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IL PROCESSO DI OMINAZIONE (PARTE SECONDA)

IL PROCESSO DI OMINAZIONE (PARTE SECONDA)

Ora, oltre alla mente come sistema d’organi di calcolo che ha permesso ai nostri antenati cacciatori-raccoglitori di vivere e sopravvivere (in questo caso le operazioni del cervello sono, infatti, descritte come computazioni eseguite con l’analisi, la trasmissione e l’immagazzinamento delle informazioni provenienti dalla realtà fisica e dal contesto sociale al fine di far fronte alle esigenze che via via emergono), avviene a seguire un’altra trasformazione che usa le risorse energetiche al fine di far crescere, oltre che al cervello, anche corpi più grandi e con un tasso di riproduzione più elevato rispetto agli scimpanzé, come mostrano le società di caccia e raccolta dove avviene mediamente una figliazione ogni tre anni, quasi il doppio rispetto agli scimpanzé, e tenendo conto del fatto che gli scimpanzé maturano in 12-13 anni, mentre l’uomo è maturo dopo 18 anni, e che i cacciatori-raccoglitori devono preoccuparsi per molto tempo anche dei figli che non sono in grado di procurarsi il cibo da soli, preoccupazione per le cure parentali che gli scimpanzé non hanno, ciò che richiede un’innovativa strategia energetica, ch’è appunto la trasformazione di cui ci si occuperà a seguire; partiamo dalle stime di crescita di Homo erectus e valorizzando il fatto che questi individui vivono in piccoli gruppi, con bassa densità di popolazione (ca. 25-30 unità) in territori di 250-500 km2 d’ampiezza, e che una femmina di Homo erectus probabilmente riesce ad avere nell’arco della sua vita da 4 a 6 figli, di cui solo 2 o 3 sopravvivono fino all’età adulta, ciò che dà una stima del tasso medio di crescita della popolazione pari all’incirca a 0,4%, ciò che, ancora, porta a un raddoppiamento della popolazione ogni 175 anni e, dopo soli 1 000 anni, a un aumento di 50 volte il numero iniziale, ciò che, ancora, dà origine a un fenomeno di dispersione graduale su più ampi territori (si stima che lo spostamento sia sui 20 km per generazione), e questo senza aumentare la densità per km2; tanto che questa dispersione porta Homo erectus (e le sue varianti, dunque parlando a prescindere da una tassonomia precisa, valorizzata in seguito), grossomodo tra 1,9 e 1,2 milioni d’anni fa durante le già analizzate vicissitudini dell’era glaciale (ma v. anche infra), ad occupare territori fuori dall’Africa, specificamente l’Indonesia, la Cina e l’Europa (v., infra, ipotesi Out of Africa I); durante questa dispersione graduale fuori dall’Africa le dimensioni di Homo erectus e delle sue varianti iniziano a cambiare evolvendo verso individui generalmente più grossi con un cervello più grande sia come dimensioni assolute che come dimensioni relative (v. infra); la figura seguente mostra la crescita del cervello (in cm3) durante l’evoluzione umana (in milioni di anni fa) a partire dalle Australopitecine per arrivare a Homo sapiens:



Figura n.   . Fonte: Lieberman, 2014, p. 96.

Attualmente, non c’è consenso generale sul modo esatto in cui molte specie discendono da Homo erectus, cioè su chi abbia generato chi; si tratta in ogni caso di varianti di uno schema corporeo evidente già in Homo erectus, cioè con un bacino più ampio e allargato, ossa spesse in tutto il corpo (cioè con un aspetto postcraniale molto simile a quello di Homo sapiens, e dove il termine postcraniale indica la struttura dello scheletro, escluso il cranio), con una fronte bassa, una pronunciata arcata sopraorbitaria, faccia larga, lunga e sporgente e un cranio schiacciato e allungato, con un’alta cresta sul retro del cranio e, in alcune specie, una leggera cresta sagittale mediana nella parte superiore del cranio, e ciò che soprattutto varia da una specie all’altra, ciò che ora importa, sono le dimensioni del cervello (queste specie, da quelle post Homo erectus a quelle pre Homo sapiens, sono poi grossomodo quelle evolute tra 600 000 e 200 000 anni fa, e sono qui racchiuse per comodità esplicativa sotto il termine ombrello o etichetta di Homo arcaico, e nello specifico qui s’escludono alcune specie e si valorizzano  principalmente quelle di Homo heidelbergensis e di Homo neanderthalensis; per la tassonomia completa, v. infra), tutte specie in ogni caso riconducibili al modo di produzione proprio alle società di caccia e raccolta, in cui però si presentano utensili litici via via più sofisticati e diversificati rispetto a quelli creati ha Homo erectus (è da ricordare l’evoluzione tecnologica della tecnica di scheggiatura della selce che va sotto il nome di tecnica Levallois, v. infra, che avviene all’altezza di ca. 500 000 anni fa, e che permette anche la produzione e l’introduzione d’una punta triangolare nella lancia dei cacciatori, ciò che aumenta le possibilità di successo nell’incremento per la collettività delle risorse carnee fornite dalle prede) e il controllo del fuoco che, oltre a facilitare l’insediamento in ambiente ostili, permette la cottura regolare delle risorse trofiche, cottura che, a sua volta, introduce nel metabolismo umano un maggiore apporto energetico e che ha minori probabilità di nuocere alla salute rispetto ai cibi crudi (le risorse sono quelle sotterranee, o USO, v. supra, e carnee, e quest’evento del controllo del fuoco è, come già detto, databile a partire all’incirca da 400 000 anni fa, v. supra e infra); detto questo, cioè che maggiori risorse energetiche sono correlate allo sviluppo del cervello (sulla cui descrizione generale, v. infra), ora il problema è come valutare le dimensioni del cervello tenendo conto delle dimensioni corporee; per esempio, se il volume endocranico negli adulti di macaco è pari a 83 cm3, quello d’uno scimpanzé a 393 cm3, quello d’un gorilla a 465 cm3 e quello di Homo sapiens a 1 409 cm3, allora il cervello umano è enorme rispetto a quello d’una scimmia ed è all’incirca tre volte tanto rispetto alle scimmie antropomorfe, ma se mettiamo a confronto preciso la massa del cervello (in grammi) con la massa corporea (in grammi) s’evidenzia una relazione massa cervello/massa corporea non lineare perché, stando perlomeno agli esempi qui scelti, un macaco (Macaca mulatta) ha una massa corporea di 4 600 g (4,6 kg) e una massa del cervello di 85,6 g; uno scimpanzé (Pan troglodytes) ha rispettivamente valori di 41 000 g (41 kg) e 390,6 g; un gorilla (Gorilla gorilla) 128 000 g (128 kg) e 460,3 g e Homo sapiens 64 000 g (64 kg) e 1 358,0 g, per cui  si può dire che i cervelli diventano sì più grandi in assoluto, ma relativamente più piccoli, cioè che questa relazione non è lineare, come mostra la figura seguente che evidenzia che a un corpo più grande corrisponde sì un cervello più grande, ma secondo una relazione massa del cervello/massa corporea non lineare (la graffa 3X indica che rispetto alle scimmie antropomorfe, Homo sapiens ha un cervello tre volte maggiore di quanto sarebbe lecito aspettarsi in base alla massa corporea):


Figura n.   . Fonte: Lieberman, 2014, p. 104.

Questo perché esiste una correlazione massa cervello/massa corporea, là dove la massa del cervello è legata a quella corporea in base a una relazione che ci dà quello che si chiama quoziente d’encefalizzazione (o Encephalization quotient, EQ), che vale 2,39 per il macaco, 2,07 per lo scimpanzé, 1,02 per il gorilla e 5,12 per Homo sapiens; (e per aggiungere un esempio che precede Homo sapiens, un maschio di Homo erectus di 1,5 milioni d’anni fa con un cervello di 890 cm3 e del peso di 60 kg ha un EQ pari a 3,4, ca. il 60% in più di quello d’uno scimpanzé, EQ dello scimpanzé a sua volta simile alle prime specie del percorso d’ominazione); la tabella seguente mostra il quoziente d’encefalizzazione degli Hominini, preceduta dalla formula utilizzata per calcolarne il quoziente d’encefalizzazione:


SPECIE
DATA 1
(in milioni d’anni fa)
VOLUME ENDOCRANICO (in cm3)
MASSA DEL CERVELLO (in g)
MASSA CORPOREA (in g)
EQ
Pan troglodytes
oggi
   393
   390,6
   41 000
2,07
Sahelanthropus tchadensis
7,2-6
   365
   363,4
   40 000
1,96
Ardipithecus ramidus
4,4
   300
   300
3-50 000
1,4-2
Australopithecus afarensis
3,9-3
   458
   453,5
   39 000
2,49
Australopithecus africanus
   3-2
   461
   456,4
   34 000
2,78
Australopithecus boisei
2,3-1,3
   472
   467,0
   41 000
2,47
Australopithecus robustus
2,5-1
   530
   522,9
   36 000
3,05
Homo habilis
2,4-1,4
   610
   599,9
   39 000
3,30
Homo erectus
1,9-0,2
   970
   943,3
   61 000
3,69
Homo heidelbergensis
0,7-0,2
1 260
1 217,7
   71 000
4,24
Homo neanderthalensis
0,2-0,003
1 488
1 453,3
   72 000
4,94
Homo sapiens
0,2-oggi
1 409
1 358,0
   64 000
5,12

[1] Fonte dei dati: Lieberman, 2014, p. 34, p. 105.

Tabella n.   . Fonte (modificata): Lieberman, 2011, p. 193 (per i calcoli, v. pp. 192-195).

La figura seguente mostra, sulla base delle stime presenti nella precedente tabella, la curva del quoziente d’encefalizzazione (Encephalization quotient, in figura) negli Hominini, da Pan troglodytes a Homo sapiens (i valori diversi di EQ di Homo sapiens segnalati in figura sono dovuti all’aumento delle temperature avvenuto negli ultimi 12 000 anni, nell’Olocene, ciò che ne ha diminuito le dimensioni del corpo e del cervello di Homo sapiens rispetto alle dimensioni che questi aveva nel Pleistocene, dimensioni del cervello che in ogni caso sono, in media, leggermente più grandi di Homo neanderthalensis):


Figura n.   . Fonte (modificata): Lieberman, 2011, p. 196.

