IL PROCESSO DI OMINAZIONE (PARTE SECONDA)
Ora,
oltre alla mente come sistema d’organi di calcolo che ha permesso ai nostri
antenati cacciatori-raccoglitori di vivere e sopravvivere (in questo caso le
operazioni del cervello sono, infatti, descritte come computazioni eseguite con
l’analisi, la trasmissione e l’immagazzinamento delle informazioni provenienti
dalla realtà fisica e dal contesto sociale al fine di far fronte alle esigenze che
via via emergono), avviene a seguire un’altra trasformazione che usa le risorse
energetiche al fine di far crescere, oltre che al cervello, anche corpi più
grandi e con un tasso di riproduzione più elevato rispetto agli scimpanzé, come
mostrano le società di caccia e raccolta dove avviene mediamente una
figliazione ogni tre anni, quasi il doppio rispetto agli scimpanzé, e tenendo
conto del fatto che gli scimpanzé maturano in 12-13 anni, mentre l’uomo è
maturo dopo 18 anni, e che i cacciatori-raccoglitori devono preoccuparsi per
molto tempo anche dei figli che non sono in grado di procurarsi il cibo da
soli, preoccupazione per le cure parentali che gli scimpanzé non hanno, ciò che
richiede un’innovativa strategia energetica, ch’è appunto la trasformazione di
cui ci si occuperà a seguire; partiamo dalle stime di crescita di Homo erectus e valorizzando il fatto che
questi individui vivono in piccoli gruppi, con bassa densità di popolazione
(ca. 25-30 unità) in territori di 250-500 km2 d’ampiezza, e che una
femmina di Homo erectus probabilmente
riesce ad avere nell’arco della sua vita da 4 a 6 figli, di cui solo 2 o 3
sopravvivono fino all’età adulta, ciò che dà una stima del tasso medio di
crescita della popolazione pari all’incirca a 0,4%, ciò che, ancora, porta a un
raddoppiamento della popolazione ogni 175 anni e, dopo soli 1 000 anni, a un
aumento di 50 volte il numero iniziale, ciò che, ancora, dà origine a un
fenomeno di dispersione graduale su più ampi territori (si stima che lo
spostamento sia sui 20 km per generazione), e questo senza aumentare la densità
per km2; tanto che questa dispersione porta Homo erectus (e le sue varianti, dunque parlando a prescindere da
una tassonomia precisa, valorizzata in seguito), grossomodo tra 1,9 e 1,2
milioni d’anni fa durante le già analizzate vicissitudini dell’era glaciale (ma
v. anche infra), ad occupare territori
fuori dall’Africa, specificamente l’Indonesia, la Cina e l’Europa (v., infra, ipotesi Out of Africa I); durante questa dispersione graduale fuori
dall’Africa le dimensioni di Homo erectus
e delle sue varianti iniziano a cambiare evolvendo verso individui generalmente
più grossi con un cervello più grande sia come dimensioni assolute che come
dimensioni relative (v. infra); la
figura seguente mostra la crescita del cervello (in cm3) durante
l’evoluzione umana (in milioni di anni fa) a partire dalle Australopitecine per
arrivare a Homo sapiens:
Figura
n. . Fonte: Lieberman, 2014, p. 96.
Attualmente,
non c’è consenso generale sul modo esatto in cui molte specie discendono da Homo erectus, cioè su chi abbia generato
chi; si tratta in ogni caso di varianti di uno schema corporeo evidente già in Homo erectus, cioè con un bacino più
ampio e allargato, ossa spesse in tutto il corpo (cioè con un aspetto
postcraniale molto simile a quello di Homo
sapiens, e dove il termine postcraniale indica la struttura dello
scheletro, escluso il cranio), con una fronte bassa, una pronunciata arcata
sopraorbitaria, faccia larga, lunga e sporgente e un cranio schiacciato e
allungato, con un’alta cresta sul retro del cranio e, in alcune specie, una
leggera cresta sagittale mediana nella parte superiore del cranio, e ciò che
soprattutto varia da una specie all’altra, ciò che ora importa, sono le
dimensioni del cervello (queste specie, da quelle post Homo erectus a quelle pre
Homo sapiens, sono poi grossomodo quelle evolute tra 600 000 e 200 000 anni
fa, e sono qui racchiuse per comodità esplicativa sotto il termine ombrello o etichetta
di Homo arcaico, e nello specifico qui
s’escludono alcune specie e si valorizzano principalmente quelle di Homo heidelbergensis e di Homo
neanderthalensis; per la tassonomia completa, v. infra), tutte specie in ogni caso riconducibili al modo di
produzione proprio alle società di caccia e raccolta, in cui però si presentano
utensili litici via via più sofisticati e diversificati rispetto a quelli
creati ha Homo erectus (è da
ricordare l’evoluzione tecnologica della tecnica di scheggiatura della selce
che va sotto il nome di tecnica Levallois, v. infra, che avviene all’altezza di ca. 500 000 anni fa, e che
permette anche la produzione e l’introduzione d’una punta triangolare nella
lancia dei cacciatori, ciò che aumenta le possibilità di successo
nell’incremento per la collettività delle risorse carnee fornite dalle prede) e
il controllo del fuoco che, oltre a facilitare l’insediamento in ambiente ostili,
permette la cottura regolare delle risorse trofiche, cottura che, a sua volta, introduce
nel metabolismo umano un maggiore apporto energetico e che ha minori
probabilità di nuocere alla salute rispetto ai cibi crudi (le risorse sono
quelle sotterranee, o USO, v. supra,
e carnee, e quest’evento del controllo del fuoco è, come già detto, databile a
partire all’incirca da 400 000 anni fa, v. supra
e infra); detto questo, cioè che
maggiori risorse energetiche sono correlate allo sviluppo del cervello (sulla
cui descrizione generale, v. infra), ora
il problema è come valutare le dimensioni del cervello tenendo conto delle
dimensioni corporee; per esempio, se il volume endocranico negli adulti di
macaco è pari a 83 cm3, quello d’uno scimpanzé a 393 cm3,
quello d’un gorilla a 465 cm3 e quello di Homo sapiens a 1 409 cm3, allora il cervello umano è
enorme rispetto a quello d’una scimmia ed è all’incirca tre volte tanto
rispetto alle scimmie antropomorfe, ma se mettiamo a confronto preciso la massa
del cervello (in grammi) con la massa corporea (in grammi) s’evidenzia una
relazione massa cervello/massa corporea non lineare perché, stando perlomeno agli
esempi qui scelti, un macaco (Macaca
mulatta) ha una massa corporea di 4 600 g (4,6 kg) e una massa del cervello
di 85,6 g; uno scimpanzé (Pan troglodytes)
ha rispettivamente valori di 41 000 g (41 kg) e 390,6 g; un gorilla (Gorilla gorilla) 128 000 g (128 kg) e
460,3 g e Homo sapiens 64 000 g (64
kg) e 1 358,0 g, per cui si può dire che
i cervelli diventano sì più grandi in assoluto, ma relativamente più piccoli,
cioè che questa relazione non è lineare, come mostra la figura seguente che
evidenzia che a un corpo più grande corrisponde sì un cervello più grande, ma
secondo una relazione massa del cervello/massa corporea non lineare (la graffa
3X indica che rispetto alle scimmie antropomorfe, Homo sapiens ha un cervello tre volte maggiore di quanto sarebbe
lecito aspettarsi in base alla massa corporea):
Figura
n. . Fonte: Lieberman, 2014, p. 104.
Questo
perché esiste una correlazione massa cervello/massa corporea, là dove la massa
del cervello è legata a quella corporea in base a una relazione che ci dà
quello che si chiama quoziente d’encefalizzazione (o Encephalization quotient, EQ), che vale 2,39 per il macaco, 2,07
per lo scimpanzé, 1,02 per il gorilla e 5,12 per Homo sapiens; (e per aggiungere un esempio che precede Homo sapiens, un maschio di Homo erectus di 1,5 milioni d’anni fa
con un cervello di 890 cm3 e del peso di 60 kg ha un EQ pari a 3,4,
ca. il 60% in più di quello d’uno scimpanzé, EQ dello scimpanzé a sua volta
simile alle prime specie del percorso d’ominazione); la tabella seguente mostra
il quoziente d’encefalizzazione degli Hominini,
preceduta dalla formula utilizzata per calcolarne il quoziente d’encefalizzazione:
SPECIE
|
DATA 1
(in
milioni d’anni fa)
|
VOLUME ENDOCRANICO (in cm3)
|
MASSA DEL CERVELLO (in g)
|
MASSA CORPOREA (in g)
|
EQ
|
Pan troglodytes
|
oggi
|
393
|
390,6
|
41 000
|
2,07
|
Sahelanthropus tchadensis
|
7,2-6
|
365
|
363,4
|
40 000
|
1,96
|
Ardipithecus ramidus
|
4,4
|
300
|
300
|
3-50
000
|
1,4-2
|
Australopithecus afarensis
|
3,9-3
|
458
|
453,5
|
39 000
|
2,49
|
Australopithecus africanus
|
3-2
|
461
|
456,4
|
34 000
|
2,78
|
Australopithecus boisei
|
2,3-1,3
|
472
|
467,0
|
41 000
|
2,47
|
Australopithecus robustus
|
2,5-1
|
530
|
522,9
|
36 000
|
3,05
|
Homo habilis
|
2,4-1,4
|
610
|
599,9
|
39 000
|
3,30
|
Homo erectus
|
1,9-0,2
|
970
|
943,3
|
61 000
|
3,69
|
Homo heidelbergensis
|
0,7-0,2
|
1
260
|
1
217,7
|
71 000
|
4,24
|
Homo neanderthalensis
|
0,2-0,003
|
1
488
|
1
453,3
|
72 000
|
4,94
|
Homo sapiens
|
0,2-oggi
|
1
409
|
1
358,0
|
64 000
|
5,12
|
[1] Fonte dei dati:
Lieberman, 2014, p. 34, p. 105.
Tabella
n. . Fonte (modificata): Lieberman, 2011,
p. 193 (per i calcoli, v. pp. 192-195).
La
figura seguente mostra, sulla base delle stime presenti nella precedente tabella,
la curva del quoziente d’encefalizzazione (Encephalization
quotient, in figura) negli Hominini,
da Pan troglodytes a Homo sapiens (i valori diversi di EQ di Homo sapiens segnalati in figura sono
dovuti all’aumento delle temperature avvenuto negli ultimi 12 000 anni,
nell’Olocene, ciò che ne ha diminuito le dimensioni del corpo e del cervello di
Homo sapiens rispetto alle dimensioni
che questi aveva nel Pleistocene, dimensioni del cervello che in ogni caso
sono, in media, leggermente più grandi di Homo
neanderthalensis):
Figura
n. . Fonte (modificata): Lieberman, 2011,
p. 196.
