la capacità metabolica data dalla chimica e dalle reazioni chimiche che permettono alle cellule di crescere, di produrre energia e d’eliminare le scorie, reazioni che avvengono in presenza di catalizzatori, detti enzimi, costituiti da molecole proteiche; le informazioni necessarie allo svolgimento delle citate attività metaboliche delle cellule sono poi contenute negli acidi nucleici, cioè nell’acido desossiribonucleico, il DNA, che racchiude tutte le istruzioni necessarie alla cellula per riprodursi, cioè per formare copie di se stessa (e ogni cellula contiene una copia completa dell’informazione genetica); DNA che fa poi da stampo per la produzione dell’acido ribonucleico, l’RNA, il quale, sotto forma di RNA messaggero (RNAm), migrando dal nucleo nel citoplasma e interagendo con delle strutture proteiche dette ribosomi, dirige il processo di costruzione delle proteine, ossia determina la sintesi delle proteine, cioè la fabbricazione delle molecole proteiche (i ribosomi sono poi organuli del citoplasma formati da due subunità di un particolare tipo di RNA, o RNA ribosomiale, RNAr, che possono essere associati alle membrane del reticolo endoplasmatico, membrane che funzionano come vie di comunicazione per le molteplici sostanze che circolano nel detto citoplasma; ed è in questo modo ch’avviene la formazione degli enzimi che, a loro volta, permettono lo svolgimento di tutte le attività cellulari [e l’RNAt ?]); per quanto riguarda poi la demolizione dei rifiuti e delle sostanze estranee alla cellula (i batteri e i microbi che attaccano l’organismo), quest’attività è affidata ai lisosomi, sempre organuli del citoplasma derivanti dall’attività dell’apparato reticolare interno (o apparato del Golgi), dati da un insieme d’enzimi capaci di idrolizzare proteine, DNA, RNA e alcuni carboidrati. La riproduzione delle cellule la si ritrova nel fatto che il nucleo di ciascuna di esse (le cellule madri) si divide in due (fatto salvo il fatto che, dopo un numero dato di divisioni una cellula madre va incontro al fenomeno della morte cellulare, o apoptosi, v. infra). Negli organismi procarioti questa divisione cellulare avviene per scissione diretta perché, mentre il DNA si replica, la cellula s’allunga fino a dividersi e a formare due cellule figlie, nelle quali si ripartiscono le due copie del DNA, il che è dire che, poiché il patrimonio genetico si trova disperso nel citoplasma in quanto non è contenuto in un nucleo, ne risulta facilitato il processo di duplicazione. Negli organismi eucarioti il processo di divisione cellulare, o cariocinesi, è più complicato per l’esistenza del nucleo e si differenzia prendendo il nome di mitosi e meiosi. La mitosi, ch’investe tutte le cellule escluse quelle germinali, o cellule somatiche, si ha quando una cellula si divide in due, il DNA si duplica e si ripartisce con estrema precisione e in uguale quantità fra le cellule figlie affinché i nuclei delle due cellule figlie possiedano un corredo cromosomico identico a quello della cellula madre, ivi compresa la replicazione di tutte le componenti intracellulari (cioè il citoplasma e gli organuli) nelle due nuove cellule (fenomeno che prende il nome di citodieresi), che sono poi necessarie al funzionamento delle cellule figlie, come dire che il processo è più complicato perché la duplicazione non è semplice, ma binaria giacché coinvolge tutti gli elementi che vanno a formare la cellula, DNA e nucleo, in modo scalare (cioè prima la mitosi e poi la citodieresi). La capacità di dividersi delle cellule si differenzia poi, negli organismi pluricellulari, tra cellule soggette al rinnovamento, che per tutta la vita dell’individuo sono continuamente sostituite da cellule nuove; cellule in espansione, che smettono di dividersi quando l’organismo ha completato la sua crescita, ma che possono occasionalmente riprendere a dividersi come conseguenza di ferite o traumi, come avviene, negli umani, per esempio, nel tessuto muscolare liscio; cellule statiche, che perdono la capacità di dividersi prima ancora che l’accrescimento dell’organismo sia completo, e ne sono un esempio le cellule nervose; cellule staminali, cioè cellule che nell’organismo mantengono la capacità di riprodursi per tutta la vita rimanendo però indifferenziate, potendo quindi dare luogo a diversi tipi cellulari (queste cellule, infatti, sono in grado di sintetizzare e d’accumulare RNA e proteine fra loro diverse, senza per questo alterare la sequenza del DNA che le caratterizza, come dire che il processo di differenziamento implica un’attivazione/disattivazione selettiva di geni diversi e in una sequenza processuale ch’è programmata al loro interno, tanto che sono potenzialmente capaci di differenziarsi in qualsiasi tipo cellulare), e altre tipologie ancora. La meiosi, ch’è il meccanismo alla base dell’evoluzione, si presenta quando il processo di divisione cellulare conduce alla formazione di cellule (in special modo gameti, cioè spermatozoo e ovulo), in cui è presente un numero di cromosomi dimezzato (numero aploide, n) rispetto a quello di partenza (numero diploide, 2n); detto altrimenti, da una cellula madre diploide, che deriva a sua volta dalla fusione d’un gamete materno (M) e paterno (P), attraverso un meccanismo d’incrocio (o cross-over) o tramite l’assortimento casuale dei cromosomi, si realizzano quattro cellule aploidi fra loro diverse che presentano, ognuna, la metà del patrimonio genetico della cellula madre (n invece di 2n), cioè la ripartizione di ciascuna coppia di cromosomi omologhi, cioè morfologicamente identici, presenti nella cellula iniziale, tanto che le nuove cellule d’uovo diploidi fertilizzate, o zigoti, ereditano le loro caratteristiche da M e da P (per esempio, un gamete aploide standard conterrà cromosomi M, cromosomi P e, ricombinati fra loro, alcuni cromosomi che contengono informazioni derivate sia da M che da P). La meiosi si verifica in tutti gli organismi (animali o vegetali che siano) soggetti a riproduzione sessuale e consente, da un lato, di conservare costante il numero dei cromosomi di una specie, che altrimenti si raddoppierebbe ad ogni fecondazione (se invece di n avessimo in una ipotetica cellula figlia 2n, all’atto della fusione dei due gameti la duplicazione porterebbe a uno zigote 4n e non 2n com’è invece nella fusione dei due gameti ognuno dei quali è in partenza dimezzato, n) e, dall’altro, di rimescolare gli elementi che contribuiscono alla variabilità genetica delle popolazioni e questo perché gli zigoti non sono mai esattamente uguali, dato che un gamete maschile, con la sua specifica e unica combinazione genetica, si fonderà con un gamete femminile, anch’esso con la sua specifica combinazione genetica, per produrre uno zigote diploide 2n che avrà anch’esso una combinazione genetica diversa da quella dei due individui diploidi da cui deriva e diversa da quella di tutti gli altri (fatto salvo il fatto dei gemelli monozigoti). Per inciso, un ovulo contiene sempre un cromosoma sessuale X, mentre lo spermatozoo può contenere o un cromosoma X o un cromosoma Y; pertanto, la fusione dei due gameti nella fecondazione d’ un ovulo con uno spermatozoo che presenta un cromosoma X dà origine ad uno zigote con due X, ossia a una femmina; nel caso contrario s’avrà uno zigote XY, cioè un maschio. Infine, è da sottolineare che la diversità genetica presente in ogni zigote non investe quelle caratteristiche che devono rimanere costanti perché proprie d’ogni specie, per esempio il numero di cromosomi presenti, bensì investe gli stati alternativi d’un gene (due o più) che occupano la stessa posizione, o locus, su cromosomi morfologicamente identici (omologhi) e che controllano variazioni dello stesso carattere e che ciascuna cellula figlia eredita dalla cellula madre, cioè che la variabilità genetica è data dagli alleli (v. infra). In ogni caso, l’assetto cromosomico, cioè il numero, la forma e la dimensione dei cromosomi, o cariotipo, è propria ad ogni specie e nel cariotipo umano il numero diploide di cromosomi caratteristico della specie è 46 (2n); di questi, 44 sono disposti in coppie di omologhi, (sono autosomi), i restanti 2 cromosomi, sessuali, sono eterocromosomi), cioè sono rappresentati da elementi morfologicamente simili nella femmina (XX), diversi nel maschio (XY); pertanto il cariotipo della femmina è 46,XX e quello del maschio 46,XY. Il nucleo sopra citato, dal punto di vista semantico, è di fatto il discrimine tra le cellule procarioti e le cellule eucarioti, in quanto procariote significa prima del nucleo (composto di pro-, dal greco προ-, ch’è prefisso che significa davanti, e di κάρυον, nucleo), mentre eucariote significa dotato del vero nucleo (composto di eu-, dal greco εὐ-, ch’è prefisso che significa buono, vero, e di κάρυον, nucleo); infatti, il Procariote è un organismo unicellulare il cui materiale nucleare non è racchiuso dentro una membrana e in cui manca, nel citoplasma, la compartimentazione delle funzioni cellulari in specifici organuli (a eccezione dei ribosomi, preposti come detto alla sintesi delle proteine), per cui, pur essendo dotato di membrana plasmatica e parete cellulare, la molecola di DNA circolare si trova libera nel citoplasma, pur essendo le funzioni cellulari in ogni caso espletate da complessi enzimatici analoghi a quelli delle cellule eucarioti; la riproduzione nei Procarioti, infine, non avviene per mitosi, ma per scissione (si ricorda che i Procarioti, oltre a non avere un vero nucleo, non hanno nemmeno dei veri cromosomi; il DNA, infatti, non è organizzato in complessi insieme con proteine e non è racchiuso in un involucro membranoso, ma costituisce un cromosoma primitivo centrale, circolare ed eventuali altre molecole d’informazione, più piccole e circolari, dette plasmidi ed è quest’unico cromosoma presente che si divide prima che l’intera cellula batterica si divida in due); mentre l’Eucariote è un organismo costituito da cellule con nucleo ben differenziato (che contiene il DNA e proteine strutturali, dette istoni, solitamente presenti in coppie, in un numero variabile e caratteristico di ciascuna specie; le molecole di DNA, qui lineare, sono molto lunghe e contenenti molte regioni non codificanti e si presentano in forma di bastoncelli, i cromosomi, che portano l’informazione genetica, cioè, come visto, il gene e il genoma; il numero e la forma dei cromosomi dipendono dalla specie) e separato dal citoplasma per mezzo della citata membrana nucleare e caratterizzato dalla presenza di organelli (i già citati lisosomi, il reticolo endoplasmatico, l’apparato del Golgi e i ribosomi); la cellula eucariote è, insomma, suddivisa in aree funzionali in cui avvengono simultaneamente reazioni metaboliche che richiedono differenti condizioni ed è per questa proprietà che risulta più efficiente delle cellule dei Procarioti, prive, come detto, di organuli (esclusi i ribosomi) e di nucleo; ancora, nei Procarioti RNA e proteine sono sintetizzate nella stessa area, mentre negli Eucarioti l’RNA è sintetizzato ed elaborato nel nucleo e le proteine sono sintetizzate nel citoplasma); in linea generale, la fondamentale differenza tra i Procarioti e gli Eucarioti è poi rappresentata dalla loro compatibilità o meno nei confronti dell’ossigeno; i batteri, per esempio, o non riescono a svilupparsi in presenza d’ossigeno o possono sopravvivere solo in presenza d’ossigeno mentre, al contrario, gli Eucarioti non possono sopravvivere e riprodursi in assenza d’ossigeno (fatto, questo, da legare all’aumento dell’ossigeno atmosferico nel momento in cui questi ultimi organismi iniziarono il loro percorso evolutivo), ancora, gli Eucarioti sono fino a 10 000 volte più grandi dei Procarioti e possono contenere una quantità di DNA fino a 1000 volte maggiore; in ogni caso la membrana plasmatica di tutte le cellule racchiude il contenuto della cellula e costituisce una barriera fra l’ambiente intracellulare (cioè l’ambiente interno) e quello extracellulare (l’ambiente esterno) ed è costituita da un doppio strato di molecole fosfolipidiche (la molecola di un fosfolipide e costituita da una testa idrofila, cioè ch’attira i liquidi, e una coda idrofoba, che li respinge, e i due strati sono disposti in modo che s’affrontino le code idrofobe e le code idrofile siano rivolte le une verso l’ambiente acquoso del citoplasma, le altre verso l’ambiente acquoso extracellulare) nelle quali sono interposte molecole di colesterolo e molecole proteiche con differenti funzioni, come quella del riconoscimento e della regolazione del trasporto delle sostanze attraverso la membrana stessa (sia le proteine che i fosfolipidi presentano, infatti, la proprietà di spostarsi lungo la membrana in relazione alle richieste delle cellule, e nel complesso la struttura della membrana è definita a mosaico chiuso); la membrana plasmatica, inoltre, costituisce una barriera semipermeabile, e permette il passaggio selettivo per diffusione di sostanze che si muovono seguendo un gradiente di concentrazione, come dire che permette la regolazione della composizione chimica della cellula (la membrana, insomma, seleziona in ogni caso ciò che può e ciò che non può passare e molte volte partecipa attivamente a queste operazioni di trasferimento di molecole, verso l’interno, o endocitosi, o verso l’esterno della cellula, o esocitosi, consumando energia; il risultato di queste attività d’endocitosi/esocitosi è che molte sostanze si trovano così o solo dentro o solo fuori la cellula, oppure hanno concentrazioni assai diverse all’interno e all’esterno), inoltre la cellula, attraverso la sua membrana, riceve continuamente segnali di vario tipo dalle altre cellule e dal mondo circostante; nello specifico, e fatta salva la clausola che tutti gli organismi viventi hanno in comune un’origine unica e riprendendo in altra prospettiva quanto sopra detto, nell’era Precambriana (o Archeozoica), 3,6 miliardi d’anni fa, sono presenti dei Procarioti, vale a dire, lo si ripete, delle cellule prive di vero nucleo; sempre nel Precambriano, 2,1 miliardi d’anni fa, quando la troposfera è ossigenata a livello sufficiente dai cianobatteri e quando risultano le prime tracce d’ossidazione del suolo (marcatori della assenza/presenza d’ossigeno nelle rocce sono poi la pirite, che si forma in un ambiente chimico riducente, con rarità dell’ossigeno, e l’ematite, Fe2O3, che si forma per ossidazione dei materiali ferrosi, dunque in presenza d’ossigeno), indizi certi, entrambi, d’una quantità congrua d’ossigeno nell’atmosfera (e si risottolinea che sono stati necessari 1,5 miliardi d’anni per raggiungere questo livello, ca. il 40% [controllare] della storia della Terra) ecco che si presentano gli Eucarioti, ossia degli organismi, lo si ripete, con un nuovo tipo di cellula, dotata di un vero nucleo e di organuli (in senso etimologico, piccoli strumenti), e s’ipotizza che questo processo sia iniziato quando alcuni batteri si lasciano catturare da altri microrganismi simili (o li invadono) dando inizio a una convivenza proficua per entrambi che rende possibili forme di vita più complesse; si suppone, infatti, che le prime cellule eucarioti siano comparse grazie all’integrazione tra organismi Procarioti (cioè, nel dominio dei Bacteria, gli eubatteri e i cianobatteri) prima fra loro indipendenti, alcuni dei quali si sono insediati in cellule primitive più grandi, instaurando con esse una simbiosi all’interno del citoplasma, detta endosimbiosi; dagli eubatteri che vivono in simbiosi, o simbionti, v. infra, si sarebbero così evoluti, come sopra detto, i mitocondri, gli organuli citoplasmatici in cui avviene la respirazione ossidativa cellulare (cioè il metabolismo aerobico), mentre dai cianobatteri sarebbero derivati i cloroplasti, gli organuli, simili ai mitocondri, delle cellule vegetali necessari per la fotosintesi clorofilliana (v. infra; e la teoria che sostiene quest’ipotesi, che permette di spiegare perché mitocondri e cloroplasti presentano un DNA indipendente da quello del nucleo è quella procariotica; per amore di precisione, esistono altre teorie riguardo alla formazione delle cellule eucariote, per esempio quella dell’esosimbiosi, o inside-out, che si suppone avvenuta per aggregazione cooperativa forzosa di microorganismi cellulari attorno a un archeobatterio, o quella acariotica e quella ribotica, teorie qui non presentate); la cellula eucariote sarebbe quindi il risultato di una simbiosi che ha coinvolto diverse cellule procarioti e senza questi fenomeni d’endosimbiosi, cioè senza mitocondri e senza cloroplasti (cioè senza organuli che manipolano l’ossigeno per liberare energia e metabolizzare una catena alimentare, organica per i primi, inorganica per i secondi, i quali sono poi alla base della catena alimentare dei primi), la vita sarebbe rimasta confinata in forme decisamente non evolute; le prime forme fossili di organismi eucarioti, monocellulari, risalgono a 2,1 miliardi di anni fa, mentre per quelle pluricellulari bisogna aspettare 680 milioni d’anni fa, nel periodo Proterozoico finale, quando le cellule eucariote s’organizzano e si presentano poi sotto forma d’organismi pluricellulari nel dominio degli Eukarya (tra cui rientreranno a seguire, come sopra detto, anche piante, funghi e animali, cioè la biodiversità tra chi o espelle l’ossigeno o lo assume); infatti, è in questo periodo, dopo che è passato poco meno di un miliardo d’anni, che si passa da organismi costituiti da una cellula eucariotica dotata di nucleo e organuli, cioè da un’organizzazione morfologica e metabolica primitiva (quali la presentano i Protozoi, nel regno animale, e i Protofiti, nel regno vegetale, che costituiscono l’insieme dei protisti), a organismi animali pluricellulari complessi le cui cellule, a differenza di quanto si verifica nei protisti, sono organizzate in strati (cioè in tessuti) e in organi che presentano specializzazioni per diverse funzioni (digestione, movimento, protezione etc.), cioè a organismi che presentano un’organizzazione morfologica e metabolica evoluta. I resti fossili dei più antichi organismi multicellulari risalgono al Cambriano; di tutto quello che precede non è, infatti, rimasta traccia, se non nella cd. fauna di Ediacara, dal nome del sito, in Australia, dove sono stati rinvenuti e studiati, risalente a 670-550 milioni d’anni fa, dove si ritrovano macrofossili di forme pluricellulari (fauna e flora) che richiedono ossigeno per vivere riferibili a organismi dal corpo molle e sottile (per capirci, simili a meduse e foglie) sostenuti da uno scheletro idraulico e privi di strutture protettive, ch’è difficile attribuire, se non approssimativamente, a phyla attualmente esistenti, e probabilmente si tratta d’una radiazione adattativa avvenuta in un breve arco temporale (stando ai tempi geologici) e diffusa sì a livello globale, ma rimasta bloccata da un’estinzione, si presume per anossia dei mari o per la diffusione nel Cambriano d’organismi predatori (qualcuno parla poi, per questi organismi, non di Metazoi, ma di Vendozoi, cioè d’un gruppo a sé). Per inciso, con radiazione adattativa s’intende poi quel fenomeno per cui una categoria morfologica d’organismi, animali o piante che siano, subisce una notevole diversificazione che porta all’emergere di nuove forme (differenziate tra loro e per ruolo svolto nell’ecosistema e per lo stile di vita). I resti fossili del Cambriano, della radiazione adattativa che ci coinvolge, risalgono dunque all’era Paleozoica, ad un arco temporale che si situa tra i 600 e 500 milioni d’anni fa, precisamente a 543 milioni d’anni fa. Infatti, a partire da questa data, e per un periodo durato all’incirca 5 milioni d’anni, si manifesta una biodiversità prima sconosciuta, con un tasso di speciazione 4 o 5 volte superiore a quello attuale (si passa, infatti, da 4 a 50 phyla) e si presentano organismi che, per la prima volta, non necessitano del microscopio per essere analizzati e classificati (e si parla, per questo, di comparsa della vita manifesta), ossia tutti i phyla esistenti o quasi di piante, animali e funghi, e probabilmente questa biodiversità (dove la speciazione fenotipica si lega all’innovazione genomica con ampi gradi di libertà e tolleranza) si può legare al riscaldamento delle acque alla fine dell’era glaciale Varanger (quando la Terra, grazie a un aumento della concentrazione del diossido di carbonio nell’atmosfera, aumento poi legato all’intensificazione delle emissione vulcaniche, smette d’essere una Snowball Earth, v. supra), all’aumento dell’ossigeno nei mari disponibile per organismi aerobici (il livello dell’ossigeno d’epoca nell’atmosfera è poi paragonabile all’attuale), ai mutamenti tettonici che provocano la diffusione d’acque marine poco profonde dove si manifesta una maggiore concentrazione d’ossigeno e la concomitante presenza di nutrimenti che permettono l’avvio d’una catena alimentare, cioè a un ecosistema relativamente vuoto e omogeneo dove piani anatomici (o schemi corporei o Baupläne, singolare Bauplan) inediti hanno buone possibilità di colonizzarlo, ossia di sopravvivere ed evolversi nei movimenti e nelle modalità di predazione (in modo accelerato), nella fase incipiente, dunque, d’una catena alimentare non ancora pienamente dominata dalla competizione (anche s’è vero che gusci ed esoscheletri presenti in questi nuovi phyla incominciano ad indicare strategie di difesa da predatori capaci di visione spaziale, vale a dire modalità di predazione, competizione e difesa già avanzate; infatti, è possibile che le prime forme di guscio, nate come prodotti di secrezione legati ad attività metaboliche, siano diventate escrezioni di difesa in un’evoluzione naturale che vede i predatori efficienti grazie anche ad una nuova area d’intervento permessa da meccanismi percettivi visivi sofisticati, cioè dagli occhi, vantaggio adattivo ch’inizia a legare a sé organismi capaci d’uso mimetico, difensivo o meno, dei colori e delle forme). Sono presenti, tra altre forme viventi, molti gruppi d’invertebrati marini, quali le Spugne (o Poriferi, Porifera; si tratta di specie sessili, cioè ancorate ai fondali anche a grandi profondità che, assieme ai coralli, arrivano poi a formare dei depositi calcarei; sono costituiti d’una parete formata da due strati cellulari ch’incorpora nel mezzo uno strato amorfo che ricopre una cavità interna; la cavità comunica poi con l’esterno grazie a un’apertura principale e a diversi fori dislocati su tutta la parete e l’organismo s’alimenta fagocitando gli alimenti organici presenti in sospensione nell’acqua; la sua riproduzione è o sessuata, o avviene per gemmazione, cioè è asessuata); il phylum dei Molluschi, con le classi di Gasteròpodi (Gasteropoda; privi o con una conchiglia unica) e Cefalòpodi (Cephalopoda, con una conchiglia estremamente ridotta e con tentacoli intorno alla bocca sviluppatisi a partire dalla loro struttura locomotoria, ciò che ne fa dei predatori); gli Anèllidi (Annelida; vermiformi e segmentati, cioè con un corpo costituito da un numero variabile di segmenti successivi fra loro più o meno simili, ad esclusione di quelli estremi, formanti uno la testa e l’altro il segmento anale, ritenuti i progenitori degli Artropodi, v. infra); gli Echinodèrmi (phylum Echinodermata; questi organismi  onnivori che vivono su tutti i fondali, costieri o profondi che siano, in linea di massima sono dotati, da adulti, d’un corpo circolare, provvisto, ma non sempre, d’un ano e, sull’altro lato, d’un apparato boccale da cui si dirama una struttura pentaraggiata di braccia provviste d’un sistema idraulico di canali che, originato da un canale circolare che si trova appunto attorno alla bocca, facilita la regolazione d’un flusso di liquidi che permette all’insieme una capacita di contrazione, cioè un allungarsi e un ritrarsi della struttura radiale, che si traduce in una locomozione, detta acquifera; sono provvisti, inoltre, di spine, aculei e d’un dermascheletro calcareo posto sotto l’epidermide); i Celenterati (Coelenterata; sono organismi di semplice struttura, con un’unica cavità, detta  celenteron, che comunica con l’esterno grazie a un’apertura orale; le sue pareti, di forma oblunga e cilindrica, sono formate da due strati di cellule, uno interno, o endoderma, e uno esterno, o ectoderma; possono poi avere una forma non vincolata o sessile, come i coralli, v. infra); i Briozòi (Bryozoa; organismi dendriformi, cioè simili ad arboscelli, che si riuniscono in colonie ancorate al substrato; ogni individuo della colonia, denominata zoarium, zoario, di solito non più lungo di 1 mm, è formato da una specie di sacco a sezione ovoidale, più o meno calcificato, che contiene un tubo digerente ripiegato a U, sicché le due estremità costituenti la bocca e l’ano sono tra loro vicine; la bocca è poi circondata da una corona mobile di tentacoli filiformi, o ciglia, che filtra, per mezzo delle correnti indotte dal movimento ciliare stesso, le particelle organiche presenti nelle vicinanze; un individuo della colonia è detto zooide, e ogni zooide forma poi, per gemmazione, un altro zooide e via a seguire); seguono, infine, i Brachiòpodi (Brachiopoda) e le Trilobiti (Trilobites), di cui diremo a seguire.  La figura seguente mostra, tra i fossili del Cambriano, una Spugna silicea con spine radianti (Choia, a), un Mollusco Gasteropodo che misura pochi millimetri (Scenella, b), due Anellidi (Canadia, con un corpo ricoperto di spine e lungo pochi centimetri e Wortheniella; rispettivamente c, d) e, infine, un Echinoderma Eocrinoide (cioè Echinoderma simile a un Crinoide, Crinoidea, dove il Crinoide è un Echinoderma simile a un giglio, quindi un organismo con forma aggraziata; Lichenoides, e):
Figura n.   . Fonte: Padoa, 1971, p. 94.

I Brachiopodi sono poi organismi localizzati che vivono attaccati agli scogli, questo grazie a un peduncolo sessile, cioè che si fissa al substrato; presentano una conchiglia bivalve, da non confondersi con quella dei Molluschi Bivalvi (in cui una valva è a destra e l’altra a sinistra), perché qui una valva è ventrale e con peduncolo che fuoriesce dalla sua parte più convessa, mentre l’altra, più piccola, è dorsale; le valve, inoltre, non sono unite da legamento; la figura seguente mostra un Brachiopode attaccato al fondo mediante un peduncolo che sporge dalla valva centrale:
Figura n.   . Fonte: Padoa, 1971, p. 95.

Per quanto riguarda le Trilobiti, s’informa ch’esse vivono sia in acque poco profonde, di costa, sia a
grandi profondità (probabilmente infossate nei fondali), dopo il Cambriano presentano una radiazione adattativa in funzione difensiva e si sono estinte al termine del permiano; sono forme di Crostacei (Crustacea) primitivi, subphylum degli Artropodi marini, cioè organismi invertebrati con un corpo ovale, vale a dire allungato, con una cuticola di rivestimento fatta di strati di carbonato e fosfato di calcio dello spessore massimo di 1 mm (o esoscheletro), e distinto in tre parti o lobi, da cui il nome, ossia da due solchi longitudinali che originano un lobo mediano e due lobi laterali e con una lunghezza che varia da pochi millimetri a 70 cm; il capo è provvisto di due antenne pluriarticolate e di occhi composti da un insieme di numerosi corpuscoli fotosensibili fra loro giustapposti (sèssili, ossia privi di peduncolo, o peduncolati), testimonianza fossile, questa, dei primi organi visivi; alcune specie presentano sulla superficie ventrale di tutte e tre le parti delle appendici articolate in funzione di deambulazione e di supporto a strutture branchiali. La figura seguente, delle centinaia di specie (se ne conoscono più di 3500), mostra due Trilobiti (a, b; rispettivamente Olenello, Olenellus, e Paedeumias, organismi che rimandano all’ordine più antico delle Trilobiti) e due organismi Trilobitoformi del Cambriano (c, d; rispettivamente Emeraldella, Emeraldella brocki, un Artropode dotato di lunghe antenne e con un corpo a forma di Trilobite, e Waptia, Waptia fieldensis, un Artropode probabilmente antenato dei Crostacei):
Figura n.   . Fonte: Padoa, 1971, p. 93.