Si noterà che, nel percorso dell’ominazione, il processo d’encefalizzazione (che riguarda l’espansione e l’interconnessione di aree corticali del sistema nervoso centrale e il raggiungimento di volumi endocranici via via superiori in relazione alle dimensioni del corpo), s’è completato in una lunga durata (7 milioni d’anni) e partendo da una capacità cranica di 365 cm3 propria a Sahelanthropus tchadensis per arrivare a ca. 1 100-1 900 cm3 di Homo sapiens e grossomodo dopo 3 milioni d’anni da quando si sono già manifestate la stazione eretta e la deambulazione bipede con Australopithecus afarensis; e non bisogna dimenticare che, mentre l’andatura bipede è stata sperimentata da tutte le specie citate, solo per 1/3 della storia naturale umana, o poco più, il cervello ha dato segni d’espansione attraverso lo sviluppo del numero di cellule cerebrali, o neuroni (che arrivano all’incirca a 11,5 miliardi; in un cervello di scimpanzé arrivano invece a ca. 6,5 miliardi), questo attraverso un’estensione della sostanza grigia della corteccia cerebrale in cui questi neuroni sono situati e, dato che la corteccia cerebrale presenta uno spessore di pochi millimetri (da 3 a 4), l’estensione superficiale, che raggiunge i 2 600 cm2, per poter essere contenuta nella cavità endocranica ha dovuto ripiegarsi più volte su sé stessa formando una struttura di solchi più o meno profondi e estesi, cioè di pieghe che ne aumentano, quasi raddoppiandola, la superficie e ne permettono la suddivisione in  circonvoluzioni e lobi (il ripiegamento, che aumenta le possibilità funzionali della corteccia, è poi dovuto a un meccanismo evolutivo specifico che permette di contenere l’estensione, ch’è disposta secondo una precisa strategia che tende, pur nella plasticità neurale legata all’ambiente in cui vivono i vari individui, all’uniformità; per inciso, la corteccia cerebrale comprende strutture tra loro diverse a causa della loro storia filogenetica, e quella che qui interessa è la neocorteccia, neocortex, detta anche sostanza grigia, quella che appare con i mammiferi e che manifesta negli Hominini un’estensione della superficie corticale via via sempre più sviluppata, ed è in questa neocorteccia, particolarmente nel lobo frontale, che hanno luogo quasi tutte le funzioni cognitive complesse, quali la memoria, il ragionamento, il linguaggio e la consapevolezza, questo grazie alla creazione d’una rete interneuronale che connette e interconnette quasi tutti i neuroni coordinando le attività delle diverse strutture, ciò che permette appunto tanto il controllo basale delle attività biologiche elementari, commisurate alle dimensioni del corpo, quanto, soprattutto, di svolgere i sopra citati compiti complessi (esclusi i primati si ricorda che, nei mammiferi, la neocorteccia costituisce tra il 10 e il 40% delle dimensioni cerebrali totali; nelle proscimmie sale attorno al 50% per arrivare via via a ca. l’80% in Homo sapiens; la neocorteccia ha poi il ruolo di processare tutte le informazioni in arrivo, da quelle visive e uditive a quelle tattili, cioè di coordinarle per potere poi pianificare una strategia di risposta complessa a livello cognitivo, motorio e comportamentale in vista della competenza sociale avanzata dal gruppo sociale d’appartenenza); in ogni caso i neuroni complessivi del cervello, non solo quelli della corteccia, assommano a ca. 100 miliardi, e sono trilioni le interconnessioni; ancora, che questi segni d’espansione mostrano un marcato sviluppo progressivo a partire da Homo erectus, pari all’adozione via via più perfezionata del modo di produzione e di riproduzione sociale proprio alla  caccia e raccolta; o, per dirla con altre parole, l’evoluzione iniziale degli Hominini comporta una crescita modesta della dimensione encefalica, mentre poi il cervello accelera via via la propria crescita in relazione alle dimensioni del corpo (si va dai 40-65 kg di Homo erectus, ai 50-70 kg di Homo heidelbergensis, ai 60-85 kg di Homo neanderthalensis e ai 40-80 kg di Homo sapiens) e all’utilizzo di risorse trofiche sempre più d’alta qualità in contesti economico-sociali sempre più evoluti e complessi; ora, per comprendere i meccanismi che si sono implementati per arrivare a un cervello più grosso per allometria (termine che indica l’accrescimento relativo di un organo o di una parte di un organismo rispetto a tutto il corpo) bisogna valorizzare l’insieme dato dalla coesistenza di due strategie di crescita, una ch’è quella di farlo crescere più a lungo, l’altra ch’è quella di farlo crescere più velocemente; uno scimpanzé, per esempio, adotta una sola strategia che implica il fare crescere il cervello del neonato per un tempo più lungo, infatti, se il neonato di scimpanzé presenta alla nascita (all’incirca dopo 224 giorni di gestazione) un cervello di 130 cm3, ecco che, nell’arco dei tre anni successivi, il volume del suo cervello si triplica (390 cm3), ma se mettiamo a confronto questo tipo di crescita con la crescita del cervello d’un neonato di Homo sapiens, ecco che si manifestano le due citate strategie (v. infra), una che fa sì che il cervello, prima della nascita (grossomodo dopo 270 giorni di gestazione), cresca due volte più velocemente di quello dello scimpanzé arrivando, alla nascita, con un volume di 330 cm3; l’altra che fa sì che il cervello cresca per un arco temporale più lungo, di 6-7 anni, tanto che in questo sviluppo postnatale il volume del cervello si quadruplica (1 320 cm3; per inciso, lo sviluppo del cervello si completa attorno ai 16 anni d’età); si ricorda che la crescita postnatale del volume cerebrale avviene in tutti i primati non a causa di un aumento nel numero dei neuroni (che, tranne alcune eccezioni, sono generati durante la gestazione, per Homo sapiens specificamente tra la sesta e l’ottava settimana), ma perché l’aumento della parte del tessuto nervoso ch’è compreso tra i corpi cellulari dei neuroni della neocorteccia richiede l’occupazione di più spazio; per quanto riguarda i problemi posti da un grosso cervello, partiamo dai costi energetici per mantenerlo, costi alti per un cervello che costituisce, come detto, solo il 2% della massa corporea, ma che consuma il 20-25% del metabolismo basale, cioè delle riserve in un corpo a riposo; il cervello utilizza qualcosa come 280-420 calorie al giorno (tra tre e quattro volte tanto rispetto alle 100-120 calorie consumate dal cervello degli scimpanzé), calorie che per lo stile di vita d’un cacciatore-raccoglitore non sono poco; costi che poi aumentano per una donna che nutre i figli e che, per riprendere l’esempio sopra riportato, in una femmina di Homo erectus di 50 kg, incinta e con prole, è stato calcolato possano assommarsi a 3 000-4 500 calorie quotidiane; infatti, se una donna in una società di caccia e raccolta ha un figlio in grembo e ha due figli, uno di 3 e l’altro di 7 anni, che dipendono da lei, ecco che s’arriva alla somma di ca. 4 500 calorie al fine di poterli sfamare e sfamare sé stessa; specificamente, questa donna avrebbe bisogno di 2 000 calorie più un 15% aggiuntivo per il feto, cioè di 300 calorie in più; nell’ipotesi che i figli facciano poi attività fisica con moderazione, le richieste per il bimbo di 3 anni arrivano a 990 calorie, mentre quelle per il bimbo di 7 anni assommano a 1 200, per un totale di quasi 4 500 calorie, ciò che arriva a fare, dato lo stile di vita d’epoca, una quantità di tutto rispetto (nel caso però i figli avessero avuto il cervello simile per volume a quello degli scimpanzé, ecco che essa avrebbe speso ca. 450 calorie in meno per ognuno di loro); s’aggiunga, visto che il cervello consuma prevalentemente glucosio e ossigeno, ch’è richiesto un sistema speciale d’alimentazione in grado di rifornire il sangue al cervello e di riportarlo al cuore, al fegato e ai polmoni, e di qui nuovamente al cervello, in un ciclo continuo di rifornimento ematico, tanto che ca. 1/4 del sangue presente nel corpo fluisce/defluisce ininterrottamente nel cervello per alimentarlo, rimuoverne gli scarti metabolici (per esempio, anidride carbonica) e mantenerlo a una temperatura corretta (l’irrorazione sanguigna del cervello è poi permessa da un sistema vascolare in cui il rifornimento ematico è dato dalle due carotidi interne e dalle due arterie vertebrali, mentre il sangue che defluisce, o refluo, è convogliato alle vene giugulari interna ed esterna); inoltre, il cervello è un organo fragile che deve essere protetto contro i traumi violenti, e questo è possibile grazie a pareti di contenimento molto spesse e resistenti, a un fluido pressurizzato che lo avvolge e che assorbe gli urti e a membrane molto spesse che lo suddividono in parti distinte; in aggiunta, il cervello del feto complica il momento del parto perché la sua testa è sì lunga 125 mm e larga 100, ma, nonostante il rimodellamento evolutivo del bacino femminile legato al bipedismo che ne allarga l’apertura pelvica (v. supra), le dimensioni minime del canale del parto sono strette, mediamente di 113 mm di lunghezza e 122 di larghezza, e per attraversarlo ci deve essere una rotazione della testa del feto, causata appunto dalla morfologia rigida del bacino (v. supra) e, conseguentemente, del canale del parto; data l’apertura pelvica, il canale del parto è dato dalle parti molli (il segmento inferiore dell’utero, il collo uterino che connette l’utero alla vagina o cervìce, il canale vaginale e la vulva) che rivestono il canale osseo del bacino, di forma circolare, ma a imbuto, che presenta all’ingresso nella zona pelvica una circonferenza il cui diametro maggiore si ritrova da un lato all’altro dell’apertura nel bacino e in egresso (uscita) una circonferenza, di diametro inferiore rispetto all’altra, ma il cui diametro maggiore va dalla posizione anteriore a quella posteriore dell’apertura pelvica del bacino, diametri fra loro fortemente disallineati che condizionano la meccanica del parto, tanto che il feto deve ruotare la testa per trovare prima una posizione con il diametro maggiore della testa più adatto al diametro dell’entrata e poi un’altra posizione con il diametro maggiore della testa più adatto al diametro dell’egresso (ossia nella stessa direzione del diametro antero-posteriore del canale del parto), cioè favorevole al passaggio per l’espulsione del feto con quella che si definisce come presentazione cefalica; la figura seguente presenta la posizione di testa o cefalica (testa in basso, faccia rivolta verso il dorso della madre, collo flesso in avanti), posizione normale del feto nell’utero al termine della gravidanza:


Figura n.  . Fonte: Rothenberg, 2005, p. 636.

Si sottolinea che, rispetto alle femmine di scimpanzé che partoriscono facilmente poiché la testa del feto è più che adattata alla taglia del canale del parto (le dimensioni minime del canale del parto di una femmina scimpanzé sono mediamente di 150 mm di lunghezza e 98 di larghezza mentre la testa del feto è lunga 72 mm e larga 56), tanto che queste, per partorire, ricercano la solitudine, le femmine di Homo sapiens presentano come visto un bacino più stretto legato a una testa del feto più grande, insieme che non favorisce il parto spontaneo, o eutocico, qual è quello della femmina di scimpanzé, per cui esse presentano un parto con complicazioni create dalla sproporzione cefalo-pelvica dell’insieme, anche s’è vero che, per facilitare il travaglio, il feto si presenta in una fase di crescita decisamente prematura rendendo possibile anche la modificazione della forma della testa, cioè delle strutture ossee semirigide del cranio, quali le membrane fibrose che si trovano lungo le linee di congiunzione tra le ossa frontali non ancora suturate e le fontanelle ancora aperte, ciò che permette la modificazione per compressione del cranio non ancora completamente formato e pertanto plastico, adattabile come detto alla fuoriuscita con l’adeguamento del suo diametro a quello dell’egresso pelvico, tanto che la madre prima (per le difficoltà del parto) e il neonato poi (per la sua impotenza), richiedono la presenza d’una rete d’assistenza che presume una cooperazione sociale, presumibilmente adattativa a questo fenomeno; fontanella è poi il nome che si dà alla membrana flessibile e fibrosa interposta nei punti di convergenza tra le ossa che compongono il cranio in via di sviluppo; le fontanelle sono due, una posteriore, posta tra l’osso occipitale e i parietali, che si chiude per ossificazione nei primi giorni di vita, l’altra anteriore, posta tra l’osso frontale e i parietali, che si chiude alla fine del primo anno di vita (tra gli 8 e i 15 mesi); la figura seguente illustra le fontanelle del cranio di un neonato:


Figura n.  . Fonte: Rothenberg, 2005, p. 636.