Si
noterà che, nel percorso dell’ominazione, il processo d’encefalizzazione (che
riguarda l’espansione e l’interconnessione di aree corticali del sistema
nervoso centrale e il raggiungimento di volumi endocranici via via superiori in
relazione alle dimensioni del corpo), s’è completato in una lunga durata (7
milioni d’anni) e partendo da una capacità cranica di 365 cm3 propria
a Sahelanthropus tchadensis per
arrivare a ca. 1 100-1 900 cm3 di Homo sapiens e grossomodo dopo 3 milioni d’anni da quando si sono già
manifestate la stazione eretta e la deambulazione bipede con Australopithecus afarensis; e non
bisogna dimenticare che, mentre l’andatura bipede è stata sperimentata da tutte
le specie citate, solo per 1/3 della storia naturale umana, o poco più, il
cervello ha dato segni d’espansione attraverso lo sviluppo del numero di cellule
cerebrali, o neuroni (che arrivano all’incirca a 11,5 miliardi; in un cervello
di scimpanzé arrivano invece a ca. 6,5 miliardi), questo attraverso
un’estensione della sostanza grigia della corteccia cerebrale in cui questi
neuroni sono situati e, dato che la corteccia cerebrale presenta uno spessore
di pochi millimetri (da 3 a 4), l’estensione superficiale, che raggiunge i 2 600 cm2,
per poter essere contenuta nella cavità endocranica ha dovuto ripiegarsi più volte
su sé stessa formando una struttura di solchi più o meno profondi e estesi,
cioè di pieghe che ne aumentano, quasi raddoppiandola, la superficie e ne
permettono la suddivisione in circonvoluzioni
e lobi (il ripiegamento, che aumenta le possibilità funzionali della corteccia,
è poi dovuto a un meccanismo evolutivo specifico che permette di contenere
l’estensione, ch’è disposta
secondo una precisa strategia che tende, pur nella plasticità neurale legata
all’ambiente in cui vivono i vari individui, all’uniformità; per inciso, la
corteccia cerebrale comprende strutture tra loro diverse a causa della loro storia
filogenetica, e quella che qui interessa è la neocorteccia, neocortex, detta anche sostanza grigia, quella
che appare con i mammiferi e che manifesta negli Hominini un’estensione della superficie corticale via via sempre
più sviluppata, ed è in questa neocorteccia, particolarmente nel lobo frontale,
che hanno luogo quasi tutte le funzioni cognitive complesse, quali la memoria,
il ragionamento, il linguaggio e la consapevolezza, questo grazie alla
creazione d’una rete interneuronale che connette e interconnette quasi tutti i
neuroni coordinando
le attività delle diverse strutture, ciò che permette appunto tanto il
controllo basale delle attività biologiche elementari, commisurate alle
dimensioni del corpo, quanto, soprattutto, di svolgere i sopra citati compiti
complessi (esclusi i primati si ricorda che, nei mammiferi, la neocorteccia
costituisce tra il 10 e il 40% delle dimensioni cerebrali totali; nelle
proscimmie sale attorno al 50% per arrivare via via a ca. l’80% in Homo sapiens; la neocorteccia ha poi il
ruolo di processare tutte le informazioni in arrivo, da quelle visive e uditive
a quelle tattili, cioè di coordinarle per potere poi pianificare una strategia
di risposta complessa a livello cognitivo, motorio e comportamentale in vista della
competenza sociale avanzata dal gruppo sociale d’appartenenza); in ogni caso i
neuroni complessivi del cervello, non solo quelli della corteccia, assommano a
ca. 100 miliardi, e sono trilioni le interconnessioni; ancora, che questi segni
d’espansione mostrano un marcato sviluppo progressivo a partire da Homo erectus, pari all’adozione via via
più perfezionata del modo di produzione e di riproduzione sociale proprio alla caccia e raccolta; o, per dirla con altre
parole, l’evoluzione iniziale degli Hominini
comporta una crescita modesta della dimensione encefalica, mentre poi il
cervello accelera via via la propria crescita in relazione alle dimensioni del
corpo (si va dai 40-65 kg di Homo erectus,
ai 50-70 kg di Homo heidelbergensis,
ai 60-85 kg di Homo neanderthalensis
e ai 40-80 kg di Homo sapiens) e
all’utilizzo di risorse trofiche sempre più d’alta qualità in contesti
economico-sociali sempre più evoluti e complessi; ora, per comprendere i
meccanismi che si sono implementati per arrivare a un cervello più grosso per
allometria (termine che indica l’accrescimento relativo di un organo o di una
parte di un organismo rispetto a tutto il corpo) bisogna valorizzare l’insieme
dato dalla coesistenza di due strategie di crescita, una ch’è quella di farlo
crescere più a lungo, l’altra ch’è quella di farlo crescere più velocemente;
uno scimpanzé, per esempio, adotta una sola strategia che implica il fare
crescere il cervello del neonato per un tempo più lungo, infatti, se il neonato
di scimpanzé presenta alla nascita (all’incirca dopo 224 giorni di gestazione) un
cervello di 130 cm3, ecco che, nell’arco dei tre anni successivi, il
volume del suo cervello si triplica (390 cm3), ma se mettiamo a
confronto questo tipo di crescita con la crescita del cervello d’un neonato di Homo sapiens, ecco che si manifestano le
due citate strategie (v. infra), una
che fa sì che il cervello, prima della nascita (grossomodo dopo 270 giorni di
gestazione), cresca due volte più velocemente di quello dello scimpanzé
arrivando, alla nascita, con un volume di 330 cm3; l’altra che fa sì
che il cervello cresca per un arco temporale più lungo, di 6-7 anni, tanto che in
questo sviluppo postnatale il volume del cervello si quadruplica (1 320 cm3;
per inciso, lo sviluppo del cervello si completa attorno ai 16 anni d’età); si
ricorda che la crescita postnatale del volume cerebrale avviene in tutti i
primati non a causa di un aumento nel numero dei neuroni (che, tranne alcune
eccezioni, sono generati durante la gestazione, per Homo sapiens specificamente tra la sesta e l’ottava settimana), ma perché
l’aumento della parte del tessuto nervoso ch’è compreso tra i corpi cellulari
dei neuroni della neocorteccia richiede l’occupazione di più spazio; per quanto
riguarda i problemi posti da un grosso cervello, partiamo dai costi energetici per
mantenerlo, costi alti per un cervello che costituisce, come detto, solo il 2%
della massa corporea, ma che consuma il 20-25% del metabolismo basale, cioè
delle riserve in un corpo a riposo; il cervello utilizza qualcosa come 280-420
calorie al giorno (tra tre e quattro volte tanto rispetto alle 100-120 calorie
consumate dal cervello degli scimpanzé), calorie che per lo stile di vita d’un
cacciatore-raccoglitore non sono poco; costi che poi aumentano per una donna
che nutre i figli e che, per riprendere l’esempio sopra riportato, in una
femmina di Homo erectus di 50 kg, incinta
e con prole, è stato calcolato possano assommarsi a 3 000-4 500 calorie
quotidiane; infatti, se una donna in una società di caccia e raccolta ha un
figlio in grembo e ha due figli, uno di 3 e l’altro di 7 anni, che dipendono da
lei, ecco che s’arriva alla somma di ca. 4 500 calorie al fine di poterli sfamare
e sfamare sé stessa; specificamente, questa donna avrebbe bisogno di 2 000
calorie più un 15% aggiuntivo per il feto, cioè di 300 calorie in più;
nell’ipotesi che i figli facciano poi attività fisica con moderazione, le
richieste per il bimbo di 3 anni arrivano a 990 calorie, mentre quelle per il
bimbo di 7 anni assommano a 1 200, per un totale di quasi 4 500 calorie, ciò
che arriva a fare, dato lo stile di vita d’epoca, una quantità di tutto
rispetto (nel caso però i figli avessero avuto il cervello simile per volume a
quello degli scimpanzé, ecco che essa avrebbe speso ca. 450 calorie in meno per
ognuno di loro); s’aggiunga, visto che il cervello consuma prevalentemente
glucosio e ossigeno, ch’è richiesto un sistema speciale d’alimentazione in
grado di rifornire il sangue al cervello e di riportarlo al cuore, al fegato e
ai polmoni, e di qui nuovamente al cervello, in un ciclo continuo di
rifornimento ematico, tanto che ca. 1/4 del sangue presente nel corpo fluisce/defluisce
ininterrottamente nel cervello per alimentarlo, rimuoverne gli scarti metabolici
(per esempio, anidride carbonica) e mantenerlo a una temperatura corretta (l’irrorazione
sanguigna del cervello è poi permessa da un sistema vascolare in cui il
rifornimento ematico è dato dalle due carotidi interne e dalle due arterie
vertebrali, mentre il sangue che defluisce, o refluo, è convogliato alle vene
giugulari interna ed esterna); inoltre, il cervello è un organo fragile che
deve essere protetto contro i traumi violenti, e questo è possibile grazie a
pareti di contenimento molto spesse e resistenti, a un fluido pressurizzato che
lo avvolge e che assorbe gli urti e a membrane molto spesse che lo suddividono
in parti distinte; in aggiunta, il cervello del feto complica il momento del
parto perché la sua testa è sì lunga 125 mm e larga 100, ma, nonostante il
rimodellamento evolutivo del bacino femminile legato al bipedismo che ne allarga
l’apertura pelvica (v. supra), le
dimensioni minime del canale del parto sono strette, mediamente di 113 mm di lunghezza
e 122 di larghezza, e per attraversarlo ci deve essere una rotazione della
testa del feto, causata appunto dalla morfologia rigida del bacino (v. supra) e, conseguentemente, del canale
del parto; data l’apertura pelvica, il canale del parto è dato dalle parti
molli (il segmento inferiore dell’utero, il collo uterino che connette l’utero
alla vagina o cervìce, il canale vaginale e la vulva) che rivestono il canale
osseo del bacino, di forma circolare, ma a imbuto, che presenta all’ingresso nella
zona pelvica una circonferenza il cui diametro maggiore si ritrova da un lato
all’altro dell’apertura nel bacino e in egresso (uscita) una circonferenza, di
diametro inferiore rispetto all’altra, ma il cui diametro maggiore va dalla
posizione anteriore a quella posteriore dell’apertura pelvica del bacino,
diametri fra
loro fortemente disallineati che condizionano la meccanica del parto, tanto che
il feto deve ruotare la testa per trovare prima una posizione con il diametro maggiore
della testa più adatto al diametro dell’entrata e poi un’altra posizione con il
diametro maggiore della testa più adatto al diametro dell’egresso (ossia nella
stessa direzione del diametro antero-posteriore del canale del parto), cioè favorevole
al passaggio per l’espulsione del feto con quella che si definisce come presentazione
cefalica; la figura seguente presenta la posizione di testa o cefalica (testa
in basso, faccia rivolta verso il dorso della madre, collo flesso in avanti),
posizione normale del feto nell’utero al termine della gravidanza:
Figura
n. . Fonte: Rothenberg, 2005, p. 636.
Si sottolinea
che, rispetto alle femmine di scimpanzé che partoriscono facilmente poiché la
testa del feto è più che adattata alla taglia del canale del parto (le
dimensioni minime del canale del parto di una femmina scimpanzé sono mediamente
di 150 mm di lunghezza e 98 di larghezza mentre la testa del feto è lunga 72 mm
e larga 56), tanto che queste, per partorire, ricercano la solitudine, le
femmine di Homo sapiens presentano come
visto un bacino più stretto legato a una testa del feto più grande, insieme che
non favorisce il parto spontaneo, o eutocico, qual è quello della femmina di
scimpanzé, per cui esse presentano un parto con complicazioni create dalla
sproporzione cefalo-pelvica dell’insieme, anche s’è vero che, per facilitare il
travaglio, il feto si presenta in una fase di crescita decisamente prematura rendendo
possibile anche la modificazione della forma della testa, cioè delle strutture
ossee semirigide del cranio, quali le membrane fibrose che si trovano lungo le
linee di congiunzione tra le ossa frontali non ancora suturate e le fontanelle ancora
aperte, ciò che permette la modificazione per compressione del cranio non
ancora completamente formato e pertanto plastico, adattabile come detto alla
fuoriuscita con l’adeguamento del suo diametro a quello dell’egresso pelvico,
tanto che la madre prima (per le difficoltà del parto) e il neonato poi (per la
sua impotenza), richiedono la presenza d’una rete d’assistenza che presume una
cooperazione sociale, presumibilmente adattativa a questo fenomeno; fontanella
è poi il nome che si dà alla membrana flessibile e fibrosa interposta nei punti
di convergenza tra le ossa che compongono il cranio in via di sviluppo; le
fontanelle sono due, una posteriore, posta tra l’osso occipitale e i parietali,
che si chiude per ossificazione nei primi giorni di vita, l’altra anteriore, posta
tra l’osso frontale e i parietali, che si chiude alla fine del primo anno di
vita (tra gli 8 e i 15 mesi); la figura seguente illustra le fontanelle del
cranio di un neonato:
Figura
n. . Fonte: Rothenberg, 2005, p. 636.