Le Trilobiti, come detto, sono una classe degli Artropodi, e si ricorda che gli Artropodi, cui appartengono, tra gli altri, gli Aràcnidi (Arachnida), i Crostacei e gl’Insetti (Insecta), presentano un corpo ch’è provvisto d’arti, ch’è fatto di segmenti che s’articolano fra loro, segmentazione ch’è detta metameria, e d’un esoscheletro (e se la metameria è anche degli Anellidi, questi però non possiedono arti articolati e sono dunque una linea evolutiva indipendente). È poi da ricordare il phylum dei cordati (che comprende i vertebrati, cioè, come già detto, gli organismi che avranno una colonna vertebrale contenente midollo spinale e un tronco nervoso deputato alla distribuzione delle informazioni tra cervello e resto del corpo), tra cui il primo notocordato (Notochordata, vale a dire cordati la cui corda dorsale non raggiunge l’estremo anteriore del corpo; detto meglio, dotati d’una struttura di sostegno sul dorso, la corda, che nei vertebrati è poi sostituita dalla colonna vertebrale ossea o cartilaginea che sia) di cui s’è a conoscenza, il Pikaia gracilens, il primo organismo del phylum ch’annovera Pesci, Anfibi, Rettili, Uccelli e Mammiferi (ma la questione è controversa). Il Pikaia, lungo nei reperti fossili ritrovati tra 1,6 e 6 cm (con una media di 4 cm), presenta una forma allungata (o fusiforme) dotata d’una struttura di sostegno tubolare, che va dal capo all’estremità posteriore, classificabile come notocorda, di segmenti muscolari laterali (o miomeri) e un apparato vascolare; la parte posteriore presenta un allargamento del corpo a forma di pinna con la quale quest’organismo si muove nei fondali oceanici grazie a un moto ondulatorio (similmente all’anguilla), mentre la parte anteriore presenta una piccola testa distinta, bilobata, con un’apertura (ch’introduce un tratto digestivo con ano posteriore) e due sottili tentacoli, capaci probabilmente (l’apertura e i tentacoli), di sinestesie; ogni tentacolo è poi seguito da 9 piccole appendici ravvicinate (forse branchie). Nella testa del Pikaia è inoltre presente un rigonfiamento (vescicola cefalica) che presenta un centro di segnalazione del sistema nervoso centrale ch’indica la capacità di trasmettere informazioni al corpo, rigonfiamento ch’è precursore del cervello, ciò che marca uno dei primi fenomeni di cefalizzazione. Da sottolineare che sono due, attualmente, i giacimenti fossiliferi (o Fossillagerstätten, singolare Fossillagerstätte) che documentano l’evoluzione del Cambriano, specificamente Burgess, nella Columbia Britannica, in Canada, e Maotianshan, nella contea di Chengjiang, provincia dello Yunnan, in Cina; a Burgess è presente una formazione di rocce metamorfiche, derivata dall’argilla, caratterizzate da una disposizione regolare, in piani grosso modo paralleli, di lastre sottili e facilmente divisibili, o argilloscisti, che mostra organismi pluricellulari dal corpo molle estremamente ben conservati appartenenti a una cinquantina di generi diversi, con piani anatomici estremamente variati (detta Fauna di Burgess); lo stesso nel giacimento di Chengjiang, dove i Baupläne ritrovati, probabilmente più antichi di quelli di Burgess, rappresentano anche qui un’estrema ricchezza di biodiversità (Spugne, forme medusoidi, Vermi Priapulidi e altri simili agli Anellidi, Echinodermi, Artropodi, Emicordati e Cordati, compreso il primo pesce àgnate, cioè privo di mascella e di denti, mai prima rinvenuto; e dagli Àgnati, Agnatha, a seguire, avremo per radiazione adattativa tutti gli altri pesci). Si deve poi sottolineare che questa varietà d’organismi presuppone anche una ricchezza molto maggiore di vita vegetale. Attualmente il rapporto ponderale tra animali e piante si calcola come una massa complessiva che non è superiore ad un rapporto di 1 a 5, e se si presuppone lo stesso anche per il Cambriano, ciò deve rimandare ad una presenza veramente abbondante d’alghe, non documentabile giacché esse non fossilizzano (ad eccezione delle Alghe calcaree, capaci di mineralizzare la loro membrana cellulare, già presenti e documentate nel Precambriano). La figura seguente illustra la situazione delle terre emerse nel Cambriano superiore (o tardo; i triangoli presenti indicano le zone di subduzione, la data è in milione d’anni, Ma):


Figura n.   . Fonte: Altschuler, 2005, p. 110.

Al Cambriano segue poi, nell’Ordoviciano, una nuova radiazione adattativa seguita dalla prima tra le cinque estinzioni di massa (v. infra), ciò che dà origine, di nuovo, a una radiazione di nuove specie (cioè ai processi di speciazione dei sopravvissuti, tra cui il phylum dei cordati). Ma entriamo nel dettaglio, giacché sono in gioco e un’estinzione e due radiazioni adattive. Sopra s’è descritta, a grandi linee, la paleogeografia della Terra, che ora è il caso di meglio specificare; infatti, nell’intervallo compreso tra Cambriano e Siluriano (541-416 milioni d’anni fa) esiste un oceano Protoatlantico chiamato Giapeto, originariamente situato tra la Laurentia, a Nord, e la Baltica, a Sud (v. Figura n. […], supra), che tende a ridursi di profondità e d’estensione passando da un’ampiezza di ca. 3 400 km all’inizio dell’Ordoviciano a 1 000 km all’inizio del Siluriano; ora, i dati paleontologici di quest’assetto indicano che le comunità di specie presenti, Trilobiti, Graptoliti e Brachiopodi, dapprima costituiscono associazioni fra loro molto diverse secondo la sponda abitata, della Laurentia o della Baltica, e poi, man mano che le sponde s’avvicinano per la deriva dei continenti tendono a essere composte da elementi simili che aumentano le strutture protettive, per esempio i gusci, come i Brachiopodi, e questo presumibilmente per l’aumento degli organismi predatori; ancora, la riduzione della profondità di Giapeto e l’estinzione di ca. 2/3 delle specie viventi (specie marine), avvenuta 440 milioni d’anni fa alla fine dell’Ordoviciano (v. infra), favorisce, nel Siluriano, la comparsa e la diffusione d’un ecosistema inedito, la barriera corallina (o Barrier Reef, plurale reefs, usato in italiano al maschile). La barriera corallina del Siluriano è molto diversa da quelle odierne, ma per valorizzare il valore e il ruolo di quest’inedito ecosistema ricco di biocenosi è forse utile spiegare come s’è formato e funziona quello attuale, salvo poi riprendere i Reefs del Siluriano. Con polipo (da non confondere con polpo) s’intendono alcune specie di invertebrati del phylum dei Celenterati, che presentano una struttura corporea costituita da una colonna centrale con celenteron, v. supra, generalmente fissa al substrato, cioè sessile, e da una forma arborea (polipoide) all’estremità superiore; gli antozoi (Anthozoa), o coralli, presentano esattamente un’organizzazione di questo tipo caratterizzata sia da uno scheletro protettivo di carbonato di calcio (secreto dalle cellule del tessuto epidermico) e sia che dal loro stesso scheletro; ora, una formazione corallina può essere rappresentata tanto da un singolo individuo quanto, ciò che capita molto più spesso, da una colonia in cui le cavità gastrovascolari dei singoli coralli sono fra loro comunicanti. Una colonia è poi distribuita a profondità comprese tra i 40 e i 60 m, in cui ogni corallo s’insedia sui depositi calcarei degli esoscheletri dei coralli morti e si moltiplica per riproduzione asessuata (con gemmazione a livello della base del corallo) dai fondali fino ad arrivare in superficie, fatto salvo che si sia in presenza di acque limpide, illuminate, a salinità elevata e ossigenate, e temperature che oscillano tra i 20 °C e i 30 °C (con temperature ottimali tra i 26 °C e i 27 °C), il tutto con un tasso d’accrescimento da 1 cm a 100 cm all’anno. Ed è in questo modo che nascono le barriere coralline, formazioni organogene che ospitano nei loro tessuti delle Alghe simbionti, dette Zooxantelle, che grazie alla fotosintesi producono delle sostanze (quali gli zuccheri) utili al sostentamento dei coralli; i coralli, in cambio, riforniscono le Alghe di fosforo e azoto che sono ricavati dalla digestione parziale degli organismi (plancton) intrappolati dalla forma polipoide a scopo alimentare; e poiché la fotosintesi è alla base di questo scambio simbiotico, ecco che i coralli crescono alle profondità sopra citata dove la radiazione solare può penetrare; le Alghe, ancora, svolgendo la fotosintesi, utilizzano l’acido carbonico dei tessuti del corallo, provocando così la formazione d’un calcare insolubile, estremamente duro (la composizione chimica d’un corallo è data dall’85% di carbonato di calcio, 1,4% di solfato di calcio e dal 2,4% di carbonato di magnesio, più tracce d’acido silicico e iodio). Ciò dà origine ad un ecosistema ricco di biodiversità giacché le Alghe costituiscono il nutrimento di pesci erbivori e di numerosissime specie di Molluschi, ciò che alimenta poi una catena alimentare basata sulla predazione grazie alla presenza di numerosi altri organismi (pesci d’altre specie, Crostacei, Echinodermi etc.), vale a dire un’elaborata biocenosi. Se quanto sopra descritto rimanda, come detto, alle attuali barriere, quelle che si formano nel Siluriano, pur obbedendo a un meccanismo di costruzione ch’è simile, sono diverse (può esserne un esempio la forma organogena che costruisce la barriera orizzontalmente e non verticalmente per gemmazione) e costituite da organismi invertebrati costruttori di barriere (o reef-maker) detti Stromatoporoidi, simili a spugne e coralli, ch’includono diversi gruppi di coralli, quali i Rugosa (dei Tetracoralli che vivono in forma solitaria), e i Tabulata (ch’è, invece, una forma coloniale comprendente anche migliaia d’organismi), cui si sommano, provenienti da un antenato in comune, Briozoi e Brachiopodi. Si diffondono inoltre, tra l’Ordoviciano e il Siluriano, le Trilobiti, che raggiungono per numero di specie, per abbondanza di popolazione e per accrescimento di taglia (alcune forme raggiungono i 60-70 cm di lunghezza) il loro climax; i Brachiopodi che passano da valve di conchiglia formate da sostanze organiche infiltrate di fosfato di calcio, Ca3(PO4)2, a specie a conchiglia più spessa formata di carbonato di calcio, CaCO3; e numerosi sono anche i gusci mineralizzati di Molluschi, quali Gasteropodi, Bivalvi, Cefalòpodi (Cephalopoda) e numerose, come detto, le forme coloniali a supporto infiltrato di sali calcarei, tra cui Celenterati e Briozoi, e di questi ultimi si conoscono nel solo Ordoviciano più di 1000 specie. La figura seguente illustra alcune colonie di Briozoi diffuse nel Siluriano, Berenicea (a), Fenestrellina (b) e Clathopora (c):
Fonte: Padoa, 1971, p. 99.

Sono inoltre diffuse le Graptoliti (Graptolithoidea; appartenenti al phylum degli Emicordati), apparse già nel Cambriano, ma che ora raggiungono il loro climax; si tratta di colonie i cui individui (detti zooidi, come nei Briozoi) sono contenuti in cellette o teche di materiale fibroso organico (collagene; ciò che li distingue, per esempio, dai coralli), disposte in diversi modi a formare dei rami lungo un asse tubolare costituito da una sostanza chitinosa flessibile; queste colonie sono sessili in quanto fissate o ai fondali marini (forme bentoniche) o a una capsula centrale ricoperta da un organo di galleggiamento (detto pneumatoforo), ciò che, in quest’ultimo caso, consente loro, e fino all’estinzione, una libertà di diffusione geografica molto ampia (in quanto forme planctoniche galleggianti in mare aperto, si parla allora d’organismi coloniali pelagici). La figura seguente mostra lo schema d’una Graptolite:

Fonte: Padoa, 1971, p. 100.

Le figure seguenti mostrano invece tre Graptoliti dell’Ordoviciano, Goniograptus (a), Tetragraptus (b) e Glossograptus (c):

Fonte: Padoa, 1971, p. 100.

Tra le numerose altre forme presenti, se ne ricordano due di predatori del Siluriano, gli Euriptèridi (Eurypterida, o Gigantòstraci, Gigantostraca) e i Nautiloidi (Nautiloidea). Gli Euripteridi, che probabilmente hanno dato origine agli Aracnidi, nel Siluriano sono presenti nei litorali marini, nel Devoniano migrano verso le acque salmastre d’estuario e epicontinentali (i mari epicontinentali si presentano grazie a delle ingressioni d’acqua salata nei continenti a formare mari poco profondi, quali lagune o simili) e si diffondono poi, nel Carbonifero, nelle acque dolci (zone palustri). In quanto appartenenti al subphylum dei Chelicerati (Chelicerata), presentano un corpo appiattito protetto da un esoscheletro chitinoso, suddiviso tra un cefalotorace e un addome; il cefalotorace presenta due cheliceri (gli arti preorali a forma di tenaglia e con funzione generalmente prensile; da cui il nome del subphylum), degli occhi composti prominenti, grandi, e due occhi piccoli (o ocelli),  e varie appendici d’arti locomotori, di cui le ultime due, grandi, hanno probabili funzioni natatorie; l’addome, costituito da vari segmenti, termina poi con un telson (il segmento terminale in cui si apre l’ano, o pigidio), corpo con dimensioni variabili tra pochi centimetri e i 3 m di lunghezza (il record di taglia tra gli Artropodi estinti e attuali). Dal punto di vista evolutivo sono i progenitori dei moderni scorpioni (per questo sono anche detti scorpioni d’acqua). La figura seguente illustra due Euripteridi, il primo del Siluriano, a grandezza naturale (Hugmilleria, a), e il secondo del Devoniano, lungo 1,80 m, di cui si notino il diverso telson (la porzione caudata s’è allargata) e i cheliceri sono simili a chele (Pterigoto, Pterygotus, b):

Fonte: Padoa, 1971, p. 101.

I Nautiloidi (le cui prime forme risalgono al Cambriano), raggiungono in questo periodo la massima
diffusione; si tratta di Molluschi che presentano una conchiglia fatta di gusci conici di grandezza crescente disposti prima diritti, poi ricurve e poi a spirale, prima con camere lasse e poi con camere sempre più strette, e con esemplari che possono arrivare ad una lunghezza di 2 m); questa conchiglia è poi divisa in setti interni trasversali a formare camere piene di gas (e si tratta d’un gas con una composizione chimica non molto diversa da quella dell’atmosfera), tra loro collegate da un condotto, o sifone, che permette all’organismo di adattarsi alla profondità desiderata alla ricerca di prede, e nella cui ultima camera (detta d’abitazione, e in cui il Nautiloide si ritrae in caso d’attacco) si stanzia l’organismo molle, il predatore vero e proprio con 94 tentacoli attorno alla bocca; nel complesso, si parla di una conchiglia concamerata. La figura seguente mostra l’evoluzione della conchiglia concamerata da diritta a spiraliforme:

Sempre rimanendo ai predatori, dal Cambriano al Siluriano, attraverso l’Ordoviciano, si passa dai pesci Agnati a quelli dotati di mandibola e denti; nei pesci Agnati (dove –gnato deriva dal greco γνάϑος, mascella, con a privativa) le ossa del capo sono spesse, lo scheletro è cartilagineo, la forma del corpo è piatta, gli occhi piccoli e ravvicinati sono in posizione dorsale, la bocca è priva di strutture articolate adatte alla presa, aperta a imbuto e ovaloide (sul lato ventrale) e le narici sono impari (cioè con  una sola narice), tutti tratti che li rendono probabilmente adattati all’alimentazione organica presente sui fondali, mentre i pesci con mandibola, cioè Gnatòstomi (Gnathostomata, come tutti i vertebrati dotati di mascella, dove –stomata, deriva dal greco στόμαατος, bocca), che si sviluppano nel Siluriano (Cranioti),  presentano un cranio munito di potenti placche ossee e di uno scheletro a cerniera che li rende provvisti di mascelle articolate, con denti, aperte in avanti e adatte alla cattura e alla masticazione del cibo e con organi olfattori pari, ed è da allora che gli Gnatostomi (Pesci, Anfibi, Rettili, Uccelli e Mammiferi, volendo Pesci e Tetrapodi, cioè forme che respirano per branchie e forme che respirano per polmoni), tutti dotati d’una struttura dorsale di sostegno (la colonna vertebrale), d’una struttura muscolare dorsale e ventrale, d’un encefalo contenuto in un cranio e di uno scheletro osseo (o cartilagineo), d’un midollo spinale e di guaine mieliniche intorno agli assoni dei loro neuroni che permette una trasmissione molto veloce dell’impulso nervoso, vale a dire vertebrati (Cordati) con un’ampia e vigile libertà di movimento, che diventano temibili predatori e erbivori, cioè adatti ad un successo evolutivo che da poco più di 400 milioni d’anni fa si manifesta come vincente in tutti gli ecosistemi della Terra. E, se ci ragiona un attimo sopra, è evidente che alla base di tutto c’è un successo che dipende dall’uso efficiente delle disponibilità alimentari (che corrisponde, di fatto, con la dismissione della microfagia, cioè dell’alimentazione per filtrazione di microorganismi presenti nelle acque e l’introduzione della macrofagia, onnivora o meno che sia). E ora le Piante. Fatto salvo che con il termine pianta (da cui deriva, nella terminologia botanica, il suffisso –fito, dal greco ϕυτόν, pianta) s’intendono qui gli organismi pluricellulari che presentano cellule eucarioti che hanno come limite delle pareti cellulari costituite di cellulosa, che sono  fotoautotrofi in quanto provvisti di pigmenti fotosintetici (quali la clorofilla) che permettono di trasformare l’energia solare in energia chimica e che sono, infine, caratterizzati da un accrescimento indefinito (sono pertanto escluse le Cianofite, appartenenti ai Procarioti e i Funghi, classificati a sé), si può affermare che nel Siluriano, ad allargare ancora il campo delle già esistenti possibilità alimentari, si manifestano le prime piante sulla terraferma, derivate dalle Alghe. Per apprezzare la transizione, è forse opportuno dire qualcosa attorno alle Tallòfite e alle Cormòfite, sebbene queste classificazioni siano ormai desuete, cioè non più utilizzate a livello tassonomico, ma utili come categorie descrittive. Partiamo dal termine tallo ch’indica il corpo cellulare d’organismi semplici quali le alghe, i licheni, i muschi e i funghi; questo corpo non è, infatti, organizzato in tessuti specializzati e organi complessi, ma è formato da cellule che si sono originate per divisioni ch’avvengono secondo piani particolarmente orientati (trasversali, longitudinali etc.). Dunque, una pianta tallofita non presenta un’organizzazione morfologica evoluta, ciò che l’obbliga a vivere in ambienti acquatici, o, e qui è il punto, a insediarsi in habitat terrestri che presentino acqua, anche in forme d’umidità elevata. Come dire, per esempio, che le Alghe, già primitivamente adattate alla vita nelle acque, non hanno bisogno di strutture specializzate, differenziate in quanto un tallo, più o meno espanso, assorbe su tutta la sua superficie l’acqua, il diossido di carbonio e le sostanze nutritive e che nel suo tessuto cellulare si compiono le complesse sintesi organiche che permettono la vita autotrofa (questo tessuto, detto parènchima, è costituito di solito da cellule con pareti ricche di cellulosa, citoplasma parietale e cavità delimitate da membrane, o vacùoli, con acqua e soluti vari). Ora, per superare la frontiera acqua/terra, le piante verdi devono mantenere le capacità fotosintetiche e quindi devono possedere anch’esse dei parenchimi omologhi a quelli del tallo, ricchi di clorofilla e ai quali dovrà arrivare l’acqua assorbita dal terreno. Cioè richiedono un apparato di radici, o radicale, un fusto ricco d’un sistema di vasi, cioè vascolarizzato, che trasporti in ogni dove i soluti nutritivi, la linfa, e foglie che permettano la fotosintesi clorofilliana, oltre che di tessuti specializzati per la crescita e la riproduzione, dunque un’organizzazione strutturale e morfologica evoluta; ciò che permette di chiamarle piante superiori. Ora, il corpo cellulare delle piante superiori è il cormo, che si distingue dal tallo per essere costituito da cellule, tessuti e organi differenziati, adibiti a funzioni specifiche diverse, come dire che i suoi tessuti sono differenziati in tessuti fotosintetici, specializzati per fornire le sostanze nutritive alla pianta attraverso la fotosintesi; tessuti vascolarizzati, per distribuire l’acqua e le sostanze a tutte le parti della pianta; tessuti di sostegno, che danno solidità e robustezza alle sue strutture; infine, di tessuti, di solito localizzati negli apici del fusto e delle radici, costituiti da cellule indifferenziate, ricche di citoplasma e con parete sottile, capaci di dividersi e successivamente differenziarsi per formare i tessuti definitivi, o meristematici, a cui si deve la crescita della pianta in altezza ed eventualmente in larghezza. Insomma il cormo è dato da un apparato radicale (radice), da un fusto (càule) e dalla chioma (le foglie), tanto che le piante superiori sono dette cormofite. E, per rientrare nell’ambito tassonomico, possiamo dire che tutte le piante vascolari, cioè cormofite, sono complessivamente classificate come Tracheòfite (Tracheophyta) e comprendono tutti i phyla del regno vegetale (escluse le Briòfite, Bryophyta). Ritornando indietro, sono le Cloròfite (Chlorophyta, o Alghe verdi pluricellulari) quelle che hanno colonizzato le coste marine, cioè quelle forme ancestrali che immagazzinano le sostanze di riserva sotto forma d’amido ch’è propria anche alle attuali Briofite (epatiche e muschi). Detto altrimenti, sulla terraferma le prime piante che crescono lo fanno in luoghi umidi perché, non possedendo strutture vascolari (cioè, come detto, strutture specializzate per il trasporto, in questo caso dell’acqua), devono assumerla per osmosi direttamente dall’ambiente di superficie, lo stesso che per la loro riproduzione, giacché richiedono acqua per trasportare le spore. Per inciso, le spore sono quelle microscopiche strutture unicellulari deputate alla trasmissione dei caratteri ereditari della specie che si formano per divisione cellulare all’interno dell’organismo genitore (dove, del resto, sono prodotte in grande quantità al fine di propagare, per dispersione tramite agenti esogeni quali l’acqua o il vento, le caratteristiche della specie; lo stesso il fatto che le spore siano in grado di sopportare temperature inadatte o assenza d’acqua, ossia condizioni climatiche sfavorevoli, nel qual caso esse permangono in uno stato di quiescenza fino al momento in cui sono presenti nuovamente nell’ecosistema quelle condizioni favorevoli alla germinazione). Ora, poiché queste prime piante sono prive di semi, ecco che le si descrive come Crittògame (Cryptogamae; dal suffisso –gamo, ch’è dal greco γάμος, nozze, unione sessuale, e critto-, ch’è dal greco κρυπτός, nascosto, coperto, come dire che la loro riproduzione è nascosta perché non si vedono i semi). Da questi primitive Crittogame si sviluppano, 430 milioni d’anni fa, le prime piante con un apparato vascolare in grado di trasportare e l’acqua e le sostanze nutritive in essa disciolte, o soluti, ossia le Tracheofite, e tra esse le Riniòfite (Rhyniophyta), piante alte qualche decimetro, che si riproducono con spore presenti alle estremità dei rami, e, per il resto, prive anche di cormo, cioè radici, foglie e fusti, ciò che permette una prima colonizzazione estensiva di queste piccole piante in zone costiere, paludi e foci dei fiumi (le Riniofite, le più antiche Crittogame vascolari, s’estinguono nel Devoniano, 380 milioni d’anni fa). La figura seguente mostra la ricostruzione d’una Rhyniofita (Rhynia maior) del Devoniano, il cui habitat è quello delle zone paludose, che da un fusto sotterraneo, a sviluppo grosso modo orizzontale e che s’alimenta attraverso filamenti che fuoriescono dalla parte inferiore, detto rizoma (e i filamenti, rizoidi), innalza un ramo di ca. 15 cm e più, apicalmente ramificato in due parti, e dove ogni parte termina con uno sporangio (ossia una struttura pluricellulare che produce le spore, poi protette dall’esterno da uno spesso rivestimento di cellule ad uno strato), probabilmente deciduo al fine di disperdere le spore, il tutto ancora privo di foglie; da sottolineare che la crescita non avviene verticalmente, ma dal rizoma che striscia sul terreno facendo uscire i nuovi rami e che questa tipologia della struttura d’insieme è detta a teloma;
Fonte: Padoa, 1971, p. 104.

Riassumendo, nel periodo Ordoviciano, 500-440 milioni d’anni fa, si presentano nuove radiazioni adattive, prima e dopo l’estinzione di massa, da parte d’un gran numero d’organismi, con l’occupazione di nuove nicchie ecologiche nei mari di tutta la Terra (per il concetto di nicchia ecologica, v. infra), tra cui i primi pesci cartilaginei; radiazione seguita da un’estinzione di massa cui segue, nel periodo Siluriano, 440-416 milioni di anni fa, una nuova radiazione adattativa con la comparsa delle barriere coralline e dei primi pesci ossei, cioè i primi vertebrati (o dotati di colonna vertebrale) Gnatostomi, e a seguire le prime piante senza seme, come dire ch’è nel Siluriano che l’evoluzione è presente tanto nei mari, quanto, e soprattutto, inizia sulla terraferma (da ricordare, a questo proposito, che nel Siluriano sono presenti degli Aracnidi, una classe degli Artropodi, molto simili agli attuali scorpioni, anche se resta il dubbio che siano animali non terrestri ma d’acqua dolce). La figura seguente mostra due scorpioni, uno vivente (Scorpio, a) e l’altro, molto simile, che vive nel Siluriano (Palaeophonus, b):

Fonte: Padoa, 1971, p. 102.