Legata alla fontanella anteriore è poi la sutura fra le due ossa frontali che inizia a chiudersi a partire dai due anni e a saldarsi definitivamente entro i sei anni, sutura frontale probabilmente legata, oltre che alla detta facilitazione del parto, anche alla crescita del cervello e alla riorganizzazione e all’espansione postnatale della corteccia prefrontale (là dove sono poi elaborati i processi cognitivi superiori, v. infra); la figura seguente illustra la fuoriuscita dell’occipite del neonato dall’apertura vaginale (a) e la fuoriuscita completa della testa dal canale del parto (b):


Figura n.  . Fonte: Rothenberg, 2005, p. 643.

L’insieme problematico che s’è cercato di descrivere, e che va dai costi energetici per mantenere il cervello alle complicazioni del parto, indica in ogni caso che l’apporto energetico doveva essere sufficiente e che i vantaggi dell’avere un grande cervello superano quantomeno i costi, vantaggi cognitivi che sono riconducibili alla maggiore capacità di conoscere e sfruttare l’ambiente e, ipoteticamente, di collaborare, il tutto in vista d’una maggiore fitness e d’un maggiore successo riproduttivo; s’è già detto che i cacciatori-raccoglitori dipendono per la loro sopravvivenza dalla conoscenza delle risorse trofiche cui fanno ricorso, vale a dire delle piante e degli animali, e le capacità proprie ai processi computazionali offerte da una neocorteccia in fase d’espansione permettono senz’altro d’arrivare a conoscere le 100 specie diverse che s’ipotizza facciano parte del loro repertorio alimentare, dal sapere in quale stagione una data pianta è disponibile (uso della memoria) e dove trovarla in un ambiente naturale esteso e complesso (uso della logica deduttiva) e, soprattutto, come renderla commestibile (uso d’un sapere pregresso), così come la neocorteccia permette di superare le sfide cognitive che la caccia impone; infatti, pur data la corsa di persistenza (v. supra), è necessario sapere come una preda si comporta in determinate condizioni e, per ritrovarne le tracce, il cacciatore deve usare come detto abilità induttive per valutare l’insieme degli indizi offerti dall’animale e deve anche avere competenze di logica deduttiva per prevedere come si comporterà, cioè formulare ipotesi su quello che un animale braccato può fare e interpretare gli indizi per mettere alla prova la correttezza delle proprie previsioni (volendo, deve manifestare i prodromi d’una mentalità scientifica), cui s’aggiunga anche il fatto che un beneficio funzionale dato dalla neocorteccia è anche quello di potere elaborare strategie sociali, individuali/collettive, per ridurre al minimo il rischio di predazione, cioè di non essere a propria volta prede; per quanto riguarda la collaborazione, si ripete che i comportamenti cooperativi richiedono abilità complesse, cioè la capacità di autocontrollo rispetto agli impulsi aggressivi ed egoisti (v., infra, l’ipotesi dell’autodomesticazione), l’abilità di tollerare gli altri da sé, una teoria della mente per comprendere i desideri e le intenzioni degli altri, una capacità di gestire le complesse dinamiche sociali tipiche d’un gruppo e, soprattutto la capacità di comunicare in modo efficace; ora, data la clausola che una specie, al fine di sviluppare una grande neocorteccia, deve prima sviluppare un cervello di grandi dimensioni per potere sostenere la neocorteccia, e che questo fatto, a sua volta, richiede aggiustamenti nella dieta dei suoi componenti dato l’aumento di richieste energetiche che questa avanza; ancora, che il ciclo biologico deve consentire un tempo sufficiente sia per la crescita del cervello che per la sua programmazione durante il periodo di sviluppo che intercorre tra lo svezzamento e l’età adulta (cioè per l’apprendimento sociale delle capacità socio-cognitive), con l’implicazione che le citate specie che vivono in gruppi via via più ampi e socialmente più complessi hanno bisogno d’un intervallo più lungo per potere apprendere e assimilare il repertorio di conoscenze al fine di gestire al meglio la loro sfera sociale; come dire, infine, che il volume del cervello, compresa la neocorteccia, si correla anche con la capacità del gruppo di sostenere energeticamente e la lunghezza del periodo di maturazione e gli investimenti parentali, e che solo le specie longeve che hanno tassi relativamente bassi di mortalità infantile possono permettersi il periodo di crescita e di apprendimento necessarie per sviluppare grandi cervelli; dato tutto questo, si suppone che esista, nei primati, una correlazione stabile tra la dimensione media del volume della neocorteccia e la dimensione media del gruppo in cui il primate vive, cioè un indice specie-specifico che indica il limite della dimensione numerica d’un gruppo sociale, cioè la soglia entro la quale l’individuo di quella specie è in grado di mantenere delle relazioni di qualità (ossia delle interazione faccia a faccia coerenti), cui s’aggiunga anche la capacità di mantenere traccia delle relazioni che gli altri animali hanno tra loro nel gruppo; la figura seguente mette in relazione la numerosità media del gruppo sociale con la dimensione neocorticale relativa della specie, indicizzata come il volume della neocorteccia diviso per il volume del resto del cervello, per differenti specie di primati (i cerchi pieni indicano le scimmie non antropomorfe, i cerchi vuoti le scimmie antropomorfe e il quadrato vuoto gli esseri umani):


Figura n.  . Fonte: Dunbar, Barret e Lycett, 2012, p. 140.

Si noti che, incrociando i dati, si mette in evidenza il fatto che la dimensione relativa della neocorteccia limita la dimensione del gruppo che si riesce a mantenere coeso e che le linee che collegano i dati si sviluppano in modo pressoché parallelo e che, in corrispondenza d’una stessa numerosità del gruppo, le scimmie antropomorfe richiedono più potenza di calcolo cognitivo per gestire lo stesso numero di individui, devono cioè spendere più risorse energetiche per avere quei benefici funzionali al mantenimento del gruppo (per gli essere umani la dimensione è 150, v. infra); il che è dire che questi indici correlano la capacità di mantenere un cervello via via più grosso man mano che si raggiunge il limite della complessità sociale non più data dalla sola numerosità, ma dalla complessità delle relazioni che la numerosità comporta, insomma della complessità che un animale d’una determinata specie può gestire; complessità delle relazioni che negli scimpanzé, per esempio, rimanda alla dimensione dei gruppi di grooming (alle coalizioni), alla quantità di gioco sociale svolto, all’utilizzo d’inganni tattici (quali offrire false informazioni per depistare e confondere i rivali sul proprio stato della mente) e, nei maschi, all’uso di raffinate strategie sociali per scalzare la dominanza basata sulla forza di maschi di rango più alto nella competizione per l’accoppiamento (ma v., infra, strategie e tattiche sociali dei bonobo) e, complessivamente, che il gruppo deve gestire delle forze disgregative, quali la violenza, che possono agire al suo interno (se interessa, il grooming è poi il comportamento di pulizia del mantello svolto reciprocamente per il tramite della lingua, dei denti e delle unghie, comportamento che assume poi un significato di manutenzione sociale, cioè di consolidamento dei legami o di riaffermazione delle gerarchie tra i membri di un gruppo sociale); ora, se questa correlazione è valida anche per Homo sapiens significa che il nostro cervello s’è evoluto partendo dall’afflusso di risorse trofiche rese incessanti (o quasi) da quelle strategie d’apprendimento sociale che trasmettono le abilità richieste per rendere efficace e di qualità la caccia e la raccolta in un dato habitat (v. supra), ciò che presuppone delle capacità socio-cognitive che rimandano poi alle pressioni selettive dovute alla necessità di vivere in gruppi cooperativi più estesi, vale a dire alla flessibilità cognitiva e comportamentale che dev’essere una dotazione di tutti i membri del gruppo affinché, infine, si possa alimentare ogni singolo membro del gruppo; in altre parole, l’ipotesi è che la pressione selettiva agisca sui cambiamenti dei tratti sociali se e solo se questi sono contemporaneamente associati con i cambiamenti dimensionali del cervello e con l’estensione della neocorteccia; nella pratica, dal solo punto di vista quantitativo, si tratta d’avere a che fare con reti sociali il cui limite di gestione, per un componente d’una banda di cacciatori-raccoglitori odierno, è di ca. 30-40 persone, all’interno del quale numero si possono poi individuare delle cerchie d’intimità che rimandano a una diversificazione dei tratti sociali implicati; cui s’aggiunga che il numero limite se s’associano più bande è poi, come s’evidenzia nella figura precedente, di 150, numero che indica, sempre nelle odierne società di cacciatori-raccoglitori, il clan, che ha generalmente un significato rituale che ha cadenze periodiche e ch’è condiviso fra le bande i cui membri si ritengono affini, per esempio, nell’occorrenza di riti di passaggio (quali il raggiungimento dell’età adulta, i matrimoni etc.), ma che può anche avere un significato pragmatico, dato dalla comune gestione d’un terreno di caccia o di una serie di fonti d’acqua, nel quale si raggruppano da 4 a 5 bande di 30-40 persone (il numero 150, come nudo numero agglutinante, è in realtà poi oscillante tra 100 e 230, e permane anche per le società che via via diventano tecnologicamente più avanzate, per esempio, nei villaggi neolitici del Vicino Oriente all’altezza del 8 000 anni fa la media è di 120-150 persone; nel periodo iniziale e medio dell’età repubblicana, l’esercito romano ha un’unità tattica elementare di combattimento, il manipolo o la doppia centuria, il cui numero arriva a 120 individui, mentre nell’esercito odierno l’unità tattica più piccola è la compagnia il cui numero arriva a 200 individui; nelle società industriali la soglia critica delle unità produttive da gestire s’aggira intorno ai 150-200 individui, soglia oltre la quale aumentano in modo sproporzionato assenteismo e malattie; nelle società postmoderne le reti di social networking prevedono, per un utente, un numero di c.d. amici che mediamente assomma a 120 e che raramente supera i 200, e via esemplificando); detto questo sulla correlazione cervello/reti sociali (argomento sul quale, a seguire, si ritornerà), affrontiamo ora il problema del perché la crescita del nostro cervello e del nostro corpo ha richiesto un così lungo periodo di sviluppo, e quando questo fenomeno ha iniziato a manifestarsi, questo partendo dalla figura seguente dove sono mostrate le fasi di sviluppo di alcuni grossi mammiferi, specificamente le scimmie, gli scimpanzé, gli ominini arcaici (Australopitecine e primi Homo erectus) e gli uomini (Homo sapiens):


Figura n.  . Fonte: Lieberman, 2014, p. 113.