Legata
alla fontanella anteriore è poi la sutura fra le due ossa frontali che inizia a
chiudersi a partire dai due anni e a saldarsi definitivamente entro i sei anni,
sutura frontale probabilmente legata, oltre che alla detta facilitazione del
parto, anche alla crescita del cervello e alla riorganizzazione e
all’espansione postnatale della corteccia prefrontale (là dove sono poi
elaborati i processi cognitivi superiori, v. infra); la figura seguente illustra la fuoriuscita dell’occipite
del neonato dall’apertura vaginale (a) e la fuoriuscita completa della testa
dal canale del parto (b):
Figura
n. . Fonte: Rothenberg, 2005, p. 643.
L’insieme
problematico che s’è cercato di descrivere, e che va dai costi energetici per
mantenere il cervello alle complicazioni del parto, indica in ogni caso che
l’apporto energetico doveva essere sufficiente e che i vantaggi dell’avere un
grande cervello superano quantomeno i costi, vantaggi cognitivi che sono
riconducibili alla maggiore capacità di conoscere e sfruttare l’ambiente e,
ipoteticamente, di collaborare, il tutto in vista d’una maggiore fitness e d’un maggiore successo
riproduttivo; s’è già detto che i cacciatori-raccoglitori dipendono per la loro
sopravvivenza dalla conoscenza delle risorse trofiche cui fanno ricorso, vale a
dire delle piante e degli animali, e le capacità proprie ai processi
computazionali offerte da una neocorteccia in fase d’espansione permettono
senz’altro d’arrivare a conoscere le 100 specie diverse che s’ipotizza facciano
parte del loro repertorio alimentare, dal sapere in quale stagione una data
pianta è disponibile (uso della memoria) e dove trovarla in un ambiente
naturale esteso e complesso (uso della logica deduttiva) e, soprattutto, come
renderla commestibile (uso d’un sapere pregresso), così come la neocorteccia
permette di superare le sfide cognitive che la caccia impone; infatti, pur data
la corsa di persistenza (v. supra), è
necessario sapere come una preda si comporta in determinate condizioni e, per
ritrovarne le tracce, il cacciatore deve usare come detto abilità induttive per
valutare l’insieme degli indizi offerti dall’animale e deve anche avere
competenze di logica deduttiva per prevedere come si comporterà, cioè formulare
ipotesi su quello che un animale braccato può fare e interpretare gli indizi
per mettere alla prova la correttezza delle proprie previsioni (volendo, deve
manifestare i prodromi d’una mentalità scientifica), cui s’aggiunga anche il
fatto che un beneficio funzionale dato dalla neocorteccia è anche quello di
potere elaborare strategie sociali, individuali/collettive, per ridurre al
minimo il rischio di predazione, cioè di non essere a propria volta prede; per
quanto riguarda la collaborazione, si ripete che i comportamenti cooperativi
richiedono abilità complesse, cioè la capacità di autocontrollo rispetto agli
impulsi aggressivi ed egoisti (v., infra,
l’ipotesi dell’autodomesticazione), l’abilità di tollerare gli altri da sé, una
teoria della mente per comprendere i desideri e le intenzioni degli altri, una
capacità di gestire le complesse dinamiche sociali tipiche d’un gruppo e,
soprattutto la capacità di comunicare in modo efficace; ora, data la clausola
che una specie, al fine di sviluppare una grande neocorteccia, deve prima
sviluppare un cervello di grandi dimensioni per potere sostenere la
neocorteccia, e che questo fatto, a sua volta, richiede aggiustamenti nella
dieta dei suoi componenti dato l’aumento di richieste energetiche che questa
avanza; ancora, che il ciclo biologico deve consentire un tempo sufficiente sia
per la crescita del cervello che per la sua programmazione durante il periodo
di sviluppo che intercorre tra lo svezzamento e l’età adulta (cioè per l’apprendimento
sociale delle capacità socio-cognitive), con l’implicazione che le citate
specie che vivono in gruppi via via più ampi e socialmente più complessi hanno
bisogno d’un intervallo più lungo per potere apprendere e assimilare il
repertorio di conoscenze al fine di gestire al meglio la loro sfera sociale; come
dire, infine, che il volume del cervello, compresa la neocorteccia, si correla
anche con la capacità del gruppo di sostenere energeticamente e la lunghezza
del periodo di maturazione e gli investimenti parentali, e che solo le specie longeve
che hanno tassi relativamente bassi di mortalità infantile possono permettersi
il periodo di crescita e di apprendimento necessarie per sviluppare grandi
cervelli; dato tutto questo, si suppone che esista, nei primati, una
correlazione stabile tra la dimensione media del volume della neocorteccia e la
dimensione media del gruppo in cui il primate vive, cioè un indice
specie-specifico che indica il limite della dimensione numerica d’un gruppo
sociale, cioè la soglia entro la quale l’individuo di quella specie è in grado
di mantenere delle relazioni di qualità (ossia delle interazione faccia a
faccia coerenti), cui s’aggiunga anche la capacità di mantenere traccia delle
relazioni che gli altri animali hanno tra loro nel gruppo; la figura seguente
mette in relazione la numerosità media del gruppo sociale con la dimensione
neocorticale relativa della specie, indicizzata come il volume della
neocorteccia diviso per il volume del resto del cervello, per differenti specie
di primati (i cerchi pieni indicano le scimmie non antropomorfe, i cerchi vuoti
le scimmie antropomorfe e il quadrato vuoto gli esseri umani):
Figura
n. . Fonte: Dunbar, Barret e Lycett,
2012, p. 140.
Si noti
che, incrociando i dati, si mette in evidenza il fatto che la dimensione
relativa della neocorteccia limita la dimensione del gruppo che si riesce a
mantenere coeso e che le linee che collegano i dati si sviluppano in modo
pressoché parallelo e che, in corrispondenza d’una stessa numerosità del
gruppo, le scimmie antropomorfe richiedono più potenza di calcolo cognitivo per
gestire lo stesso numero di individui, devono cioè spendere più risorse
energetiche per avere quei benefici funzionali al mantenimento del gruppo (per
gli essere umani la dimensione è 150, v. infra);
il che è dire che questi indici correlano la capacità di mantenere un cervello
via via più grosso man mano che si raggiunge il limite della complessità sociale
non più data dalla sola numerosità, ma dalla complessità delle relazioni che la
numerosità comporta, insomma della complessità che un animale d’una determinata
specie può gestire; complessità delle relazioni che negli scimpanzé, per
esempio, rimanda alla dimensione dei gruppi di grooming (alle coalizioni), alla quantità di gioco sociale svolto, all’utilizzo
d’inganni tattici (quali offrire false informazioni per depistare e confondere
i rivali sul proprio stato della mente) e, nei maschi, all’uso di raffinate
strategie sociali per scalzare la dominanza basata sulla forza di maschi di
rango più alto nella competizione per l’accoppiamento (ma v., infra, strategie e tattiche sociali dei
bonobo) e, complessivamente, che il gruppo deve gestire delle forze
disgregative, quali la violenza, che possono agire al suo interno (se
interessa, il grooming è poi il
comportamento di pulizia del mantello svolto reciprocamente per il tramite
della lingua, dei denti e delle unghie, comportamento che assume poi un
significato di manutenzione sociale, cioè di consolidamento dei legami o di
riaffermazione delle gerarchie tra i membri di un gruppo sociale); ora, se
questa correlazione è valida anche per Homo
sapiens significa che il nostro cervello s’è evoluto partendo dall’afflusso
di risorse trofiche rese incessanti (o quasi) da quelle strategie
d’apprendimento sociale che trasmettono le abilità richieste per rendere
efficace e di qualità la caccia e la raccolta in un dato habitat (v. supra), ciò
che presuppone delle capacità socio-cognitive che rimandano poi alle pressioni
selettive dovute alla necessità di vivere in gruppi cooperativi più estesi, vale
a dire alla flessibilità cognitiva e comportamentale che dev’essere una
dotazione di tutti i membri del gruppo affinché, infine, si possa alimentare ogni
singolo membro del gruppo; in altre parole, l’ipotesi è che la pressione
selettiva agisca sui cambiamenti dei tratti sociali se e solo se questi sono contemporaneamente
associati con i cambiamenti dimensionali del cervello e con l’estensione della
neocorteccia; nella pratica, dal solo punto di vista quantitativo, si tratta d’avere
a che fare con reti sociali il cui limite di gestione, per un componente d’una
banda di cacciatori-raccoglitori odierno, è di ca. 30-40 persone, all’interno
del quale numero si possono poi individuare delle cerchie d’intimità che
rimandano a una diversificazione dei tratti sociali implicati; cui s’aggiunga che
il numero limite se s’associano più bande è poi, come s’evidenzia nella figura
precedente, di 150, numero che indica, sempre nelle odierne società di
cacciatori-raccoglitori, il clan, che
ha generalmente un significato rituale che ha cadenze periodiche e ch’è condiviso
fra le bande i cui membri si ritengono affini, per esempio, nell’occorrenza di riti
di passaggio (quali il raggiungimento dell’età adulta, i matrimoni etc.), ma che può anche avere un
significato pragmatico, dato dalla comune gestione d’un terreno di caccia o di
una serie di fonti d’acqua, nel quale si raggruppano da 4 a 5 bande di 30-40
persone (il numero 150, come nudo numero agglutinante, è in realtà poi oscillante
tra 100 e 230, e permane anche per le società che via via diventano
tecnologicamente più avanzate, per esempio, nei villaggi neolitici del Vicino
Oriente all’altezza del 8 000 anni fa la media è di 120-150 persone; nel
periodo iniziale e medio dell’età repubblicana, l’esercito romano ha un’unità tattica
elementare di combattimento, il manipolo o la doppia centuria, il cui numero arriva
a 120 individui, mentre nell’esercito odierno l’unità tattica più piccola è la
compagnia il cui numero arriva a 200 individui; nelle società industriali la
soglia critica delle unità produttive da gestire s’aggira intorno ai 150-200
individui, soglia oltre la quale aumentano in modo sproporzionato assenteismo e
malattie; nelle società postmoderne le reti di social networking prevedono, per un utente, un numero di c.d. amici
che mediamente assomma a 120 e che raramente supera i 200, e via esemplificando);
detto questo sulla correlazione cervello/reti sociali (argomento sul quale, a
seguire, si ritornerà), affrontiamo ora il problema del perché la crescita del
nostro cervello e del nostro corpo ha richiesto un così lungo periodo di
sviluppo, e quando questo fenomeno ha iniziato a manifestarsi, questo partendo
dalla figura seguente dove sono mostrate le fasi di sviluppo di alcuni grossi
mammiferi, specificamente le scimmie, gli scimpanzé, gli ominini arcaici
(Australopitecine e primi Homo erectus)
e gli uomini (Homo sapiens):
Figura
n. . Fonte: Lieberman, 2014, p. 113.