Dunque, durante la fine del Siluriano e il periodo Devoniano (416-354 milioni d’anni fa), che lo
segue, si presenta la diffusione di molti gruppi di pesci, una linea evolutiva dei quali darà origine agli anfibi, i quali a loro volta superano la frontiera marina e iniziano a colonizzare le terre emerse che, nel frattempo vedono, come visto, la diffusione delle prime piante (da sottolineare che il superamento di questa frontiera è stato un fenomeno tardivo giacché le flore e le  faune, pur molto ricche di specie, appartengono a pochi gruppi sistematici, nulla o quasi al confronto con l’inventività delle forme marine). Il tutto nel mentre l’attività tettonica delle zolle continua. Partendo dalla figura seguente (che mostra la distribuzione dei continenti 390 milioni d’anni fa, 390 Ma, in un quadro tettonico molto dinamico):


Figura n.   . Fonte: Altschuler, 2005, p. 110.

si nota la formazione della Laurussia (o Euroamerica, con la Laurentia e la Baltica già unite a
formare questo supercontinente, dato di fatto dall’Europa e il Nord America, ciò che ha dato origine all’orogenesi degli Appalachi settentrionali e delle catene montuose non elevate d’Europa, tra cui gli Urali [?], orogenesi detta Calendonica), la presenza della Siberia (che, unito alla Laurussia, formerà tra 300 e 250 milioni d’anni fa ca., la Laurasia), la sparizione dell’Oceano Giapeto sostituito dall’espansione dell’Oceano Reico, e il supercontinente Gondwana (formato grosso modo da quelle che saranno l’Africa, il Sud America, l’Eurasia del sud, l’Antartide e l’Australia) a Sud, terre emerse che tutte insieme, con i loro spostamenti, porteranno alla fine del Permiano (ca. 245 milioni d’anni fa), alla formazione della Pangea (cioè all’unione del Gondwana con la Laurasia). Per riprendere, a questo punto, la diffusione delle piante terrestri in questo nuovo contesto continentale in cui sono presenti condizioni climatiche piuttosto uniformi, con la prevalenza d’un clima caldo-umido, si sottolinea che sono piante che renderanno, grazie alla loro sintesi delle sostanze organiche e con la loro attività fotosintetica, abitabile l’ambiente (in superficie e subaereo) a forme di vita eterotrofe che dipendono, per la loro sopravvivenza e dall’ossigeno e dalla catena alimentare che le piante permettono, premessa per comprendere la diffusione degli anfibi dei quali si parlerà fra poco; piante, inoltre, che con la loro copertura modificano (anche strutturalmente) il paesaggio e si differenziano in esemplari via via più complessi, per arrivare alle Cormofite con apparato radicale e aereo (cioè con un fusto che presenta delle radici ancorate al suolo capaci d’assorbire acqua e sostanze organiche utili allo sviluppo della pianta, dei rami e delle foglie), e di dimensioni ben più appariscenti delle piccole Riniofite, prive di tessuti specializzati, sopra citate. Prima d’offrire un parziale elenco di quest’evoluzione colonizzatrice (che non bisogna pensare come lineare) bisogna essere informati su alcune cose, cioè sulle radici, sul fusto, sulle foglie e sui semi (che prendono il posto delle spore). La radice, ch’è l’organo sotterraneo (o ipogeo) della pianta, ha due funzioni, una d’assorbimento dell’acqua e dei nutrienti in essa disciolti; l’altra, di fissazione della pianta al substrato (suolo); essa s’accresce e si sviluppa grazie a cellule che s’accrescono per distensione, e penetra poi nel suolo grazie alle sue capacità d’orientarsi secondo la direzione della forza di gravitazione terrestre (o geotropismo, qui positivo); la prima radice della pianta (detta radichetta) si sviluppa durante la germinazione dell’embrione e cresce arrivando a formare la radice primaria; da questa si dipartono, a seguire, le radici secondarie. Il fusto, o caule, che ha la funzione di sostegno per tutte le strutture della pianta, è l’organo aereo che stabilisce durante la crescita, e grazie ai suoi tessuti conduttori disposti verticalmente nei fasci vascolari, un tramite tra le foglie e la radice; quando questi fasci s’estendono alla foglia, assumono poi il nome di nervature; mentre il fusto è orientato in senso opposto alla forza di gravitazione (geotropismo negativo), i rami sono orientati in senso trasversale (diageotropismo); da sottolineare che il sistema vascolare è costituito da cellule specializzate in elementi conduttori (trachee e tracheidi) e che  esistono due tipi di tessuti vascolari, lo xilema, ch’è responsabile del trasporto dell’acqua e dei sali minerali dal terreno al caule e quindi alle foglie, e il floema, deputato al trasporto delle sostanze nutritive (sintetizzate per mezzo della fotosintesi), a tutti gli organi della pianta. La foglia è l’organo deputato all’assorbimento dell’energia luminosa e degli scambi gassosi dell’intera pianta (assorbimento/emissione di diossido di carbonio, CO2, e d’ossigeno, O2) ed è sede della funzione clorofilliana. Dal punto di vista morfologico è formata da una base per mezzo della quale s’inserisce nel caule, da un picciòlo (dato dalla parte àssile, di varia lunghezza, che sorregge la base fogliare e la collega al caule; se questo manca la foglia si dice sessile) e dalla lamina che, nel caso sia unica, ci dà le foglie semplici. Quest’ultima rappresenta la parte espansa e appiattita della foglia (il lembo fogliare) e, dal punto di vista anatomico, è costituita di diversi tessuti, da una parte superiore (o pagina superiore) rivestita da un’epidermide spessa e priva di stomi, da una pagina inferiore che ha rivestimento più sottile e stomi più o meno numerosi secondo la specie; lo stoma è poi l’apparato con cui le parti aeree delle piante riescono ad avere degli scambi gassosi tra l’esterno e l’interno (qui i gas sono contenuti negli spazi intercellulari del parenchima), ed è dato da due cellule di guardia che, con la faccia concava volta l’una verso l’altra, delimitano una fessura (l’apertura stomatica) che, secondo che le cellule siano più o meno turgide, s’allarga, si stringe o si chiude permettendo così di regolare lo scambio gassoso, CO2 e O2, tra la pianta e l’ambiente esterno. La foglia è inserita sul fusto o sul ramo in punti specifici, detti nodi, separati da spazi chiamati internodi (e questa disposizione, detta fillotassi, può variare notevolmente da specie a specie). Detto questo del cormo, resta che la più importante innovazione che rende possibile l’affermazione e l’estensione delle piante sulle terre emerse è lo sviluppo d’una struttura riproduttiva diversa dalle spore, il seme, che contiene, miniaturizzate, tutte le parti della pianta adulta (assieme a sostanze di riserva e di primo nutrimento) che presume una capacità di grande resistenza che garantisce alla pianta la sua dispersione nell’ambiente, dunque una capacità di propagazione della specie in nuovi ambienti sottratti alla competizione e, soprattutto, la sua capacità di conservazione (come organismo quiescente o dormiente) nell’ipotesi che le condizioni dell’ecosistema d’arrivo siano sfavorevoli allo sviluppo della pianta stessa. Queste piante dotate di seme, dette Fanerògame (dal greco ϕανερός, chiaro, evidente, da leggersi in contrapposizione a Crittogame, cioè dal seme manifesto, oggi dette Spermatòfite), s’originano in quest’arco temporale da un gruppo di piante, dette Progimnospèrme, che presentano delle caratteristiche che sono intermedie tra quelle delle piante prive di seme, le Crittogame trimeròfite (che per prime sviluppano elementi adibiti al trasporto della linfa grezza, o tracheidali) e quelle con seme, le Gimnospèrme (Gymnospermae; con le Angiospèrme, Angiospermae, una delle due divisioni delle piante Spermatofite, dove, nelle Angiosperme, o piante con fiore, i semi sono racchiusi in un involucro, detto ovario, destinato a trasformarsi in frutto, mentre nelle Gimnosperme, o piante a seme nudo, i semi sono inseriti tal quali tra lo squame delle strutture specializzate a ciò atte, dette coni). Possiamo dunque ora dire che, nel Devoniano, s’assiste ad un’evoluzione (dal tallo al cormo, dalle spore al seme) e a una colonizzazione delle terre emerse. Esiste, infatti, per questo periodo la testimonianza fossile di piante con radici, fusto ramificato e presenza di foglie sessili (come detto, foglie non picciciolate che dal tronco che le porta non ricevono che vasi), per esempio lo Pseudosporocno (Pseudosporochnus; la cui altezza può raggiungere i tre metri) e, a seguire, verso la fine del Devoniano, cauli con vere foglie vascolarizzate, cioè felci primitive classificabili nelle Pteridofite (Pteridophyta), cui seguono le Pteridospèrme (Pteridospermae) destinate a diventare più abbondanti nel Carbonifero, piante che si possono considerare a cavallo tra le Pteridofite e le Gimnosperme (come detto, piante a fiori) più primitive, con una struttura vascolare complicata, con un apparato riproduttore nel quale si sono differenziati ovuli e polline e si presenta la formazione d’un seme embrionato. La figura seguente mostra la ricostruzione d’una Pteridosperma del Devoniano, Eospermapteride (Eospermatopteris, oggi classificato come Wattieza, Wattieza; può essere alto fino a 10 m e presenta fronde simili a felci):


Fonte: Padoa, 1971, p. 108.

Abbiamo così una commistione d’alberi che s’estendono a foreste in aree umide (coste di stagni, zone paludose e acquitrinose, laghi etc.) quali i Licopòdi (Lycopodium) arborei, tra cui il Lepidodèndro (Lepidodedron), forme arcaiche che si riproducono per spore, con apparato radicale a Y rovesciata, alte fino a 40-45 metri e con un tronco legnoso e corteccia che può avere diametri anche di 5 metri e i cui rami crescono solo sulla parte superiore del fusto (per inciso, il Lepidodendro rappresenta una delle più diffuse essenze arboree del successivo Carbonifero, cui contribuisce in maniera sostanziale alla formazione dei depositi di carbone fossile risalenti a questo periodo), associate alle Pteridosperme, che s’estingueranno nel Mesozoico, che comprendono le Archeopteridèe (Archaeopterideae), la cui crescita è sia verticale che laterale e il cui apparato radicale non è superficiale, ma profondo più d’un metro e la cui altezza può arrivare fino a 30 metri e con fronde che sono simili a felci; i sottoboschi e le zone acquitrinose sono poi ricoperti da fitte concentrazioni di Sfenòpsidi (Sphenopsida), piante con vere radici e corpo vegetativo suddiviso in internodi tra loro articolati, tra cui gli Equisèti (Equisetum, paragonabili alle felci arboree delle attuali foreste tropicali), e una grandissima varietà di felci arcaiche, gli uni e gli altri che si riproducono nel sottobosco per spore (Equiseti e felci, per inciso, appartengono alla divisione delle Pteridofite); le felci, che vivono in ambienti meno umidi delle Briofite, possono inoltre raggiungere altezze di una decina di metri (come gli Equiseti) e oltre, e, stando alle testimonianze fossili, s’evolvono a partire dal Devoniano e raggiungono, nel Carbonifero, uno sviluppo e una diffusione tali, da divenire in breve le piante colonizzatrici dominanti dell’intera Terra. Va da sé, come sopra accennato, che l’attività fotosintetica svolta dalle foglie e, ancor più, la diffusione di piante con apparato radicale, riducono drasticamente il diossido di carbonio (CO2) e aumentano la quantità d’ossigeno, ciò che muta anche la fauna nei mari e, per la prima volta, ne permette l’introduzione sulla terraferma. Nei mari, sono presenti Brachiopodi e Echinodermi, a lato di Graptoliti e Echinodermi (un gruppo, come detto, d’invertebrati marini bentonici, costieri o abissali), in via d’estinzione e le Trilobiti, in declino; Briozoi e Tetracoralli, costruttori di barriere, sono in via di notevole diffusione. Sono inoltre presenti un gran numero di diversi gruppi di pesci (di cui, nel Devoniano, è massimo il numero), che iniziano a presentare pinne, squame e articolazione boccale, tra i quali quelli corazzati, i Condroitti e gli Osteitti. Tra i pesci corazzati, cioè che presentano dermascheletri di tessuto osseo per protezione contro i predatori, s’annoverano gli Agnati Ostracodèrmi, gli Acantòdi (Acanthodii) e Placodèrmi (Placodermi). Gli Ostracodermi sono organismi di piccola taglia, privi di mascella, presentano placche dermiche di tessuto osseo a formare una specie di corazza continua, una larga piastra sulla superficie dorsale e laterale della regione cefalica, con il resto del corpo formato da piccole placche giustapposte, pinne impari e, sul margine ventrale della regione cefalica, l’apertura delle sacche branchiali; vivono sui fondali marini, sono cioè organismi bentonici, e si sono estinti 300 milioni d’anni fa, probabilmente per la predazione dei più efficienti Gnatostomi). La figura seguente mostra un Ostracoderma (Hemyciclapsis; la pinna caudale si definisce eterocerca quando l’estremità della colonna vertebrale si curva dorsalmente in alto):

Figura n.   . Fonte: Polticelli, 2003, p. 80.

Gli Acantòdi (che sono tra i primi vertebrati ad essere Gnatostomi, cioè dotati di mandibole mobili
e pinne pari, pinne poi sorrette da robuste spine con probabile funzione difensiva; di piccole dimensioni, presentano uno scheletro cartilagineo, a calcificazione avanzata, e il corpo e la testa sono coperti da un’armatura dermale costituita di vere scaglie; sono detti anche squali spinosi). I Placodermi (esclusi gli Artrodiri, Arthrodira, un ordine che presenta lunghezze anche di 10 metri), sono organismi di piccola taglia che abitano di preferenza le acque dolci (o forme dulcacquicole), se pure sono adattati alla vita sul fondo, e presentano, su un corpo d’una decina di centimetri, una struttura appiattita in senso dorso-ventrale ch’è parzialmente ricoperta, cioè limitata alla porzione cefalica e alla parte anteriore del tronco, da placche ossee (mentre negli Ostracodermi il rivestimento è continuo, qui sono presenti placche relativamente piccole e giustapposte); la colonna vertebrale è rudimentale; presentano pinne pettorali e pelviche e sono i primi tra i vertebrati ad essere dotati d’una forma della bocca adattata alla presa del cibo, dunque di mascella in alto e mandibola in basso, ciò che fa di loro i primi organismi a non usare l’alimentazione per filtrazione e, soprattutto, ad essere animali che cercano attivamente il cibo, ossia dei temibili predatori (sono poi  destinati in gran parte ad essere senza discendenza a causa dell’estinzione di massa del Devoniano). Le figure seguenti mostrano, nell’ordine, un Placoderma, detto Pterichthyodes, di 15 cm di lunghezza, e la corazza del Dinichthys, un Artrodiro di 10 m di lunghezza (il termine Artrodiri deriva dal greco ἄρϑρον, articolazione, giuntura, e  δειρή, collo, a significare articolazione del collo, ciò che si nota in figura dove è segnalato lo spazio di manovra tra la regione cefalica e il tronco, cioè dov’è presente un’articolazione della corazza, ciò che permette una maggiore apertura e coordinazione dell’apparato buccale e una più grande efficienza predatoria):
Figura n.   . Fonte: Padoa, 1971, p. 142.


Figura n.   . Fonte: Padoa, 1971, p. 144.

A seguire, s’aggiungono i citati Condroitti (Chondrichthyes, o Condritti) e Osteitti (Osteichthyes), che probabilmente altro non sono che phyla staccatisi da un ceppo ancestrale dei Placodermi e, in seguito, sviluppatisi autonomamente. I Condroitti, detti anche pesci cartilaginei, sono pesci predatori marini (differenziati nelle acque dolci, ma diventati stabili in acque salate) con lo scheletro di un tessuto connettivo, pieghevole e di notevole consistenza, di cartilagine, appunto (scheletro ch’è poi rinforzato da depositi di calcio, ma è completamente sprovvisto di tessuto osseo), e presentano denti non fissi alla mascella; inoltre, presentano fessure branchiali scoperte, numerose pinne, e sono senza vescicola natatoria (v. infra) in quanto si mantengono in equilibrio con l’acqua marina mediante un sovraccarico d’urea che rilasciano o meno con l’urina; i maschi sono dotati d’un organo copulatore esterno derivato dalla trasformazione della parte posteriore delle pinne ventrali, mentre le femmine presentano la fecondazione interna; i condroitti sono inoltre carnivori e predatori (come per esempio, gli squali). La figura seguente mostra un pesce cartilagineo, Carcharias (si tratta di uno squalo dell’ordine dei Lamniformi, Lamniformes; le abbreviazioni rimandano alle pinne pettorali, addominali, caudali, dorsale posteriore e anteriore):

Figura n.   . Fonte: Padoa, 1971, p. 147.

Gli Osteitti, o pesci ossei (cioè con la presenza di tessuto osseo nello scheletro che s’è sviluppato sullo scheletro cartilagineo dell’embrione), originariamente viventi nelle acque dolci e poi migrati nelle acque marine, e da qui, ritornati in parte alle acque dolci, a differenza dei Condroitti presentano una vescica natatoria, vale a dire una sacca ripiena di gas (in modo prevalente ossigeno), derivata da un’estroflessione della parete dorsale del primo tratto del canale alimentare, che permette loro, perdendo o acquistando gas, di raggiungere un equilibrio idrostatico, ossia d’avvertire le differenze di pressione alle varie profondità in modo da potere reagire a esse e regolare così il proprio galleggiamento al variare della profondità (i fluidi interni, inoltre, presentano una concentrazione salina maggiore dell’acqua dolce e minore di quella marina); il corpo degli Osteitti è generalmente fusiforme e la bocca ha mascelle provviste di denti fusi con esse. Questa Superclasse di Vertebrati, ch’include oggi ca. 20 000 specie, all’epoca è suddivisa tra gli Attinopterigi (o Actinopterigi; Actinopterygii), i Crossopterigi (Crossopterygii; il suffisso -pterigi che ritorna deriva dal greco πτερύγιον, pinna) e i Dìpnoi (o Dipnòi; Dipnoi). Gli Attinopterigi (che s’oppongono ai Crossopterigi), sono organismi provvisti d’un endocranio più o meno ossificato e presentano le pinne pari con cartilagini basali rudimentali e raggi articolati a ventaglio che le sostengono (detti lepidotrìchi). La figura seguente mostra un Attinopterigio, Cheirolepis:
Figura n.   . Fonte: Padoa, 1971, p. 159.

I Crossopterigi (di cui, nel Devoniano e nel Carbonifero è comune l’ordine dei Ripidisti, estintosi nel Permiano), sono predatori delle acque dolci e presentano un cranio osseo o cartilagineo, un corpo rivestito di scaglie spesse d’origine cutanea e con pinne pari provviste di scheletro articolato e muscoli e pinna caudale eterocerca; le pinne di cui sono in possesso sono poi robuste e con una disposizione ad archipterigio. L’archipterigio è dato dal fatto che una pinna (o, come visto, pterigio) è sorretta da un lungo asse scheletrico centrale da cui s’impiantano una o due serie simmetriche di ossicini radiali (o raggi) di sostegno alla membrana della pinna. La figura seguente mostra vari modi con cui le pinne sono sostenute dai raggi (qui si tratta di pinne pettorali dove b, d, e, sono classificate come a struttura archipterigia):
Figura n.   . Fonte: Padoa, 1971, p. 148.

Si ricorda che alcuni ritengono che dalle pinne ad archipterigio siano derivati, a partire dagli anfibi,
gli arti dei vertebrati tetrapodi (ed è verosimile pensare che tale trasformazione dell’archipterigio in arto sia avvenuta durante la vita acquatica, quale adattamento ad una locomozione sul fondo che esige un minimo sforzo, ciò che renderebbe gli arti discretamente preadattati alla vita sulla terraferma). La figura seguente mostra la probabile derivazione dell’arto di un vertebrato terrestre (qui un anfibio del Permiano, Eryops, con sei dita) dalla pinna di un pesce Crossopterigio (qui un Eusthenopteron):
Figura n.   . Fonte: Padoa, 1971, p. 169.

I Dipnoi, legati per linea evolutiva ai Crossopterigi e anch’essi predatori d’acqua dolce (e con una particolare dentatura a placche trituranti), sono anche detti pesci polmonati, e questa denominazione deriva da un’inedita capacità di respirare ossigeno atmosferico, capacità raggiunta grazie ad una vescica natatoria ch’è vascolarizzata da un’apposita arteria polmonare che permette una sufficiente ossigenazione del sangue; questa vescica, infatti, a differenza di quanto avviene negli altri pesci dove arriva a fungere da organo idrostatico per regolare, come detto, la profondità di galleggiamento, funziona qui come un vero e proprio polmone, tanto che i Dipnoi respirano sia per branchie sia per mezzo della vescica natatoria concamerata (il loro nome, infatti, deriva dal greco δίπνοος, che significa, appunto, con doppia respirazione). Questo polmone è necessario perché i Dipnoi d’epoca vivono in regioni nelle quali s’alternano periodi di pioggia a periodi di siccità, e quando le zone dulcacquicole sono stagnanti o, alla peggio, tendono a seccarsi, questi pesci sopravvivono nel fango ricorrendo a questa respirazione. La loro fecondazione, inoltre, è esterna e ovipara, e le uova fecondate, grandi e avvolte in un secreto gelatinoso che si gonfia a contatto con l’acqua, sono deposte fra le piante acquatiche e si schiudono dopo una decina di giorni dando origine a larve simili ai girini degli Anfibi. La figura seguente mostra la ricostruzione di un esemplare di Dipnoo:
Figura n.   . Fonte: Polticelli, 2003, p. 84.

La figura seguente illustra la filogenesi dei Pesci (le zone in grigio illustrano le abbondanze relative, in crescita, in calo, o estinte, che dipendono dalla loro distribuzione temporale):
Figura n.   . Fonte: Polticelli, 2003, p. 86.

È poi dai sopra citati pesci ossei (Crossopterigi Ripidisti e Dipnoi), per affinità presenti nelle caratteristiche strutturali e per la doppia respirazione, che si possono ritrovare le basi delle linee evolutive che portano agli anfibi (tutti d’acqua dolce) e, da questi, a tutti i tetrapodi terrestri. Esistono così, per radiazione adattativa degli Osteitti, e ca. 360 milioni d’anni fa (tra il Devoniano e il Carbonifero), in un periodo prolungato di grandi siccità che obbligano ad adattamenti alla vita fuori dalle acque dolci, a grossi anfibi dotati d’una lunga coda appiattita e d’un cranio rivestito da una massiccia corazza di placche ossee, con una sostanziale mancanza del collo e con una lunghezza che può raggiungere i 2 metri e, soprattutto, in possesso di veri polmoni (in quanto le branchie, presenti in periodo larvale, sono state riassorbite alla metamorfosi), d’una struttura scheletrica ossificata adattata, grazie ad arti primitivi evoluti dalle pinne robuste e lobate, a colonizzare la terraferma (anche se con un ciclo riproduttivo legato all’acqua; infatti, nell’acqua depongono le uova senza guscio nelle quali si sviluppa, senza amnio, un embrione a respirazione branchiale che continua a vivere nell’acqua sino alla metamorfosi; l’amnio, amnios, come sopra detto, è un involucro embrionale e fetale che ha la forma di un sacco nella cui cavità interna è contenuto l’embrione, poi il feto, sospeso in un liquido sieroso limpido, o liquido amniotico, che serve a proteggerlo; per questo gli Anfibi sono detti anamni e, in questo, si differenziano da Rettili, Uccelli e Mammiferi che, invece, sono amnioti). Questi Anfibi sono detti Stegocefali (Stegocephali), e appartengono a una linea evolutiva poi estintesi nel Mesozoico, e l’Ichthyostega eigeli, come forma transizionale tra Pesci e Anfibi, n’è il più antico rappresentante, da cui discenderanno e si diffonderanno a seguire, nel Carbonifero, i Rettili. La figura seguente mostra l’apparato scheletrico d’Ichthyostega eigeli (con veri arti, anche se corti, tozzi, con un corpo appiattito sul terreno non molto efficienti per la marcia sul terreno):
Figura n.   . Fonte: Polticelli, 2003, p. 84.

Alla fine del Devoniano (354 milioni d’anni fa) si presenta un’estinzione di massa che colpisce soprattutto le specie localizzate nella fascia tropicale, e il Carbonifero (354-290 milioni d’anni fa), che segue, vede, con la dominanza con un clima caldo-umido, la diffusione d’estese foreste palustri, dove le specie più diffuse sono la Calamite (Calamites), genere della famiglia delle Articolate (Articulatae; che comprende uno dei gruppi dominanti durante questo periodo che, spesso, presentano un’altezza tra i 20 e i 30 metri, cui è pari una struttura complessa); e le sopra citate Pteridofite, con i Lepidodendri cui s’aggiunge la Sigillaria (Sigillaria; della famiglia di piante dell’ordine lepidodendrali), piante queste con un fusto diritto alto fino a 15-20 m  e un apparato fogliare che le porta fino a 30 m, con un diametro che può essere alla base di 2 m, terminante generalmente con rami più abbondanti nel Lepidodendron e più raccolti in Sigillaria, come mostra la figura seguente (la Sigillaria è a sinistra):


Figura n.   . Fonte: Padoa, 1971, p. 106.

Si presentano inoltre, al loro apogeo, le Pteridosperme e le Cordaitali (Cordaitales), vere e proprie Gimnosperme, d’un gruppo destinato ad estinguersi alla fine del Permiano, ma dal quale hanno probabilmente preso origine le Conifere (Coniferae, classificate oggi come Pinophyta; classe di piante delle Gimnosperme che presentano un fusto diritto centrale da cui si dipartono i rami su tutta la lunghezza, con foglie squamiformi o aghiformi), di cui il genere più antico e la Walchia. Altre componenti di queste foreste del Carbonifero sono le felci arboree, simili alle forme tropicali ancor oggi viventi, come mostra la ricostruzione di Megaphyton nella figura seguente:


Figura n.   . Fonte: Padoa, 1971, p. 108.