Si noterà che sono illustrate varie fasi di sviluppo, nell’ordine, quella neonatale, giovanile, adolescenziale e adulta; la fase neonatale si ha quando i mammiferi dipendono dalla propria madre per il latte e per altri tipi di cure a causa del fatto che corpo e cervello stanno crescendo rapidamente; la fase giovanile, che segue dopo un graduale processo di svezzamento, è quella in cui i mammiferi non dipendono più dalla madre per la sopravvivenza e in cui il corpo continua a crescere gradualmente e a sviluppare capacità socio-cognitive; la fase adolescenziale incomincia poi quando i testicoli o le ovaie maturano e stimolano la crescita e finisce, dopo un’intensificazione della massa corporea, con la fine della crescita dello scheletro, la presenza della maturità riproduttiva e lo sviluppo di molte abilità socio-cognitive; si noterà, ancora, che gli scimpanzé richiedono tempi di sviluppo più ampi rispetto alle scimmie, che tra scimpanzé e ominini arcaici le fasi di sviluppo sono all’incirca parallele (con una leggera sfasatura in avanti a partire da Homo erectus) e che con Homo sapiens, oltre a introduzione di una nuova fase di sviluppo, la fase infantile (che va dallo svezzamento al momento in cui un bambino è in grado di nutrirsi completamente da solo), il periodo di sviluppo s’allunga assai; entrando un poco nel dettaglio, uno scimpanzé ha completato lo sviluppo del cervello e inizia ad avere una dentizione permanente all’incirca a 3 anni d’età e inizia la sua fase giovanile, seppure la madre continui ad allattarlo, se pure con frequenza minore, fino a quando ha tra i 4 e i 5 anni, fase che finisce grossomodo quando, sui 12 anni, diventa adulto (la fase giovanile, per una scimmia, dura ca. 4 anni, ed è già adulta all’altezza di ca. 6 anni); per quanto riguarda gli ominini arcaici, prendendo il caso di Australopithecus afarensis, si nota che il cervello cresce ai ritmi dello scimpanzé, mentre per i primi Homo erectus, al fine di maturare un cervello di ca. 800-900 cm3, è necessario un supplemento di tempo, il che spiega il piccolo scarto di maturazione rispetto agli scimpanzé (queste stime sono possibili perché, in tutti i mammiferi, il cervello raggiunge la piena maturità più o meno nello stesso momento in cui spunta il primo molare permanente, e si può stimare l’età che aveva l’organismo all’apparire del primo molare perché i denti hanno strutture microscopiche, analoghe agli anelli di crescita degli alberi, che tengono traccia del trascorrere del tempo, ragion per cui si può con una certa accuratezza, in base all’analisi dei molari fossili ritrovati, reperire quanto tempo è servito a un ominine estinto portare a maturazione il proprio cervello); dunque, il processo di sviluppo d’un organismo umano (o sua ontogenesi) presenta dei fenomeni nuovi, a partire dall’infanzia, un periodo di dipendenza totale dell’organismo dalle attività di cura parentali e mentre, come detto, lo svezzamento definitivo degli scimpanzé dura fino ai 5 anni (periodo nel quale le madri non rimangono incinte), nelle società di cacciatori-raccoglitori, per esempio, lo svezzamento avviene quando i figli hanno 3 anni, almeno 3 anni prima che il cervello smetta di crescere e che inizino a puntare i primi denti permanenti, nel mentre l’infanzia si prolunga fino ai 6-7 anni, periodo post-svezzamento nel quale l’infante ha bisogno di molto cibo d’alta qualità, tanto che, lo si ripete, un bambino non può sopravvivere senza gli alti livelli parentali di cura richiesti; questo fatto d’un precoce svezzamento permette però alle madri di rimanere nuovamente incinte, tanto che una donna nell’arco della sua vita e con l’accesso a fonti di cibo d’alta qualità e a un aiuto della collettività nel periodo post-svezzamento dei figli, può arrivare ad avere quasi il doppio dei figli rispetto ad una femmina di scimpanzé, come dire che si riduce l’intervallo d’internascita, fenomeno che presenta inoltre il vantaggio d’un costo energetico inferiore per ogni figlio avuto rispetto al costo energetico d’ogni figlio avuto da una femmina di scimpanzé; infatti, s’è calcolato che una femmina di Homo erectus di 50 kg ha un costo nella produzione di latte ch’è legato al peso della madre (per esempio, una femmina media delle Australopitecine è all’incirca del 50% più leggera rispetto alla femmina di Homo erectus, e pertanto l’Australopitecina richiede nell’allattamento un fabbisogno energetico minore); ancora, che questo costo energetico aumenta se svezza i figli all’altezza di 5 anni, nel qual caso ha bisogno dell’apporto energetico di ca. 4,2 milioni di calorie per ciascun nato, ca. 1,7 milioni di calorie in più rispetto a quanto le sarebbe necessario se svezza il figlio a 3 anni, questo perché la produzione di latte è l’investimento materno più costoso, e sempre fatta salva la questione che per le femmine aumenta significativamente il fabbisogno energetico giornaliero (daily energy expenditure, DEE), tanto per sé durante la gestazione e l’allattamento quanto per la prole dipendente, ciò che, di conseguenza, rende questo fabbisogno di molto superiore a quello dei maschi di Homo erectus e, come visto, questo cambiamento nella strategia riproduttiva richiede o è pari anche ai cambiamenti nell’organizzazione sociale a livello di cooperazione, cooperazione che poi investe e le cure parentali e l’efficacia delle strategie alimentari del gruppo; oltre all’infanzia, è poi allungato anche il periodo che precede il divenire adulti, che dura per Homo sapiens fino a 18 anni (per esempio, nelle società di cacciatori-raccoglitori, in una femmina l’inizio dell’attività ovarica, cioè la prima mestruazione, o menarca, si presenta tra i 13 e i 16 anni, ma è improbabile che diventi madre prima di 18 anni; mentre un maschio raggiunge la pubertà, cioè la capacità di produrre sperma (o spermatogenesi), più tardi rispetto alla capacità d’ovulazione della femmina, ed è raro che diventi padre prima di 20 anni); ora, quest’allungamento del tasso di sviluppo umano non è spiegabile ricorrendo al parametro delle dimensioni corporee, cioè basandosi sul fatto che gli animali più grossi impiegano più tempo per crescere (per esempio, un gorilla ci mette 13 anni per completare il proprio sviluppo, e i gorilla maschi pesano il doppio d’un uomo), e per spiegarlo bisogna probabilmente ricorrere al parametro del cervello più grosso, cervello, tra l’altro, le cui connessioni sono molto più complesse, ed è probabile che quest’allungamento (anche se i dati a disposizione sono pochi) sia iniziato con Homo erectus e sia terminato con Homo sapiens; il che pone un problema, cioè come si sia risolta storicamente la questione energetica che investe il primo periodo critico di sviluppo del cervello (periodo neonatale e infanzia) a partire da Homo erectus e Homo arcaico (v. supra), problema che investe le femmine da un duplice punto di vista, il primo dato dal fatto che le madri devono e allattare per 3 anni e prendersi contemporaneamente cura del periodo dell’infanzia dei figli già svezzati per altri 3 anni, compito difficilmente risolto in assenza di cibi d’alta qualità (carne e alimenti cotti) e d’un aiuto parentale, che di suo presuppone una rete sociale molto collaborativa; il secondo dato dalla non soddisfazione delle necessità nutritive del cervello (il loro e quello dei figli) a causa d’una rarefazione delle risorse d’alta qualità, per esempio, una carestia, questo legato al presupposto che il tessuto cerebrale non è in grado di conservare riserve energetiche tanto che, come detto, il flusso sanguigno deve fornire in continuazione glucosio, pena danni irreparabili, spesso mortali (per avere questi esiti, è sufficiente una carenza nell’approvvigionamento del glucosio, o una breve interruzione nel suo apporto), ciò che crea, data una selezione naturale molto intensa, un meccanismo adattativo capace di conservare l’energia in sovrappiù accumulata sotto forma di lipidi (nei tessuti adiposi sottocutanei, e in misura maggiore rispetto agli altri primati) da utilizzare come riserva di glucosio in caso di necessità, e questo principalmente per le donne, ma anche per i figli e i maschi, e senza questa propensione a immagazzinare lipidi si sospetta fortemente che, da Homo erectus a Homo arcaico, difficilmente sarebbe stato in grado d’evolvere un cervello così grande e un corpo che cresce così lentamente; infatti, anche se n’è già accennato e pure se la questione sarà ripresa a seguire, è opportuno ricordare che i lipidi che si trovano come materiale di riserva nel tessuto adiposo sottocutaneo sono i trigliceridi, grassi neutri composti da 3 acidi grassi legati a un alcol, il glicerolo (gli acidi grassi sono fondamentalmente lunghe catene di atomi di idrogeno e carbonio e il glicerolo è un tipo d’alcol incolore, inodore e dal sapore dolce), che il nostro corpo, oltre a quelli provenienti dalla digestione di cibi ricchi di grassi, è anche capace di sintetizzarli dai carboidrati, e che dopo la digestione d’una risorsa trofica alcuni ormoni fanno sì che in alcune cellule deputate i glucidi, gli acidi grassi e il glicerolo si convertano in lipidi e, s’è il caso, altri ormoni decompongono poi i lipidi accumulati nei suoi componenti, che il nostro organismo è in grado d’utilizzare; nel nostro corpo le cellule deputate a favorire il processo d’accumulazione dei lipidi sono ca. 30 miliardi, e ogni grammo di grasso accumulato contiene 9 calorie, più del doppio rispetto a carboidrati e proteine di pari peso, ed è questo il motivo che ha portato al sopra citato meccanismo adattativo, e s’è pur vero che tutti gli animali hanno bisogno di lipidi, gli esseri umani ne hanno bisogno in quantità enormi fin dalla nascita; infatti, nelle ultime 13 settimane di gestazione, nel mentre il cervello del feto triplica la propria massa, le riserve lipidiche crescono di ca. 100 volte, tanto che un neonato umano ha ca. il 15% di grasso corporeo (a fronte d’un neonato di scimpanzé, che ne ha ca. il 3%) e un cervello che consuma poi ca. il 60% del fabbisogno energetico a riposo, grossomodo 100 calorie al giorno (per il consumo dell’adulto, v. supra), percentuale di riserve che cresce al 25% durante l’infanzia e si stabilizza, nel maschio d’un cacciatore-raccoglitore adulto, attorno al 10% (nelle femmine, la percentuale sale al 15%); riassumendo, s’evidenziano alcuni cambiamenti importanti nel fabbisogno energetico da Homo erectus a Homo arcaico, ossia un aumento assoluto del fabbisogno energetico dovuto alla maggiore dimensione del corpo, un cambiamento nelle relative esigenze dei diversi organi del corpo con un surplus assorbito dal metabolismo cerebrale e a scapito dell’intestino, surplus probabilmente mediato da cambiamenti nella proporzione del grasso corporeo nel peso complessivo, una neotenia (nel senso etimologico del termine) ch’è pari a un tasso rallentato nella crescita  del corpo e del cervello nel periodo dell’infanzia e fino alle soglie dell’età adulta, cui è pari un aumento complessivo dei costi di crescita fino a quando non si presenta la capacità riproduttiva; e quest’accumulo di lipidi, fatto salvo il metabolismo basale (v. supra), è permesso dallo scarto tra la quantità d’energia che il corpo produce (daily energy production, DEP) e quella che consuma (total energy expenditure, TEE), che è pari, in una società di cacciatori-raccoglitori odierna, a ca. 1 000-2 500 calorie, stima da prendere con beneficio d’inventario, ma che indica in ogni caso che la media della produzione quotidiana d’energia è superiore al dispendio energetico medio, laddove calcoli all’ingrosso indicano che se l’introito calorico tipico d’un cacciatore-raccoglitore è di ca. 3 500 calorie e il consumo è pari a 2 000-3 000 calorie, esiste la possibilità che i depositi dei tessuti adiposi sottocutanei possano stabilizzarsi, come detto, in un 10% del peso corporeo nei maschi e del 15% nelle femmine; surplus energetico che sopra s’è ipotizzato come permesso dall’introduzione delle innovazioni tecnologiche e d’una forma sociale di tipo collaborativo, dispositivo che ha messo in moto un meccanismo di retroazione positiva autoperpetuantesi ch’è capace di soddisfare le necessità del metabolismo basale (BMR) e d’utilizzare lo scarto energetico tra la produzione (DEP) e il consumo (TEE) per usarlo, in un processo evolutivo graduale e dilatato nel tempo (e fatti salvi i periodi critici, in cui alcune specie si sono estinte, v. infra), per la crescita del corpo, per la cura d’una prole dipendente e per il formarsi d’una struttura economica che utilizza al meglio la presenza individuale di cervelli sempre più grossi al fine di creare un cervello sociale in una rete (inizialmente, di 30-40 persone, v. supra); questo dispositivo di retroazione positiva autoperpetuantesi amplifica poi i suoi effetti quando, a seguire, si presenta la comparsa in Africa, ca. 200 000 anni fa, di Homo sapiens, specie che, fino a pochi millenni fa, dopo aver convissuto con molte specie di Homo arcaico, l’ultima delle quali è Homo neanderthalensis (v. infra), rimane l’unica sopravvissuta (fino ad ora) della linea evolutiva umana, cioè l’ultimo evento di speciazione che ha portato al nostro attuale corpo, ciò che pone la domanda di cosa abbia reso inadeguate le specie convissute con Homo sapiens tanto da destinarle all’insuccesso evolutivo e questa volta la risposta non la si può ritrovare solo nelle testimonianze fossili, che al più mostrano che l’evoluzione è inizialmente reperibile nei pochi cambiamenti anatomici, evidenti solo nella parte superiore del corpo, ma anche nelle testimonianze archeologiche che suggeriscono che quello che più differenzia Homo arcaico da Homo sapiens è la capacità d’affrontare i cambiamenti che si prospettano nel suo ecosistema grazie all’abilità, unica e senza precedenti (cioè specie-specifica), d’innovare e trasmettere informazioni da un individuo all’altro; quest’abilità accelera gradualmente, causando trasformazioni significative, in sequenza, nel modo di cacciare e raccogliere le risorse trofiche, ma a seguire, all’altezza di ca. 50 000 anni fa, i cambiamenti nelle innovazioni e nella trasmissione delle informazioni diventano talmente accelerati da permettere, grazie a quest’abilità, una trasformazione delle reti sociali che permette la colonizzazione dell’intero pianeta, esclusa l’Antartide (v. infra, ipotesi Out of Africa); ripartendo dalle testimonianze fossili, e mettendo a confronto l’ultima specie arcaica (Homo neanderthalensis) con quella moderna (Homo sapiens), si nota che in Homo sapiens s’è modificato l’assemblaggio delle parti che compongono la testa, nel senso che si passa da facce voluminose, prominenti rispetto alla scatola cranica, a volti più piccoli  e appiattiti, molto meno allungati e quasi completamente allineati con il piano della fronte, ciò che comporta un’arcata sopra orbitale poco pronunciata al pari degli zigomi, anch’essi meno pronunciati, delle orbite più piccole, così come più piccole risultano essere le cavità nasali, oltre che anche più corte, come più corte sono le cavità orali e, infine, un apparato masticatorio di più modeste dimensioni (v. supra); la testa è inoltre arrotondata, con una fronte alta e contorni più arrotondati sui lati e sul retro (invece che allungata e appiattita, con prominenze ossee sopra le orbite), ciò ch’implica un cervello più sferico e meno voluminoso che poggia su una base del cranio molto meno appiattita, cui s’aggiunga la presenza d’un mento (di cui si può solo ipotizzare la funzione e ch’è assente in qualsiasi altra specie della linea evolutiva umana); la figura seguente mette visivamente a confronto quanto s’è cercato sopra d’illustrare:


Figura n.  .  Fonte: Lieberman, 2014, p. 137.

Ancora, nei maschi di Homo sapiens, il bacino è leggermente meno largo (e, nelle femmine, il canale del parto è leggermente più stretto e situato più in profondità sul piano sagittale, v. supra), le spalle sono meno muscolose, la parte inferiore della schiena è più incurvata, il torace a forma di botte è meno pronunciato e il calcagno è più piccolo; detto questo, cioè che il corpo di Homo sapiens è di ben poco diverso, sia pure uniformemente, da quello di Homo neanderthalensis, restano i dati archeologici che indicano (sempre che sia vero l’assioma di partenza che afferma che i reperti ritrovati mostrano strumenti artefatti che sono, per la più parte dei casi, il prodotto di comportamenti appresi, cioè tali perché effetto d’una trasmissione sociale delle informazioni in fase d’accumulazione) che le differenziazioni strumentali tra le popolazioni sono, di fatto, inizialmente poche, ma tendono via via ad aumentare nel corso del tempo; dato che prima di 600 generazioni fa (all’altezza del Neolitico, con l’avvento dell’agricoltura), tutti vivono in società di caccia e raccolta, ecco che sia Homo neanderthalensis che Homo sapiens, ch’evolvono da un antenato tra loro comune ca. 400 000 anni fa (Homo heidelbergensis, v. infra), ricevono come dote sociale trasmessa la stessa tecnica di fabbricazione, detta Levallois (v. infra), solo che nelle società dov’è presente Homo sapiens, in Africa, all’altezza di 70-60 000 anni fa, qualcosa s’è evoluto in quanto sono restituiti reperti che indicano che siamo in presenza di nuovi tipi di utensili, comprese piccole punte di pietra utilizzate come punte di frecce, così come di nuovi utensili in osso, quali gli arpioni per pescare (ciò ch’inizia a implicare una dieta più variata), ch’è già presente il commercio sulle lunghe distanze di materiali e che sono presenti indizi di comportamenti simbolici, quali perle ornamentali colorate e incisioni su pezzi d’ocra, ciò che suggerisce come minimo l’esistenza di società più complesse rispetto a quelle dei coevi Homo neanderthalensis; in ogni caso, a partire da 50 000 anni fa, e probabilmente queste tecnologie si sono diffuse a partire dall’Africa settentrionale per poi allargarsi a Nord verso l’Eurasia e a Sud nel resto dell’Africa, ecco che gli strumenti litici sono prodotti con serialità (Homo sapiens, infatti, comprende come produrre in serie schegge di pietra a partire da forme prismatiche), ciò che permette ai cacciatori-raccoglitori di produrre in abbondanza utensili più sottili e più versatili, adattabili a più usi, anche altamente specializzati; inoltre s’iniziano a costruire utensili in osso, compresi aghi e punteruoli per reti e indumenti, armi da lancio letali come i propulsori e gli arpioni dentati, e accampamenti complessi, talvolta con abitazioni semipermanenti; insomma tutto un insieme d’innovazioni che favorisce, dato il ventaglio allargato delle disponibilità trofiche accessibili, con pochi rischi e alte probabilità di successo, anche a donne e bambini (dunque non solo uno spettro di verdure arrostite e d’animali di grossa taglia), e dato l’impatto d’un uso estensivo d’un cibo più digeribile e che rilascia più sostanze nutritive (grazie alle pratiche di frantumazione delle risorse vegetali con mortai e pestelli, di riduzione della carne selvatica in piccoli pezzi con strumenti pari agli odierni coltelli e della cottura generalizzata delle risorse carnee e vegetali), un incremento demografico di non poco conto cui è pari un numero più alto e territorialmente più denso ed esteso di siti (che, per esempio, si trovano anche in luoghi remoti e poco ospitali come la Siberia); ancora, s’evidenziano comportamenti simbolici proliferanti, come pitture nelle caverne e nei ripari di rocce, figurine intagliate, ornamenti elaborati, strumenti musicali e tombe ricche d’oggetti funebri etc., artefatti che testimoniano di comportamenti sociali e stili di pensiero inediti (v. infra); e mentre i siti precedenti a 50 000 anni fa sono fondamentalmente tutti uguali, quale che sia la loro dislocazione geografica (in Etiopia, in Israele o in Francia etc.), a partire dai siti di 50 000 anni fa i manufatti incominciano a permettere d’identificare delle singolarità, cioè la presenza di fenomeni d’irripetibilità che caratterizzano una e una sola formazione sociale e che permettono così di distinguerla dalle altre, marcature che ora sono variamente distribuite nello spazio e nel tempo, ciò ch’è indizio certo dell’affermazione d’un nuova struttura economica che permette, dato l’imprinting d’una rete collaborativa trasmessa da un passato filogenetico, l’introduzione d’innovazioni tecnologiche sempre più accelerate e differenziate e inedite modalità di trasmissibilità/riproducibilità delle informazioni da un individuo all’altro, cioè l’utilizzazione d’un dispositivo che crea, in questa rete, un cervello sociale capace non solo di riprodurre le formazioni sociali già esistenti, ma anche di produrle e riprodurle con strutture economico-sociali via via sempre più complesse; ora però ripartiamo dal cervello individuale, questa volta quello specifico di Homo sapiens, e cerchiamo di vedere come questo cervello ha permesso la messa in essere d’una sequenza d’innovazioni e come, lavorando di conserva con una modificazione dell’anatomia che ha avuto implicazioni morfologiche nell’apparato di fonazione, ha implementato una qualità sempre più alta nella trasmissione delle informazioni da un individuo all’altro; ora, tra Homo neanderthalensis e Homo sapiens non è questione di volume del cervello (infatti, quello di Homo neanderthalensis è più voluminoso) e, poiché è aleatorio valutare l’intelligenza dal volume, per cercare di spiegare perché queste due specie sono cognitivamente diverse, è necessario prima tentare di rifarsi all’architettura che presentano i due cervelli e, a seguire, fare ipotesi sul numero e sulla dinamica delle connessioni che questi possono arrivare ad attivare, e anche se dalla differente forma cranica è estremamente arduo e difficile inferire una variazione nella sottostante architettura cerebrale, si può affermare con certezza che alcune differenze fondamentali nella dimensione di dati elementi strutturali contribuiscono alla forma più sferica del cranio di Homo sapiens (si dice questo perché alcune porzioni, più espanse in Homo sapiens rispetto ai suoi predecessori, come vedremo a seguire, possono renderla tale poiché sono situate proprio al di sopra d’una struttura a cerniera al centro della base del cranio, ed è proprio questa cerniera che nel periodo postnatale, a causa della rapidità con cui cresce il cervello, si flette di circa 15 gradi in più in Homo sapiens rispetto a Homo arcaico, facendo sì che il cervello e la scatola cranica che lo contiene diventino più arrotondati e, allo stesso tempo, ruotando di più la parte del volto al di sotto della fronte); queste differenze morfologiche tra i due cervelli possono poi essere rilevanti per l’esistenza di possibili differenze nelle abilità cognitiva, e questi elementi strutturali si trovano nel proencefalo, cioè nella parte terminale dell’encefalo che, di suo, è la parte del sistema nervoso centrale contenuta per intero nella cavità cranica e che comprende il telencefalo e il diencefalo; il telencefalo è la parte formata dai due emisferi di destra e di sinistra e dal corpo calloso (cioè da una lamina di fibre nervose che connette i due emisferi cerebrali posta sagittalmente tra di loro), mentre il diencefalo, una regione all’interno del cranio, presenta poi strutture come il talamo e l’ipotalamo; di questa parte terminale dell’encefalo i dati strutturali che qui c’interessano si trovano nella neocorteccia che, come sopra visto, ha un’espansione notevole sia in Homo arcaico che in Homo sapiens, neocorteccia che, processando tutte le informazioni in arrivo (da quelle visive e uditive a quelle tattili), è responsabile del pensiero conscio di sé e della capacità di pianificare strategie di risposta complesse a livello cognitivo, motorio e comportamentale etc.; questa neocorteccia è poi suddivisa in diverse porzioni tondeggianti, o lobi, che se pure interconnessi e cooperanti sono individuabili ciascuno con una propria e diversa funzione, e le cui superfici anatomicamente complesse e ricche di protuberanze sono quelle parzialmente rispecchiate nei crani fossili a tutt’oggi rinvenuti e che permettono di fare le inferenze di cui sopra (si dice parzialmente anche perché il cervello non collima esattamente con la parte ossea, ma n’è separato e protetto da tre sottili membrane, dette meningi); la figura seguente mostra le diverse porzioni dei lobi del cervello dell’emisfero di sinistra, lobi che sono poi speculari nei due emisferi (cioè si presentano in coppia, uno per emisfero, laddove gli emisferi non sono simmetrici, ma quasi; in figura sono inoltre rappresentati anche il tronco encefalico, che congiunge il telencefalo e il diencefalo al midollo spinale, e il cervelletto, formato anch’esso da due emisferi, ch’è una porzione dell’encefalo che occupa la parte posteriore e inferiore della cavità cranica):


Figura n.  .  Fonte: Lieberman, 2014, p. 144.