Si
noterà che sono illustrate varie fasi di sviluppo, nell’ordine, quella
neonatale, giovanile, adolescenziale e adulta; la fase neonatale si ha quando i
mammiferi dipendono dalla propria madre per il latte e per altri tipi di cure a
causa del fatto che corpo e cervello stanno crescendo rapidamente; la fase
giovanile, che segue dopo un graduale processo di svezzamento, è quella in cui
i mammiferi non dipendono più dalla madre per la sopravvivenza e in cui il
corpo continua a crescere gradualmente e a sviluppare capacità socio-cognitive;
la fase adolescenziale incomincia poi quando i testicoli o le ovaie maturano e
stimolano la crescita e finisce, dopo un’intensificazione della massa corporea,
con la fine della crescita dello scheletro, la presenza della maturità
riproduttiva e lo sviluppo di molte abilità socio-cognitive; si noterà, ancora,
che gli scimpanzé richiedono tempi di sviluppo più ampi rispetto alle scimmie,
che tra scimpanzé e ominini arcaici le fasi di sviluppo sono all’incirca
parallele (con una leggera sfasatura in avanti a partire da Homo erectus) e che con Homo sapiens, oltre a introduzione di
una nuova fase di sviluppo, la fase infantile (che va dallo svezzamento al
momento in cui un bambino è in grado di nutrirsi completamente da solo), il
periodo di sviluppo s’allunga assai; entrando un poco nel dettaglio, uno
scimpanzé ha completato lo sviluppo del cervello e inizia ad avere una
dentizione permanente all’incirca a 3 anni d’età e inizia la sua fase
giovanile, seppure la madre continui ad allattarlo, se pure con frequenza
minore, fino a quando ha tra i 4 e i 5 anni, fase che finisce grossomodo
quando, sui 12 anni, diventa adulto (la fase giovanile, per una scimmia, dura
ca. 4 anni, ed è già adulta all’altezza di ca. 6 anni); per quanto riguarda gli
ominini arcaici, prendendo il caso di Australopithecus
afarensis, si nota che il cervello cresce ai ritmi dello scimpanzé, mentre
per i primi Homo erectus, al fine di
maturare un cervello di ca. 800-900 cm3, è necessario un supplemento
di tempo, il che spiega il piccolo scarto di maturazione rispetto agli
scimpanzé (queste stime sono possibili perché, in tutti i mammiferi, il
cervello raggiunge la piena maturità più o meno nello stesso momento in cui
spunta il primo molare permanente, e si può stimare l’età che aveva l’organismo
all’apparire del primo molare perché i denti hanno strutture microscopiche,
analoghe agli anelli di crescita degli alberi, che tengono traccia del
trascorrere del tempo, ragion per cui si può con una certa accuratezza, in base
all’analisi dei molari fossili ritrovati, reperire quanto tempo è servito a un
ominine estinto portare a maturazione il proprio cervello); dunque, il processo
di sviluppo d’un organismo umano (o sua ontogenesi) presenta dei fenomeni
nuovi, a partire dall’infanzia, un periodo di dipendenza totale dell’organismo
dalle attività di cura parentali e mentre, come detto, lo svezzamento
definitivo degli scimpanzé dura fino ai 5 anni (periodo nel quale le madri non
rimangono incinte), nelle società di cacciatori-raccoglitori, per esempio, lo
svezzamento avviene quando i figli hanno 3 anni, almeno 3 anni prima che il
cervello smetta di crescere e che inizino a puntare i primi denti permanenti,
nel mentre l’infanzia si prolunga fino ai 6-7 anni, periodo post-svezzamento nel
quale l’infante ha bisogno di molto cibo d’alta qualità, tanto che, lo si
ripete, un bambino non può sopravvivere senza gli alti livelli parentali di
cura richiesti; questo fatto d’un precoce svezzamento permette però alle madri
di rimanere nuovamente incinte, tanto che una donna nell’arco della sua vita e
con l’accesso a fonti di cibo d’alta qualità e a un aiuto della collettività
nel periodo post-svezzamento dei figli, può arrivare ad avere quasi il doppio
dei figli rispetto ad una femmina di scimpanzé, come dire che si riduce
l’intervallo d’internascita, fenomeno che presenta inoltre il vantaggio d’un
costo energetico inferiore per ogni figlio avuto rispetto al costo energetico d’ogni
figlio avuto da una femmina di scimpanzé; infatti, s’è calcolato che una
femmina di Homo erectus di 50 kg ha
un costo nella produzione di latte ch’è legato al peso della madre (per
esempio, una femmina media delle Australopitecine è all’incirca del 50% più leggera
rispetto alla femmina di Homo erectus,
e pertanto l’Australopitecina richiede nell’allattamento un fabbisogno
energetico minore); ancora, che questo costo energetico aumenta se svezza i
figli all’altezza di 5 anni, nel qual caso ha bisogno dell’apporto energetico
di ca. 4,2 milioni di calorie per ciascun nato, ca. 1,7 milioni di calorie in
più rispetto a quanto le sarebbe necessario se svezza il figlio a 3 anni,
questo perché la produzione di latte è l’investimento materno più costoso, e sempre
fatta salva la questione che per le femmine aumenta significativamente il
fabbisogno energetico giornaliero (daily
energy expenditure, DEE), tanto per sé durante la gestazione e l’allattamento
quanto per la prole dipendente, ciò che, di conseguenza, rende questo
fabbisogno di molto superiore a quello dei maschi di Homo erectus e, come visto, questo cambiamento nella strategia
riproduttiva richiede o è pari anche ai cambiamenti nell’organizzazione sociale
a livello di cooperazione, cooperazione che poi investe e le cure parentali e
l’efficacia delle strategie alimentari del gruppo; oltre all’infanzia, è poi
allungato anche il periodo che precede il divenire adulti, che dura per Homo sapiens fino a 18 anni (per
esempio, nelle società di cacciatori-raccoglitori, in una femmina l’inizio
dell’attività ovarica, cioè la prima mestruazione, o menarca, si presenta tra i
13 e i 16 anni, ma è improbabile che diventi madre prima di 18 anni; mentre un
maschio raggiunge la pubertà, cioè la capacità di produrre sperma (o
spermatogenesi), più tardi rispetto alla capacità d’ovulazione della femmina,
ed è raro che diventi padre prima di 20 anni); ora, quest’allungamento del
tasso di sviluppo umano non è spiegabile ricorrendo al parametro delle
dimensioni corporee, cioè basandosi sul fatto che gli animali più grossi
impiegano più tempo per crescere (per esempio, un gorilla ci mette 13 anni per
completare il proprio sviluppo, e i gorilla maschi pesano il doppio d’un uomo),
e per spiegarlo bisogna probabilmente ricorrere al parametro del cervello più
grosso, cervello, tra l’altro, le cui connessioni sono molto più complesse, ed
è probabile che quest’allungamento (anche se i dati a disposizione sono pochi)
sia iniziato con Homo erectus e sia
terminato con Homo sapiens; il che
pone un problema, cioè come si sia risolta storicamente la questione energetica
che investe il primo periodo critico di sviluppo del cervello (periodo
neonatale e infanzia) a partire da Homo
erectus e Homo arcaico (v. supra), problema che investe le femmine
da un duplice punto di vista, il primo dato dal fatto che le madri devono e
allattare per 3 anni e prendersi contemporaneamente cura del periodo
dell’infanzia dei figli già svezzati per altri 3 anni, compito difficilmente
risolto in assenza di cibi d’alta qualità (carne e alimenti cotti) e d’un aiuto
parentale, che di suo presuppone una rete sociale molto collaborativa; il
secondo dato dalla non soddisfazione delle necessità nutritive del cervello (il
loro e quello dei figli) a causa d’una rarefazione delle risorse d’alta
qualità, per esempio, una carestia, questo legato al presupposto che il tessuto
cerebrale non è in grado di conservare riserve energetiche tanto che, come
detto, il flusso sanguigno deve fornire in continuazione glucosio, pena danni
irreparabili, spesso mortali (per avere questi esiti, è sufficiente una carenza
nell’approvvigionamento del glucosio, o una breve interruzione nel suo apporto),
ciò che crea, data una selezione naturale molto intensa, un meccanismo
adattativo capace di conservare l’energia in sovrappiù accumulata sotto forma
di lipidi (nei tessuti adiposi sottocutanei, e in misura maggiore rispetto agli
altri primati) da utilizzare come riserva di glucosio in caso di necessità, e
questo principalmente per le donne, ma anche per i figli e i maschi, e senza
questa propensione a immagazzinare lipidi si sospetta fortemente che, da Homo erectus a Homo arcaico, difficilmente sarebbe stato in grado d’evolvere un
cervello così grande e un corpo che cresce così lentamente; infatti, anche se
n’è già accennato e pure se la questione sarà ripresa a seguire, è opportuno ricordare
che i lipidi che si trovano come materiale di riserva nel tessuto adiposo
sottocutaneo sono i trigliceridi, grassi neutri composti da 3 acidi grassi legati
a un alcol, il glicerolo (gli acidi grassi sono fondamentalmente lunghe catene
di atomi di idrogeno e carbonio e il glicerolo è un tipo d’alcol incolore,
inodore e dal sapore dolce), che il nostro corpo, oltre a quelli provenienti
dalla digestione di cibi ricchi di grassi, è anche capace di sintetizzarli dai
carboidrati, e che dopo la digestione d’una risorsa trofica alcuni ormoni fanno
sì che in alcune cellule deputate i glucidi, gli acidi grassi e il glicerolo si
convertano in lipidi e, s’è il caso, altri ormoni decompongono poi i lipidi
accumulati nei suoi componenti, che il nostro organismo è in grado d’utilizzare;
nel nostro corpo le cellule deputate a favorire il processo d’accumulazione dei
lipidi sono ca. 30 miliardi, e ogni grammo di grasso accumulato contiene 9
calorie, più del doppio rispetto a carboidrati e proteine di pari peso, ed è
questo il motivo che ha portato al sopra citato meccanismo adattativo, e s’è
pur vero che tutti gli animali hanno bisogno di lipidi, gli esseri umani ne
hanno bisogno in quantità enormi fin dalla nascita; infatti, nelle ultime 13 settimane
di gestazione, nel mentre il cervello del feto triplica la propria massa, le
riserve lipidiche crescono di ca. 100 volte, tanto che un neonato umano ha ca.