Per inciso, l’accumulo d’una grande quantità di sostanze organiche, piante e altro, che portano alla formazione d’immensi giacimenti di carboni fossili, il processo è facilitato per quanto riguarda le piante dal fatto che i grandi alberi del Carbonifero, avendo un apparato radicale ampiamente espanso in senso orizzontale, ma privo di robuste radici a fittone (cioè che si sviluppano prevalendo, soprattutto in spessore, sulle laterali), possono essere facilmente atterrate da fenomeni atmosferici quali il vento o le piogge che rendono i fiumi alluvionali, ciò che ne permette il trasporto per accumulo sui fondali di zone paludose e acquitrinose che ne impediscono poi la decomposizione (e dati i tempi lunghi di questo processo di carbonificazione, si tratta di giacimenti d’antracite, v. supra). In quest’ambiente si sono poi diffusi degli Artropodi, tra cui la famiglia dei Blattidi, (dell’ordine Blattoidei, Blattoidea, molto simili agli scarafaggi odierni), organismi ch’amano gli ambienti umidi e risultano essere predominanti, e insetti alati, simili a libellule, con forme relativamente gigantesche e con un’apertura alare che può superare il mezzo metro; tra gli Aracnidi, si trovano scorpioni (Scorpiones) tra i primi organismi, come detto, probabilmente a transitare dalle acque alla terraferma e a colonizzarla assieme alle Piante); Chilognati (Chilognatha), o millepiedi, amanti dei detriti vegetali, di cui si cibano; e Aranei (Araneae), predatori conosciuti con il nome di ragni. Infine, tra i Molluschi, si trovano le chiocciole (nome comune dei Gasteropodi Polmonati dell’ordine Stilommatofori, famiglia Elicidi). Dagli anfibi (Amphibia), come detto i primi vertebrati in grado di vivere anche in habitat terrestri (e di colonizzarli), compaiono in seguito, per radiazione adattativa dovuta ad affrancamento dalle zone acquatiche, i Rettili (Reptilia); questi Rettili, strutturalmente simili agli anfibi e diffusi alla fine del Carbonifero e nel successivo Permiano, introducono, oltre a un sistema circolatorio più efficiente, una novità evolutiva, che li rende capaci di colonizzare anche ecosistemi ostili, cioè capaci d’affrontare difficili condizioni ambientali, novità ch’è data dalla comparsa d’un uovo subaereo (le uova, infatti, sono deposte sul terreno) il cui guscio protegge l’embrione dall’ostilità dell’ambiente e dalla disidratazione e ne permette in pari tempo, grazie alla sua porosità, la sua respirazione, cioè gli scambi gassosi con l’esterno (diossido di carbonio in uscita, ossigeno in entrata), uovo il cui interno è anche in grado di fornire alimento in quanto provvisto di amnios (e tutti i tetrapodi sono amnioti, a differenza degli Anfibi che, come sopra detto, sono anamni), cioè un uovo amniotico in cui avvengono le prime fasi di sviluppo dell’embrione protetto dal guscio. Ancora, nei Rettili manca il sistema di termoregolazione quale lo presentano i restanti Tetrapodi, cioè Uccelli e Mammiferi (i Rettili, infatti, sono animali a sangue freddo la cui temperatura corporale, non molto diversa da quella dell’ambiente esterno, ne subisce le variazioni, sono cioè eterotermi, a differenza di uccelli e mammiferi che sono a sangue caldo, omeotermi, ossia con una condizione corporale di relativa stabilità termica che, grazie a meccanismi interni di termoregolazione, permette loro una parziale indipendenza dalle oscillazioni termiche dell’ambiente); eterotermia che fa sì ch’essi dipendano dalla temperatura esterna, cioè o da suoli caldi o dalla radiazione solare (ciò che spiega perché ibernino al freddo o estivino, cioè rallentino il loro metabolismo in una specie di stato di torpore, se troppo caldo). Le testimonianze fossili del passaggio dagli Anfibi ai Rettili sono scarse, ed è per questo ch’è accettato come primo rettile l’Hylonomus, un organismo carnivoro e insettivoro d’una ventina di centimetri di ca. 315 milioni d’anni fa che ricorda la lucertola, cui segue un’imponente radiazione adattativa con lo sviluppo di diverse linee evolutive. Se nel Carbonifero si manifestano gli appartenenti all’ordine dei Cotilosàuri (Cotylosauria), rettili simili nell’aspetto agli anfibi e caratterizzati da un cranio massiccio e da arti corti e tozzi terminati da cinque dita, sia con piccole che con medie forme (si parte da pochi decimetri per arrivare, ma raramente, a superare i due metri), per la fine del Permiano da questi si sono già evoluti e assestati una dozzina d’ordini (di cui ne sopravvivono solo quattro) che rendono i Rettili ormai dominanti sulla terraferma dove questi, infine, o predano gli Anfibi o li ricacciano ai bordi dell’acqua. La figura seguente illustra un Cotilosauro del genere Limnoscelis (lungo 1,50 m):


Figura n.   . Fonte: Padoa, 1971, p. 194.

Nei mari sono poi presenti, tra altri, i Fusulìnidi (Fusulinidae; organismi cellulari protisti con guscio fusiforme o discoidale costituito da una lamina calcarea avvolta a spirale simmetrica, con tanti setti trasversi che delimitano altrettante logge), appartenenti un gruppo di Foraminiferi (Foraminifera) di piccole dimensioni (tra 1 e 7 cm) e i Molluschi predatori Cefalopodi (classe che comprende oggi seppie, polpi, calamari, etc.). Nel Permiano (290-245 milioni d’anni fa), che segue il Carbonifero, si chiude il Paleozoico (o Primario), ed è questo il periodo in cui la tettonica delle zolle porta all’aggregazione in un unico blocco delle terre emerse, ciò che forma il supercontinente Pangea, cui è pari un restringersi della superficie marina; infatti, la fine del Primario è segnata da una regressione, estesa a tutte le terre emerse, dei mari epicontinentali, non si sa se per innalzamento delle masse continentali o per sprofondamento dei fondi oceanici, seguite nel Secondario da una nuova trasgressione marina (ossia da un riavanzamento dei mari a riformare mari epicontinentali). La figura seguente mostra la paleogeografia della Terra di 225 milioni d’anni fa (225 Ma):


Figura n.   . Fonte: Altschuler, 2005, p. 110.

(si noti, nella figura che il Sudamerica e l’Africa sono unite nel Gondwana, come dimostrano anche alcuni ritrovamenti fossili di Mesosaurus, Lystrosaurus, Cynognathus e Glossopteris su entrambe le attuali coste, v. supra). In questo periodo è, inoltre, presente una notevole attività vulcanica e il clima si differenzia fra gli Emisferi, e si presenta caldo-arido in quello boreale e, al contrario freddo in quello australe (com’è testimoniato da depositi glaciali). Nella flora si sviluppano le Gimnosperme, tra cui le Conifere, e le Glossopteris (diffuse soprattutto nell’Emisfero australe, nel Gondwana), felci a sviluppo arboreo, alte fino a 6 metri e con un diametro del troco sino a 40 cm; diffusione ch’è pari alla riduzione dei Lepidodendri e delle Calamites. Nella fauna s’estinguono le Trilobiti, gli Echinodermi, i Brachiopodi, nel mentre si sviluppano le barriere coralline (grazie alle colonie di Briozoi, numerose e diversificate); le Ammoniti (Ammonoidea), una sottoclasse di Molluschi Cefalopodi con conchiglia calcarea di dimensioni variabili avvolta a spirale su un piano e divisa da setti in tante camere di cui l’ultima, come nei Nautiloidi, è abitata dall’animale (le Ammoniti prevalgono poi, nel Secondario, sui Nautiloidi); gli Insetti (quasi tutti gli ordini che oggi sopravvivono hanno fatto la loro apparizione nel Permiano) e i Rettili, ormai diffusi al pari degli Anfibi. Tra i Rettili, si presentano anche i Pelicosauri (Pelycosauria), dotati generalmente di una grande cresta dorsale, ricca di vasi sanguigni e sostenuta da lunghe spine neurali delle vertebre (come, per esempio, nel Dimetrodon), interpretabile come superficie traspirante  che permette a questi organismi di conquistare qualcosa di simili all’omeotermia, cioè di liberarsi in parte dai condizionamenti imposti dalle temperature dell’ambiente esterno (infatti, se esposta al Sole, la cresta dorsale permette di ricevere calore, se tenuta all’ombra o di taglio rispetto al Sole, serve a irradiare, cioè a sottrarre calore dal corpo), fatto generalmente interpretato come ponte evolutivo dell’omeotermia presente negli Uccelli e Mammiferi. La figura seguente mostra la struttura esterna del Dimetrodon (di lunghezza di ca. 3,5 m); si ricorda che il termine Dimetrodonte significa che ha denti di due misure (dal greco δί-, due, μέτρον, misura e ὁδούς ὁδόντος, dente), ciò che rimanda al fatto che quest’organismo presenta due differenti tipi di dentatura, cioè è eterodonte, laddove una dentatura è adatta a tagliare mentre l’altra è acuminata, ciò che gli permette, a differenza dei rettili che il cibo l’ingurgitano per intero, di tagliarlo, di fatto di digerirlo meglio e con più facilità (la dieta del Dimetrodonte è carnivora); si ricorda ch’è quest’eterodontia che apparenta quest’organismo a tutti i mammiferi, cetacei esclusi):


Figura n.   . Fonte: Padoa, 1971, p. 216.

Nel Triassico (245-195 milioni d’anni fa), che segue il Permiano e apre il Mesozoico (o Secondario), s’inaugura una fase di smembramento della Pangea che si suddivide in Laurasia (a Nord) e Gondwana (a Sud); questa frammentazione è accompagnata, a causa della distensione della superficie terrestre, cioè di fenomeni d’assestamento, dall’apertura di fosse tettoniche dalle quali risalgono abbondanti flussi di materiale lavico (magma basaltico) mentre nell’America settentrionale si presenta un grande complesso di pieghe che s’estendono in lunghezza per poco meno di 3 000 km e formano infine il sistema montagnoso degli Appalachi (Appalachian Mountains); il mare, inoltre, è in espansione su vaste porzioni di terre emerse (cioè presenta fenomeni di trasgressione marina, v. supra), là dove forma lagune e laghi salati (a questo proposito, come detto, si parla di mare epicontinentale, epeirec sea); ancora, è importante ricordare che gli organismi che si presentano in questo periodo sono o sopravvissuti o nuove speciazioni che seguono l’estinzione di massa avvenuta alla fine del Permiano, che ha cancellato il 96% delle specie, come dire, dunque, che sono il risultato d’una riorganizzazione delle biocenosi. Infatti, gli studiosi dicono che l’ecosistema globale ha impiegato ca. 5-10 milioni d’anni per ritornare in una situazione d’equilibrio resiliente a causa della situazione ereditata dal periodo Postpermiano, e ne è un esempio, il fatto che sono presenti temperature di 40 °C nelle acque marine di superficie (contro i 25-30 °C dei periodi normali), e fino a 50-60 °C nelle zone emerse, questo nelle regioni della fascia tropicale ed equatoriale, ciò che rende di fatto impossibile per lungo tempo la ripresa della vita negli habitat tropicali ed equatoriali, vita ch’è in lenta ripresa solo al di fuori di questa fascia priva di forme viventi o quasi.  Nel Triassico, in un clima generalmente caldo-arido, la flora terrestre si presenta molto diversa da quella di fine Primario; scompaiono, infatti, le grandi Licopodiali arboree (le Licopodiàcee, Lycopodiaceae, appartengono alle Pteridofite), i Lepidodendri e le Sigillarie (v. Figura n.  ); inoltre le felci, le Pteridosperme e le Articolate arboree (tra cui le Calamite sopra citate) sono sostituite da forme sistematicamente affini, ma di minor taglia, mentre le principali essenze forestali sono soprattutto rappresentata dalle piante Gimnosperme, come visto piante che, nell’ipotesi che le condizioni dell’ecosistema d’arrivo del seme siano sfavorevoli allo sviluppo della pianta stessa, rendono il seme stesso quiescente. Tra queste scompaiono le Cordaitali (v. supra) e compaiono le Cicadali (Cycadales, piante con un fusto aereo, semplice o poco ramificato, terminante con un ciuffo di foglie, simili a felci arborescenti o a palme); le Ginkgoali (Gingkoales) che, pur preesistenti, mostrano nel Mesozoico una maggiore variabilità morfologica, grazie all’azione mitigatrice dei mari continentali (e di cui è testimonianza fossile vivente il Ginkgo biloba) e, infine, la diffusione delle Conifere, mentre solo in certe zone persistono ancora le felci e, negli ambienti palustri, sono dominanti le Equisetacee. Le Conifere sono poi piante a fusto legnoso, con un fusto alto, diritto e ramificato su tutta la lunghezza (con una chioma a triangolo rovesciato), e solo per alcune specie è arbustivo o strisciante; le foglie, sottili e di ridotte dimensioni, sono generalmente a forma d’ago (aghiformi), e portano i semi nudi sulle squame (formate, queste, da foglie modificate) d’una specie di frutto conico, detto cono (o strobilo), contenente numerosi semi (o pinoli) che risultano essere protetti dalle squame; i semi cadono solo quando il cono è giunto a maturazione, cioè quando apre le squame; le foglie che cadono, inoltre, sono sostituite da altre, il che fa sì che i rami sono generalmente sempreverdi (le Conifere non sono piante decidue); i coni, distribuiti su rami separati, sono poi maschili e femminili, e i coni maschili, piccoli, portano il polline, mentre i coni femminili, più grandi, sviluppano una o più cellule-uova; il polline, ch’è prodotto in grandi quantità, è poi trasportato dal vento (con una disseminazione anemocora, v. infra) grazie alle espansioni alari di cui è dotato, e quando raggiunge le cellule-uova le feconda provocando lo sviluppo del seme, tanto che le squame che portano le cellule-uova, se fecondate, s’ingrandiscono e lignificano fino a formare quella che si chiama pigna, con cui reinizia il processo. Nelle acque calde e salate, grazie all’abbondanza dei mari epicontinentali che formano ambienti acquatici di modesta profondità, sono presenti organismi biocostruttori coloniali, con la rapida diffusione degli Esacoralli, Hexacorallia, noti anche come Sclerattinie, che sostituiscono i precedenti Tetracoralli, cui s’aggiungano le Calcisponge, Calcispongiae, o Spugne calcaree, anch’esse viventi a poca profondità, isolate o in colonie. Grande sviluppo presentano, inoltre, le Diploporèe (Diplopora), Alghe diffuse con molti generi che presentano il corpo vegetativo (il sopra citato tallo), incrostato di carbonato di calcio, CaCO3, che fa di loro degli organismi costruttori di scogliere; i Bivalvi (Bivalvia), detti anche Lamellibranchi, classe di Molluschi comprendente tutti animali acquatici, generalmente marini, dal corpo compresso, simmetrico, senza capo differenziato, che vivono in acque basse; i Crinoidi (Crinoidia), una classe d’Echinodermi, tra cui si trovano anche gli Asteroidi (Asteroideae, detti anche stelle di mare) e gli Echinoidi (Echinoidea, detti anche ricci di mare) che cominciano ad assumere importanza. Ma sono soprattutto le Ammoniti che raggiungono una preminenza enorme, per numero di specie e d’individui, tra i Molluschi Cefalopodi (con numerosi generi che non si propagano però oltre questo periodo). Tra gli invertebrati, sono inoltre presenti le prime specie di quegl’insetti in grado d’effettuare una metamorfosi completa, da larva ad adulto. Quanto ai Vertebrati è da segnalare la presenza di Dipnoi adatti alla doppia respirazione, uno sviluppo degli Anfibi che presentano le forme più gigantesche della classe (per esempio, il Mastodontosauro, Mastodonsaurus, un Anfibio stegocefalo con un cranio a forma triangolare tronco e coda corti fino a una lunghezza di 4 metri; il cranio, da solo, misura 1 metro di lunghezza) e il considerevole slancio evolutivo dei Rettili morfologicamente ben differenziati che provocano la grande decadenza degli Anfibi. Rettili che conquistano anche gli ambienti acquatici e tra questi i Placodonti (Placodontia), di lunghezza tra 1 e 2 metri, provvisti di denti caratteristici a placca che servono probabilmente per triturare le conchiglie dei Molluschi del fondo di cui si nutrono; i Notosauri (Nothosauri), con un corpo di dimensioni variabili, medio-piccole, un cranio triangolare, arti poco sviluppati e con le estremità parzialmente modificate per il nuoto, probabilmente delle membrane a legare le dita, che rappresentano un ritorno dei Rettili ad una vita nell’acqua, alla quale si sono più o meno adattati. La figura seguente illustra lo scheletro d’un Notosauro (qui un Lariosauro, Lariosaurus, con una lunghezza compresa tra 60 e 130 cm):


Figura n.   . Fonte: Padoa, 1971, p. 199.

Oppure s’hanno, sempre in ambiente acquatico, gli Ittiosauri (Ichthyosauria), con un corpo fusiforme idrodinamicamente modellato, con lunghezze da 1 a 15 metri sormontano da una pinna triangolare grande e con arti che si sono trasformati in brevi pinne, cranio allungato, muso sottile e collo breve; la loro dieta prevede o pesci o molluschi provvisti di conchiglia e, a differenza degli altri rettili che sono ovipari, gli Ittiosauri sono probabilmente vivipari e partoriscono in acqua un piccolo ch’esce per la coda (la viviparità è tipo di riproduzione in cui, a differenza della oviparità e della ovoviviparità, l’embrione non si sviluppa all’interno d’un uovo, che dagli ovipari è deposto e dagli ovovivipari è trattenuto nell’ovidotto fino alla sua dischiusa, dove l’ovidotto, nell’apparato genitale femminile di questi organismi, è un canale a pareti proprie dove transitano le uova prodotte negli ovarii; infatti, nei vivipari l’embrione è accolto e si sviluppa all’interno dell’utero, laddove la madre provvede alla sua nutrizione attraverso la placenta; per cui, al termine della gravidanza, la prole o si dischiude dall’uovo, come negli ovipari, o è partorita vivente, e questo tanto nel caso della ovoviviparità quanto della viviparità). La figura seguente mostra la trasformazione propria ai Rettili d’un arto in pinna attraverso cinque esempi (a, b, Ittiosauri; c, Plesiosauri, Plesosauria; d, Notosauri; e, Mososauri, Mosasauridae); le lettere o, u, r, indicano, rispettivamente, la possibilità di riconoscere l’omero (e il femore), l’ulna, il radio (tibia e fibula) e mano e piede con una serie di dita, talvolta più, talvolta meno di cinque, caratteristiche per la plurifalangia:


Figura n.   . Fonte: Padoa, 1971, p. 196.

La figura seguente mostra invece lo scheletro d’un Ittiosauro del Cretacico (10 m di lunghezza):


Figura n.   . Fonte: Padoa, 1971, p. 195.

S’ha, infine, la comparsa dell’ordine dei Terapsidi (Therapsida); si tratta di Rettili in gran parte predatori, con corpo massiccio, di taglia che varia tra quella di un topo e quella di un cane, che mostrano lo sviluppo d’un metabolismo ch’è precursore di quello dei mammiferi; questi Rettili sono inoltre dotati di mascelle che manifestano eterodontia, ossia provviste di denti robusti e specializzati in grado di spezzare, tagliare e masticare e quasi certamente si tratta d’animali più o meno perfettamente omeotermi che presentano, come detto, ridotte dimensioni. È poi da un gruppo di Terapsidi, i Cinodonti (Cynodontia), con caratteri mammaliformi molto pronunciati, che s’originano i primi mammiferi (per esempio, il sopra citato Cynognathus, di piccola taglia, forse ricoperto di pelo; con l’omero e il femore disposti quasi verticalmente; eterodonte, con incisivi, canini, e, dietro, quasi dei molari; con lo sviluppo di un palato secondario che serve per permettere la masticazione durante la respirazione, necessità dettata dall’omeotermia che richiede maggiori necessità di ventilazione polmonare; dunque con una struttura che presenta parentele con quelle dei moderni Mammiferi). In ogni caso, tra i Mammiferi ancestrali, ci sono quelli noti con il nome di Triconodonti (Triconodonta), che hanno analogamente ai Terapsidi, ridotte dimensioni corporee e una dieta carnivora (come mostrano la dentatura differenziata in incisivi, canini particolarmente sviluppati, premolari e molari e l’articolazione della mandibola); la presenza di robusti artigli consente loro, inoltre, d’arrampicarsi sugli alberi, dunque di colonizzare anche l’habitat arboricolo. La figura seguente mostra lo scheletro d’un Triconodonte:

Figura n.   . Fonte: Polticelli, 2003, p. 106.

Tra i Rettili, infine, sono presenti anche i Tecodónti (Thecodontia), che presentano un’andatura tetrapode o bipede, sono rivestiti di una notevole armatura dermica, e hanno denti impiantati in alveoli; in questo ordine, esclusivo del Triassico, sono poi compresi i progenitori dei Dinosauri (compresi gli uccelli). Tra i Tecodonti e i mammal-like reptiles (cioè i Rettili che presentano caratteri che si definiscono mammaliani o mammaliformi, da Mammalia, il nome in latino scientifico che, come visto, designa i Mammiferi) sono presenti enormi possibilità evolutive, ma bisognerà aspettare l’estinzione di massa del Cretacico perché queste potenzialità dei mammiferi possano manifestarsi in modo esplosivo nel Terziario, cioè la del tutto fortuita estinzione dei Dinosauri. Per inciso, il suffisso -sauri che tante volte si è ripresentato deriva dal greco σαῦρος, lucertola. L’estinzione avvenuta nel tardo Triassico (circa 220 milioni di anni fa), legata alla frammentazione della Pangea, è poi responsabile della scomparsa del 50% delle specie allora viventi (tra cui Anfibi e Rettili). Nel Giurassico (detto anche Giurese, e in certi testi Giura; 195-138 milioni d’anni fa), che segue il Triassico, continua la dinamica di frammentazione della Pangea, ma in assenza di fenomeni orogenetici imponenti, è permessa un’espansione della Tetide e una parziale e ineguale sommersione, per trasgressione marina, delle aree continentali, con formazione di mari bassi e bacini più profondi (mari epicontinentali), mentre la parte meridionale dell’Europa e dell’Asia e quella litorale occidentale del Nord America corrispondono a zone sempre più infossate che diventano di mare profondo; ancora, nel Gondwana iniziano a separarsi il Sud America e l’Africa, ciò che manifesta la paleoformazione dell’Atlantico meridionale e l’estensione dei suoi fondali, e il Nord America si sposta verso Ovest permettendo la neoformazione del Golfo del Messico e, infine, l’India inizia la sua deriva verso Nord. Da sottolineare che questa frammentazione incomincia a influenzare la diversità delle biocenosi; infatti nel Triassico, a fronte d’una Pangea non frammentata, le associazioni faunistiche, per esempio, presentano, pur in differenti località, una sostanziale uniformità legata alla continuità del territorio e dell’ecosistema (cioè con assenza di barriere insormontabili e una situazione climatica omogenea), come mostrano animali come il Celurosauro Coelophysis o il Prosauropode Plateosaurus e forme strettamente affini che si ritrovano tal quali in siti fossiliferi di diversi continenti; cosa che invece non si manifesta nel Giurassico dove, in aree diverse, sono presenti specie distinte, in altre addirittura generi diversi, il che c’informa sul fatto che le barriere geografiche imposte dalla frammentazione della Pangea favoriscono l’isolamento delle popolazioni, ciò ch’innesca processi di differenziazione degli ecosistemi e, conseguentemente, delle derive genetiche (a causa dell’inincrocio del pool genico delle popolazioni residenti, v. infra), cioè delle linee evolutive diverse e, soprattutto, indipendenti, tanto che, per continuare l’esempio delle associazioni faunistiche, specie ben distinte caratterizzano aree geografiche diverse. La figura che segue illustra la situazione paleogeografica di 150 milioni d’anni fa (150 Ma):


Figura n.   . Fonte: Altschuler, 2005, p. 111.

Il clima, come mostra l’esistenza di diffuse scogliere e barriere coralline, è generalmente più umido e caldo (con una fase di maggiore aridità verso la fine del periodo). La flora, che in linea generale evolve verso forme sempre più simili a quelle attuali, nelle zone a clima umido è caratterizzata da foreste costituite da Conifere (Araucarie Araucariaceae), Ginkgoate e Felci erbacee e arboree; nelle zone a clima più arido sono presenti Cicadali (v. supra) e Felci igrofile (cioè che crescono nei terreni umidi); nelle zone boreali si diffondono, tra le Conifere, le prime Abitinee [Abietinee?]; compaiono inoltre verso la metà del periodo, quando s’evolvono esemplari di transizione tra le Gimnosperme e le Angiosperme, le Caytoniali (Caytoniales) che preludono alle Angiosperme vere e proprie. Particolare importanza acquista la flora marina con le Alghe (nei mari, lungo le coste e fino ai margini della piattaforma continentale, in un ambiente che si definisce neritico, in cui la profondità delle acque varia fra 0 e 200 metri, prosperano le Alghe calcaree; si presentano inoltre le Diatomee, Diatomeae, o Alghe silicee) e, insieme alle Alghe, gli Esacoralli contribuiscono alla formazione di strutture organogene. La fauna vede la proliferazione nei mari di tutta la Terra, di predatori, quali le migliaia di specie d’Ammoniti in rapidissima evoluzione, e delle Belemniti (Belemnites), le une e le altre Molluschi cefalopodi, a loro volta, predate dai Rettili marini; sono inoltre presenti Bivalvi, Foraminiferi bentonici, Brachiopodi e Gasteropodi. Fra i Vertebrati, i Rettili sono di gran lunga i più importanti per la varietà di forme, per la mole e per l’adattamento a tutti gli ambienti; alcuni adattati alla vita del mare, quali Ittiosauri e Plesiosauri, altri alla terraferma, con una varietà di forme che in alcuni casi raggiunge enormi dimensioni, altri adattati anche alla colonizzazione dell’aria, come gli Pterosauri (Pterosauria), detti anche Sauri (o Rettili) volanti. Questi Rettili ultimamente citati, il cui habitat è lungo le aree costiere, con sfondamenti in mare aperto alla ricerca di cibo (i pesci), non hanno penne e sono ricoperti di pelo (cioè omeotermi) e adattati al volo e con una membrana alare d’origine dermica (o patagio) sottesa fra il corpo e l’arto anteriore e sostenuta principalmente dal quarto dito delle estremità anteriori, formato da 4 falangi estremamente allungate (cioè da un dito molto più lungo delle altre 4 dita dell’arto); possiedono, inoltre, ossa cave e pneumatiche e un cranio con la maggior parte degli elementi saldati insieme, con un cervello mediamente più grande di quello dei Rettili (ossa e cranio sono poi come negli Uccelli); nei più antichi Pterosauri non si supera il metro d’apertura alare, ma, con la loro diffusione, si presentano molteplici specie, fino ad arrivare, nel Cretacico, al Pteranodònte (Pteranodon, un sottordine, quello dei Pterodattiloidèi, Pterodactyloidea) con mascelle conformate a becco (che sono un prolungamento del cranio) e senza denti e con un’apertura alare di 7,5-8 metri, e al Quetzalcoatlo (Quetzalcoatlus), con 200 kg di peso, un collo lunghissimo e ben 11-12 metri d’apertura alare. La figura seguente illustra lo scheletro di due Pterosauri, il primo del Giurassico (un Ranforincoidèo, Rhamphorhynchoidea, con cranio provvisto di denti molto lunghi e acuminati, membrana alare lunga e falcata e coda allungata), il secondo del Cretacico (uno Pterodàttilo, Pterodactylus, con coda molto corta e il cranio prolungato per lo più in forma di lungo becco, generalmente privo di denti):


Figura n.   . Fonte: Padoa, 1971, p. 211.

I dinosauri (in cui il prefisso dino-, dal greco δεινός, deinòs, significa terribile, terrificante) sono un gruppo di Rettili Arcosauri (Archosauria) con un unico antenato ancestrale, cioè un gruppo monofiletico, che non va confuso con i Rettili adattati alla vita del mare o che hanno colonizzato prima degli Uccelli l’ambiente aereo, come i Rettili volanti (come dire che i Rettili sono un gruppo polifiletico, derivato da più specie ancestrali); i Dinosauri (compresi gli Uccelli), infatti, appartengono a un gruppo derivato da un Tecodonte ancestrale diramatosi in due soli ordini, quello dei Saurischi (Saurischia) e quello degli Ornitischi (Ornithischia), i primi, da subito bipedi, con forme inizialmente carnivore (Teròpodi, Theropoda) e in seguito quadrupedi ed erbivore (Sauròpidi, Sauropoda); i secondi, di cui solo una minoranza è bipede, esclusivamente specializzati per un’alimentazione erbivora. La figura seguente mostra la filogenesi dei Dinosauri:


Figura n.   . Fonte: Polticelli, 2003, p. 97.