Di questi lobi, quelli temporali sono, in Homo sapiens, all’incirca del 20% più grandi che in Homo neanderthalensis, e questa coppia di lobi che si nasconde dietro le tempie svolge molte delle funzioni che usano e organizzano i ricordi (memoria a lungo termine) e, in alcune sue aree, quando qualcuno emette dei suoni (dotati di un significato denotato o connotato o che sia), questo lobo ci permette di identificarli, tanto che una lesione in un’area specifica del lobo temporale, l’area di Werniche, ci impedisce di attribuire qualsivoglia significato a ciò che udiamo (v., infra, anche area di Broca); inoltre, una parte situata in una struttura posta nella superficie mediale dell’emisfero cerebrale, nella profondità dei lobi temporali, e definita come ippocampo, ci permette poi d’imparare cose nuove e d’immagazzinare le informazioni acquisite (oltre che di regolare la sensibilità olfattiva e gustativa); ragione per cui è ragionevole ipotizzare che lobi temporali più grandi potrebbero avere aiutato Homo sapiens nell’elaborazione della comprensione del linguaggio parlato (o memoria semantica) e nella gestione dei processi mnemonici; ancora, un altro lobo, che sembra apparentemente più grande in Homo sapiens, è il lobo parietale (situato nella parte mediana e superiore del cervello, compresa fra il lobo frontale in avanti, occipitale all’indietro e temporale in basso), e la coppia di questi lobi ha un ruolo chiave nell’interpretare e integrare i dati della realtà grazie alle informazioni sensoriali provenienti da diversi distretti del corpo (cute, muscoli e articolazioni) e ci permette di costruire una mappa topografica della realtà attorno a noi al fine di poter capire dove ci troviamo (ciò che implica la propriocezione, cioè la ricezione d’informazioni relativamente alla posizione, al movimento e all’equilibrio del proprio corpo nello spazio), per valutare il modo d’uso degli strumenti o degli oggetti che ci circondano (o memoria procedurale), la capacità di calcolo con i numeri, il riconoscimento dei simboli, la memoria per le parole etc., tanto che se si danneggia questa porzione del cervello possiamo perdere specifiche capacità sensoriali, la capacità d’eseguire movimenti che tendano a un dato scopo o di fare più cose simultaneamente (o aprassia) e di pensare in modo astratto; se altre differenze esistono, e probabilmente esistono, esse sono però difficili da misurare, per esempio, una porzione del lobo frontale situata dietro le sopracciglia, detta corteccia prefrontale (o prefrontal cortex, PFC), che, con le dovute correzioni di scala, è più grande del 6% ca. in Homo sapiens rispetto agli scimpanzé, in confronto ai quali presenta una struttura più complessa e più ricca di connessioni; per spiegare la qual ultima affermazione, si deve ricorrere ai neuroni (le cellule fondamentali del sistema nervoso) e alla loro capacità di formare circuiti, o reti complesse di connessioni che sono in grado di ricevere, elaborare, conservare e trasmettere rapidamente un’informazione (dei segnali elettrici) all’interno del corpo umano e, propriamente, si deve ricorrere ai prolungamenti dei neuroni, detti assoni, che sono appunto quelli che consentono la detta circolazione d’informazione; inizialmente alcuni assoni sono e rimangono senza nessun rivestimento, ma in seguito nel corso dello sviluppo ontogenetico, a completare la formazione del sistema nervoso, alcuni assoni appartenenti a numerose popolazioni neuronali che necessitano di un’alta velocità di conduzione dei segnali, sono ricoperti, a modo d’isolanti, con cellule gliali che arrivano a formare una guaina mielinica che ha lo scopo, appunto, d’accelerare la conduzione stessa del segnale elettrico lungo la fibra nervosa e di sincronizzare il trasferimento d’informazioni tra sistemi neurali, accelerazioni e sincronizzazioni che sono essenziali per avere un ordine superiore di funzioni cognitive; la guaina è poi detta mielinica perché è costituita dalla mielina, una sostanza formata da lipidi complessi legati a proteine, e il processo di completamento del sistema nervoso con questa guaina è detto mielinizzazione; e la mielinizzazione, in Homo sapiens, inizia a formarsi nel periodo prenatale e continua a svilupparsi per altri 20-30 anni, cioè durante lo sviluppo associato all’acquisizione della maturità comportamentale e cognitiva a sua volta legato alla formazione della neocorteccia; ora, mettendo a confronto lo sviluppo cognitivo di Homo sapiens con quello degli scimpanzé, è possibile affermare che la mielinizzazione della corteccia prefrontale si presenta, rispetto agli scimpanzé, come protratta dal punto di vista ontogenetico; infatti, mentre negli scimpanzé la densità degli assoni mielinizzati aumenta costantemente fino ai livelli adulti raggiunti all’altezza della maturità sessuale, in Homo sapiens, al contrario, la mielinizzazione è più lenta durante l’infanzia ed è caratterizzata da un ritardo del periodo di maturazione che s’estende, come sopra visto, oltre la tarda adolescenza, e che probabilmente s’origina evolutivamente per il dispiegarsi della maturazione del sistema nervoso in un contesto economico-sociale in via esso stesso di sviluppo, come dire che il notevole ritardo nel programma di sviluppo della maturità neocorticale potrebbe giocare un importante ruolo nella crescita e nella plasticità delle connessioni che contribuiscono alle capacità cognitive specie-specifiche di Homo sapiens, questo in quanto forniscono maggiori opportunità per influenzare la capacità di formare reti complesse di connessioni; detto questo, ritorniamo ora alla questione dell’espansione della corteccia prefrontale nel percorso evolutivo di Homo affermando che questa porzione, anche s’è difficile dimostrarlo dati alla mano, deve essere stata considerevole via via che ci s’avvicina e s’arriva a Homo sapiens giacché in essa si localizzano le capacità di processare, coordinare e pianificare altre parti del cervello quando s’è in interazione con gli altri attraverso la parola, il pensiero e l’azione (con la clausola che, s’è relativamente facile identificare il dove, più complesso è però spiegare il come questi processi evolutivi, che agiscono sui meccanismi di regolazione delle funzioni cognitive complesse, sono avvenuti); ancora, e questo è un tratto importante per la gestione d’una rete sociale, la corteccia prefrontale è in grado di risolvere i problemi che via via si presentano (o problem solving) e, soprattutto, permette d’inibire e ritardare il momento della gratificazione dei bisogni, consente cioè di bilanciare l’impulso a una gratificazione immediata con l’adozione e la condivisione d’un obiettivo a lungo termine; tanto che chi ha subito lesioni in quest’area ha difficoltà a esercitare un controllo inibitorio nei confronti degli impulsi, quali che siano, e non è in grado di pianificare le sue azioni o di prendere decisioni in modo efficace e trova inoltre difficoltà nell’interpretare le azioni altrui per cui, mancando d’una teoria della mente (v. supra), è totalmente incapace di regolare in qualsivoglia modo i propri comportamenti sociali, cioè mostra uno stato di forte deficit delle funzioni cognitive superiori, di quello che grossomodo si chiama intelligenza sociale; per fare un esempio, storico in senso lato, degli aspetti adattativi delle capacità cognitive di Homo sapiens (cioè della sua riorganizzazione neuronale nel cervello), si pensi da cosa dipende il successo d’un individuo in una rete sociale di 30-40 cacciatori-raccoglitori e si noterà che le competenze cognitive esercitate da questo singolo individuo in questa rete coinvolgono fortemente la capacità adattativa a un determinato habitat e alle risorse trofiche qui presenti; le sue abilità nel collaborare strategicamente con gli altri e nel comunicare informazioni; l’efficacia dei modi e degli strumenti (storicamente disponibili) che adotta per cacciare e raccogliere e, infine, le procedure che utilizza per estrarre, da ciò che ha cacciato e raccolto, risorse nutritive assimilabili e per sé e per gli altri; e, come detto sopra, la collaborazione esistente nelle società di caccia e raccolta richiede la presenza, tra chi si rapporta, d’una teoria della mente che permetta di comprendere le motivazioni e il comportamento altrui (cioè una modellizzazione degli stati mentali degli altri), la capacità d’inibire i propri impulsi (v., infra, ipotesi dell’autodomesticazione) e d’agire strategicamente di conserva con gli altri, funzioni che una corteccia prefrontale più grande, o con più connessioni, permette d’assolvere; ancora, la collaborazione strategica richiede una rapida capacità comunicativa fra gli interlocutori sullo stato della realtà presente, per esempio, al momento della caccia (stato della realtà che s’intende poi modificare al fine di raggiungere un utile, proprio e collettivo), e l’espansione dei lobi temporali potrebbe avere migliorato questa capacità comunicativa e, assieme ai lobi parietali, aver permesso di ragionare in modo più efficace (dal punto di vista dell’interpretazione e dell’integrazione dei dati offerti dalla realtà) su questo stato, per esempio, consentendo d’interpretare gli indizi sensoriali necessari per seguire le tracce degli animali cacciati e di costruire mappe mentali (topografiche) sulla loro possibile dislocazione, oppure consentendo di dedurre dove poter trovare risorse in uno specifico habitat o di fabbricare e utilizzare specifici strumenti; quindi, date le prove dell’espansione di queste regioni del cervello in Homo sapiens, purtroppo non ancora interpretabili in modo conclusivo, è ragionevole inferire che questo cervello più arrotondato abbia permesso comportamenti maggiormente adattativi alla realtà sociale e ambientale, cui s’aggiunga l’ipotesi, per ora impossibile da dimostrarsi, che nello sviluppo della neocorteccia Homo sapiens presenti un maggior numero di connessioni rispetto a Homo neanderthalensis; infatti, come s’è accennato sopra a proposito della mielinizzazione degli assoni, si sa che, rispetto al cervello d’uno scimpanzé, il cervello di Homo sapiens presenta una neocorteccia più spessa, con neuroni più grandi e più complessi e con un più alto numero di connessioni che impiegano più tempo per completarsi; ancora, si sa che, nei cervelli d’entrambi, scimpanzé e Homo sapiens, sono presenti circuiti complessi che connettono le regioni corticali esterne a strutture situate più in profondità, legate all’apprendimento, al moto e ad altre funzioni, e che il modo in cui queste strutture sono fatte non è fondamentalmente diverso nelle due citate specie, e anche ch’è possibile, s’è presente una maturazione ritardata della neocorteccia, modificare in larga misura questi circuiti e aumentare il numero di connessioni; quindi, dato che si può affermare (con beneficio d’inventario, giacché si tratta della comparazione di 2 soli corpi di Homo neanderthalensis, morti rispettivamente all’età di 8 e 12 anni, con un ampio campione di Homo sapiens di pari età) che Homo neanderthalensis arriva all’età adulta prima di Homo sapiens, è anche possibile, se pure indimostrato, che Homo sapiens sia il punto d’arrivo di un’evoluzione che ha prolungato il periodo di sviluppo del corpo per fornire al cervello più tempo per svilupparsi fino al termine dell’adolescenza e oltre, arco temporale questo in cui molte connessioni si creano e vengono protette mentre altre, inutilizzate, sono sfoltite per non creare disturbo; punto d’arrivo d’una specie che può indicare un’evoluzione che ha in ogni caso come fine quello d’aumentare le probabilità di sopravvivenza e di riproduzione, cioè d’aumentare la fitness (a partire dalla possibilità d’implementare una rete sociale) con il ricorso a capacità cognitive e di controllo delle emozioni, ossia, in definitiva, d’aumentare la fitness dei membri d’una formazione economico-sociale e, assieme ad essa, di migliorare il rendimento della formazione stessa (con effetti a cascata in vista dell’evoluzione  a venire di questa formazione economico-sociale, v. infra); per quanto riguarda le capacità comunicative di Homo sapiens, anch’esse sono, nella loro manifestazione, storicamente legate a una rete sociale e alla strutturazione economica che la permette; rete che, nella relazione di percezione/azione interlocutoria, si manifesta con la formazione di strutture di segni (di qualsiasi natura si voglia, linguistica, gestuale, iconica etc.), vale a dire a strutture semiotiche, trasmissibili, cioè con un codice socialmente condiviso tra i locutori e riproducibile nel tempo che associa un significante materiale (un suono, per esempio) a un significato (al concetto di una data preda o pianta, per esempio), ossia a un segno che correla questa doppia faccia significante/significato agli oggetti presenti nella realtà socialmente esperita, cioè storicamente vissuta, cioè che li rimanda a ciò cui si riferiscono di fatto (una specifica preda o pianta, per esempio), ossia li denota (o, a seguire, li arricchisce di significato, affettivo per esempio, vale a lire li connota) e che arriva ad investire, oltre al citato linguaggio, ma ricorrendo ad altri tipi di significanti materiali (ossia con altri segni e codici), la gestualità al pari di altri sistemi semiotici che si perfezioneranno, quali lo scambio, la ritualità funebre, la pittura, la scultura, la scrittura etc. (e dove la semiotica è poi la disciplina che studia i segni e i sistemi di segni); detto questo è da sottolineare, che affinché si possa manifestare un significante fonico, cioè si possa emettere un suono, è imprescindibile una laringe (la cassa di risonanza della voce, nel collo, in cima alla trachea), però situata questa all’altezza della settima vertebra cervicale, giacché in altre posizioni non è possibile l’emissione di suoni (i suoni, o foni, sono le unità discrete alla base del linguaggio articolato, e queste unità  a livello della vocalizzazione sono poi quegli elementi discreti capaci di manifestare una ricorsività che si esplica a livello lessicale, sintattico e semantico, v. infra); sia Homo sapiens che gli scimpanzé possiedono una laringe, solo che il programma genetico di sviluppo nelle scimmie antropomorfe lascia immutata nel corso della sua vita la posizione della laringe, che è posta molto in alto nel collo, tra la prima e la terza vertebra cervicale, e questo le permette il vantaggio di respirare e, simultaneamente, d’inghiottire dei liquidi, per esempio, in quanto lo spazio dietro la faringe (cioè lo spazio dietro il naso e la bocca) è diviso in due tratti parzialmente separati, uno interno per l’aria e uno esterno per il cibo e l’acqua, posizione che però permette d’emettere suoni, quali li emette Homo sapiens, perché l’alta posizione riduce lo spazio per la faringe che serve a modificare i suoni fondamentali (unità discrete) prodotti dalle corde vocali; ora in Homo sapiens questo processo s’è completato e manifestato tra 100 000 e 50 000 anni fa, quando, presumibilmente basandosi sull’esistenza d’una combinazione di preadattamenti biologici, il programma genetico di sviluppo pone, nell’arco di vita di un individuo, un riposizionamento a scendere della laringe (fino a far sì che la lunghezza di laringe, corde vocali e faringe, in verticale, eguagli la lunghezza dal palato alle labbra, in orizzontale, v. infra); in un bambino fino ai due anni la laringe si trova molto in alto, poiché il neonato non è predisposto per la fonazione, come nello scimpanzé, quindi non può parlare (ma può, con vantaggio, respirare e poppare liberamente e strillare); in un bambino dai due anni in avanti, la laringe scende di posizione fino alla citata vertebra alterando la simultaneità del bere/mangiare e del respirare (o l’uno, o l’altro), ma facendo acquistare al corpo una grande cavità faringea sopra le corde vocali che permette la piena funzionalità dell’apparato fonatorio; va da sé che il processo di riposizionamento della laringe, iniziato da neonati, finisce dopo molto tempo, giacché si sfruttano organi, quali labbra, denti, polmoni etc., nati per altri scopi e che devono essere rimodellati (o exaptation, v. supra); il che, tra l’altro, spiega come mai un essere umano impieghi così tanto tempo per imparare a parlare (il che, ancora, evidenzia il fatto che lo sviluppo ontogenetico dell’individuo è incistato tra lo sviluppo biologico della specie e la trasmissibilità/riproducibilità d’una qualsivoglia formazione semiotica, v. supra, propria a una data struttura economica e sociale inserita in una scala temporale); valga la figura seguente a illustrazione del citato rapporto fra asse verticale (laringe, corde vocali, faringe) e orizzontale (palato, labbra) in uno scimpanzé che presenta un rapporto sproporzionato che impedisce l’articolazione del linguaggio, là dove la faringe dello scimpanzé è più lunga e stretta di quella umana, ed è poco duttile in quanto ha un pavimento meno mobile e la mandibola è più massiccia; la lingua è piuttosto sottile e piatta (in quanto proporzionale alla massa corporea) e la laringe, infine, come detto, è posta troppo in alto; a seguire, è mostrato lo stesso rapporto asse verticale/asse orizzontale in Homo sapiens:



Figura n. . Fonte (adattata): Cavalli Sforza e Pievani, 2011, p. 48.

In Homo sapiens, infatti, il suono della voce è dato da un susseguirsi d’emissioni d’aria pressurizzata che si susseguono attraverso la laringe e arrivano nel canale vocale, che origina dalla laringe e va alle labbra (cioè, come visto, da una porzione verticale dietro la lingua e una porzione orizzontale sopra la lingua), e la cui forma d’insieme è modificabile in molti modi muovendo la lingua, le labbra e la mandibola; modificandolo con i citati tratti, s’alterano anche le emissioni d’aria che vi transitano, ciò che produce, infine, la varietà (possibile) dei suoni emessi; ritornando a quanto affermato in precedenza, è poi la forma peculiare del volto umano, corto e non sporgente, che ci permette un canale vocale con una particolare conformazione dotata d’utili capacità acustiche, ed è proprio la faccia meno allungata rispetto ad uno scimpanzé (e in Homo arcaico a questa dello scimpanzé più simile che non rispetto a quella di Homo sapiens, sebbene Homo neanderthalensis, come si vedrà, fosse in ogni caso capace di un qualche tipo di linguaggio vocale) che fa sì che la cavità orale sia corta e che, di conseguenza, la lingua sia più corta e arrotondata anziché lunga e piatta come negli scimpanzé (la lingua degli uomini non s’è rimpicciolita in proporzione alla massa corporea, com’è negli altri primati, ma s’è ispessita e ha abbassato la sua base all’altezza della gola), e dal momento che la laringe è solidale con l’osso ioide (v. infra), un osso non articolato con nessun altro osso e situato alla base della lingua, la lingua bassa e arrotondata fa sì che la laringe si trovi molto più in basso, nel collo (e, come detto, all’altezza della settima vertebra cervicale), rispetto a quella di qualsiasi mammifero in grado d’emettere suoni (scimpanzé compreso) che presenta una porzione orizzontale lunga almeno il doppio di quella verticale; di conseguenza, i tratti verticale e orizzontale del canale vocale sono quasi lunghi uguali e permettono di produrre vocali le cui frequenze sono più distinte e sono più facili da pronunciare in modo corretto, permettendo, insomma, di favorire una migliore articolazione e differenziazione delle unità discrete che andranno a formare un repertorio lessicale capace di sintassi e semantizzabile, laddove una scimmia antropomorfa, volendo articolare suoni diversi, deve fare soprattutto uso della posizione delle labbra e della cavità orale (ma senza poter parlare); la figura seguente mostra l’anatomia dell’apparato di fonazione in Homo sapiens in sezione laterale, cioè la laringe abbassata, la lingua corta e arrotondata e lo spazio aperto tra l’epiglòttide (una struttura cartilaginea incurvata alla base della lingua) e il retro del palato molle (un’estensione carnosa del palato che lo isola dalle fosse nasali), e per inciso quest’epiglottide è posta in basso e impedisce il contatto con il palato molle, ciò che crea sì uno spazio aperto, ma crea anche il pericolo d’asfissia poiché in questa faringe viaggiano insieme, lungo il percorso per l’esofago o per la trachea, cibo/bevande e aria, ciò che rende appunto pericolosa la simultaneità del bere/mangiare e del respirare, simultaneità ch’è invece possibile a uno scimpanzé o a un neonato, v. supra, perché questi presentano uno spazio chiuso dato dall’epiglottide e dal palato molle che s’incontrano:


Figura n.  .  Fonte (modificata): Lieberman, 2014, p. 150.


La figura seguente mostra invece, a sinistra, l’anatomia dell’apparato di fonazione di uno scimpanzé, con un tratto verticale corto e un tratto orizzontale lungo, con dietro la lingua uno spazio chiuso (dato, come detto, dall’epiglottide e dal palato molle che s’incontrano); a destra è poi data la ricostruzione dell’anatomia dell’apparato di fonazione di un Homo arcaico (v. anche infra), che suggerisce che il suo canale vocale abbia una conformazione abbastanza simile a quella d’uno scimpanzé:


Figura n.  .  Fonte (modificata): Lieberman, 2014, p. 150.