il 15% di grasso corporeo (a fronte d’un neonato di scimpanzé, che ne ha ca. il
3%) e un cervello che consuma poi ca. il 60% del fabbisogno energetico a
riposo, grossomodo 100 calorie al giorno (per il consumo dell’adulto, v. supra), percentuale di riserve che
cresce al 25% durante l’infanzia e si stabilizza, nel maschio d’un
cacciatore-raccoglitore adulto, attorno al 10% (nelle femmine, la percentuale sale
al 15%); riassumendo, s’evidenziano alcuni cambiamenti importanti nel
fabbisogno energetico da Homo erectus
a Homo arcaico, ossia un aumento
assoluto del fabbisogno energetico dovuto alla maggiore dimensione del corpo, un
cambiamento nelle relative esigenze dei diversi organi del corpo con un surplus assorbito dal metabolismo
cerebrale e a scapito dell’intestino, surplus
probabilmente mediato da cambiamenti nella proporzione del grasso corporeo nel
peso complessivo, una neotenia (nel senso etimologico del termine) ch’è pari a un
tasso rallentato nella crescita del
corpo e del cervello nel periodo dell’infanzia e fino alle soglie dell’età
adulta, cui è pari un aumento complessivo dei costi di crescita fino a quando
non si presenta la capacità riproduttiva; e quest’accumulo di lipidi, fatto
salvo il metabolismo basale (v. supra),
è permesso dallo scarto tra la quantità d’energia che il corpo produce (daily energy production, DEP) e quella
che consuma (total energy expenditure,
TEE), che è pari, in una società di cacciatori-raccoglitori odierna, a ca. 1
000-2 500 calorie, stima da prendere con beneficio d’inventario, ma che indica in
ogni caso che la media della produzione quotidiana d’energia è superiore al
dispendio energetico medio, laddove calcoli all’ingrosso indicano che se
l’introito calorico tipico d’un cacciatore-raccoglitore è di ca. 3 500 calorie
e il consumo è pari a 2 000-3 000 calorie, esiste la possibilità che i depositi
dei tessuti adiposi sottocutanei possano stabilizzarsi, come detto, in un 10%
del peso corporeo nei maschi e del 15% nelle femmine; surplus energetico che sopra s’è ipotizzato come permesso
dall’introduzione delle innovazioni tecnologiche e d’una forma sociale di tipo
collaborativo, dispositivo che ha messo in moto un meccanismo di retroazione
positiva autoperpetuantesi ch’è capace di soddisfare le necessità del
metabolismo basale (BMR) e d’utilizzare lo scarto energetico tra la produzione
(DEP) e il consumo (TEE) per usarlo, in un processo evolutivo graduale e
dilatato nel tempo (e fatti salvi i periodi critici, in cui alcune specie si
sono estinte, v. infra), per la
crescita del corpo, per la cura d’una prole dipendente e per il formarsi d’una
struttura economica che utilizza al meglio la presenza individuale di cervelli
sempre più grossi al fine di creare un cervello sociale in una rete (inizialmente,
di 30-40 persone, v. supra); questo dispositivo
di retroazione positiva autoperpetuantesi amplifica poi i suoi effetti quando,
a seguire, si presenta la comparsa in Africa, ca. 200 000 anni fa, di Homo sapiens, specie che, fino a pochi
millenni fa, dopo aver convissuto con molte specie di Homo arcaico, l’ultima delle quali è Homo neanderthalensis (v. infra),
rimane l’unica sopravvissuta (fino ad ora) della linea evolutiva umana, cioè
l’ultimo evento di speciazione che ha portato al nostro attuale corpo, ciò che
pone la domanda di cosa abbia reso inadeguate le specie convissute con Homo sapiens tanto da destinarle
all’insuccesso evolutivo e questa volta la risposta non la si può ritrovare solo
nelle testimonianze fossili, che al più mostrano che l’evoluzione è
inizialmente reperibile nei pochi cambiamenti anatomici, evidenti solo nella
parte superiore del corpo, ma anche nelle testimonianze archeologiche che
suggeriscono che quello che più differenzia Homo
arcaico da Homo sapiens è la capacità
d’affrontare i cambiamenti che si prospettano nel suo ecosistema grazie
all’abilità, unica e senza precedenti (cioè specie-specifica), d’innovare e
trasmettere informazioni da un individuo all’altro; quest’abilità accelera
gradualmente, causando trasformazioni significative, in sequenza, nel modo di
cacciare e raccogliere le risorse trofiche, ma a seguire, all’altezza di ca. 50
000 anni fa, i cambiamenti nelle innovazioni e nella trasmissione delle
informazioni diventano talmente accelerati da permettere, grazie a
quest’abilità, una trasformazione delle reti sociali che permette la
colonizzazione dell’intero pianeta, esclusa l’Antartide (v. infra, ipotesi Out of Africa); ripartendo dalle testimonianze fossili, e mettendo
a confronto l’ultima specie arcaica (Homo
neanderthalensis) con quella moderna (Homo
sapiens), si nota che in Homo sapiens
s’è modificato l’assemblaggio delle parti che compongono la testa, nel senso
che si passa da facce voluminose, prominenti rispetto alla scatola cranica, a
volti più piccoli e appiattiti, molto
meno allungati e quasi completamente allineati con il piano della fronte, ciò
che comporta un’arcata sopra orbitale poco pronunciata al pari degli zigomi,
anch’essi meno pronunciati, delle orbite più piccole, così come più piccole
risultano essere le cavità nasali, oltre che anche più corte, come più corte
sono le cavità orali e, infine, un apparato masticatorio di più modeste
dimensioni (v. supra); la testa è
inoltre arrotondata, con una fronte alta e contorni più arrotondati sui lati e
sul retro (invece che allungata e appiattita, con prominenze ossee sopra le
orbite), ciò ch’implica un cervello più sferico e meno voluminoso che poggia su
una base del cranio molto meno appiattita, cui s’aggiunga la presenza d’un
mento (di cui si può solo ipotizzare la funzione e ch’è assente in qualsiasi
altra specie della linea evolutiva umana); la figura seguente mette visivamente
a confronto quanto s’è cercato sopra d’illustrare:
Figura
n. .
Fonte: Lieberman, 2014, p. 137.
Ancora,
nei maschi di Homo sapiens, il bacino
è leggermente meno largo (e, nelle femmine, il canale del parto è leggermente
più stretto e situato più in profondità sul piano sagittale, v. supra), le spalle sono meno muscolose,
la parte inferiore della schiena è più incurvata, il torace a forma di botte è
meno pronunciato e il calcagno è più piccolo; detto questo, cioè che il corpo
di Homo sapiens è di ben poco diverso,
sia pure uniformemente, da quello di Homo
neanderthalensis, restano i dati archeologici che indicano (sempre che sia vero
l’assioma di partenza che afferma che i reperti ritrovati mostrano strumenti
artefatti che sono, per la più parte dei casi, il prodotto di comportamenti
appresi, cioè tali perché effetto d’una trasmissione sociale delle informazioni
in fase d’accumulazione) che le differenziazioni strumentali tra le popolazioni
sono, di fatto, inizialmente poche, ma tendono via via ad aumentare nel corso
del tempo; dato che prima di 600 generazioni fa (all’altezza del Neolitico, con
l’avvento dell’agricoltura), tutti vivono in società di caccia e raccolta, ecco
che sia Homo neanderthalensis che Homo sapiens, ch’evolvono da un antenato
tra loro comune ca. 400 000 anni fa (Homo
heidelbergensis, v. infra), ricevono come dote sociale
trasmessa la stessa tecnica di fabbricazione, detta Levallois (v. infra), solo che nelle società dov’è
presente Homo sapiens, in Africa,
all’altezza di 70-60 000 anni fa, qualcosa s’è evoluto in quanto sono restituiti
reperti che indicano che siamo in presenza di nuovi tipi di utensili, comprese
piccole punte di pietra utilizzate come punte di frecce, così come di nuovi
utensili in osso, quali gli arpioni per pescare (ciò ch’inizia a implicare una
dieta più variata), ch’è già presente il commercio sulle lunghe distanze di
materiali e che sono presenti indizi di comportamenti simbolici, quali perle ornamentali
colorate e incisioni su pezzi d’ocra, ciò che suggerisce come minimo
l’esistenza di società più complesse rispetto a quelle dei coevi Homo neanderthalensis; in ogni caso, a
partire da 50 000 anni fa, e probabilmente queste tecnologie si sono diffuse a
partire dall’Africa settentrionale per poi allargarsi a Nord verso l’Eurasia e
a Sud nel resto dell’Africa, ecco che gli strumenti litici sono prodotti con
serialità (Homo sapiens, infatti,
comprende come produrre in serie schegge di pietra a partire da forme
prismatiche), ciò che permette ai cacciatori-raccoglitori di produrre in
abbondanza utensili più sottili e più versatili, adattabili a più usi, anche
altamente specializzati; inoltre s’iniziano a costruire utensili in osso,
compresi aghi e punteruoli per reti e indumenti, armi da lancio letali come i
propulsori e gli arpioni dentati, e accampamenti complessi, talvolta con abitazioni
semipermanenti; insomma tutto un insieme d’innovazioni che favorisce, dato il
ventaglio allargato delle disponibilità trofiche accessibili, con pochi rischi
e alte probabilità di successo, anche a donne e bambini (dunque non solo uno
spettro di verdure arrostite e d’animali di grossa taglia), e dato l’impatto
d’un uso estensivo d’un cibo più digeribile e che rilascia più sostanze
nutritive (grazie alle pratiche di frantumazione delle risorse vegetali con
mortai e pestelli, di riduzione della carne selvatica in piccoli pezzi con
strumenti pari agli odierni coltelli e della cottura generalizzata delle
risorse carnee e vegetali), un incremento demografico di non poco conto cui è
pari un numero più alto e territorialmente più denso ed esteso di siti (che,
per esempio, si trovano anche in luoghi remoti e poco ospitali come la Siberia);
ancora, s’evidenziano comportamenti simbolici proliferanti, come pitture nelle
caverne e nei ripari di rocce, figurine intagliate, ornamenti elaborati,
strumenti musicali e tombe ricche d’oggetti funebri etc., artefatti che testimoniano di comportamenti sociali e stili
di pensiero inediti (v. infra); e
mentre i siti precedenti a 50 000 anni fa sono fondamentalmente tutti uguali,
quale che sia la loro dislocazione geografica (in Etiopia, in Israele o in
Francia etc.), a partire dai siti di
50 000 anni fa i manufatti incominciano a permettere d’identificare delle
singolarità, cioè la presenza di fenomeni d’irripetibilità che caratterizzano
una e una sola formazione sociale e che permettono così di distinguerla dalle
altre, marcature che ora sono variamente distribuite nello spazio e nel tempo,
ciò ch’è indizio certo dell’affermazione d’un nuova struttura economica che
permette, dato l’imprinting d’una
rete collaborativa trasmessa da un passato filogenetico, l’introduzione d’innovazioni
tecnologiche sempre più accelerate e differenziate e inedite modalità di trasmissibilità/riproducibilità
delle informazioni da un individuo all’altro, cioè l’utilizzazione d’un
dispositivo che crea, in questa rete, un cervello sociale capace non solo di
riprodurre le formazioni sociali già esistenti, ma anche di produrle e
riprodurle con strutture economico-sociali via via sempre più complesse; ora
però ripartiamo dal cervello individuale, questa volta quello specifico di Homo sapiens, e cerchiamo di vedere come
questo cervello ha permesso la messa in essere d’una sequenza d’innovazioni e come,
lavorando di conserva con una modificazione dell’anatomia che ha avuto
implicazioni morfologiche nell’apparato di fonazione, ha implementato una
qualità sempre più alta nella trasmissione delle informazioni da un individuo
all’altro; ora, tra Homo neanderthalensis
e Homo sapiens non è questione di
volume del cervello (infatti, quello di Homo
neanderthalensis è più voluminoso) e,
poiché è aleatorio valutare l’intelligenza dal volume, per cercare di spiegare
perché queste due specie sono cognitivamente diverse, è necessario prima tentare
di rifarsi all’architettura che presentano i due cervelli e, a seguire, fare ipotesi
sul numero e sulla dinamica delle connessioni che questi possono arrivare ad attivare,
e anche se dalla differente forma cranica è estremamente arduo e difficile
inferire una variazione nella sottostante architettura cerebrale, si può
affermare con certezza che alcune differenze fondamentali nella dimensione di
dati elementi strutturali contribuiscono alla forma più sferica del cranio di Homo sapiens (si dice questo perché
alcune porzioni, più espanse in Homo
sapiens rispetto ai suoi predecessori, come vedremo a seguire, possono
renderla tale poiché sono situate proprio al di sopra d’una struttura a
cerniera al centro della base del cranio, ed è proprio questa cerniera che nel
periodo postnatale, a causa della rapidità con cui cresce il cervello, si flette
di circa 15 gradi in più in Homo sapiens
rispetto a Homo arcaico, facendo sì
che il cervello e la scatola cranica che lo contiene diventino più arrotondati
e, allo stesso tempo, ruotando di più la parte del volto al di sotto della
fronte); queste differenze morfologiche tra i due cervelli possono poi essere
rilevanti per l’esistenza di possibili differenze nelle abilità cognitiva, e
questi elementi strutturali si trovano nel proencefalo, cioè nella parte
terminale dell’encefalo che, di suo, è la parte del sistema nervoso centrale
contenuta per intero nella cavità cranica e che comprende il telencefalo e il
diencefalo; il telencefalo è la parte formata dai due emisferi di destra e di
sinistra e dal corpo calloso (cioè da una lamina di fibre nervose che connette
i due emisferi cerebrali posta sagittalmente tra di loro), mentre il
diencefalo, una regione all’interno del cranio, presenta poi strutture come il
talamo e l’ipotalamo; di questa parte terminale dell’encefalo i dati
strutturali che qui c’interessano si trovano nella neocorteccia che, come sopra
visto, ha un’espansione notevole sia in Homo
arcaico che in Homo sapiens, neocorteccia
che, processando tutte le informazioni in arrivo (da quelle visive e uditive a
quelle tattili), è responsabile del pensiero conscio di sé e della capacità di
pianificare strategie di risposta complesse a livello cognitivo, motorio e
comportamentale etc.; questa
neocorteccia è poi suddivisa in diverse porzioni tondeggianti, o lobi, che se
pure interconnessi e cooperanti sono individuabili ciascuno con una propria e diversa
funzione, e le cui superfici anatomicamente complesse e ricche di protuberanze
sono quelle parzialmente rispecchiate nei crani fossili a tutt’oggi rinvenuti e
che permettono di fare le inferenze di cui sopra (si dice parzialmente anche
perché il cervello non collima esattamente con la parte ossea, ma n’è separato
e protetto da tre sottili membrane, dette meningi); la figura seguente mostra
le diverse porzioni dei lobi del cervello dell’emisfero di sinistra, lobi che
sono poi speculari nei due emisferi (cioè si presentano in coppia, uno per
emisfero, laddove gli emisferi non sono simmetrici, ma quasi; in figura sono
inoltre rappresentati anche il tronco encefalico, che congiunge il telencefalo
e il diencefalo al midollo spinale, e il cervelletto, formato anch’esso da due
emisferi, ch’è una porzione dell’encefalo che occupa la parte posteriore e
inferiore della cavità cranica):
Figura
n. .