I Dinosauri, inoltre, sono o piccoli o giganteschi, laddove, nei giganteschi, s’arriva poi fino a un massimo di 30-40 metri di lunghezza e ad una stazza fino a 40-50 tonnellate ca. sostenuta su arti definiti colonnari; si ricorda ch’è solo grazie alla radiazione adattativa che si sono poi sviluppati dai corpi piccoli quelli grandi, probabilmente per deriva genetica, cioè a causa della frammentazione della Pangea che ha imposto con le sue barriere un isolazionismo geografico che ha portato i pochi individui residenti ad incrociarsi tra loro, con l’effetto d’un ridimensionamento in grande del corpo. Per esempio, nel passaggio dal piccolo al grande, tra i Saurischi s’è passati dal non meglio identificato Palaeosaurus al Tirannosauro (Tyrannosaurus), la cui testa può superare 1 metro di lunghezza, è lungo fino a 15 metri e con un’altezza di 5-6 metri, e la sua mole può raggiungere 3 tonnellate; dal Tecodontosauro (Thecodontosaurus), lungo 2 metri, al Brontosauro (Brontosaurus; oggi classificato come Apatosaurus), alto fino a 20 metri e con una massa tra le 30 e le 50 tonnellate; tra gli Ornitischi dallo Scelidosauro (Scelidosaurus), lungo fino a 4 metri, allo Stegosauro (Stegosaurus), lungo fino a 9 metri, alto fino a 4 metri e con una stazza di 5 tonnellate, e altri ancora. La figura seguente mostra uno Stegosauro del Giurassico (si notino gli arti anteriori, notevolmente più corti di quelli posteriori, il cranio molto piccolo, il tronco e la coda molto sviluppati, la colonna vertebrale in forma di arco fortemente convesso verso l’alto, il dorso corazzato con un’enorme cresta dentata, formata di grandi pezzi ossei dermici subtriangolari appiattiti, sostituiti nell’ultimo tratto della coda da coppie di lunghi e grossi aculei):


Figura n.   . Fonte: Polticelli, 2003, p. 109.

Tutti questi, inoltre, condividono un medesimo assetto degli arti posteriori posti diritti sotto il tronco e non lateralmente come in altri Rettili (gli arti anteriori talvolta sono meno sviluppati di quelli posteriori, mentre in altri sono prensili, cioè con il primo dito opponibile; ad ogni modo tutti possiedono tre dita sviluppate, mentre le altre due sono ridotte), e alcuni presentano un’andatura tetrapoda, altri bipede, altri ancora tutt’e due le andature (e alcuni sono molto veloci, fino a 65 km/h, altri molto meno) e dove la lunga e rigida coda serve a bilanciare il corpo durante i movimenti; è da sottolineare che il bipedalismo è un tipo di deambulazione sugli arti posteriori ch’è stata sviluppata solo da alcuni vertebrati tetrapodi; infatti, tra le specie viventi, è presente negli uccelli, dove questa deambulazione è resa necessaria dalla trasformazione degli arti superiori in ali; ed è presente anche in pochi altri Primati e nell’uomo è poi associata alla stazione eretta; nel passato, caratterizza solo alcuni Dinosauri); presentano, inoltre, una similare conformazione del bacino (il bacino è un insieme di ossa, specificamente ileo, ischio e pube, che servono a collegare gli arti posteriori alla colonna vertebrale; ora, in tutti i Dinosauri l’acetabolo, cioè la cavità rotonda in cui s’inserisce la testa del femore, è perforato, cosa che nessun altro vertebrato possiede; ed è poi questa conformazione del bacino che permette ad alcuni Dinosauri di mantenersi in posizione eretta su due arti; la forma del bacino è poi triradiata nei Saurischi (caratterizzati da un ileo largo e un ischio lungo e stretto, entrambi rivolti all’indietro, e un pube, stretto e lungo, rivolto in avanti, cioè con forme in cui ischio e pube sono divergenti, contrariamente a quanto avviene negli Ornitischi, com’è attualmente nei Rettili), mentre negli Ornitischi è tetraradiata (il pube porta un ramo posteriore parallelo all’ischio, un postpube, che s’estende posteriormente, come negli Uccelli); un cranio generalmente piccolo e diapside (alcune cavità del cranio sono note come fosse o finestre temporali o fenestrature, e i Dinosauri ne hanno due) e denti impiantati in alveoli (come i Tecodonti); il corpo è talora rivestito di dermascheletro, in forma di solida corazza con placche e aculei; ancora, sono ovipari (cioè nidificano e depongono le uova, che in alcune specie, sono covate) e, molti lo sostengono, sono anche omeotermi. La figura seguente illustra i bacini triradiati dei Saurischi (Allosaurus, A; Camarasaurus, B) e i bacini tetraradiati degli Ornitischi (Iguanodon, C; e Stegosaurus, D; le lettere a, b, c indicano, rispettivamente, l’ileo, l’ischio e il pube):


Figura n.   . Fonte: Treccani, s.v. Dinosauri.

Come dire, infine, che i Dinosauri, che spesso si muovono in gruppo, sono in possesso d’un apparato che risulta essere nel complesso molto più efficiente del loro antenato rettile (un Tecodonte, appunto). Nel Giurassico, ancora, evoluti da piccoli Teropodi (come detto, la linea carnivora dei Saurischi) denominati Celurosauri (Coelurosauria), organismi agili e veloci, relativamente piccoli (o di medie dimensioni; per esempio il Compsognathus, Compsognathidae, è lungo 60 centimetri) e in genere bipedi, compaiono i primi Uccelli caratterizzati inizialmente da alcune strutture morfologiche come mascelle provviste di denti, una lunga coda che presenta una ventina di vertebre e ricoperti di penne per favorire l’omeotermia, come nel caso dell’Archeoptèrige (Archaeopterix). La figura seguente illustra gli scheletri d’Archaeopterix, del Giurassico, con i caratteri intermedi tra Rettili e Uccelli (per esempio, lo scheletro è simile a quello d’un Celurosauro, ma è ricoperto di penne che danno origine ad ali artigliate), e d’un Ittiornìtide (Ichthyornithidae), un vero e proprio Uccello, nella fattispecie, marino, del Cretacico, con ossa delle ali robuste, da forte volatore, con l’accorciamento della regione caudale, però con la bocca ancora armata di denti (questi ultimi sono scomparsi completamente e sostituiti da un becco in tutte le forme più recenti, la cui prima testimonianza fossile è Confuciusornis, del Cretacico):


Figura n.   . Fonte: Padoa, 1971, p. 227.

Questa figura, invece, mostra la ricostruzione d’Archaeopterix:


Figura n.   . Fonte: Polticelli, 2003, p. 99.

Per quanto riguarda i Mammiferi del Giurassico, si conoscono piccole forme erbivore, carnivore, insettivore o onnivore, tra i quali Multitubercolati (Multituberculata), mammiferi esclusivamente erbivori, con incisivi adatti a rosicare e molari con numerose cuspidi (con forme e adattamenti simili agli attuali roditori); Triconodònti (Triconodonta), piccoli mammiferi che per la loro dentatura differenziata in incisivi, canini particolarmente sviluppati, premolari e molari, sono ritenuti carnivori e predatori (i molari, caratterizzati da molari a tre cuspidi disposte sulle stessa linea, quella mediana più elevata, che si ritiene abbia costituito il modello base da cui si sono evoluti i denti molari dei mammiferi odierni); e, infine, Pantotèri (Pantotheria), un gruppo di piccoli mammiferi insettivori che, grazie ai numerosi molari, è capace di triturare il rivestimento duro degli Insetti; comprende, probabilmente, i progenitori dei mammiferi attuali (oggi questo gruppo è sostituito da quello dei Driolèstidi, Dryolestida [?]). A seguire il periodo che chiude il Mesozoico (Secondario) e apre al Cenozoico (Terziario), vale a dire il Cretacico (138-66,5 milioni d’anni fa), che ha inizio con una vasta regressione marina pressoché generale dei mari epicontinentali, cui segue alla fine del periodo una trasgressione (in detta trasgressione il livello del mare cresce dappertutto inondando circa 1/3 delle terre emerse), ed è caratterizzato da movimenti tettonici che preannunciano i grandi sommovimenti orogenetici del Terziario, da fenomeni di  vulcanismo e dall’estensione in terraferma di vaste colate laviche (o trappi); specificamente, la placca continentale dell’Africa, staccandosi da Gondwana e andando alla deriva verso Nord, sottopone i fondali della Tetide a potenti forze di compressione che danno origine ai corrugamenti che, a seguire, nell’era Cenozoica, determinano il sollevamento della catena delle Alpi); mentre l’Oceano Atlantico, di recente formazione, s’amplia per l’espansione dei sui fondali, fenomeno che causa l’ulteriore allontanamento dell’Africa e del Sud America iniziato nel Giurassico (Africa che si sposta ora verso il Nord convergendo verso l’Europa). Il subcontinente indiano, separatosi anch’esso da Gondwana, continua la sua deriva verso Nordest mentre si verifica una sua lenta rotazione di ben 90° con la punta meridionale che da Ovest si dirige a Sud (come nella posizione attuale); ciò che comporta il corrugamento dei fondali della Tetide orientale e, di conseguenza, dà origine all’orogenesi della catena dell’Himalaya; l’Antartide e l’Australia sono ancora unite e si spostano alla deriva verso Sud e verso Ovest. Continua poi la deriva verso Ovest del Nord America che produce via via l’orogenesi delle Ande e delle Montagne Rocciose (sistema di cordigliere); ancora, l’America settentrionale è divisa in due da un mare epicontinentale che s’estende in direzione Sud-Nord. L’attività magmatica prodotta dalla tettonica delle placche sopra citate si manifesta negli Stati Uniti orientali, nelle Ande e soprattutto in India, dove darà origine ai già citati trappi basaltici del Deccan (v. supra e infra). La figura che segue mostra la situazione paleogeografica al limite tra il Cretacico e il Terziario (65 milioni d’anni fa, 65 Ma; per la segnalazione del Cratere di Chicxulub, v. le spiegazioni offerte a seguire):


Figura n.   . Fonte: Altschuler, 2005, p. 111.

La Terra, in questo periodo, manifesta una fase di clima caldo, in cui i Poli sono privi di ghiacci e le temperature, per esempio quelle significative dei mari artici, presentano temperature superiori ai 14 °C. È in questo contesto che nella flora continentale s’ha lo sviluppo delle Angiosperme (Fanerogame o Spermatofite). Queste piante, che oggi comprendono specie legnose, quali arbusti e alberi, specie erbacee, rampicanti e piante acquatiche, hanno grandezze estremamente variabili e crescono negli ambienti più disparati, dalle regioni temperate a quelle desertiche o artiche. Infatti, le loro radici, il fusto, le foglie si sono dimostrati estremamente adattabili, tanto che si sono trasformate in modo da render idoneo il cormo a una pluralità d’ambienti terrestri. In origine queste piante presentano ovuli racchiusi e protetti dalle foglie carpellari, e a seguire semi racchiusi nei frutti e, per spiegare la cosa, è necessario sapere che la foglia carpellare rimanda al carpello (parola che deriva dal greco καρπός, frutto) e che nel fiore, che caratterizza questa specie, è una foglia trasformata che produce gli ovuli che, se nelle Gimnosperme si presenta aperta e spianata, nelle Angiosperme è invece ripiegata su se stessa e suturata in modo tale da potere formare un apparato chiuso, rigonfio alla sua base, detto ovario, sormontato da una parte più sottile, o stilo, che generalmente si riallarga un poco nella parte superiore, o stimma, per consentire l’entrata dei granuli di polline (due o più carpelli costituiscono poi il pistillo del fiore). Grazie anche a questo le Angiosperme rappresentano il più alto livello evolutivo raggiunto dalle piante e con le loro infiorescenze e infruttescenze, come detto, via via si diffondono in tutti gli ecosistemi (con una rapida radiazione adattativa) a svantaggio d’altre piante (v. infra) conquistando così il predominio sulle terre emerse, prima le Dicotilèdoni (Dicotyledoneae), poi, a seguire e per evoluzione da una Dicotiledone primitiva, le Monocotiledoni (Monocotyledoneae). Il cotilèdone, nelle Angiosperme, è un organo embrionale che serve per il nutrimento della pianta nelle fasi che seguono la germinazione del seme; il nutrimento può avvenire o attraverso il rilascio delle sostanze nutritive in esso immagazzinate o con lo svolgimento della fotosintesi; può essere, dunque, di forma diversa secondo la funzione che svolge; infatti, può funzionare da organo di riserva quando assorbe il materiale di nutrimento dell’albume (cioè sostanze come proteine e carboidrati, ad alto valore energetico) per indirizzarlo nella pianta germinante, o può fungere da organo fotosintetico nel caso di presenti come foglia normale; i cotiledoni si presentano in numero di due nelle Dicotiledoni (inseriti lateralmente sull’embrione), d’uno nelle Monocotiledoni, le piante fino ad oggi più evolute. Tra le Dicotiledoni, che attualmente non è ritenuto un gruppo monofiletico (come invece le Monocotiledoni), s’annoverano le piante appartenenti alla classe delle Magnoliòspide (Magnoliopsida) che presentano dei fiori, da grandi a molto grandi, formati da numerosi petali ben separati; la disposizione degli organi riproduttivi maschili e femminili (nell’ordine, stami e carpelli) e delle altre parti (sèpali, cioè i costituenti del calice dei fiori, e petali), in quanto disposti a spirale, conferiscono ai fiori una simmetria di tipo radiale. Tutte le Angiosperme, come detto, sono caratterizzate dalla presenza nel fiore d’un ovario chiuso entro il quale si trovano gli ovuli (in contrapposizione alle Gimnosperme, che hanno gli ovuli allo scoperto); e il fiore è l’organo che assicura la loro riproduzione sessuale. In dettaglio, affinché si sviluppi un’altra pianta, simile alla precedente, il fiore produce due tipi di cellule sessuali, quelle maschili formano il polline, e quelli femminili gli ovuli. Ora, la fecondazione di queste piante, come quella di tutte le Spermatofite, è affidata all’impollinazione e cioè al trasporto del polline da una pianta all’altra e il fiore, dopo che il polline raggiunge l’ovulo, è fecondato e si trasforma nel frutto in cui si svilupperanno i semi che garantiscono lo sviluppo di una nuova pianta (e con frutto qui s’intende l’ovario delle Angiosperme, più o meno modificato e accresciuto, che contiene i semi maturi derivati dagli ovuli). Di conseguenza, la diffusione nei vari ecosistemi delle Angiosperme è affidata  tanto ai semi quanto ai fiori; ai semi perché la loro disseminazione, cioè il loro trasporto e la dispersione, fa sì che il seme si sviluppi nei più differenti areali; e qui, nei nuovi areali, i semi utilizzano le risorse dei cotiledoni per avviare lo sviluppo delle radici, del fusto e delle foglie e, non appena le condizioni ambientali sono favorevoli, si dedicano alla riproduzione; riproduzione che avviene i grazie ai fiori che, in virtù del loro colore e profumo, attirano insetti e altri animali, e utilizzano questi organismi per trasportare il polline da una pianta a un’altra, fecondare il fiore e trasformarlo in frutto. Dunque, se con impollinazione s’intende il trasporto del polline, prodotto dagli organi riproduttivi maschili, sugli organi riproduttivi femminili al fine di fecondarle, e con disseminazione l’allontanamento dei semi (prodotti dal fiore fecondato) dalla pianta madre e la loro dispersione nell’ambiente, ecco che nel Cretacico avviene un fenomeno parzialmente inedito che muterà gli ecosistemi e le biocenosi dell’intero pianeta. Infatti, dato che gli agenti esterni che possono permettere la disseminazione  di semi, frutti, spore etc. (detti dissemìnuli) capaci di riprodurre la pianta dalla quale si sono staccati, sono l’acqua (disseminazione idrocora), il vento (disseminazione anemocora), la forza di gravitazione o gli animali, ecco che s’impianta la strategia della disseminazione nei più vasti areali con gli animali, o zoocoria, specificamente con uccelli e mammiferi (come visto, di recente evoluzione) e con insetti, che allargano la loro catena alimentare in quanto capaci di nutrirsi di polline e di frutti (intendendo qui anche la polpa), tanto che si sviluppano relazioni di mutua interdipendenza e coevoluzione tra piante e animali che favoriscono il successo riproduttivo ed evolutivo d’entrambi, a tutto svantaggio, per quanto riguarda le piante, delle Conifere e delle Ginkgoate che si vedono sorpassate dal successo nella colonizzazione da parte delle Angiosperme Dicotiledoni e, a seguire, confinate definitivamente nelle regioni con un clima meno caldo. Si ricorda che in quest’epoca sono poi presenti, tra gli insetti, i Coleotteri, Coleoptera, che, dotati di mandibole e d’apparato masticatore adatto, iniziano a cibarsi di stami, pistilli e polline, giacché la comparsa d’insetti con un apparato boccale in grado di suggere il nettare, quali Lepidotteri e Imenotteri, è posteriore (il fatto poi che le gimnosperme siano quasi tutte impollinate dal vento e non dagli insetti, è probabilmente dovuto al fatto che gli insetti che facilitano l’impollinazione possono anche  mangiare gli ovuli; di qui lo sviluppo strategico del carpello intorno all’ovulo, un adattamento volto a proteggere ovuli e semi in via di sviluppo dagli insetti predatori). Forse, qui, merita ora un inciso la questione della strategia di dispersione zoocorica delle Angiosperme, che tanta parte avrà nella domesticazione delle piante da parte di Homo sapiens (infatti, molte d’esse, tra cui le Graminacee e le Leguminose, o Poaceae e Fabaceae, rivestono una notevole importanza come fonte di nutrimento per l’uomo e per il bestiame, v. infra), che può sostanzialmente darsi o grazie al transito nel tratto digestivo degli animali di semi, inghiottiti insieme alla polpa dei frutti e poi disseminati  tramite l’espulsione delle feci (endocoria), giacché, di per sé, i tegumenti dei semi sono più o meno protetti dai succhi gastrici di chi li mangia, o perché i semi, attaccatisi ingegnosamente con sostanze vischiose, uncini o altro, al pelo degli animali, sono dispersi nell’ambiente quando, per le cause più varie, si staccano e cadono al suolo (epicoria). Ancora, alla fine del Cretacico sono già diffusi, con forme ben poco differenti dalle attuali, i pioppi (Populus), i salici (Salix), i faggi (Fageus), i platani (Platanus), gli olmi (Ulmus), le querce (Quercus), i lauri (Laurus), le sassifraghe (Saxifraga), i fichi (Ficus) e le viti (Vitis), tutte piante con fiori e frutti. Nella fauna marina sono ancora presenti Belemniti e Ammoniti; queste ultime scompaiono però con l’ascesa, verso la fine del periodo, delle Rudiste (Rudistae), grandi Bivalvi (dell’ordine di centimetri, ma anche di decimetri e d’un metro per quelle ch’arrivano a pesare 20-25 kg) fisse al substrato con l’estremità d’una valva conica e ricoperte da un’altra valva che ha aspetto e funzione di protezione, detta opercolo; sono inoltre presenti alcune nuove famiglie di Coralli coloniali. Tra i vertebrati dominano i Teleostei (Teleostei, Osteitti cui appartiene, oggi, la grandissima maggioranza dei pesci sia marini sia d’acqua dolce), e i Rettili; tra questi compaiono i Cheloni (Chelonia, già presenti in forme primitive nel Triassico), chiamati testuggini se d’habitat terrestre e a dieta prevalentemente erbivora, e tartarughe se d’habitat d’acqua dolce, cioè presenti nelle aree palustri, lacustri [?] e fluviali, con dieta da predatori o onnivora, cui s’aggiunge un piccolo gruppo di tartarughe marine legate alle temperature dei mari caldi; inoltre, sempre tra i Rettili, sono presenti i primi Ofidii, o serpenti derivati dai Rettili, ma squamati e tutti deprivati degli arti anteriori e posteriori (il loro movimento, strisciante, è dato dalle contrazioni muscolari di tutto il corpo); gli Uccelli presentano poi un’intensa evoluzione (con una struttura anatomica ormai simile alle forme attuali, seppure con le mascelle ancora provviste di denti), mentre tra i Mammiferi, di piccole dimensioni e presenti in numero esiguo, compaiono i primi Placentati (o Eutèri, Eutheria, cioè gli organismi dotati di placenta, v. supra) differenziatisi, a partire da un antenato ancestrale esistito prima della frammentazione del Gondwana, dai Marsupiali (Marsupialia, o Metateri, Metatheria), pure presenti nel Cretacico e sopravvissuti agli Euteri, che li soppiantano in altre regioni, dopo che il blocco dell’Australia si separa dall’Asia. Anche i Marsupiali appartengono all’ordine dei Mammiferi, e si differenziano dai Placentati perché sono dotati d’una placenta non ben sviluppata, provvisoria, che obbliga i nati, partoriti a uno stadio estremamente precoce a causa della breve gestazione (con una durata che varia dai13 ai 35 giorni), in un marsupio, ossia in una tasca cutanea (che può aprirsi, nelle varie specie, in avanti o indietro, in alto o in basso) posta nella regione ventrale della femmina, in cui sono presenti le ghiandole mammarie, e in cui i nati completano il loro sviluppo dopo il parto (cioè fino al termine dell’allattamento); nei Placentati, al contrario, la gestazione è molto lunga (dai 45 ai 650 giorni) e i nati, dopo questo stadio di sviluppo avanzato intrauterino, nascono non immaturi come i Marsupiali, ma relativamente maturi. Da ricordare che i Mammiferi più primitivi sono classificati come Prototeri (Prototheria, o monotremi, cioè organismi aplacentati, se pure con ghiandole mammarie) e che quelli più evoluti sono classificati come Euteri, e che la posizione intermedia tra i due ordini è occupata dai Metateri, giusto quella fra i Mammiferi o senza placenta (e ovipari) o con la placenta completamente formata. Data la frammentazione in fase d’evoluzione della Pangea, si può poi affermare, sulla base delle associazioni faunistiche, che si possono distinguere due aree biogeografiche, una boreale e l’altra australe, legate  a fenomeni d’isolamento geografico che, in alcuni casi, manifestano il cosiddetto nanismo insulare, cioè la comparsa d’organismi con riduzione di taglia (per esempio, tra i Dinosauri, il Telmatosaurus, che appartenente a una famiglia d’Ornitischi di cospicue dimensioni, misura appena 6 metri di lunghezza). Ora, il Cretacico, al cui limite con il Terziario (limite K/T) sta un’estinzione di massa selettiva che sarà analizzata in seguito (qui s’anticipa che l’estinzione riguarda numerosi gruppi animali tra i Vertebrati, quali Dinosauri, Ittiosauri, Pterosauri, e tra gli Invertebrati, Ammonoidi, Belemnoidi, Rudiste; v. infra), introduce a un periodo, il Cenozoico (o Terziario, da 66,5 a 1,6 milioni d’anni fa), che presenta un panorama floristico e faunistico notevolmente cambiato, e che si fa sempre più simile all’attuale (come del resto mostra l’etimologia, essendo ceno-, come sopra ricordato, derivato dal greco καινός, nuovo, recente; volendo, un periodo che mostra un complesso d’organismi ch’è comune all’attuale). Per quanto riguarda le epoche il cui si struttura il Cenozoico, esse sono il Paleogene, ch’è suddiviso in Paleocene (66,5-54 milioni d’anni fa), Eocene (54-36 milioni d’anni fa) e Oligocene (36-25,2 milioni d’anni fa), e il Neogene, suddiviso in Miocene (25,2-5,2 milioni d’anni fa) e Pliocene (5,2-1,6 milioni d’anni fa). Nel Cenozoico la distribuzione delle terre emerse inizia ad assumere una configurazione assai simile a quella attuale; infatti, l’America meridionale continua nel suo posizionarsi verso Ovest ampliando, in questo modo, i fondali l’Atlantico meridionale; mentre l’India prosegue nel suo spostamento verso Nord, ciò che la porterà a saldarsi, come detto, con il blocco euroasiatico e a favorire l’orogenesi alpino-himalayana, il tutto quando, nello stesso tempo, l’Australia tende a separarsi dall’Antartide e il Nord America dal continente Euroasiatico. Specificamente, e rifacendosi alle sopra citate suddivisioni del Cenozoico, nel Paleocene ha luogo la fase ultima dello smembramento e della disseminazione della Pangea. È, infatti, in quest’arco temporale che la dinamica della tettonica delle zolle finisce con il separare l’Australia dall’Antartide e che, nell’Emisfero boreale, l’espansione del fondo oceanico inizia ad aumentare la distanza fra il Nord America e la Groenlandia. Nell’Eocene prosegue poi l’allargamento dei fondali lungo la sezione settentrionale della Dorsale medio-atlantica, la Groenlandia va alla deriva verso Ovest, allontanandosi in questo modo dal blocco europeo; il tutto nel mentre inizia la formazione di Trappi, per esempio in Islanda e nella Groenlandia, cioè dell’eruzione effusiva di flussi basaltici d’origine ipogea che, in esteso allargamento sulla terraferma, solidificano e danno origine a territori ignei (v. infra); fenomeno che si verifica anche nei Trappi del Deccan, quanto enormi volumi di basalto si riversano in vaste zone dell’India nordorientale, proprio quando questo subcontinente di recente formazione (staccatosi, si ricorda, dall’Africa nel corso del Cretacico) si salda al continente asiatico; nel mentre gli sconvolgimenti orogenetici generati dalle collisioni continentali (iniziate alla fine del Mesozoico) producono il già citato sollevamento del sistema montuoso alpino-himalayano che prosegue anche nel Miocene e nel Pliocene. Ed è poi nell’Eocene che nell’Emisfero australe Antartide e Australia (unite a partire dal loro distacco da Gondwana, nel Mesozoico), vanno alla deriva dopo la loro separazione. Nell’Oligocene l’Africa collide con l’Eurasia e, in questo modo, chiude il mare che la separa dall’Eurasia, la Tetide, che dopo 200 milioni d’anni si suddivide lasciandone come resto da una parte il mare Mediterraneo isolato dall’Oceano Indiano e quale tributario dell’Oceano Atlantico, dall’altra un vasto bacino d’acqua salata, detto Paratètide che, nel tempo, si trasforma da mare interno in una serie di bacini salmastri oggi riconducibili al lago Balaton (in Ungheria), al Mar Nero (tra l’Europa sudorientale e la Turchia, che smette d’essere lago ca. 10 000 anni fa quando il canale del Bosforo, attraverso il Mar di Marmara e lo stretto dei Dardanelli, lo mette in comunicazione con il Mar Egeo, la parte orientale del Mar Mediterraneo), al Mar d’Azov (situato a Nord del mar Nero e a questo collegato), al Mar Caspio (nell’Asia sudoccidentale, oggi il più vasto bacino lacustre d’acqua salata della Terra) e al lago d’Aral (in Asia Centrale, lago salato in via d’essicamento per cause antropiche), giusto quando è presente l’orogenesi alpina e si stanno formando la catena dell’Atlante in Africa del Nord, i Pirenei in Spagna e Francia, gli Appennini in Italia, le Dinaridi (o Alpi Dinariche) nella Penisola Balcanica, i Carpazi in Europa centrorientale e il Caucaso tra l’Europa e l’Asia. La figura seguente mostra la localizzazione delle catene montuose di genesi alpina nell’area del Mediterraneo:

Figura n.   . Fonte: Polticelli, 2003, p. 116.