Anche il cervello interviene, come sopra accennato, nel processo comunicativo; la figura seguente mostra le principali aree neocorticali associative del linguaggio: l’area di Broca, che combina i foni  in sequenze motorie (quest’area, se lesionata, produce afasia motoria pur lasciando intatte le capacità di comprensione), l’area di Werniche (che si sovrappone al lobo temporale posteriore e a parti del lobo parietale) che identifica e seleziona i foni (come detto, i suoni del linguaggio considerati nel loro aspetto materiale, indipendentemente dalla funzione distintiva), le aree temporo-parieto-occipitali che permettono di comprendere il significato delle parole e, infine, le aree frontali che servono per dare inizio alle espressioni verbali:


Figura n.  . Fonte: Tartabini, 2001 (figura 5, tra le pp. 48 e 49)

Allo scimpanzé, se paragonato con Homo sapiens, manca però, oltre che alla discesa della laringe, principalmente una struttura nervosa, ossia la parte posteriore della terza circonvoluzione frontale dell’emisfero cerebrale sinistro della neocorteccia (o area di Broca), necessaria, come detto, per il controllo della motilità dell’organo fonatorio (anche s’è vero che in Homo sapiens e nelle scimmie antropomorfe esiste un’asimmetria tra parte destra e sinistra del cervello, nel senso che in entrambe le specie l’emisfero sinistro è più ampio rispetto a quello destro; ora, s’è vero che questa asimmetria è legata al linguaggio, è vero che il substrato che sarà proprio all’elaborazione dei foni in sequenze motorie deve essere già presente nell’ancestrale di Ominini e scimmie antropomorfe o, detto altrimenti, che un’area legata alla comunicazione evolve in modo indipendente negli uni e nelle altre); la figura seguente mostra il cervello di uno scimpanzé confrontato con quello di Homo sapiens (si noterà che lo scimpanzé presenta inoltre aree associative ridotte, dunque con meno connessioni rispetto al cervello umano):



Figura n.  . Fonte: Tartabini, 2001 (figura 6, tra le pp. 48 e 49)


Infine, se è pur vero che l’abilità nella fonazione è il risultato di un processo biologico e ha una base fisica (data dai genitori), bisogna però ricordare che imparare a parlare è un processo cognitivo strettamente legato all’ambiente sociale ed economico che circonda il neonato; processo cognitivo enormemente favorito da un carattere che si presenta in modo permanente, ossia il notevole rallentamento del processo di sviluppo che fa sì l’età matura, a causa di un prolungamento delle fasi infantili e adolescenziali, giunga più tardi (anche rispetto alle Australopitecine e ai Parantropi, v. supra e infra) rendendo il neonato soggetto per più lungo tempo alle varianti ambientali e alle cure parentali e che, in pari tempo, gli sottraggono una più precoce maturazione sessuale; questa modificazione nelle informazioni che regolano il processo di sviluppo (o neotenìa) non è legata ai mutamenti scheletrici associati al bipedismo, ma è prodotta da una riorganizzazione genetica legata solamente alla crescita del cranio (che, come detto, nei neonati umani è meno matura, dal punto di vista della forma, rispetto ai neonati scimpanzé) e della massa cerebrale tipica della specie, massa che presenta e permette così per lungo tempo (dal feto all’uomo adulto) una plasticità osmotica agli stimoli dell’ambiente, anche sociali, per esempio con l’apprendimento mimetico (pre e postlingustico) che favorisce la trasmissibilità procedurale di repertori d’azione quale è manifestata dal comportamento degli adulti, cioè con un adattamento comportamentale precoce e interiorizzato, o con l’aumento del contatto vocale dell’infante con la madre che perfeziona l’apprendimento della lingua, ossia l’adattabilità linguistica necessaria al neonato per divenire adulto e per potere comunicare e agire consapevolmente in un ambiente sì parzialmente antropizzato, ma già regolato da ritmi ambientali ed economici e da regolazioni sociali; come dire, a riassunto, che il processo di ominazione inizia da una capacità cranica di poco superiore a quello di una scimmia antropomorfa, ma con il vantaggio imprescindibile della sola deambulazione bipede non occasionale, e finisce con l’evoluzione verso il linguaggio articolato che permette a Homo sapiens, e in un contesto economico di sussistenza, una formazione a bassa densità demografica che sarà socialmente strutturata, regolata, in cui potere sopravvivere con un’identità collaborativa; dunque, una meccanica di funzionamento che diventerà una funzione del cervello, data non dalla separazione tra ciò ch’è biologico e ciò ch’è della rete sociale, bensì data dall’esito in divenire di un processo biologicamente strutturato in un contesto ambientale antropizzato, cioè dalla rete sociale e dall’intelligenza, anch’essa sociale, che, come somma di adattamenti comportamentali, semiotici, è una condizione imprescindibile per lo sviluppo encefalico di funzioni cognitive che, dalle Australopitecine permetteranno d’arrivare alla specie Homo sapiens, funzioni del cervello, beninteso, in cui i repertori di operatività e conoscenza non sono trasmessi solo dal linguaggio, ma, per esempio, anche dall’acquisizione e dall’elaborazione inconsapevole delle informazioni per via sensoriale, motoria etc.; detto altrimenti, l’uomo s’è evoluto biologicamente, a partire da 3,9 milioni d’anni fa, in base a un meccanismo adattativo ambientale (prima) e semiotico (poi), cioè a una programmazione esperienziale e funzionale del cervello che lo ha prodotto come una risultante biologica fatta per vivere un’esistenza sociale (e in cui i fattori biologici dunque si manifestano, come risposta adattativa a ciò che li ha implementati, a partire dalla rete sociale, v. infra); ossia che gran parte della corteccia non presenta solo aree preassegnate a specifiche funzioni e che la formazione economico-sociale, nella sua contingenza, è in pari tempo effetto e causa della plasticità neuronale e storica di questo cervello collaborativo (v. infra); per quanto riguarda Homo neanderthalensis e la sua estinzione come specie, avvenuta tra  40 000-30 000 anni fa, sono presenti molte ipotesi, tra cui quella ch’indica che Homo sapiens, grazie alle ricadute della tecnologia (quali una maggiore variabilità della dieta e una migliore alimentazione, una rete sociale più efficiente etc.), s’è riprodotto a un tasso più alto, probabilmente grazie a un precoce svezzamento dei figli (v. supra), , oppure ha presentato tassi di mortalità più bassi e, solo riguardo a quest’ultimo aspetto, è stato calcolato che, dato un areale in cui coesistono entrambe le specie, un tasso di mortalità più alto soltanto dell’1% in Homo neanderthalensis può portare all’estinzione di questa specie nell’arco di sole 30 generazioni (poco meno di 1 000 anni; v. anche infra); detto che Homo sapiens rimane l’unico rappresentante d’una lunga linea evolutiva, resta che il suo corpo non è che si sottragga alla pressione evolutiva, solo che questa si manifesta ora in un ambiente antropizzato; e, a sua volta, non è che l’ambiente antropizzato e i comportamenti d’adattabilità appresi e propri a una data rete sociale ed economica impongano di per sé una pressione evolutiva, ma talvolta le determinati economiche d’una rete sociale possono spingere la selezione naturale in una direzione, come mostra la persistenza della lattasi (o lattasi sufficienza) a partire dalle reti sociali dove si pratica la mungitura, cioè la capacità di digerire il lattosio (lo zucchero presente nel latte) in età adulta che s’evolve indipendentemente in Africa, nel Vicino Oriente e in Europa proprio laddove la dieta dettata dalla pressione economica impone il consumo di latte di mucca o d’altri animali, tanto che gli appartenenti alle reti sociali che non conoscono la pratica dell’allevamento e della mungitura presentano un’intolleranza alimentare al latte, o lattosi deficienza (è, infatti, da ricordare che Homo sapiens, come altri mammiferi, perde la capacità di produrre lattasi, l’enzima che consente di digerire il lattosio, dopo lo svezzamento, e alcune mutazioni avvenute nel gene LCT a partire da 7 000 anni fa all’incirca, permettono di sintetizzare quest’enzima anche dopo lo svezzamento; v. anche infra); oppure pressioni selettive che potrebbero rimuovere dal pool genetico parte della popolazione sono evitate per la presenza di tecnologie che hanno un effetto protettivo (o di tamponamento, detto buffering) sui corpi quale, per esempio, la tecnologia del fuoco che ha permesso il riscaldamento e la cottura dei cibi (pratica, quest’ultima, che ha poi imposto altri cambiamenti al sistema digerente, v. infra); oppure, ancora, con la colonizzazione di nuovi areali, anche in habitat estremi, che ha imposto alla selezione naturale un’azione diversificata d’adattamenti locali legati alle nuove condizioni climatiche, a inediti agenti patogeni o a diete sconosciute e altro ancora, là dove gli effetti negativi sul pool genetico non sono stati eliminati del tutto, ma dove la tecnologia raggiunta ha reso possibile, con il suo effetto tampone, una selezione che senza quest’effetto non si sarebbe verificata, questo perché la tecnologia ha permesso la creazione di reti sociali con un tasso di mortalità inferiore a quello altrimenti imposto senza buffering, ciò che ha favorito quegli individui dotati di variazioni ereditabili che ne hanno migliorato la fitness, cioè la capacità di sopravvivere e riprodursi; e si pensi, per esempio, all’uso della tecnologia del fuoco (legata anche alla pratica di costruire capanne utilizzando le ossa dei Mammuth cacciati, v. supra) nelle regioni più settentrionali dell’Europa durante le condizioni climatiche dell’ultima era glaciale, tecnologia che ha permesso, nell’arco di un dato tempo e data la latitudine, la selezione d’individui con arti corti e una struttura fisica complessivamente più tozza che ha minimizzato la superficie corporea allo scopo di impedire una maggiore dispersione del calore (infatti, gli individui più massicci e con arti corti hanno, in proporzione, una minore area superficiale che permette, data la temperatura, un’adeguata termoregolazione; l’esatto opposto di ciò che accade negli areali con climi molto caldi dove il corpo è alto, magro e con arti lunghi che massimizzano la superficie corporea al fine di consentire una maggiore dispersione del calore), così come ha favorito una minore pigmentazione dell’epidermide che ha assicurato sufficienti livelli di vitamina D (infatti, gli strati superiori della pelle sintetizzano dei pigmenti che agiscono come uno schermo solare naturale che blocca la radiazione ultravioletta, nociva perché mutagena (v. supra) e in grado di bloccare la sintesi della vitamina D altrimenti possibile grazie ad altre radiazioni solari, per cui, di conseguenza, dove la radiazione ultravioletta è intensa, come capita vicino all’Equatore dove quest’intensità è continua nel tempo, c’è stata un’intensa selezione a favore delle pigmentazioni più scure, come quelle di Homo sapiens in Africa prima della sua diaspora; mentre dove la radiazione UV è meno intensa, come nelle zone temperate, la selezione ha favorito una minore pigmentazione e ha permesso alle altre radiazioni solari di favorire, come risposta del corpo umano, sufficienti livelli di vitamina D, come quella di Homo sapiens in certe zone fuori dall’Africa; v. anche infra); come dire, per ripetere il concetto con altre parole, che le basi biologiche delle abilità e dell’adattabilità di Homo sapiens non sono evolutivamente terminate, ma che per reperirle si deve sempre tenere in conto ch’esse si manifestano per il tramite d’una formazione economico-sociale anch’essa in fase evolutiva, se pure quest’ultima presenti, in sé e per sé, una capacità evolutiva estremamente più rapida e con una portata ecologica più vasta dell’evoluzione biologica che i corpi e i cervelli di Homo sapiens presentano a livello individuale (individui poi assoggettati al cervello sociale e alla modificazione incessante e via via più accelerata dello statu quo ante); a seguire, è poi brevemente illustrato il repertorio semplificato della cespugliazione evolutiva che va dagli Ardipitechi alle Australopitecine, e da queste a Homo sapiens (con cenni sulla cultura materiale e sulle principali litotecniche, da considerarsi non secondo una linea evolutiva, giacché tecniche diverse, per esempio, regredite e avanzate in specie diverse, possono coesistere, così come una tecnica regredita può presentarsi con una specie avanzata etc.).