Fonte: Lieberman, 2014, p. 144.
Di
questi lobi, quelli temporali sono, in Homo
sapiens, all’incirca del 20% più grandi che in Homo neanderthalensis, e questa coppia di lobi che si nasconde
dietro le tempie svolge molte delle funzioni che usano e organizzano i ricordi (memoria
a lungo termine) e, in alcune sue aree, quando qualcuno emette dei suoni (dotati
di un significato denotato o connotato o che sia), questo lobo ci permette di
identificarli, tanto che una lesione in un’area specifica del lobo temporale,
l’area di Werniche, ci impedisce di attribuire qualsivoglia significato a ciò
che udiamo (v., infra, anche area di
Broca); inoltre, una parte situata in una struttura posta nella superficie
mediale dell’emisfero cerebrale, nella profondità dei lobi temporali, e definita
come ippocampo, ci permette poi d’imparare cose nuove e d’immagazzinare le
informazioni acquisite (oltre che di regolare la sensibilità olfattiva e
gustativa); ragione per cui è ragionevole ipotizzare che lobi temporali più
grandi potrebbero avere aiutato Homo
sapiens nell’elaborazione della comprensione del linguaggio parlato (o
memoria semantica) e nella gestione dei processi mnemonici; ancora, un altro
lobo, che sembra apparentemente più grande in Homo sapiens, è il lobo parietale (situato nella parte mediana e
superiore del cervello, compresa fra il lobo frontale in avanti, occipitale all’indietro
e temporale in basso), e la coppia di questi lobi ha un ruolo chiave
nell’interpretare e integrare i dati della realtà grazie alle informazioni
sensoriali provenienti da diversi distretti del corpo (cute, muscoli e
articolazioni) e ci permette di costruire una mappa topografica della realtà
attorno a noi al fine di poter capire dove ci troviamo (ciò che implica la propriocezione,
cioè la ricezione
d’informazioni relativamente alla posizione, al movimento e all’equilibrio del
proprio corpo nello spazio), per valutare il modo d’uso degli strumenti o degli
oggetti che ci circondano (o memoria procedurale), la capacità di calcolo con i
numeri, il riconoscimento dei simboli, la memoria per le parole etc., tanto che se si danneggia questa
porzione del cervello possiamo perdere specifiche capacità sensoriali, la capacità
d’eseguire movimenti che tendano a un dato scopo o di fare più cose
simultaneamente (o aprassia) e di pensare in modo astratto; se altre differenze
esistono, e probabilmente esistono, esse sono però difficili da misurare, per
esempio, una porzione del lobo frontale situata dietro le sopracciglia, detta
corteccia prefrontale (o prefrontal
cortex, PFC), che, con le dovute correzioni di scala, è più grande del 6%
ca. in Homo sapiens rispetto agli
scimpanzé, in confronto ai quali presenta una struttura più complessa e più
ricca di connessioni; per spiegare la qual ultima affermazione, si deve
ricorrere ai neuroni (le cellule fondamentali del sistema nervoso) e alla loro
capacità di formare circuiti, o reti complesse di connessioni che sono in grado
di ricevere, elaborare, conservare e trasmettere rapidamente un’informazione
(dei segnali elettrici) all’interno del corpo umano e, propriamente, si deve
ricorrere ai prolungamenti dei neuroni, detti assoni, che sono appunto quelli
che consentono la detta circolazione d’informazione; inizialmente alcuni assoni
sono e rimangono senza nessun rivestimento, ma in seguito nel corso dello
sviluppo ontogenetico, a completare la formazione del sistema nervoso, alcuni
assoni appartenenti a numerose popolazioni neuronali che necessitano di un’alta
velocità di conduzione dei segnali, sono ricoperti, a modo d’isolanti, con
cellule gliali che arrivano a formare una guaina mielinica che ha lo scopo,
appunto, d’accelerare la conduzione stessa del segnale elettrico lungo la fibra
nervosa e di sincronizzare il trasferimento d’informazioni tra sistemi neurali,
accelerazioni e sincronizzazioni che sono essenziali per avere un ordine
superiore di funzioni cognitive; la guaina è poi detta mielinica perché è
costituita dalla mielina, una sostanza formata da lipidi complessi legati a
proteine, e il processo di completamento del sistema nervoso con questa guaina
è detto mielinizzazione; e la mielinizzazione, in Homo sapiens, inizia a formarsi nel periodo prenatale e continua a
svilupparsi per altri 20-30 anni, cioè durante lo sviluppo associato all’acquisizione
della maturità comportamentale e cognitiva a sua volta legato alla formazione
della neocorteccia; ora, mettendo a confronto lo sviluppo cognitivo di Homo sapiens con quello degli scimpanzé,
è possibile affermare che la mielinizzazione della corteccia prefrontale si
presenta, rispetto agli scimpanzé, come protratta dal punto di vista ontogenetico;
infatti, mentre negli scimpanzé la densità degli assoni mielinizzati aumenta
costantemente fino ai livelli adulti raggiunti all’altezza della maturità
sessuale, in Homo sapiens, al
contrario, la mielinizzazione è più lenta durante l’infanzia ed è
caratterizzata da un ritardo del periodo di maturazione che s’estende, come
sopra visto, oltre la tarda adolescenza, e che probabilmente s’origina
evolutivamente per il dispiegarsi della maturazione del sistema nervoso in un
contesto economico-sociale in via esso stesso di sviluppo, come dire che il notevole
ritardo nel programma di sviluppo della maturità neocorticale potrebbe giocare
un importante ruolo nella crescita e nella plasticità delle connessioni che
contribuiscono alle capacità cognitive specie-specifiche di Homo sapiens, questo in quanto
forniscono maggiori opportunità per influenzare la capacità di formare reti
complesse di connessioni; detto questo, ritorniamo ora alla questione dell’espansione
della corteccia prefrontale nel percorso evolutivo di Homo affermando che questa porzione, anche s’è difficile
dimostrarlo dati alla mano, deve essere stata considerevole via via che ci
s’avvicina e s’arriva a Homo sapiens
giacché in essa si localizzano le capacità di processare, coordinare e
pianificare altre parti del cervello quando s’è in interazione con gli altri
attraverso la parola, il pensiero e l’azione (con la clausola che, s’è
relativamente facile identificare il dove, più complesso è però spiegare il
come questi processi evolutivi, che agiscono sui meccanismi di regolazione
delle funzioni cognitive complesse, sono avvenuti); ancora, e questo è un
tratto importante per la gestione d’una rete sociale, la corteccia prefrontale è
in grado di risolvere i problemi che via via si presentano (o problem solving) e, soprattutto, permette
d’inibire e ritardare il momento della gratificazione dei bisogni, consente cioè
di bilanciare l’impulso a una gratificazione immediata con l’adozione e la
condivisione d’un obiettivo a lungo termine; tanto che chi ha subito lesioni in
quest’area ha difficoltà a esercitare un controllo inibitorio nei confronti degli
impulsi, quali che siano, e non è in grado di pianificare le sue azioni o di
prendere decisioni in modo efficace e trova inoltre difficoltà nell’interpretare
le azioni altrui per cui, mancando d’una teoria della mente (v. supra), è totalmente incapace di
regolare in qualsivoglia modo i propri comportamenti sociali, cioè mostra uno
stato di forte deficit delle funzioni
cognitive superiori, di quello che grossomodo si chiama intelligenza sociale; per
fare un esempio, storico in senso lato, degli aspetti adattativi delle capacità
cognitive di Homo sapiens (cioè della
sua riorganizzazione neuronale nel cervello), si pensi da cosa dipende il
successo d’un individuo in una rete sociale di 30-40 cacciatori-raccoglitori e
si noterà che le competenze cognitive esercitate da questo singolo individuo in
questa rete coinvolgono fortemente la capacità adattativa a un determinato habitat e alle risorse trofiche qui presenti;
le sue abilità nel collaborare strategicamente con gli altri e nel comunicare
informazioni; l’efficacia dei modi e degli strumenti (storicamente disponibili)
che adotta per cacciare e raccogliere e, infine, le procedure che utilizza per
estrarre, da ciò che ha cacciato e raccolto, risorse nutritive assimilabili e
per sé e per gli altri; e, come detto sopra, la collaborazione esistente nelle
società di caccia e raccolta richiede la presenza, tra chi si rapporta, d’una
teoria della mente che permetta di comprendere le motivazioni e il
comportamento altrui (cioè una modellizzazione degli stati mentali degli
altri), la capacità d’inibire i propri impulsi (v., infra, ipotesi dell’autodomesticazione) e d’agire strategicamente
di conserva con gli altri, funzioni che una corteccia prefrontale più grande, o
con più connessioni, permette d’assolvere; ancora, la collaborazione strategica
richiede una rapida capacità comunicativa fra gli interlocutori sullo stato
della realtà presente, per esempio, al momento della caccia (stato della realtà
che s’intende poi modificare al fine di raggiungere un utile, proprio e
collettivo), e l’espansione dei lobi temporali potrebbe avere migliorato questa
capacità comunicativa e, assieme ai lobi parietali, aver permesso di ragionare
in modo più efficace (dal punto di vista dell’interpretazione e
dell’integrazione dei dati offerti dalla realtà) su questo stato, per esempio,
consentendo d’interpretare gli indizi sensoriali necessari per seguire le
tracce degli animali cacciati e di costruire mappe mentali (topografiche) sulla
loro possibile dislocazione, oppure consentendo di dedurre dove poter trovare
risorse in uno specifico habitat o di
fabbricare e utilizzare specifici strumenti; quindi, date le prove
dell’espansione di queste regioni del cervello in Homo sapiens, purtroppo non ancora interpretabili in modo
conclusivo, è ragionevole inferire che questo cervello più arrotondato abbia
permesso comportamenti maggiormente adattativi alla realtà sociale e
ambientale, cui s’aggiunga l’ipotesi, per ora impossibile da dimostrarsi, che nello
sviluppo della neocorteccia Homo sapiens
presenti un maggior numero di connessioni rispetto a Homo neanderthalensis; infatti, come s’è accennato sopra a
proposito della mielinizzazione degli assoni, si sa che, rispetto al cervello
d’uno scimpanzé, il cervello di Homo
sapiens presenta una neocorteccia più spessa, con neuroni più grandi e più
complessi e con un più alto numero di connessioni che impiegano più tempo per
completarsi; ancora, si sa che, nei cervelli d’entrambi, scimpanzé e Homo sapiens, sono presenti circuiti complessi
che connettono le regioni corticali esterne a strutture situate più in
profondità, legate all’apprendimento, al moto e ad altre funzioni, e che il
modo in cui queste strutture sono fatte non è fondamentalmente diverso nelle