La genesi alpina è grossomodo contemporanea a quando la placca nordamericana incomincia a sovrapporsi alla zolla dell’Oceano Pacifico ch’inizia così a subdurre (v. supra), tanto che nel Miocene e nel Pliocene si manifesta anche l’estesa orogenesi d’un sistema di cordigliere che, partita da quella delle Ande nel Cretacico, continua e attraversa l’America centrale, il Messico, gli Stati Uniti occidentali, la Columbia Britannica e l’Alaska, cordigliere che corrono parallelamente alla costa del Pacifico. Da valorizzare un evento che coinvolge il mare Mediterraneo, e questo per il ruolo che questo avrà nella storia che porta a Homo Sapiens, che alla fine del Miocene, ca. 6 milioni d’anni fa, a causa di movimenti tettonici legati a un sollevamento dell’area estremo occidentale tra Marocco e Spagna  (nella zona di confine dove la placca africana subduce sotto quella euroasiatica) e ad una regressione marina dell’Atlantico dovuta all’incipiente glaciazione (formazione della calotta artica), porta ad una chiusura dei corridoi marini di comunicazione con l’Oceano Atlantico stesso, ciò che provoca più cicli di disseccamento che fanno del Mediterraneo un’immensa salina naturale (giacché è presente un deficit nel bilancio idrico in quanto l’evaporazione dell’acqua marina risulta essere ciclicamente superiore all’apporto d’acqua dolce da parte delle coeve vie fluviali  tributarie, quali il Rodano e il Nilo, e delle precipitazioni o delle altre modalità d’approvvigionamento idrico, quali un collegamento saltuario con la Paratetide); salina che complessivamente porta ad un volume di rocce sedimentarie, dette evaporitiche, prodotte cioè dalla sovrasaturazione delle acque che fanno precipitare i sali (carbonati, solfati di calcio, salgemma), che va oltre 1 milione di km3 e che presenta un’altezza che mediamente supera i 1 500 m  e può arrivare a 3 000 m (reperibile sotto le centinaia di metri dei sedimenti marini attuali); questa situazione si smette quando nel Pliocene, ca. 5,3 milioni d’anni fa, cede la faglia di confine che separa la Spagna dal Marocco e, con l’afflusso delle acque continentali permesso dal neoformato stretto di Gibilterra (sotto forma d’inondazione catastrofica), si stima che in ca. 100 anni la situazione si ripresenti con un Mediterraneo riportato a regime, come lo conosciamo. Questo fenomeno è poi complessivamente detto crisi di salinità del Messiniano, dove Messiniano rimanda alla classificazione geologica italiana del periodo che va da 6 a 5 milioni d’anni fa. La figura seguente mostra la paleogeografia delle terre emerse all’altezza di 14 milioni d’anni fa (14 Ma), nel Miocene:
[?]

Per quanto riguarda il clima, legato alla dinamica della tettonica delle zolle, nel Cenozoico presenta complessivamente grandi fluttuazioni (per esempio, quando si forma la catena montuosa dell’Himalaya, s’altera il meccanismo della circolazione atmosferica, ciò che dà inizio al regime monsonico, v. supra). In dettaglio, nell’Eocene il clima è subtropicale e umido alle medie latitudini e temperato e umido alle alte latitudini; nell’Oligocene, pur rimanendo secondo le latitudini subtropicale e umido o temperato e umido, manifesta l’inizio d’un raffreddamento graduale a lungo termine che culminerà nella glaciazione del Pleistocene (nel Quaternario), tanto che nel Miocene il clima è generalmente più rigido. È in questo periodo poi che i fenomeni orogenetici danno origine a climi differenziati e che un sistema di correnti transoceaniche e tra loro collegate s’afferma nell’Emisfero australe dando origine ad una cintura dove l’Antartide risulta esclusa dalle correnti calde presenti nella circolazione termica complessiva delle correnti (v. infra), ed è quest’evento che permette a seguire la formazione d’una calotta glaciale antartica. Nel Pliocene, con l’avvicinarsi dei cicli glaciali pleistocenici, il regime climatico tende verso un generale raffreddamento e risulta, infine, essere più secco. Nel Cenozoico le piante, legate nelle dinamiche del loro ecosistema al clima, presentano una notevole differenziazione ed evoluzione che va da una progressiva riduzione delle Gimnosperme alla diffusione globale delle Angiosperme. Nell’Eocene il clima, generalmente subtropicale e umido è, come detto, temperato e umido a Nord dell’Emisfero boreale, tanto che permette, perfino in Groenlandia, Alaska e Siberia, la predominanza, tra le Angiosperme, di foreste d’alberi decidui quali faggi e castagni, cioè di piante dove, in contrapposizione alle piante sempreverdi, cadono le foglie al sopravvenire d’un clima sfavorevole (sono dette anche piante caducifoglie), tanto che la pianta sopravvive utilizzando le sostanze precedentemente immagazzinate negli organi di riserva e riducendo l’attività metabolica (conseguentemente, un metabolismo non ridotto che permetta il rinnovo delle foglie si manifesta quando il clima è favorevole). Questa tendenza d’un cambiamento climatico orientato verso una più marcata stagionalità caldo/freddo e umido/secco, si rafforza poi nell’Oligocene e, per esempio, aceri, querce, betulle, cioè piante caducifoglie, arrivano poi nel Miocene a diffondersi enormemente in aree in precedenza ricoperte dalle palme, come dire che il sopravanzare d’un regime climatico freddo fa migrare le piante verso il Sud. Per esempio, e sempre nel Miocene, all’avanzare d’un clima complessivamente più freddo, le zone che in precedenza erano state ricoperte da foreste temperate nelle alte latitudini dell’Emisfero boreale, ora formano la tundra, la taiga e le praterie (v. infra); queste ultime sono poi dominate da Angiosperme erbacee, soprattutto Graminacee, che danno origine alle dette estensioni prative che velocemente ricoprono le distese continentali, grazie al quale fenomeno queste zone si popolano a seguire di mandrie di Mammiferi erbivori. Per quanto riguarda la fauna, nel Cenozoico, dopo la scomparsa dei grandi Rettili, si presenta la rapida radiazione adattativa dei Mammiferi che, apparsi nel Cretacico, s’affermano solo ora come gruppo dominante dei Vertebrati sulle terre emerse; infatti, i Mammiferi occupano le varie nicchie ecologiche lasciate libere dai Rettili e questo consente loro di moltiplicarsi e differenziarsi in una pluralità d’ordini; alcuni dei quali scompaiono con la fine del Paleogene (tra l’Oligocene e il Miocene), ma dai restanti s’originano le 4 600 specie dei Mammiferi attuali. E lo stesso, o quasi, si può dire degli Uccelli che, precedentemente rarefatti, presentano con la scomparsa degli Pterosauri, una notevole diffusione e raggiungono l’organizzazione quasi perfetta delle forme attuali tanto che nell’Eocene arrivano ad essere dominanti nei cieli (presentano poi anche una supremazia sui Chirotteri, Chiroptera, o pipistrelli, mammiferi meno ben adattati al volo, pur se capaci di volo meglio modulato e prolungato, specializzato). La figura seguente mostra la filogenesi delle varie classi di Vertebrati, valorizzando il fatto che gli Uccelli derivano dai Rettili come i Mammiferi, che i rettili derivano dagli Anfibi, che derivano dai pesci, come dire che v’è un legame filetico tra Pesci e Mammiferi (il segno sopra i Placodermi indica che sono estinti e le linee che li indicano ne mostrano le abbondanze relative, in crescita, in calo, che dipendono dalla loro distribuzione temporale):


Figura n.   . Fonte: Padoa, 1971, p. 132.

Enorme è anche la diffusione degli Insetti che, grazie al successo delle Angiosperme a cui la loro evoluzione è legata, arrivano a contare bel 6 000 specie, tra cui le mosche (Musca), che appartengono all’ordine dei Ditteri (Diptera), le farfalle, dell’ordine dei Lepidòtteri (Lepidoptera) e le formiche, della famiglia dei Formìcidi (Formicidae). Nei mari, estinte le Ammoniti, si trovano Gasteropodi e Lamellibranchi (v. supra), che diventano le classi più diffuse, mentre tra i Molluschi, in generale, si verifica una notevole riduzione delle specie dotate d’una conchiglia di grandi dimensioni; nella microfauna si trovano le Nummuliti (Nummulites), un gruppo di Foraminiferi perforati a guscio appiattito, notevolmente concamerato e di forma discoidale che, in alcune specie, può superare i 10 cm di diametro (forme relativamente gigantesche, trattandosi d’un organismo unicellulare), presente però nel solo Paleogene, periodo dove conoscono una grande diffusione anche le Alveoline (Alveolina), comparse nel Cretaceo superiore, poi estinte nel Neogene, sempre appartenenti ai Foraminiferi e con un guscio calcareo a forma di fuso o di sfera; si presentano, inoltre, le Orbitoidi (Orbitoides), macroforaminiferi con guscio calcareo perforato a forma di lente o di disco. Tra i pesci, s’affermano i Teleostei, che sostituiscono completamente o quasi, le forme più arcaiche dei Condrostei e Olostei, e assumono una posizione di dominio sui pesci cartilaginei, realizzando così l’equilibrio faunistico che persiste ancora oggi. Specificamente, nel Paleocene, si diffondono Marsupiali, Insettivori (Insectivora), Lèmuri (Lemur) e Creódonti (Creodontia). Gli Insettivori sono Mammiferi relativamente primitivi, molto voraci e quasi sempre notturni, di dimensioni variabili da 3-4 cm a ca. 50 cm, di vario aspetto, generalmente con arti brevi, capo allungato in un muso appuntito, spesso in forma di proboscide, che si nutrono principalmente d’insetti; i Lemuri, un genere di Proscimmie (Prosimiae, v. infra) prevalentemente arboricolo, frugivoro e fitofago (cioè che si nutre, nell’ordine, con i frutti e con le piante), presentano un muso appuntito, arti anteriori più corti dei posteriori e una coda non prensile più lunga del corpo, mentre i Creodonti, per esempio lo Ienodonte (Hyaenodon), sono carnivori primitivi, presenti in Eurasia, Africa e America Settentrionale, caratterizzati da una dentatura adattata alle abitudini alimentari, corpo massiccio di varia taglia con arti poco agili, andatura semiplantigrada o digitigrada e con artigli non retrattili; costituiscono poi il ceppo comune che darà origine a Cànidi (Canidae) e Fèlidi (Felidae). Se l’andatura plantigrada è poi quella dei Mammiferi, come i Primati, che durante la locomozione sul terreno poggiano a terra tutta la pianta del piede (v. infra), quella semiplantigrada è intermedia fra quella plantigrada e quella digitigrada, mentre quella digitigrada è poi data dal fatto che, camminando, l’animale appoggia sul suolo le dita, anziché tutta la pianta del piede (sono poi digitigradi Canidi e Felidi). Nell’Eocene, il clima subtropicale è favorevole al proliferare di Rettili, quali Coccodrilli (Crocodilia), dell’ordine dei Loricati (Loricata); Alligatori (Alligator), simili per forma, dimensioni e modo di vita ai Coccodrilli, dai quali si differenziano per la forma del muso largo, piatto e arrotondato (e non lungo e affilato) e per alcune caratteristiche della dentatura; serpenti Boa (Boa), e di numerose famiglie di pesci. Da sottolineare è poi il fatto che, nell’ultima parte dell’Eocene, si verifica il primo adattamento di mammiferi alla vita acquatica, giacché nei mari sono presenti anche organismi, con forme simili a Balene (Balaena), probabilmente derivate da un Ungulato (Ungulata, v. infra) primitivo, che superano la lunghezza di 15 m. e che possono probabilmente nuotare grazie a un movimento ondulatorio della colonna vertebrale. In Eurasia e in America del Nord, compaiono poi simultaneamente Mammiferi erbivori con le forme ancestrali degli Èquidi (Equidae), dei Rinoceròtidi (Rhinocerotidae) e dei Camelidi (Camelidae). Gli Equidi sono caratterizzati da un corpo con arti specializzati per la corsa, in cui solo il terzo dito è fortemente sviluppato e protetto all’estremità da un’unghia molto spessa e molto robusta, foggiata a zoccolo e da dentatura completa; i Rinocerontidi sono animali con scarse capacità visive, ma udito e olfatto acuti, e presentano forme tozze e pesanti che possono raggiungere grandi dimensioni, una coda corta, una testa allungata e labbra grandi e prensili e uno o due corni impiantati nella regione nasale; si nutrono d’erbe e foglie e sono legati agli ambienti ricchi d’acqua; i Camelidi sono caratterizzati da statura grande o media, pelame lungo e lanoso, piede con le due dita riunite fra loro e in alcune specie sono dotati di una o due gobbe. Mentre Equidi e Rinocerontidi sono Perissodàttili (Perissodactyla), cioè caratterizzati da dita in numero dispari (o imparidigitati, nell’ordine uno e tre), i Camelidi sono Artiodattili (Artiodactyla), cioè con le dita sempre in numero pari (o paridigitati, due o quattro); da sottolineare, in generale, che questi Ungulati, cioè mammiferi erbivori in cui le falangi, o l’unica falange, si presentano distalmente rivestite da zoccoli anziché da unghie, sono sorprendentemente piccoli in confronto alle specie moderne, per esempio, il sopra citato Iracoterio, ritenuto all’origine della linea evolutiva che porta ai cavalli (Equus), è mediamente lungo 60 cm e alto appena 20 cm al garrese (il garrese è poi una regione del tronco che corrisponde alle prime vertebre dorsali); ancora, il Moeriterio (Moeritherium), un Ungulato Perissodattilo simile a un tapiro, è relativamente piccolo e forse è un antenato degli attuali Proboscidati (Proboscidea; v. infra). Oltre a questi erbivori, sono poi presenti altri gruppi di Mammiferi, come i citati Chirotteri e i Primati (Primates, v. infra). Nell’Oligocene scompaiono, nei mari le Nummuliti, sostituite da altri macroforaminiferi, mentre tra gli organismi biocostruttori si diffondono i Litotàmni (Lithothamnion), Alghe calcaree rosse a forma incrostante o globosa; sono poi presenti i Cetacei (Cetacea), un ordine di Mammiferi acquatici di grossa mole il cui ciclo vitale si compie tutto in acqua, cui s’affiancano i Sireni (Sirenia), Mammiferi erbivori anguilliformi presenti negli estuari e nelle acque marine poco profonde dove si nutrono di vegetazione sommersa, che presentano un corpo massiccio e cilindrico, arti anteriori brevi conformati a pinna, arti posteriori assenti e coda trasformata in una larga pinna caudale. Sulla terraferma i Mammiferi costituiscono ormai le forme dominanti della fauna terrestre; per esempio, il Cavallo popola le praterie nordamericane e l’Eurasia, e lo stesso fanno vari gruppi di Rinoceronti; uno d’essi privo di corno, destinato a estinguersi, comprende il Baluchitherium dell’Asia centrale (Mongolia), che con i suoi 5,5 m d’altezza al garrese, 7-8 m di lunghezza e 10 t probabili di peso, è il più grande Mammifero terrestre mai esistito. La figura seguente mostra la ricostruzione del Baluchitherium, un Rinocerontide dell’Oligocene (si noti il collo allungato che gli permette d’arrivare a brucare le foglie degli alberi fino a una decina di metri d’altezza):

Figura n.   . Fonte: Padoa, 1971, p. 288.

I Cammelli, che hanno pressappoco le dimensioni d’una pecora, s’estinguono nel Nord America, sebbene alcuni esemplari superstiti riescano a migrare verso il Sud America, mentre altri migrano in Eurasia. I citati Creodonti si differenziano definitivamente in due gruppi, precursori, rispettivamente di Canidi, di media taglia, con zampe adatte alla corsa, piedi ben sviluppati e muniti d’artigli non affilati, e con olfatto e udito molto sviluppati; e Felidi, di taglia variabile, grande o media, con un corpo robusto e agile, vista acuta e artigli retrattili; questi ultimi comprendono a loro volta due gruppi, e da uno d’essi s’evolvono i Macairodònti (Machairodontinae), caratterizzati da un abnorme sviluppo dei denti canini superiori, che sporgono parecchi centimetri all’esterno quando la bocca è chiusa (sono detti tigri dai denti a sciabola, e n’è esemplare famoso lo Smilodonte, Smilodon, diffuso  nel Pleistocene). I Roditori (Rodentia), Mammiferi di taglia piccola e media caratterizzati dalla presenza d’un paio d’incisivi superiori e un paio d’incisivi inferiori conformati a scalpello e a crescita continua, sono ampiamente diffusi, e così pure Primati come i Lemuri. Forme semiacquatiche prive di zanne e proboscide danno poi origine, in Africa, ai Mastodònti (Mastodontidae), Mammiferi con proboscide flessibile, denti incisivi a crescita continua, o zanne, molto variabili nella forma e nelle dimensioni e simili agli attuali elefanti (Elephas), che all’epoca non superano di molto l’1,5 m d’altezza. Infine, compaiono le prime Scimmie, nome comune che s’attribuisce alla maggior parte dei mammiferi appartenenti all’ordine dei Primati, escluse le Proscimmie e l’uomo. Nel Miocene i mari, oltre al successo delle Alghe calcaree, vedono altri generi di macroforaminiferi che sostituiscono le Nummuliti estintesi nell’Oligocene, quali la Lepidocyclina che ha avuto una diffusione cosmopolita; inoltre, sia tra i Molluschi che tra gli Echinidi si verifica un rinnovamento con nuovi generi, come l’Echinide Clypeaster cottreaui; mentre nelle acque basse costiere prospera il Mollusco predatore Conus mercatii. La fauna, grazie all’elevata di disponibilità di cibo che permette un allargamento della catena alimentare, presenta altri Mammiferi erbivori della famiglia dei Cèrvidi (Cervidae), originari dell’Asia, caratterizzati dalla presenza di ramificazioni piene di tessuto osseo (dette corna a palchi o palchi), soprattutto nei maschi, quali i Caprioli; dei Bòvidi (Bovidae), Mammiferi ruminanti (v. infra) di taglia variabile e con corna cave non ramificate a crescita continua e generalmente presenti in entrambi i sessi, quali le Gazzelle (Gazella), e delle Giràffidi (Giraffidae), sempre Mammiferi ruminanti, dal collo particolarmente lungo, come le zampe, di cui quelle anteriori sono però più lunghe di quelle posteriori, e brevi corna non caduche rivestite di cute presenti in entrambi i sessi, quali le Giraffe. Tra i Proboscidati, Mammiferi erbivori di grossa mole, plantigradi, con testa voluminosa, collo breve, tronco massiccio, arti colonnari diritti, digitigradi (con 5 dita munite di zoccoli), proboscide e ossi intermascellari allungati in rapporto con lo sviluppo dei denti incisivi superiori (le zanne) molto poderosi nei maschi e a crescita continua, è presente il Deinoterio (Deinotherium), che mostra zanne incurvate verso il basso, mentre il Platibelodonte (Platybelodon), che ha zanne appiattite utili per estirpare le erbe acquatiche, fa la sua comparsa tra la fine del Miocene e l’inizio del Pliocene, arco di tempo nel quale si sviluppa anche il Trilofdonte (Trilophodon). È nel corso di quest’arco temporale che grandi Scimmie, imparentate con l’Orango (v. infra), vivono in Asia e nella parte meridionale dell’Europa e queste, a loro volta, sono le parenti più prossime delle Scimmie antropomorfe che faranno la loro comparsa nel Pliocene; Scimmie antropomorfe è poi il nome comune che si dà ai primati appartenenti alle famiglie dei Pongidi (v. infra) e degli Ilobatidi (v. infra) che, per il volume cerebrale, la taglia corporea e l’assenza di coda, risultano essere vicini agli Ominidi (v. infra). Nel Pliocene, infine, i Mammiferi sono ormai da tempo la forma di vita dominante sulla terraferma e la rapida evoluzione d’un loro sottogruppo, quello dei Primati, produce poi specie considerate le progenitrici della specie umana, Homo sapiens. I Primati sono poi un ordine di Mammiferi Euteri (v. supra) cui appartengono le Proscimmie (da non intendersi come antenate delle Scimmie, ma come un ramo parallelo, cioè un sottordine primitivo comprendente animali prevalentemente arboricoli e, oggi, di piccole dimensioni), le Scimmie e l’uomo. Ai fini della comprensione dell’attuale distribuzione della fauna, è poi importante sottolineare che nel Cenozoico, dato l’isolamento di alcune aree continentali o di transitorie comunicazioni tra le altre, imponenti migrazioni come quelle dei Proboscidati dall’Africa all’Europa e all’Asia, dei Bovidi e dei Proboscidati dall’Asia all’America e degli Equidi, Rinocerontidi e Camelidi dall’America all’Eurasia, hanno fortemente complicato il quadro evolutivo; ed è da sottolineare, a questo proposito, che è proprio l’esistenza d’alcuni ponti continentali tra province biogeografiche differenti che ha permesso le ampie migrazioni faunistiche di Mammiferi, in entrambe le direzioni tra l’America settentrionale e l’Eurasia sopra citate. Uno di questi ponti è la Beringia, ch’era situata dove esiste l’attuale Stretto di Bering (il tratto di mare che separa la penisola della Kamčatka, o Camciatca, in Russia, dalla penisola di Seward, in Alaska, e che lega l’estremità Nordorientale dell’Eurasia all’estremità Nordoccidentale dell’America settentrionale); questo braccio di mare, infatti, profondo mediamente tra i 30 e i 50 m, con un massimo di profondità di 70 m, in certi periodi, grazie al clima e alle regressioni marine, si presenta con un tratto di terre emerse a tundra e steppe (v. infra), larghe fino al massimo di 1600 km, noto appunto come Beringia, come dire un ponte naturale situato in prossimità del Circolo polare artico che, dotato d’un preciso ecosistema, permette con la flora anche una catena alimentare della fauna (una biocenosi, come mostrano i depositi nel permafrost, v. infra), e che tanta parte ha avuto, oltre che nelle migrazioni di fauna e flora, anche nelle ondate emigratorie d’Homo sapiens (v. infra); per esempio, per riprendere le migrazioni sopra riferite, dall’Alaska mammiferi appartenenti alla famiglia degli Equidi e dei Leporidi giungono a colonizzare le distese della Siberia o a diffondersi in Europa, come Anthracotherium magnum, un Ungulato artiodattilo a metà tra il Maiale e l’Ippopotamo, dopo la migrazione arriva a colonizzare i terrene acquitrinosi europei; mentre, seguendo la rotta inversa sullo Stretto di Bering i primi Proboscidati, arrivati dall’Africa, giungono in America Settentrionale. Così come in Beringia, sono poi esistiti altri ponti continentali, per esempio, durante l’Eocene i collegamenti ch’iniziano a instaurarsi tra l’Eurasia e l’India quando si prepara la fase di collisione; o, durante la crisi di salinità, quando la parte occidentale chiusa del mare Mediterraneo (v. supra) fa da ponte all’Africa e all’Eurasia; o quello che si viene a creare, nel Pliocene, tra l’America Settentrionale e l’America Meridionale (isolata a partire dal Cenozoico) quando si crea un sollevamento, che poi diventerà l’istmo di Panama, che produce un interscambio biotico che mette in competizione ecologica la fauna da tempo isolata del Sud con quella migrante del Nord, e dove in ingresso troviamo, per esempio, Macairodonti, Canidi, Mastodonti ed Equidi e, in uscita, Scimmie e, dell’ordine degli Xenartri (Xenarthra; sono Mammiferi con denti privi di smalto e ridotti ai soli molari e per questo detti Sdentati), forme giganti degli Armadilli (Dasypus) e dei Bràdipi (Bradypus), con i primi che presentano un corpo rivestito di placche ossee d’origine dermica, arti brevi muniti di lunghe e robuste unghie scavatrici, onnivori, e con i secondi, arboricoli e con movimenti molto lenti, caratterizzati da un corpo peloso, da lunghe zampe con unghie ricurve e sviluppate. Ponti, insomma, che hanno permesso multiple ondate migratorie di fauna e anche di flora, per esempio, grazie alla dispersione dei semi che conquistano nuovi areali. Oltre che alla tettonica, è da ricordare che anche clima e flora influenzano, in quanto ecosistemi, l’evoluzione delle conformazioni nella fauna, e ne sia esempio il cavallo (che tanto posto avrà durante la Preistoria, v. infra); dato l’Iracoterio (Hyracotherium) nell’Eocene (v. supra), di piccola taglia e con dita munite di zoccoli, tre nelle zampe posteriori e quattro in quelle anteriori, che vive tanto nei sottoboschi dell’Eurasia e dell’America settentrionale dove mangia le foglie degli arbusti utilizzando denti poco sviluppati in altezza e con una superficie masticatoria munita d’alcuni tubercoli, si sviluppa tra Eocene e Oligocene, ma solo nelle foreste americane a causa dell’estinzione in Eurasia nell’Eocene dell’Iracoterio, un cavallo con un aumento di dimensioni (per esempio, l’altezza delle zampe e del cranio) che porta a Mesohippus prima, che ha tre dita per ogni zampa e con il dito mediano più grande (è cioè stabilmente imparidigitato e più adattato alla corsa), modificazioni nella dentatura ed è frugivoro e fitofago  e, tra l’Oligocene e il Miocene, al più grande Miohippus, sempre tridattilo, con una superficie masticatoria più ampia, che si ciba tanto di foglie che d’erbe, ed è cioè stanziato o nelle foreste o nelle praterie che prendono, come detto, il posto delle foreste a causa d’un mutamento climatico, tanto che nel Miocene gli Equidi s’irradiano secondo diverse linee evolutive che sono l’interfaccia di ecosistemi modificati dal clima, tanto che, oltre a queste forme di foresta, parallelamente iniziano ad evolversi nelle praterie, a partire da Merychippus, Equidi erbivori di stazza più grande, con denti dalla corona alta, molari più ampi e con masticature più complesse adatte a triturare le erbe delle praterie, ricche il silice e pertanto più coriacee (e con un processo digestivo diverso da quello dei ruminanti, v. infra). Come dire che linee evolutive si differenziano poi nel tempo tra gli Equidi erbivori, più grandi, ma sempre tridattili come l’Ippario (Hipparion; se pure con il dito centrale, con zoccolo robusto, più sviluppato di quelli laterali che non raggiungono il suolo) o come monodattili nella linea che da Pliohippus (legato alla steppa) porta agli Equidi attuali (Equus). Attraverso la Beringia, Hipparion e Equus migrano in Eurasia e, mentre i cavalli s’estinguono in Nord America, nel Pliocene l’Hipparion s’estingue e rimane in Eurasia il solo Equus ch’impone la monodattilìa. La figura seguente mostra la filogenesi degli Equidi (il termine bunodònte indica che l’organismo presenta molari con tubercoli arrotondati nella corona, molari che sono propri agli artiodattili non ruminanti, che hanno regime alimentare onnivoro, mentre il termine lofiodonte, o lofodonte, indica un tipo di dentatura in cui i molari presentano cuspidi concresciute e riunite a formare delle creste, caratteristica propria dei mammiferi perissodattili):


Figura n.   . Fonte: Padoa, 1971, p. 284.