due citate specie, e anche ch’è possibile, s’è presente una maturazione ritardata
della neocorteccia, modificare in larga misura questi circuiti e aumentare il
numero di connessioni; quindi, dato che si può affermare (con beneficio
d’inventario, giacché si tratta della comparazione di 2 soli corpi di Homo neanderthalensis, morti rispettivamente
all’età di 8 e 12 anni, con un ampio campione di Homo sapiens di pari età) che Homo
neanderthalensis arriva all’età adulta prima di Homo sapiens, è anche possibile, se pure indimostrato, che Homo sapiens
sia il punto d’arrivo di un’evoluzione che ha prolungato il periodo di sviluppo
del corpo per fornire al cervello più tempo per svilupparsi fino al termine
dell’adolescenza e oltre, arco temporale questo in cui molte connessioni si
creano e vengono protette mentre altre, inutilizzate, sono sfoltite per non creare
disturbo; punto d’arrivo d’una specie che può indicare un’evoluzione che ha in
ogni caso come fine quello d’aumentare le probabilità di sopravvivenza e di riproduzione,
cioè d’aumentare la fitness (a
partire dalla possibilità d’implementare una rete sociale) con il ricorso a
capacità cognitive e di controllo delle emozioni, ossia, in definitiva,
d’aumentare la fitness dei membri
d’una formazione economico-sociale e, assieme ad essa, di migliorare il
rendimento della formazione stessa (con effetti a cascata in vista
dell’evoluzione a venire di questa
formazione economico-sociale, v. infra);
per quanto riguarda le capacità comunicative di Homo sapiens, anch’esse sono, nella loro manifestazione,
storicamente legate a una rete sociale e alla strutturazione economica che la
permette; rete che, nella relazione di percezione/azione interlocutoria, si
manifesta con la formazione di strutture di segni (di qualsiasi natura si
voglia, linguistica, gestuale, iconica etc.), vale a dire a strutture semiotiche,
trasmissibili, cioè con un codice socialmente condiviso tra i locutori e
riproducibile nel tempo che associa un significante materiale (un suono, per
esempio) a un significato (al concetto di una data preda o pianta, per esempio),
ossia a un segno che correla questa doppia faccia significante/significato agli
oggetti presenti nella realtà socialmente esperita, cioè storicamente vissuta, cioè
che li rimanda a ciò cui si riferiscono di fatto (una specifica preda o pianta,
per esempio), ossia li denota (o, a seguire, li arricchisce di significato,
affettivo per esempio, vale a lire li connota) e che arriva ad investire, oltre
al citato linguaggio, ma ricorrendo ad altri tipi di significanti materiali (ossia
con altri segni e codici), la gestualità al pari di altri sistemi semiotici che
si perfezioneranno, quali lo scambio, la ritualità funebre, la pittura, la
scultura, la scrittura etc. (e dove
la semiotica è poi la disciplina che studia i segni e i sistemi di segni);
detto questo è da sottolineare, che affinché si possa manifestare un
significante fonico, cioè si possa emettere un suono, è imprescindibile una
laringe (la cassa di risonanza della voce, nel collo, in cima alla trachea),
però situata questa all’altezza della settima vertebra cervicale, giacché in
altre posizioni non è possibile l’emissione di suoni (i suoni, o foni, sono le
unità discrete alla base del linguaggio articolato, e queste unità a livello della vocalizzazione sono poi quegli elementi
discreti capaci di manifestare una ricorsività che si esplica a livello
lessicale, sintattico e semantico, v. infra);
sia Homo sapiens che gli scimpanzé possiedono
una laringe, solo che il programma genetico di sviluppo nelle scimmie
antropomorfe lascia immutata nel corso della sua vita la posizione della laringe,
che è posta molto in alto nel collo, tra la prima e la terza vertebra
cervicale, e questo le permette il vantaggio di respirare e, simultaneamente,
d’inghiottire dei liquidi, per esempio, in quanto lo spazio dietro la faringe
(cioè lo spazio dietro il naso e la bocca) è diviso in due tratti parzialmente
separati, uno interno per l’aria e uno esterno per il cibo e l’acqua, posizione
che però permette d’emettere suoni, quali li emette Homo sapiens, perché l’alta posizione riduce lo spazio per la
faringe che serve a modificare i suoni fondamentali (unità discrete) prodotti
dalle corde vocali; ora in Homo sapiens
questo processo s’è completato e manifestato tra 100 000 e 50 000 anni fa,
quando, presumibilmente basandosi sull’esistenza d’una combinazione di preadattamenti
biologici, il programma genetico di sviluppo pone, nell’arco di vita di un
individuo, un riposizionamento a scendere della laringe (fino a far sì che la
lunghezza di laringe, corde vocali e faringe, in verticale, eguagli la
lunghezza dal palato alle labbra, in orizzontale, v. infra); in un bambino fino ai due anni la laringe si trova molto in
alto, poiché il neonato non è predisposto per la fonazione, come nello scimpanzé,
quindi non può parlare (ma può, con vantaggio, respirare e poppare liberamente
e strillare); in un bambino dai due anni in avanti, la laringe scende di
posizione fino alla citata vertebra alterando la simultaneità del bere/mangiare
e del respirare (o l’uno, o l’altro), ma facendo acquistare al corpo una grande
cavità faringea sopra le corde vocali che permette la piena funzionalità
dell’apparato fonatorio; va da sé che il processo di riposizionamento della
laringe, iniziato da neonati, finisce dopo molto tempo, giacché si sfruttano
organi, quali labbra, denti, polmoni etc.,
nati per altri scopi e che devono essere rimodellati (o exaptation, v. supra); il
che, tra l’altro, spiega come mai un essere umano impieghi così tanto tempo per
imparare a parlare (il che, ancora, evidenzia il fatto che lo sviluppo
ontogenetico dell’individuo è incistato tra lo sviluppo biologico della specie
e la trasmissibilità/riproducibilità d’una qualsivoglia formazione semiotica,
v. supra, propria a una data
struttura economica e sociale inserita in una scala temporale); valga la figura
seguente a illustrazione del citato rapporto fra asse verticale (laringe, corde
vocali, faringe) e orizzontale (palato, labbra) in uno scimpanzé che presenta
un rapporto sproporzionato che impedisce l’articolazione del linguaggio, là
dove la faringe dello scimpanzé è più lunga e stretta di quella umana, ed è poco
duttile in quanto ha un pavimento meno mobile e la mandibola è più massiccia;
la lingua è piuttosto sottile e piatta (in quanto proporzionale alla massa
corporea) e la laringe, infine, come detto, è posta troppo in alto; a seguire, è
mostrato lo stesso rapporto asse verticale/asse orizzontale in Homo sapiens:
Figura n. . Fonte (adattata): Cavalli Sforza e
Pievani, 2011, p. 48.
In Homo sapiens, infatti, il suono della
voce è dato da un susseguirsi d’emissioni d’aria pressurizzata che si
susseguono attraverso la laringe e arrivano nel canale vocale, che origina
dalla laringe e va alle labbra (cioè, come visto, da una porzione verticale
dietro la lingua e una porzione orizzontale sopra la lingua), e la cui forma
d’insieme è modificabile in molti modi muovendo la lingua, le labbra e la
mandibola; modificandolo con i citati tratti, s’alterano anche le emissioni
d’aria che vi transitano, ciò che produce, infine, la varietà (possibile) dei
suoni emessi; ritornando a quanto affermato in precedenza, è poi la forma
peculiare del volto umano, corto e non sporgente, che ci permette un canale
vocale con una particolare conformazione dotata d’utili capacità acustiche, ed
è proprio la faccia meno allungata rispetto ad uno scimpanzé (e in Homo arcaico a questa dello scimpanzé più
simile che non rispetto a quella di Homo
sapiens, sebbene Homo
neanderthalensis, come si vedrà, fosse in ogni caso capace di un qualche
tipo di linguaggio vocale) che fa sì che la cavità orale sia corta e che, di
conseguenza, la lingua sia più corta e arrotondata anziché lunga e piatta come
negli scimpanzé (la lingua degli uomini non s’è rimpicciolita in proporzione
alla massa corporea, com’è negli altri primati, ma s’è ispessita e ha abbassato
la sua base all’altezza della gola), e dal momento che la laringe è solidale
con l’osso ioide (v. infra), un osso
non articolato con nessun altro osso e situato alla base della lingua, la
lingua bassa e arrotondata fa sì che la laringe si trovi molto più in basso,
nel collo (e, come detto, all’altezza della settima vertebra cervicale),
rispetto a quella di qualsiasi mammifero in grado d’emettere suoni (scimpanzé
compreso) che presenta una porzione orizzontale lunga almeno il doppio di
quella verticale; di conseguenza, i tratti verticale e orizzontale del canale
vocale sono quasi lunghi uguali e permettono di produrre vocali le cui
frequenze sono più distinte e sono più facili da pronunciare in modo corretto,
permettendo, insomma, di favorire una migliore articolazione e differenziazione
delle unità discrete che andranno a formare un repertorio lessicale capace di
sintassi e semantizzabile, laddove una scimmia antropomorfa, volendo articolare
suoni diversi, deve fare soprattutto uso della posizione delle labbra e della
cavità orale (ma senza poter parlare); la figura seguente mostra l’anatomia
dell’apparato di fonazione in Homo
sapiens in sezione laterale, cioè la laringe abbassata, la lingua corta e
arrotondata e lo spazio aperto tra l’epiglòttide (una struttura cartilaginea
incurvata alla base della lingua) e il retro del palato molle (un’estensione
carnosa del palato che lo isola dalle fosse nasali), e per inciso quest’epiglottide
è posta in basso e impedisce il contatto con il palato molle, ciò che crea sì
uno spazio aperto, ma crea anche il pericolo d’asfissia poiché in questa faringe
viaggiano insieme, lungo il percorso per l’esofago o per la trachea, cibo/bevande
e aria, ciò che rende appunto pericolosa la simultaneità del bere/mangiare e
del respirare, simultaneità ch’è invece possibile a uno scimpanzé o a un neonato,
v. supra, perché questi presentano
uno spazio chiuso dato dall’epiglottide e dal palato molle che s’incontrano:
Figura
n. .
Fonte (modificata): Lieberman, 2014, p. 150.
La
figura seguente mostra invece, a sinistra, l’anatomia dell’apparato di
fonazione di uno scimpanzé, con un tratto verticale corto e un tratto
orizzontale lungo, con dietro la lingua uno spazio chiuso (dato, come detto,
dall’epiglottide e dal palato molle che s’incontrano); a destra è poi data la
ricostruzione dell’anatomia dell’apparato di fonazione di un Homo arcaico (v. anche infra), che suggerisce che il suo canale
vocale abbia una conformazione abbastanza simile a quella d’uno scimpanzé:
Figura
n. .
Fonte (modificata): Lieberman, 2014, p. 150.
Anche
il cervello interviene, come sopra accennato, nel processo comunicativo; la
figura seguente mostra le principali aree neocorticali associative del
linguaggio: l’area di Broca, che combina i foni in sequenze motorie (quest’area, se lesionata,
produce afasia motoria pur lasciando intatte le capacità di comprensione),
l’area di Werniche (che si sovrappone al lobo temporale posteriore e a parti
del lobo parietale) che identifica e seleziona i foni (come detto, i suoni del
linguaggio considerati nel loro aspetto materiale, indipendentemente dalla
funzione distintiva), le aree temporo-parieto-occipitali che permettono di
comprendere il significato delle parole e, infine, le aree frontali che servono
per dare inizio alle espressioni verbali:
Figura
n. . Fonte: Tartabini, 2001 (figura 5,
tra le pp. 48 e 49)
Allo
scimpanzé, se paragonato con Homo sapiens,
manca però, oltre che alla discesa della laringe, principalmente una struttura
nervosa, ossia la parte posteriore della terza circonvoluzione frontale
dell’emisfero cerebrale sinistro della neocorteccia (o area di Broca),
necessaria, come detto, per il controllo della motilità dell’organo fonatorio
(anche s’è vero che in Homo sapiens e
nelle scimmie antropomorfe esiste un’asimmetria tra parte destra e sinistra del
cervello, nel senso che in entrambe le specie l’emisfero sinistro è più ampio
rispetto a quello destro; ora, s’è vero che questa asimmetria è legata al
linguaggio, è vero che il substrato che sarà proprio all’elaborazione dei foni
in sequenze motorie deve essere già presente nell’ancestrale di Ominini e
scimmie antropomorfe o, detto altrimenti, che un’area legata alla comunicazione
evolve in modo indipendente negli uni e nelle altre); la figura seguente mostra
il cervello di uno scimpanzé confrontato con quello di Homo sapiens (si noterà che lo scimpanzé presenta inoltre aree
associative ridotte, dunque con meno connessioni rispetto al cervello umano):
Figura
n. . Fonte: Tartabini, 2001 (figura 6,
tra le pp. 48 e 49)
Infine,
se è pur vero che l’abilità nella fonazione è il risultato di un processo
biologico e ha una base fisica (data dai genitori), bisogna però ricordare che
imparare a parlare è un processo cognitivo strettamente legato all’ambiente sociale
ed economico che circonda il neonato; processo cognitivo enormemente favorito
da un carattere che si presenta in modo permanente, ossia il notevole
rallentamento del processo di sviluppo che fa sì l’età matura, a causa di un
prolungamento delle fasi infantili e adolescenziali, giunga più tardi (anche
rispetto alle Australopitecine e ai Parantropi, v. supra e infra) rendendo
il neonato soggetto per più lungo tempo alle varianti ambientali e alle cure
parentali e che, in pari tempo, gli sottraggono una più precoce maturazione
sessuale; questa modificazione nelle informazioni che regolano il processo di
sviluppo (o neotenìa) non è legata ai mutamenti scheletrici associati al
bipedismo, ma è prodotta da una riorganizzazione genetica legata solamente alla
crescita del cranio (che, come detto, nei neonati umani è meno matura, dal
punto di vista della forma, rispetto ai neonati scimpanzé) e della massa
cerebrale tipica della specie, massa che presenta e permette così per lungo
tempo (dal feto all’uomo adulto) una plasticità osmotica agli stimoli
dell’ambiente, anche sociali, per esempio con l’apprendimento mimetico (pre e
postlingustico) che favorisce la trasmissibilità procedurale di repertori
d’azione quale è manifestata dal comportamento degli adulti, cioè con un adattamento
comportamentale precoce e interiorizzato, o con l’aumento del contatto vocale
dell’infante con la madre che perfeziona l’apprendimento della lingua, ossia
l’adattabilità linguistica necessaria al neonato per divenire adulto e per
potere comunicare e agire consapevolmente in un ambiente sì parzialmente
antropizzato, ma già regolato da ritmi ambientali ed economici e da regolazioni
sociali; come dire, a riassunto, che il processo di ominazione inizia da una
capacità cranica di poco superiore a quello di una scimmia antropomorfa, ma con
il vantaggio imprescindibile della sola deambulazione bipede non occasionale, e
finisce con l’evoluzione verso il linguaggio articolato che permette a Homo sapiens, e in un contesto economico
di sussistenza, una formazione a bassa densità demografica che sarà socialmente
strutturata, regolata, in cui potere sopravvivere con un’identità collaborativa;
dunque, una meccanica di funzionamento che diventerà una funzione del cervello,
data non dalla separazione tra ciò ch’è biologico e ciò ch’è della rete sociale,
bensì data dall’esito in divenire di un processo biologicamente strutturato in
un contesto ambientale antropizzato, cioè dalla rete sociale e
dall’intelligenza, anch’essa sociale, che, come somma di adattamenti comportamentali,
semiotici, è una condizione imprescindibile per lo sviluppo encefalico di
funzioni cognitive che, dalle Australopitecine permetteranno d’arrivare alla
specie Homo sapiens, funzioni del
cervello, beninteso, in cui i repertori di operatività e conoscenza non sono
trasmessi solo dal linguaggio, ma, per esempio, anche dall’acquisizione e
dall’elaborazione inconsapevole delle informazioni per via sensoriale, motoria etc.; detto altrimenti, l’uomo s’è
evoluto biologicamente, a partire da 3,9 milioni d’anni fa, in base a un meccanismo
adattativo ambientale (prima) e semiotico (poi), cioè a una programmazione esperienziale
e funzionale del cervello che lo ha prodotto come una risultante biologica
fatta per vivere un’esistenza sociale (e in cui i fattori biologici dunque si
manifestano, come risposta adattativa a ciò che li ha implementati, a partire
dalla rete sociale, v. infra); ossia
che gran parte della corteccia non presenta solo aree preassegnate a specifiche
funzioni e che la formazione economico-sociale, nella sua contingenza, è in
pari tempo effetto e causa della plasticità neuronale e storica di questo
cervello collaborativo (v. infra); per
quanto riguarda Homo neanderthalensis
e la sua estinzione come specie, avvenuta tra
40 000-30 000 anni fa, sono presenti molte ipotesi, tra cui quella
ch’indica che Homo sapiens, grazie
alle ricadute della tecnologia (quali una maggiore variabilità della dieta e una
migliore alimentazione, una rete sociale più efficiente etc.), s’è riprodotto a un tasso più alto, probabilmente grazie a
un precoce svezzamento dei figli (v. supra),
, oppure ha presentato tassi di mortalità più bassi e, solo riguardo a
quest’ultimo aspetto, è stato calcolato che, dato un areale in cui coesistono
entrambe le specie, un tasso di mortalità più alto soltanto dell’1% in Homo neanderthalensis può portare all’estinzione
di questa specie nell’arco di sole 30 generazioni (poco meno di 1 000 anni; v.
anche infra); detto che Homo sapiens rimane l’unico
rappresentante d’una lunga linea evolutiva, resta che il suo corpo non è che si
sottragga alla pressione evolutiva, solo che questa si manifesta ora in un
ambiente antropizzato; e, a sua volta, non è che l’ambiente antropizzato e i
comportamenti d’adattabilità appresi e propri a una data rete sociale ed
economica impongano di per sé una pressione evolutiva, ma talvolta le
determinati economiche d’una rete sociale possono spingere la selezione
naturale in una direzione, come mostra la persistenza della lattasi (o lattasi
sufficienza) a partire dalle reti sociali dove si pratica la mungitura, cioè la
capacità di digerire il lattosio (lo zucchero presente nel latte) in età adulta
che s’evolve indipendentemente in Africa, nel Vicino Oriente e in Europa
proprio laddove la dieta dettata dalla pressione economica impone il consumo di
latte di mucca o d’altri animali, tanto che gli appartenenti alle reti sociali
che non conoscono la pratica dell’allevamento e della mungitura presentano
un’intolleranza alimentare al latte, o lattosi deficienza (è, infatti, da
ricordare che Homo sapiens, come
altri mammiferi, perde la capacità di produrre lattasi, l’enzima che consente
di digerire il lattosio, dopo lo svezzamento, e alcune mutazioni avvenute nel
gene LCT a partire da 7 000 anni fa all’incirca, permettono di sintetizzare
quest’enzima anche dopo lo svezzamento; v. anche infra); oppure pressioni selettive che potrebbero rimuovere dal pool genetico parte della popolazione
sono evitate per la presenza di tecnologie che hanno un effetto protettivo (o
di tamponamento, detto buffering) sui
corpi quale, per esempio, la tecnologia del fuoco che ha permesso il
riscaldamento e la cottura dei cibi (pratica, quest’ultima, che ha poi imposto
altri cambiamenti al sistema digerente, v. infra);
oppure, ancora, con la colonizzazione di nuovi areali, anche in habitat estremi, che ha imposto alla
selezione naturale un’azione diversificata d’adattamenti locali legati alle
nuove condizioni climatiche, a inediti agenti patogeni o a diete sconosciute e
altro ancora, là dove gli effetti negativi sul pool genetico non sono stati eliminati del tutto, ma dove la
tecnologia raggiunta ha reso possibile, con il suo effetto tampone, una selezione
che senza quest’effetto non si sarebbe verificata, questo perché la tecnologia
ha permesso la creazione di reti sociali con un tasso di mortalità inferiore a
quello altrimenti imposto senza buffering,
ciò che ha favorito quegli individui dotati di variazioni ereditabili che ne
hanno migliorato la fitness, cioè la
capacità di sopravvivere e riprodursi; e si pensi, per esempio, all’uso della
tecnologia del fuoco (legata anche alla pratica di costruire capanne
utilizzando le ossa dei Mammuth
cacciati, v. supra) nelle regioni più
settentrionali dell’Europa durante le condizioni climatiche dell’ultima era
glaciale, tecnologia che ha permesso, nell’arco di un dato tempo e data la
latitudine, la selezione d’individui con arti corti e una struttura fisica
complessivamente più tozza che ha minimizzato la superficie corporea allo scopo
di impedire una maggiore dispersione del calore (infatti, gli individui più massicci
e con arti corti hanno, in proporzione, una minore area superficiale che
permette, data la temperatura, un’adeguata termoregolazione; l’esatto opposto
di ciò che accade negli areali con climi molto caldi dove il corpo è alto,
magro e con arti lunghi che massimizzano la superficie corporea al fine di
consentire una maggiore dispersione del calore), così come ha favorito una minore
pigmentazione dell’epidermide che ha assicurato sufficienti livelli di vitamina
D (infatti, gli strati superiori della pelle sintetizzano dei pigmenti che
agiscono come uno schermo solare naturale che blocca la radiazione
ultravioletta, nociva perché mutagena (v. supra)
e in grado di bloccare la sintesi della vitamina D altrimenti possibile grazie
ad altre radiazioni solari, per cui, di conseguenza, dove la radiazione
ultravioletta è intensa, come capita vicino all’Equatore dove quest’intensità è
continua nel tempo, c’è stata un’intensa selezione a favore delle pigmentazioni
più scure, come quelle di Homo sapiens
in Africa prima della sua diaspora; mentre dove la radiazione UV è meno
intensa, come nelle zone temperate, la selezione ha favorito una minore
pigmentazione e ha permesso alle altre radiazioni solari di favorire, come
risposta del corpo umano, sufficienti livelli di vitamina D, come quella di Homo sapiens in certe zone fuori dall’Africa;
v. anche infra); come dire, per
ripetere il concetto con altre parole, che le basi biologiche delle abilità e dell’adattabilità
di Homo sapiens non sono evolutivamente
terminate, ma che per reperirle si deve sempre tenere in conto ch’esse si manifestano
per il tramite d’una formazione economico-sociale anch’essa in fase evolutiva,
se pure quest’ultima presenti, in sé e per sé, una capacità evolutiva estremamente
più rapida e con una portata ecologica più vasta dell’evoluzione biologica che
i corpi e i cervelli di Homo sapiens presentano
a livello individuale (individui poi assoggettati al cervello sociale e alla
modificazione incessante e via via più accelerata dello statu quo ante); a seguire, è poi brevemente illustrato il
repertorio semplificato della cespugliazione evolutiva che va dagli Ardipitechi
alle Australopitecine, e da queste a Homo
sapiens (con cenni sulla cultura materiale e sulle principali litotecniche,
da considerarsi non secondo una linea evolutiva, giacché tecniche diverse, per
esempio, regredite e avanzate in specie diverse, possono coesistere, così come
una tecnica regredita può presentarsi con una specie avanzata etc.).