L’esempio dell’evoluzione del cavallo porta a sottolineare, a questo punto, che nel pensare a quest’evoluzione, e fatti salvi tutti i meccanismi della radiazione adattativa (cioè dell’evoluzione per divergenza) o convergente, non si deve pensare ad un gradualismo filetico, ma ad equilibri intermittenti, o punteggiati, ossia non si deve pensare a un’evoluzione che, per esempio, vede EquusHomo sapiens come se fossero derivati e prodotti da un percorso graduale e lineare che parte da un’unica specie arcaica e arriva alla forma evoluta, ma ad un processo che, partendo da un’unica specie arcaica non si presenta come graduale continuità biologica tra forme più arcaiche e forme moderne perché, partendo dal livello della specie in su, la comparsa di nuovi rami filetici segue modalità differenti da quelle ch’avvengono all’interno delle specie prese in sé e per sé. Come dire che le forme di vita tendono a presentare una stasi evolutiva (un equilibrio) per moltissimo tempo e poi a causa di fenomeni d’isolamento geografico di piccole popolazioni (sottopopolazioni) che favoriscono un isolamento riproduttivo (isolamenti permessi, come visto, dai movimenti della tettonica a placche e legati alle modificazioni climatiche o orogenetiche che questi impongono), evolvono in modo accelerato dando origine a una nuova specie nel corso d’un breve periodo (geologicamente parlando), cioè formando e stabilizzando da un ristretto pool genico una nuova configurazione  genetica senza forme transizionali (detta speciazione allopatrica), o, s’è il caso, a nuove specie, sempre che il meccanismo dell’isolamento riproduttivo si ripeta, e che questo vale sia per gli umani che per tutte le forme viventi. Come dire, ancora, che l’andamento dell’evoluzione è casualmente discontinuo e che le specie non confluiscono l’una nell’altra come vuole il gradualismo filetico, ma presentano equilibri che si spezzano e si presentano punteggiati dall’apparizione di nuove specie (equilibri punteggiati, appunto). Il che è dire, ancora, che diversità interspecie possono convivere fra loro, per lunghi o per brevi periodi di tempo, in areali geografici fra loro distinti (come capita nell’esempio offerto dalle migrazioni dalla Beringia) o sovrapposti in parte e non, come può apparire complessivamente dallo stile descrittivo che precede, succedendosi per sostituzione l’una all’altra. Al Cenozoico segue il Neozoico o Quaternario (1,6 milioni d’anni fa a oggi), ch’è suddiviso in due epoche, il Pleistocene (1,6-0,0117 milioni di anni fa) e l’Olocene (0,0117 milioni di anni fa, cioè 11 700 anni fa, 9 700 a.C., ad oggi); il periodo ch’è caratterizzato dalla linea evolutiva che ha portato allo sviluppo dell’uomo moderno (la comparsa dei primi antenati diretti dell’uomo s’ha ca. 1,6 milioni di anni s’ha) e dalle glaciazioni (di cui s’è diffusamente parlato sopra, v. Paleoclima). Nel Pleistocene si presenta la fase finale (rispetto ad oggi) del modellamento morfologico della Terra, con piccole variazioni nella distribuzione delle terre e dei mari e un’intensa attività vulcanica in molti luoghi della Terra, per esempio in Islanda in cui le eruzioni si sono manifestate durante tutta il periodo e i materiali eruttivi talora s’alternano ai depositi glaciali, ma soprattutto in regioni di sollevamento recente come l’Italia, dove si sono manifestati fenomeni di deformazioni e dislocazione della superficie terrestre (neotettonici) e vulcanici, in Sardegna, Toscana, Lazio e Campania, Lipari, Sicilia, oltre che in altre regioni del Mediterraneo, per esempio nell’Egeo; fenomeni che si sono poi manifestati anche nella stretta fascia altamente sismica e vulcanica, detta Cintura di fuoco, che contorna il Pacifico per ca. 38 000 km, con lave e depositi piroclastici, tanto che si può dire che molti vulcani attivi ancor oggi, sono stati attivi anche nel Neozoico e che una parte rilevante degli edifici vulcanici tuttora esistenti si devono alle eruzioni avvenute in questo periodo. Da sottolineare, in ogni caso, è che la deriva complessiva dei continenti nel Neozoico è più o meno pari ai 100 km. Per quanto investe il modellamento morfologico, in Eurasia, sul versante dell’Oceano Pacifico, si distaccano dal continente un gruppo di isole dalla Siberia (Isole della Nuova Siberia), quasi in continuità con il distacco dell’arcipelago del Giappone, mentre tra il Pacifico e l’Oceano Indiano si stacca il vasto arcipelago malese; sul versante dell’Oceano Atlantico si distacca dal continente la Gran Bretagna, mentre la parte settentrionale della Penisola Scandinava si unisce alla Svezia meridionale (che per lungo tempo era rimasta separata); sul versante del Mare Mediterraneo si distaccano dalle Baleari e dalla Provenza la Corsica e la Sardegna, l’isola d’Elba si stacca dalla Toscana e la Sicilia, che con Malta si lega all’Africa, si stacca in seguito alla formazione del canale che attualmente la separa dalla Tunisia e dallo stretto di Messina (a seguire Malta si distacca poi dalla Sicilia), mentre il Mar Nero si mette in comunicazione con il Mediterraneo. La formazione del Mar Rosso mette poi in comunicazione il Mediterraneo con l’Oceano Indiano, tanto che l’Africa risulta staccata dall’Asia, cui è però riunita quando emerge l’istmo di Suez che separa il Mar Mediterraneo dall’Oceano Indiano. Sempre in questo periodo i ghiacci continentali raggiungono la loro estensione massima che arriva a coprire poco meno del 30% dell’intera Terra e più d’un quarto delle terre emerse (e in altezza questi ghiacci possono raggiungere e superare i 2 000 m); oltre alla grande massa dei ghiacci che, nelle regioni polari, copre estese aree territoriali (o inlandsis) in Antartide e Groenlandia, altri ghiacciai ricoprono fino al 40º parallelo le terre emerse con un sistema glaciale centrato sulla Scandinavia che giunge, in più ondate  successive, a espandersi su intere regioni, cioè sulle regioni circumbaltiche quali l’Inghilterra (Irlanda e Scozia) la Germania del Nord e gran parte della Russia occidentale, cui s’aggiunga l’Islanda, mentre calotte minori si presentano in alcune zone della Siberia (di cui una parte, infatti, rimane libera dai ghiacci probabilmente a causa della scarsità delle precipitazioni, lo stesso che in Alaska); mentre un altro sistema ricopre l’America del Nord in un’area che coinvolge la parte occidentale dell’Alaska, il Canada e la fascia settentrionale degli Stati Uniti. La figura seguente mostra, in grigio scuro, l’estendersi della glaciazione sopra descritta (e si noti l’estensione facendo attenzione ai paralleli che, in ogni Emisfero, qui quello Boreale, sono segnati in gradi sessagesimali a partire dallo 0°, che identifica l’Equatore, fino al 90° che segna il Polo, qui quello Artico):


Figura n.   . Fonte: McGuire, 2003, p. 66.

Altre calotte minori si trovano nel Sud dell’Argentina sopra l’Antartide, cioè in Patagonia (dove sono ghiacciate anche le Ande), e sulle aree montuose (per esempio le Alpi, il Kilimanjaro e l’Himalaya), mentre nelle acque, fino al 60º parallelo e oltre i ghiacci marini immobilizzano i bacini dell’Emisfero boreale. Si presentano inoltre fenomeni di glacialismo, cioè di trasformazioni del territorio attraverso l’azione vuoi d’erosione, trasporto, sedimentazione o modellamento etc. causati dalle coltri glaciali; per esempio, le variazioni del livello marino (regressione/trasgressione) legate alle glaciazioni/deglaciazioni (v. supra) che causano con ritmi decelerati/accelerati l’attività d’avanzamento o retrocessione delle coste, cui sono pari fenomeni ora blandi ora veloci d’erosione/sedimentazione delle coste stesse e delle foci dei bacini fluviali o della creazione di baie, cioè insenature non molto estese nella costa marina che si prolungano per lunghi tratti nell’interno (e complessivamente si dice eustatica ogni variazione relativa di livello tra le masse oceaniche e continentali che consegue a variazioni del livello medio marino e produce modificazioni di vario genere sulle coste marittime, quali la formazione di successioni di linee di costa, di terrazzi marini o fluviali etc.), di bacini lacustri (cioè mari epicontinentali), d’accumuli di detriti rocciosi e terrosi, quali massi, ghiaie, argille o sabbie trasportati o depositati dai ghiacciai (detti morene, mobili o deposte secondo il caso; morena frontale si chiama poi la morena deposta dal fronte più avanzato dei ghiacciai ch’emerge con la confluenza dei materiali morenici mobili, spesso di grandi dimensioni e di forma arcuata, come una mezzaluna, che sono appunto testimonianza del limite massimo d’estensione dei ghiacciai stessi), di piane da dilavamento glaciale (in cui le acque di disgelo depositano i sedimenti) e di ponti di terra (v. supra); oppure, dati i modi d’avanzamento/retrocessione dei ghiacciai, con la creazione di laghi d’acqua dolce (quali, nell’ultimo ciclo glaciale, i cinque Grandi Laghi, Great Lakes, nella parte centrorientale del Nord  America, tra Canada e Stati Uniti) e la modificazione dei bacini fluviali o con l’erosione (sulle vaste aree continentali situate ai margine dei grandi ghiacciai) di materiali che si depositano e arrivano a ricoprire il tutto di materiali detritici che, nelle zone i cui suoli hanno massimamente avuto la presenza di regimi climatici con alternanza di fasi di gelo e disgelo (dette aree periglaciali), permettono o la formazione del permafrost, cioè l’alterazione d’un suolo ch’è costretto a diventare perennemente ghiacciato (sciolto in superficie nei mesi caldi, ma che rigela nei mesi freddi, non potendo infiltrarsi, a causa del ghiaccio perenne sottostante, l’acqua di scioglimento estivo) o di cospicui depositi di löss (o loess), ossia di depositi eolici (creati dal vento) di rocce sedimentarie porose e tenere (costituite da frammenti finissimi di quarzo, calcite, idrossidi di ferro e sostanze argillose) che si sono formate per l’asporto da parte del vento dei materiali detritici leggeri, come avviene, per esempio, nel Nord America, nelle pianure a Nord del fiume Missouri, o nel corridoio ch’attraversa obliquamente l’Europa centrale (löss che creerà, dopo il 10 000 a.C., la premessa per suoli con colture agricole ad alta produttività); oppure, ancora, nelle aree che durante il Pleistocene sono ricoperte dalle maggiori calotte glaciali, dove si manifestano notevoli movimenti d’innalzamento o sprofondamento della superficie terrestre (detti spostamenti isostatici), quali, in Scandinavia, le parti centrali che sprofondano di oltre 500 m sotto il peso della calotta glaciale mentre, a seguire durante la fusione dei ghiacci, presentano un processo d’innalzamento (qui tuttora in corso) etc. Da sottolineare, in linea generale e  per quanto riguarda il rapporto causale tra glaciazioni, fenomeni orogenetici e migrazioni di faune e flore, che l’orientamento trasversale al continente delle catene montuose dell’Eurasia impedisce gli spostamenti di piante e d’animali e gli interscambi biotici fra regioni diverse giacché, di fronte a queste barriere fisiche e all’espansione dei ghiacciai, le migrazioni e gli scambi sono direzionati verso Sud, laddove si presenta poi una migrazione in senso inverso nelle fasi di deglaciazione; al contrario, flora e fauna nelle Americhe, dato l’orientamento parallelo all’Oceano Atlantico, longitudinale, delle catene montuose (il sistema delle cordigliere, v. supra), e dopo la creazione dell’istmo di Panama, possono migrare e favorire gli scambi liberamente da Nord a Sud e viceversa, il tutto, ovviamente, in relazione all’instabilità climatica che domina il periodo. Delle glaciazioni e dei periodi interglaciali durante il Neozoico, cioè delle ampie oscillazioni del clima instabile e delle collegate fasi di regressione e trasgressione del livello marino, s’è già detto sopra analizzando il Paleoclima, qui soltanto si ripete che, per esempio, si modifica la temperatura superficiale delle acque dei mari soggette a glaciazione che, se oggi è di ca. 14 °C, all’epoca dei massimi glaciali si presenta sui 9-10 °C, con conseguente modificazione della circolazione termoalina (v. supra) che si riverbera sui climi continentali e sulle biocenosi, marine o terrestri che siano; oppure con la modificazione della circolazione atmosferica causata dall’aria fredda proveniente dai ghiacciai che crea venti forti e persistenti nelle aree periglaciali (e sono questi i venti che creano il sopra citato löss) e abbassa la temperatura in molte aree della Terra (o, forse, su scala globale); oppure modificando il regime delle precipitazioni, giacché la diminuzione dell’evaporazione nelle acque degli Oceani ghiacciati crea piogge meno abbondati (come in Alaska, Siberia, v. supra, e in altri parti dell’Emisfero Boreale), ciò che favorisce anche fenomeni di desertificazione o, nei deserti già esistenti, l’allargamento dell’area d’aridità, mentre, al contrario, le glaciazioni favoriscono precipitazioni più abbondanti nelle fasce delle basse latitudini dell’Emisfero Australe (in quanto favorite da maggiori processi d’evaporazione nelle acque più calde), tanto che in certe aree dell’Africa settentrionale e orientale dell’Africa, per esempio, nel Sahara e nel Sahel (la zona sottostante il Sahara), flora e fauna (Homo ergaster compreso, v. infra) si diffondono, poiché  queste regioni, prima desertiche, ora sono diventate verdi; tutti fattori, insomma, che influenzano ancor di più i biomi, le biocenosi e la catena alimentare, con migrazioni di flore e faune ch’alterano la distribuzione geografica d’ogni qualsivoglia organismo; e quale esempio, ch’anticipa quanto si dirà in seguito, si prendano le migrazioni di massa ch’investono numerose specie di Molluschi, il cui habitat è quello tipico dei mari nordici, nelle acque relativamente calde del settore occidentale del bacino del Mediterraneo, Molluschi a uno stadio planctonico (cioè trasportate passivamente dalle correnti) le cui larve, nella fase di sviluppo e in sole tre settimane, possono entrare nella fase adulta a una distanza di ca. 1 700 km (dati ricavati dalle attuali specie nordatlantiche); e tra le specie che si spostano nei mari più caldi, e dette ospiti freddi, si trova, per esempio, l’Arctica islandica, un Bivalve ancora esistente sulle coste dell’Islanda. La figura seguente mostra le vie di diffusione degli ospiti freddi dai mari nordici nel Mar Mediterraneo durante le glaciazioni del Pleistocene:


Figura n.   . Fonte: Polticelli, 2003, p. 139.

A riassunto, il dato emergente è la persistenza durante tutto il Pleistocene d’una forte instabilità climatica complessivamente legata ai cicli di glaciazione/deglaciazione (che, si ripete, sono stati 17 negli ultimi 1,6 milioni di anni) che, come visto, creano regimi termici e pluviali (cioè di precipitazioni) assai variabili nel loro ventaglio di possibilità (quale esempio d’instabilità climatica si cita il clima molto più caldo dell’attuale dell’ultima fase interglaciale, che porta questa volta organismi il cui habitat è quello dei mari caldi, gli ospiti caldi, quali il Gasteropode Strombus bubonius, attualmente presente sulle coste atlantiche del Senegal, a trovare refrigerio nelle acque meno calde del Mediterraneo). Da sottolineare che tanto la flora che la fauna dell’epoca, va da sé diffuse nelle regioni libere dai ghiacci, sono grossomodo le stesse del periodo precedente, il Pliocene. La flora del Neozoico nel suo insieme è assai simile alla flora attuale e ciascuna delle famiglie di piante presenti nel Neozoico è già segnalata anche per il periodo che precede (come dire che non s’hanno grossi cambiamenti nella filogenesi delle piante, anche se un impoverimento generalizzato è da segnalare, almeno per le essenze tropicali europee; e dove con il termine essenza s’intendono poi le specie, arboree o arbustive che siano). Quello che cambia è però la biogeografia della loro distribuzione a seguito dell’obbligo, pena la sopravvivenza, d’un comportamento migrante della flora di clima temperato o caldo (o termofila) verso Sud o di ritorno al Nord a fronte della detta discontinuità climatica (clima rigido/mite pari alla glaciazione/deglaciazione). Questo nel senso che il fronte d’avanzamento dei ghiacciai lentamente spopola i territori imponendo alle piante un arretramento, cioè uno spostamento di latitudine alla frontiera degli alberi, o timberline, ch’è poi pari alla diffusione verso latitudini molto più basse della flora artica e subartica dalla loro locazione originaria (per esempio, la Linnaea borealis, originaria dell’Artico, che raggiunge in Italia, nei boschi di conifere, i suoi limiti più meridionali); questa flora artica e subartica è poi in prevalenza flora erbacea propria a biomi (v. infra) di tundra o di steppa, ed è caratterizzata, per esempio, da Salix polaris, da Betula nana  e da Dryas octopetala, questa ultima essenza prevalente sul tutto. Va da sé che l’arretramento della flora artica e subartica, seguita dall’arretramento della timberline provoca, conseguentemente, un ulteriore arretramento delle piante termofile; o, nel caso contrario della deglaciazione, mostra un lento ripopolamento laddove la flora artica e subartica prima in fase d’avanzamento, ora è o in parte ricacciata negli habitat originari o trova distribuzione sulle catene montuose a precisi limiti altimetrici (quale la citata Dryas octopetala che si trova al di sopra dei 2000 m), mentre la flora di clima temperato o temperato-caldo, sposta in avanti la timberline, per esempio con pini (Pinus), betulle (Betula), olmi e salici; e se riconquista le sue originarie posizioni, lo fa però solo in parte (per esempio, tra altre essenze, mancano all’appello le sequoie, Sequoia). Essendo poi sottinteso, in questa dinamica di dislocazioni, il fatto che le lente migrazioni della flora sono legate alle relative strategie adattative che il clima (un esempio tra tutti, la riduzione della taglia) e le barriere orogenetiche impongono. A proposito di queste ultime, infatti, nelle nuove biogeografie di distribuzione le specie di clima temperato o caldo  possono migrare verso Sud senza barriere orogenetiche nelle Americhe (v., supra), questo grazie al sistema delle cordigliere americane che presenta un andamento meridiano con prevalente direzione Nord/Sud e con le catene montuose suddivise da vaste pianure, lo stesso che in Asia (almeno fino alla catena dell’Himalaya), mentre in Europa, al contrario, le catene montuose mostrano uno sviluppo che segue prevalentemente i paralleli in direzione Est/Ovest, per esempio i Pirenei (che nell’Europa sudoccidentale seguono, dalle coste sull’Atlantico a quelle sul Mediterraneo, i confini tra la  Spagna e la Francia), le Alpi (nell’Europa centromeridionale, che si sviluppano ad arco dalla Liguria alla Croazia) e i Carpazi (nell’Europa centrorientale, che si sviluppano a semicerchio dalla Slovacchia alla Romania), sviluppo ch’è barriera, o impedimento, alle migrazioni e che provoca la lenta sparizione o inibizione di molte essenze arboree tropicali, e impone essenze ch’indicano una barriera divergente tra habitat dalle condizioni climatiche antitetiche. Come dire che nel Pleistocene s’esaurisce definitivamente quella continuità di flore presenti durante il Cenozoico nella fascia che dall’Estremo oriente arrivava alla costa occidentale dell’America del Nord e s’impongono come dominanti le disgiunzioni degli areali e, tra altri, i fenomeni d’isolamento geografico delle specie con nuove speciazioni. È poi nel Neozoico che le faune hanno assunto, nelle loro grandi linee, grossomodo l’aspetto attuale; infatti, le famiglie di animali vissuti in questo periodo e non presenti nella fauna attuale sono assai poche e la maggioranza di generi neozoici ora assenti sono scomparsi in epoca recente, anche per cause antropiche. È però in ogni modo vero che le faune hanno subito diversi mutamenti, com’è vero che la fauna è, molto più della flora, fortemente influenzata dai cicli dell’instabilità climatica (glaciazioni/deglaciazioni). Partiamo, quale esempio per illustrare la fauna che sarà neozoica, dall’Europa meridionale tra la parte finale del Pliocene e quella iniziale del Pleistocene, quando, parallelamente all’estendersi delle praterie erbose in Eurasia e della savana in Africa (v. infra), si presenta un clima caldo dove l’ambiente di savana s’allarga alle aree costiere orientali del Mar Mediterraneo, ciò che fa sì che molte specie di mammiferi trovino condizioni ambientali favorevoli anche al di fuori della loro originario areale e l’allarghino di fatto all’Europa meridionale permettendo, così, la dispersione agli animali propri al bioma savana, come Bovidi quali Antilopi (Antilope) e Gazzelle, Rinocerotidi (Rhynoceros thychorinus), Elefanti (Elephas antiquus, con zanne diritte fino a 4 m e con 5 m d’altezza al garrese). La figura seguente illustra la ricostruzione di Elephas antiquus:

Figura n.   . Fonte: Polticelli, 2003, p. 141.

Sempre in questo bioma, oltre a quelli già citati, si trovano Ippopotàmidi (Hippopotamidae; Mammiferi ungulati artiodattili con abitudini acquatiche, tra cui Hippopotamus amphibius che, per esempio, si spinge fino in Inghilterra), Sùidi (Mammiferi artiodattili di media statura, con corporatura massiccia, arti brevi, testa grande e muso allungato, o grugno, con denti canini a crescita continua, talora trasformati in grosse zanne sporgenti fuori della bocca) e gli ultimi Mastodonti (Anancus arvernensis), periodo che vede poi la comparsa di predatori carnivori, quali il Megantereon (simile al già citato Smilodonte, sebbene di taglia più ridotta) e gli Ienidi (Hyaenidae), tra cui Pachycrocuta (o iena gigante, un carnivoro di grossa taglia di 110 kg, con forme tozze, collo lungo e grosso, testa con muso ottuso e tronco breve inclinato dall’avanti all’indietro, cioè con arti anteriori più alti dei posteriori e con premolari adatti a rompere le ossa delle prede). Ora, quando si presentano ripetute e marcate oscillazioni termiche spostate verso la temperatura polare, tutte queste faune si spostano da habitat diventati inabitabili verso quelli abitabili; infatti, e per rimanere sempre in ambito mediterraneo, nei mari del Pleistocene inferiore le forme boreali dei Molluschi migrano tanto che, come sopra detto, compaiono nell’area mediterranea gli ospiti freddi che qui si stabilizzano (fatto salvo che scompaiono nella fase interglaciale del Pleistocene medio e ricompaiono con notevole frequenza nelle fasi glaciali del Pleistocene superiore), come la citata Arctica (o Cyprina) islandica, e la Panopaea norvegica, reperibili nel Mar Baltico. O al contrario, quando si presenta l’ultima fase interglaciale con un clima molto più caldo dell’attuale, nel Mediterraneo a più bassa temperatura fanno la loro comparsa le faune calde senegalesi o delle Canarie, insomma dei mari tropicali, ospiti caldi come Brachidontes senegalensis e Strombus bubonius (il loro rappresentante classico) etc.; così  anche nelle microfaune marine, dove fra le Alghe unicellulari assume importanza la comparsa di Gephyrocapsa oceanica, un Coccolitofòride (Coccolithophoridae) rivestito da un inviluppo sferico di corpuscoli di forma discoidale, un ospite freddo rinvenuto nel bacino del Mediterraneo, mentre tra i Foraminiferi planctonici diventano abbondanti le forme d’acqua fredda (e la meccanica di dislocazione che vale per i mari del Nord e il Mediterraneo, si ripete in forma più o meno accentuata anche negli altri mari). Le stesse dislocazioni e dispersioni legate alle dinamiche climatiche che hanno manifestato le faune marine, valgono poi anche per le faune continentali in biomi modificati che, come detto, sono la risposta funzionale ai mutamenti climatici stessi. Per esempio, l’alternanza di fasi fredde e fasi calde del Pleistocene medio e superiore ch’investe le mammalofaune calde/fredde (dove con mammalofauna s’intende l’insieme dei mammiferi d’una data regione), la si nota specificamente guardando alla distribuzione delle specie migranti da habitat ormai inabitabili  in biomi abitabili durante le fasi fredde e alla distribuzione delle specie migranti di ritorno negli habitat originari ridiventati abitabili durante le fasi calde, fatta eccezione per l’ultima fase glaciale del Pleistocene superiore, dove compaiono le prime forme adattate al freddo intenso e alle modificazioni ambientali, quali, in linea generale, il Rinoceronte lanoso (Coelodonta antiquitatis, dotato di due corni cheratinosi, di cui uno molto lungo e anche lui ricoperto da una fitta peluria lanuginosa, ma a doppio strato, cioè con sottopelo e pelo), i Bovidi lanosi (il Bue muschiato, Ovibos muschatus, con muso peloso, coda rudimentale, corna larghe e lunghe, rivestito da un folto pelo scuro che arriva fino a terra o quasi, e dove muschiato sta per il fatto che le ghiandole sotto il manto secernono sostanze con odore di muschio e la cui femmina presenta soltanto due capezzoli), la Renna (Rangifer tarandus, un Cervide con palchi presenti in entrambi i sessi, sebbene più grandi e resistenti nel maschio, e con zoccoli divaricabili al fine di favorire gli spostamenti sulla neve) e, su tutti, domina il Mammuth lanoso (Mammuthus primigenius, derivato dal Mammuthus trogontherii, il Mammuth originario delle steppe, che presenta 3 m d’altezza al garrese, lunghe zanne piegate a spirale, un corpo con pelle spessa che ricopre uno stato di grasso, il tutto a sua volta ricoperto da una fitta e lunga peluria lanuginosa, e orecchie e coda ridotte al fine di contrastare la dispersione del calore corporeo, così come il grasso e i peli a mantenerla). La figura seguente mostra la ricostruzione di Mammuthus primigenius:


Figura n.   . Fonte: Polticelli, 2003, p. 141.

La figura seguente mostra invece la ricostruzione di Coelodonta antiquitatis:


Figura n.   . Fonte: Polticelli, 2003, p. 141.

Guardando alle aree continentali, in Europa sono all’epoca diffusi il Mammuth lanoso, il Rinoceronte lanoso, l’Orso delle caverne o Orso spelèo (Ursus spelaeus, di grandi dimensioni poiché il suo corpo massiccio e tozzo raggiunge i 3 m di lunghezza e i 500 kg di peso, con evidente dimorfismo sessuale in quanto il maschio ha una taglia all’incirca doppia della femmina; è inoltre, dato l’areale disponibile, in fase d’adattamento onnivoro, cioè con una dentizione carnivora che tende a farsi vegetariana), il Bisonte delle steppe (Bison priscus, un Bovide di grosse dimensioni con lunghe corna e la porzione anteriore del tronco molto più pelosa e più sviluppata della posteriore, migrato attraverso la Beringia nell’America del Nord), e, tra i Cervidi, l’Alce (Alces alces, un ruminante con statura grande, collo e tronco brevi, testa e arti lunghi, coda molto corta; il maschio presenta corna palmate che possono arrivare ai 2 m e che cadono e si riformano ogni anno) e il Megalocèro o Megacero (Megaloceros; un ruminante alto 2 m al garrese e in cui il maschio è l’unico a essere provvisto di palchi che possono raggiungere anche i 5 m d’ampiezza), che la figura seguente illustra:

Figura n.   . Fonte: Padoa, 1971, p. 324.

E altri ancora che si spingono fino all’Italia e alla Spagna e che si diffondono anche nell’Asia centrale e settentrionale, mentre durante le fasi interglaciali s’hanno, sempre in Europa, faune di clima relativamente caldo, come l’Ippopotamo, associate a specie vegetali della flora pontica e caucasica, e dove pontico si riferisce alla regione floristica al margine settentrionale del Mar Nero, così detta perché rimanda al nome classico del Mar Nero, Ponto (Pontus); mentre nell’America del Nord permangono (in ogni caso più a lungo che in Europa), forme arcaiche di Proboscidati come il Mastodon americanus e di Carnivori come lo Smilodon o, attraverso la Beringia, di Mammuth (Mammuthus imperator, alto quasi 5 m e con zanne che s’incurvano e arrivano a incrociarsi). Da sottolineare è poi il fatto che la fauna dell’America Meridionale è contraddistinta (e in modo particolare nelle specie autoctone dei mammiferi appartenenti specialmente a Tardigradi), dall’assunzione di forme gigantesche, così come da altre derivate da forme ancestrali migrate attraverso l’istmo di Panama. Numerosi generi di questa fauna appena citata scompaiono però rapidamente, tra cui Xenartri (o Sdentati), tra cui il Megaterio (Megatherium, un Bradipo terricolo gigante) e il Gliptodonte (Glyptodon, un Mammifero gigante lungo 3 m che ricorda gli Armadilli), che la figura seguente illustra:


Figura n.   . Fonte: Padoa, 1971, p. 249.

Scompaiono inoltre, tra i Lipoptèrni (Lipopterna), la Macrauchenia (un grande Mammifero fitofago con dentatura poco differenziata, collo e arti allungati che possono presentarsi con un solo dito funzionale e, probabilmente, con una piccola proboscide), probabilmente in seguito all’invasione di grandi carnivori provenienti dal Nordamerica, come lo Smilodon. Per quanto riguarda gli Uccelli, nel Pleistocene sono presenti anche forme grandi, quali il Moa (Dinornis maximus; che raggiunge i 3 m d’altezza, con ali molto ridotte che lo rendono incapace di volare e arti posteriori massicci che gli permettono di camminare a terra) della Nuova Zelanda e l’Aepyornis del Madagascar (detto uccello elefante a causa della sua taglia, infatti pesa 450 kg ed è alto 2,5 m, anche lui terricolo ed estinto per cause antropiche, cioè quando il Madagascar è stato colonizzato dall’uomo, ca. 2 000 anni ha). S’è detto, sopra, che l’instabilità climatica porta a ciclici movimenti eustatici nel livello dei mari (abbassamenti/innalzamenti, cioè regressioni/trasgressioni); infatti, in quest’arco temporale il livello medio dei mari regredisce di ca. 100 m a causa delle quantità d’acqua sottratte agli Oceani che arrivano a formare le calotte glaciali, mentre durante le fasi interglaciali, diciamo in modo equivalente e inverso rispetto alle regressioni, si presenta una trasgressione a seguito della fusione dei ghiacci. E, sempre sopra, s’è anche detto che, nel caso di regressione, compaiono ponti di terra fra i continenti (la citata Beringia) o ponti ch’inglobano distretti insulari e si legano ad aree della piattaforma continentale, conformazioni territoriali in sé transitorie, ma che favoriscono la migrazione degli animali. Infatti, è grazie a queste regressioni marine/conformazioni territoriali che si manifesta la diffusione, in Europa, di Mammiferi tipici del continente asiatico (tra cui il Mammuth e il Cavallo). Questa fauna, con il ripristinarsi durante la trasgressione dei mari delle originarie condizioni d’insularità, dà poi origine a specie distinte da quelle progenitrici, con forme d’endemismo insulare assai consistenti come, ad esempio, quello della riduzione di taglia (nanismo) che colpisce numerose forme d’erbivori, come Elefanti, Cervi e Ippopotami, oppure, al contrario, produce forme di gigantismo a carico di micromammiferi (e dove, con endemismo s’intende la presenza circoscritta in un areale di specie o generi caratteristici e a questo limitati, qui un’isola, dove le barriere geografiche, l’assenza di predatori e il ridotto scambio genetico all’interno di queste popolazioni isolate danno origine a forti modificazione di taglia, nanismo o gigantismo, appunto). Esempi d’endemismi insulari s’hanno nel bacino mediterraneo a Cipro con Elephas cypriotes (1 m d’altezza per 200 kg, con una riduzione del peso rispetto a Elephas antiquus tra il 90-100%) e l’ippopotamo Phanourios minor (75 cm d’altezza e 120 cm di lunghezza); a Creta con Elephas creticus e Hippopotamus creutzburgi (con riduzione di taglia del 45% ca.); in Sicilia e a Malta con Elephas mnaidriensis (con riduzione di taglia del 50% ca.), Elephas falconeri (con un’altezza di 90 cm e una riduzione di taglia del 70% ca.), Hippopotamus pentlandi (con riduzione di taglia del 25% ca.) e i Cervidi Notomegaceros carburangelensis e Cervus elaphus siciliae; in Sardegna con il Bovide Nesogoral melonii e il Cervide Praemegaceros cazioti e nelle Baleari con il Bovide Myotragus balearicus che, oltre alla piccola taglia, presenta occhi che non sono laterali come nei Mammiferi erbivori, ma frontali, dunque con una visione binoculare (cioè con la percezione del rilievo d’un oggetto e delle distanze, o visione stereoscopica) e sviluppa incisivi a crescita continua come quelli dei Roditori. E come nel Mediterraneo, il nanismo insulare si presenta anche in molte altre isole, per esempio nelle Filippine, nel Giappone meridionale e nei Caraibi. Complessivamente si può dunque dire che la fauna a Mammiferi, con l’inizio del Pleistocene, presenta un rinnovamento grazie allo sviluppo e alla diffusione di molte nuove forme; che nel Pleistocene medio, tra le faune a Mammiferi, molte s’estinguono e molte ne compaiono di nuove; che, con la fine del Pleistocene medio e nel Pleistocene superiore, nuove forme s’adattano al clima temperato e freddo, così come s’assiste ad una migrazione di forme sia nel senso della latitudine che dell’altitudine (cioè sulle catene montuose). Ancora, si può generalizzare affermando che questo turnover di faune si presenta perché si formano nuovi habitat come risposta funzionale al mutamento del clima, tanto che s’assiste anche un turnover negli ecosistemi che diventano (o ridiventano) abitabili, ciò ch’implica adattamenti nella fauna migrante al di fuori dell’areale originario che, in questo modo, il tutto può evolvere o verso nuove associazioni faunistiche (ciò che crea eventi di dispersione, come è già capitato nell’Europa meridionale a savana) o verso nuove specie. Da non dimenticare, infine, che verso la fine del Pleistocene e in tutti o quasi i continenti, si presenta poi un’estinzione di massa dei grandi Mammiferi, tanto che s’estinguono gli animali dal peso superiore a 100 kg; fanno eccezione l’Asia meridionale e l’Africa (forse perché qui la linea evolutiva del genere Homo e della Megafauna corre parallela creando nella coevoluzione un equilibrio preda/predatore, cioè un equilibrio trofico), continenti che però registrano in ogni caso una riduzione della biodiversità e la perdita della maggior parte dei generi di Proboscidati, Ippopotami e Rinoceronti, oltre a moltissimi grandi predatori. Tra le specie scomparse sono così da annoverare i Mammuth, i Mastodonti e in generale la maggioranza dei Proboscidati, l’Orso delle caverne, il Megaterio, il Gliptodonte, lo Smilodon e il Megacero, e la scomparsa di questa Megafauna (qualcosa come 100 generi) si deve probabilmente in gran parte anche a meccaniche antropiche (v. infra). Il limite dell’Olocene, 10.000 anni fa, si colloca come sopra detto fra il massimo freddo dell’ultima glaciazione pleistocenica, quando si verificò il ritiro della calotta glaciale che ricopre la Scandinavia e il Nord America a 0,0117 milioni di anni fa, cioè a 11 700 anni. Durante l’Olocene, dopo la regressione del livello marino dai ca. 120 m al di sotto del livello attuale legata alla massima espansione glaciale del Würm (31 000-18 000 anni fa), si presenta, con la deglaciazione, la trasgressione che raggiunge il suo picco tra 15 000-11 000 anni fa e che regredisce raggiungendo i valori simili agli attuali tra 6 000-5 000 anni fa; i continenti continuano il loro moto di deriva per qualche centinaio di metri (non a noi percepibili, data la brevità temporale della deriva), mentre continua l’innalzamento delle catene montuose di recente formazione (geologicamente parlando), quali le Alpi e l’Himalaya; il vulcanismo, infine, non è particolarmente intenso e  distribuito principalmente nella già citata Cintura di fuoco. In termini climatici, l’Olocene è di solito considerato una fase interglaciale nell’ambito dell’era glaciale Neozoica (o Quaternaria), vale a dire una fase relativamente calda compresa tra due periodi glaciali, e con la fase di riscaldamento che determina la scomparsa dei ghiacciai il clima ritorna grosso modo normale, così come la distribuzione delle regioni climatiche è poco diversa da quanto si può osservare ora. Specificamente, l’Olocene, che segue il Pleistocene e che per convenzione data il suo inizio a 12 000 anni fa (10 000 anni a.C.), inizia dunque una fase interglaciale, cioè inizia a presentare una fase di riscaldamento. Da sottolineare però che ca. 11 000 anni fa (9 000 a.C.), dopo l’iniziale riscaldamento globale del tardo glaciale-interstadiale, detto Bølling-Allerød (13 000-11 000 anni fa, nella cui fase finale si sviluppa, nel Vicino Oriente il Natufiano, v. infra), si presenta un periodo di mille anni ca. d’abbassamento delle temperature, detto Dryàs recente (Younger Dryas, o Dryas III, dal nome di un genere di piante artiche, Dryas, che sono fra le prime a ricolonizzare le terre dopo la ritirata dei ghiacciai), che vede, ad esempio, il ritorno nell’Europa centrosettentrionale del clima subartico con abbassamenti, a Nord, anche di 10 °C; probabilmente quest’avviene perché è alterata la circolazione termoalina grazie all’enorme afflusso dell’acqua dolce del disgelo che riduce la salinità, e quindi la densità, dell’Oceano Atlantico e, di conseguenza, devia verso Sud la Corrente del Golfo, tanto che le regioni alle latitudini settentrionali, private del calore della Corrente del Golfo, si ritrovano in un clima rigido; altri ipotizza la svuotamento catastrofico delle acque fredde e dolci d’un lago d’origine glaciale dell’America Settentrionale, il lago Agassiz, nelle acque del fiume San Lorenzo e, conseguentemente, nell’Oceano Atlantico, ciò che avrebbe interrotto le correnti calde con gli effetti già descritti; in ogni caso, una causa delle glaciazioni/deglaciazioni pare ritrovarsi sempre nell’alterazione delle correnti del Nord Atlantico (v. supra). La figura seguente mostra il rapporto tra la corrente fredda dell’Artico (diretta a Sud) e quella calda dei Tropici (diretta a Nord) nel Nord Atlantico:


Figura n.   . Fonte: McGuire, 2003, p. 74;

Alla fine del Dryas recente, attorno all’8 000 a.C., la temperatura annuale media aumenta in pochi decenni tra i 4° e i 7°-8° C (forse per effetto di un aumento dell’attività solare, anche se non s’ha idea del perché in pochi anni s’altera tanto velocemente la temperatura della Terra) e aumentano le precipitazioni, ciò che comporta l’alterazione della normale piovosità e l’espandersi della vegetazione sia alle latitudini settentrionali sia a quelle meridionali, con il corredo della fauna che la segue; il clima caldo e umido, da allora, si stabilizza e nasce così quel tipo di ambiente che oggi noi percepiamo come naturale. Valga, a illustrazione di quanto affermato, la figura seguente (e dove la percentuale di isotopi dell’ossigeno, 18O, tanto più alta quanto più fa freddo e viceversa, mostra gli sbalzi di temperatura; per la simbolizzazione, 18O, v. supra):


Figura. n. . Fonte: Behringer, 2013, p. 66.

S’è detto che il clima si stabilizza, però con oscillazione; infatti, sempre rispetto a oggi, si hanno temperature più alte (di 2,5-3 °C) e maggiori precipitazioni nell’optimum climatico postglaciale, o massimo termico, che si situa ca. 7 000 anni fa (5 000 a.C.) e, a partire da questo optimum, la temperatura media cala progressivamente, mostrando però delle fluttuazioni verso il caldo o il freddo su scala temporale millenaria o plurisecolare che influiscono sul destino delle formazioni economico-sociali protostoriche e storiche. Si presentano, infatti, una fase calda che va dal 4000 al 2000 a.C. (con un aumento delle precipitazioni); una fase caldo-arida tra il 1200 e il 900 a.C.; una fase fredda dal 900 al 300 a.C. (che, in Europa, vede uno spostamento verso le basse latitudini della fascia climatica e una differente distribuzione della vegetazione, per esempio con la diffusione in Italia delle foreste), seguita da una fase calda fra il 300 e il 200 a.C.; dopo una fase di freddo tra il 400 e l’800 d.C., segue una fase di caldo tra l’800 e il 1 200 d.C. (detta intervallo caldo medievale o interglaciale medievale, che in Europa registra temperature medie superiori di quasi 2 °C a quelle attuali, inferiori in ogni caso a quelle ipotizzate per l’optimum postglaciale, con la colonizzazione d’alcune zone della Groenlandia e dell’Islanda da parte dei Vichinghi, o Normanni, e la coltivazione di piante termofile in climi altrimenti freddi e umidi, per esempio la coltivazione della vite in Inghilterra); una fase di freddo tra il 1200 e il 1350 e tra il 1590 e il 1860 (detta Piccola era glaciale, o Piccola glaciazione, in quanto presenta le punte massime delle avanzate glaciali oloceniche, tanto nell’Europa settentrionale che nell’America del Nord, con la media delle temperature invernali inferiori di ca. 1 °C, dovuta probabilmente alla concomitanza d’una ridotta emissione solare e d’una elevata attività vulcanica, compresa l’eruzione sopra citata del Tambora nel 1815, che prelude al 1816 come anno senza estate); una fase calda tra il 1850 e il 1962; una fase fredda tra il 1962 e il 1985 e una fase calda dal 1985 a oggi.  Vedi, a proposito delle oscillazioni climatiche dell’Olocene, la figura seguente:


Figura n.   . Fonte: Polticelli, 2003, p. 158.

O la seguente, dove i dettagli sono meglio individuabili:


Figura. n. . Fonte (adattata): Behringer, 2013, p. 12.

Possiamo ora dire che, grosso modo, quello dell’Olocene è dunque un clima (il nostro) che rientra in un periodo interglaciale di cui, ancora, non si sa però la durata, anche se il paragone tra le temperature dell’ultimo periodo interglaciale con quelle dell’interglaciale attuale indicano che sarebbe già in atto una tendenza naturale (cioè non corretta dal riscaldamento antropogenico) verso il calo delle temperature, come mostra la figura seguente:


Figura n.   . Fonte: McGuire, 2003, p. 76;

Infine, si ricorda che le fasi calde del Pleistocene hanno una durata di poche migliaia di anni ciascuna, 8 000 per la precisione, e questo dell’Olocene è anomalo in quanto dura già da 10 millenni e forse l’emissione di CO2 iniziata con i primi deforestamenti (si stima che da quando data l’agricoltura ad oggi, ca. 1/3 delle foreste che hanno coperto la Terra sia scomparso), cui è seguita l’emissione di CH4, o metano, con l’agricoltura irrigua e l’allevamento, per non parlare della Rivoluzione industriale, cioè il riscaldamento antropogenico (senza il quale la temperatura terrestre diminuirebbe di 3 °C in 8 000 anni, entrando già nella fase iniziale d’una glaciazione), è in parte causa del ritardo della prevista fase glaciale dell’era glaciale in cui viviamo; fase, lo si ricorda, che ci sarà e che potrebbe essere, dal punto di vista dei tempi geologici, estremamente rapida. La citata instabilità climatica, cioè l’alternarsi di periodi freddi (e pluviali) con altri caldi (e aridi), agisce sullo sviluppo della flora introducendo, così come s’è già visto a proposito della fauna pleistocenica, un rapido turnover che vede la riduzione o la migrazioni di regioni floristiche e la formazione di nuove specie, specialmente nelle aree europee e nordamericane legate da vicino vicine alle glaciazioni/deglaciazione, dove ogni area presenta una risposta funzionale ai cambiamenti climatici legate alla flora preesistente ed alla morfologia del territorio. Per esempio, l’Europa nordoccidentale dalla tundra passa a foreste a latifoglie, nel mentre la tundra migra a Nord e s’insedia oltre i 66° 33' di latitudine Nord (cioè oltre il Circolo Polare Artico); conseguentemente le sottostanti foreste di conifere migrano verso Nord (nella Scandinavia) e verso Est (nella Russia settentrionale), giusto quando, nelle regioni costiere del Mediteranno settentrionale s’insedia la macchia mediterranea (e sotto d’essa, nella fascia tropicale che va dal Sahara alla Penisola Arabica, le praterie sono sostituite dai deserti). E qui s’inserisce il fatto che l’area meridionale che ha polo nel Mediterraneo incomincia anche a vedere, proprio nell’Olocene e probabilmente grazie all’optimum climatico, l’interazione degli effetti antropici della domesticazione delle piante (e degli animali) con i fattori geografici, climatici e ambientali, dunque con la persistenza, da un lato, della flora originaria (scomparsa invece nelle regioni dell’Europa centrosettentrionale), e, dall’altro, con la varietà delle essenze endemiche dovute all’isolamento delle popolazioni vegetali. E quando si parla d’effetti antropici, s’intende parlare della nascita dell’agricoltura ch’è dovuta e all’assestamento delle condizioni climatiche a partire da 12 000 anni fa (clima più mite e maggiore piovosità nell’area mediterranea e progressivo inaridimento nel Vicino Oriente) e all’adozione della stanzialità legata alla raccolta intensiva di cibi anche vegetali, tra cui semi di cereali e leguminose di natura spontanea e con la conseguente riduzione nel ventaglio delle risorse alimentari d’origine vegetale e con le modificazioni morfologiche delle piante che entrano nella pratica agricola (v. infra). È nel Pleistocene che, nella fauna, compare il processo di speciazione che porterà all’evidenza di Homo sapiens; le prime forme di questa linea, le Australopitecine, compaiono nel Pliocene (Australopithecus afarensis e Australopithecus africanus), tuttavia, è nel Neozoico che si è verifica l’evoluzione del genere Homo che, a partire dalla specie africana Homo habilis, giunge attraverso Homo erectus all’attuale forma Homo sapiens; specie, quest’ultima (e come si vedrà a seguire), comparsa in Africa intorno a 200 000 anni fa e che ha cominciato a diffondersi nell’arco degli ultimi 70-75 000 anni anche verso l’Asia e l’Australia, dove arriva intorno a 60-55 000 anni fa, in Asia orientale, che raggiunge intorno ai 40-50 000 anni fa, in Europa dove giunge intorno a 35 000 anni fa, in America del Nord, che raggiunge attraverso la Beringia, 14 000 anni fa (v., infra, il Paleohomo), ed è nell’Olocene ch’inizia, là dove arriva, e non appena arriva Homo sapiens, una serie di eventi che s’intreccia con le modificazioni delle biocenosi e degli ecosistemi. La prima questione da segnalare riguarda Homo sapiens nei rapporti con le estinzioni nella fauna, cioè la marcata pressione predatoria o venatoria dei cacciatori che, iniziata 120 000 anni fa, continua anche nell’Olocene quando nell’Emisfero boreale, ca. 8000 anni fa (in presenza d’un clima più mite), si presenta l’estinzione della Megafauna (v. supra); a questo proposito è da sottolineare che si parla d’overkill come principale causa antropica dell’estinzione della Megafauna, e restando sottinteso ch’essa coinvolge anche gli animali fino a 40-45 kg (quest’ipotesi è però fortemente contestata perché non prende in considerazione lo stress ambientale, cioè la risposta funzionale degli ecosistemi creata dall’instabilità climatica, con la conseguente riorganizzazioni delle biocenosi, per esempio un clima selettivamente svantaggioso per i grandi Mammiferi terrestri). La seconda questione riguarda Homo sapiens e la manipolazione della flora e della fauna, cioè il passaggio da un’economia di caccia e raccolta a un’economia di tipo produttivo, basata sulla domesticazione di piante e animali, che s’ha quando le comunità umane presenti nell’area mediterranea, nel Vicino Oriente, nel subcontinente indiano e nella Cina del Nord sviluppano tutte, se pure in tempi diversi, un sistema agricolo e tutte allo stesso grado di latitudine, tra il 20°, il 30° e il 40° parallelo Nord (che è poi dire che è la stabilità relativa del clima presente tra il 20° e il 40° parallelo nel periodo olocenico, fuori cioè dagli estremi climatici dei Tropici e delle regioni fredde a Nord e a Sud del pianeta, che ha determinato l’evolversi di un sistema di costrizioni alimentari e culturali storicamente dato, v. infra). La terza questione riguarda il destino di Homo sapiens nei suoi rapporti con l’ambiente, cioè investe le conseguenze della transizione all’agricoltura e alla sedentarizzazione, cruciali nel rapporto con gli ecosistemi, in primo luogo con l’aumento della densità demografica su scala locale (e poi, a seguire globale) che, in secondo luogo, porta a modificazioni funzionali degli ecosistemi dovuti alla conseguente nascita dei primi nuclei urbani e dei problemi d’approvvigionamento alimentare da cui dipendono le stratificazioni sociali, la diffusione delle malattie infettive, le modalità d’accesso al cibo e le patologie legate alle diete carenti (cioè il sistema di costrizioni di cui sopra) cui, in terzo luogo, è pari la legittimazione e la diffusione del concetto di proprietà che genera asservimenti, disparità e conflittualità sociali latenti o esplicite, prima locali e poi globali, cui s’aggiunga, in quarto luogo, la progressiva rarefazione della biodiversità legata alla manipolazione esponenziale (non sempre storicamente cosciente) degli equilibri non necessariamente resilienti degli ecosistemi in gioco; tutte questioni legate poi allo sviluppo della tecnologia in quanto estensione via via più efficiente di Homo sapiens (sull’impatto antropico nell’Olocene, v. anche infra). Dunque, riunendo le fila, è con i primi animali terrestri che, assieme agli anfibi, si chiude la casistica dei Tetrapodi (o Tetrapoda, cioè il gruppo tassonomico che comprende le quattro classi dei vertebrati terrestri, con un’origine filogenetica ch’è comune, e così denominati in quanto provvisti di 4 arti variamente modificati o, a seguire, scomparsi, cioè creature deambulanti quali gli anfibi, i rettili, gli uccelli (derivati dai Diapsidi) e i mammiferi (derivati dai Sinapsidi). La figura seguente illustra la filogenesi dei Tetrapodi (le zone in grigio illustrano le abbondanze relative, in crescita, in calo, o estinte, che dipendono dalla loro distribuzione temporale):


Figura n.   . Fonte: Polticelli, 2003, p. 115.

Da allora, anche da quando le piante si sono inserite nel meccanismo della fotosintesi clorofilliana (cioè attraverso quella reazione chimica che avviene in presenza della luce catturata dalla clorofilla grazie a un atomo di magnesio e che, attraverso la trasformazione di sostante inorganiche, quali il diossido di carbonio e l’acqua, le organica in sostanze a più alto contenuto energetico, i glucidi, v. infra, che vanno a costituire, direttamente o indirettamente, i composti della materia dei viventi, vegetale o animale che sia, e in pari tempo, nella fase iniziale del processo, libera ossigeno nella troposfera), le specie si formano, s’alimentano (con la fotosintesi clorofilliana è, infatti, possibile la catena alimentare, v. infra), s’evolvono e, se non s’estinguono, si diffondono ovunque sul pianeta nella colonizzazione di ogni bioma e delle nicchie ecologiche che questi permettono (ivi compresa, come visto, nel Neozoico, ca. 2 milioni d’anni fa, la speciazione che porterà a Homo sapiens, v. infra). Senza dimenticare ch’è sempre dal mare, e grazie alle radiazioni solari (v. supra), che inizia la catena trofica, questo per merito del plàncton; il quale plancton (presente negli strati più superficiali del mare o fino a profondità che non coinvolgono i fondi oceanici) è costituito in massima parte da fitoplancton (Alghe unicellulari) e zooplancton (Protozoi, Celenterati, Crostacei e stadi larvali di vertebrati e altri invertebrati) e tra questi è poi il fitoplancton che sta alla base della citata catena in quanto è autotrofo, ossia capace con la fotosintesi di sintetizzare, come sopra detto, i composti organici essenziali a partire da composti inorganici, vale a dire di trasformare l’energia della radiazione solare che riesce a filtrare nelle acque in una materia organica utilizzabile dagli organismi eterotrofi (cioè da quegli organismi non fotosintetici che devono utilizzare le sostanze organiche elaborate dagli organismi autotrofi in quanto biologicamente inadatti a ricostruire le sostanze organiche del proprio corpo); questa del fitoplancton è dunque la produzione primaria che sta alla base della catena trofica in quanto i suoi nutrienti alimentano gli organismi eterotrofi, vale a dire lo zooplancton in prima istanza (e questa è la produzione secondaria); a seguire, il plancton (che nel suo insieme presenta un elevato tenore proteico) costituisce poi l’alimento che permette il nutrimento di molti animali marini, invertebrati e vertebrati; di qui la catena, prima propria solo agli ecosistemi marini, prosegue poi sulla terraferma fino a formare una vera e propria rete trofica che prevede anche lo sfruttamento antropico. Oltre a essere alla base della catena trofica, il fitoplancton (o, meglio, le Cianòfite o Alghe azzurre, e sempre attraverso i citati processi fotosintetici) è inoltre responsabile, e per il 90%, della produzione di tutto l’ossigeno circolante nella troposfera; ancora, alcune specie che formano il fitoplancton (assieme alle Alghe bentoniche, presenti sui fondi marini) rilasciano un loro prodotto (un composto dello zolfo) che, grazie all’azione di alcuni batteri, diventa prodotto di scarto, il solfuro dimetile (DSM; si parla di ca. 200 milioni di tonnellate all’anno), scarto che quando dagli oceani raggiunge la troposfera sotto forma di gas presenta un’importante funzione d’aggregazione delle particelle di vapor d’acqua presenti nell’aria (l’umidità), aggregazione che poi forma delle nuvole sugli oceani che, riflettendo le radiazioni solari, contribuiscono a mantenere la temperatura media della Terra più bassa di 5,6 ° C. Come si vede, senza il fitoplancton l’ossigeno della troposfera sarebbe rarefatto, la temperatura media della Terra avrebbe valori altissimi (la media di 15° C s’alzerebbe a 20,6 °C, e si sa che l’aumento di pochi gradi porterebbe a ingestibili sconvolgimenti climatici, ad esempio si sa che sono sufficienti 10° C in meno o in più per ricoprire o i liberare i continenti dai ghiacci) e gli organismi eterotrofi, semplicemente, non esisterebbero più.



[1] L’unità di misura dei virus è il nanomètro, nm; di qui la dicitura nanorganismo (si ricorda che un virus non è percettibile se non con il microscopio elettronico; al confronto un microrganismo quale un batterio, visibile con un normale microscopio e la cui unità di misura è il micron, µm, è un gigante, un millesimo di metro a confronto con un miliardesimo di metro).