LA
LETTURA DELLE ROCCE
La
lettura delle rocce, meglio, delle formazioni sedimentarie si basa sulle facies (faccia; il plurale latino è
invariato) ch’esse presentano, cioè sull’insieme di quei caratteri tipici
(struttura, minerali contenuti, presenza e natura di fossili etc.) che rimandano alla loro modalità di
formazione in un dato ambiente di sedimentazione, per esempio, una formazione
con facies palustre si riconosce per
la presenza di resti carboniosi (vegetali), mentre una facies marina è indicata dalla presenza di resti organogeni, quali fossili
o microfossili, che possono indicarne la profondità, per cui avremo una facies profonda e di mare aperto (o
batiale o pelagica), oppure una poco profonda e vicina alla costa (o neritica) etc., o che un’arenaria può avere una facies fluviale o costiera e via
classificando. Fatto dunque salvo il fatto che una formazione è un’unità
stratigrafica definita dal complesso di rocce caratterizzate da un’uniformità
litologica, e per questo distinta dalle unità tra cui risulta compresa, per le
formazioni sedimentarie (e salvo le eccezioni) valgono i principi esplicativi d’orizzontalità
iniziale, di sovrapposizione, di continuità laterale e d’intersezione. Con l’orizzontalità
iniziale ci si riferisce a sedimenti indisturbati, che non hanno cioè subito
dislocazioni o alterazioni dovute a movimenti tettonici, che grazie alla forza
di gravitazione si sono depositati su superfici grosso modo orizzontali, o
tutt’al più con un’inclinazione molto bassa, là dove la loro trasformazione in
rocce (il processo di litificazione) non ha comportato modificazioni della
formazione originaria e dove pertanto l’ordine delle successioni si mantiene
nel corso del tempo; la figura seguente raffigura questo principio (qui,
depositi di sedimentazione marini):
Figura
n. . Fonte: van Andel, 1988, p. 26.
Con
la sovrapposizione, sempre nelle serie sedimentarie indisturbate, si rimanda alla
meccanica di deposizione contigua nello spazio e nel tempo degli strati, grazie
alla quale risulta che gli strati bassi sono i primi ad essersi sedimentati, e
perciò sono i più antichi, e che man mano che questi s’elevano lo strato che
segue è sempre più recente di quella che la precede; la figura seguente
raffigura questo principio (qui, depositi di sedimentazione continentali):
Figura
n. . Fonte: van Andel, 1988, p. 26.
Con
la continuità laterale s’afferma che inizialmente i sedimenti formano degli
strati continui e che le loro facies
cambiano soltanto quando cambia l’ambiente di deposizione; se però, per
esempio, troviamo che uno degli strati, su un lato, termina bruscamente, si
deve ipotizzare che, dopo la sua formazione, si sia verificato un evento
perturbante, quale la dislocazione d’una faglia (v. infra), oppure un’erosione in corrispondenza d’una costa o d’una
valle fluviale, tanto che questo principio permette di ricostituire strati che
in precedenza erano di fatto continui, come mostrano le figure seguenti ch’illustrano
la ricostituzione della continuità in una valle (la seconda è fluviale e
preceduta da copertura vegetale):
Figura
n. . Fonte: van Andel, 1988, p. 26.
Figura
n. . Fonte: van Andel, 1988, p. 28.
Con
il principio d’intersezione s’afferma ch’ogni elemento che taglia, cioè attraversa
trasversalmente, una stratificazione di rocce sedimentarie che presenta
un’inclinazione diversa è fenomeno più recente delle rocce attraversate, più
antiche; la figura seguente mostra questi rapporti di taglio trasversale
ricorrendo a un filone, cioè alla posizione di giacitura della roccia eruttiva,
dunque a un’intrusione magmatica che sfocia in superficie in un vulcano (nella
figura, a), o una faglia (nella figura, d), tanto che il camino (a) è più
giovane del primo strato (in figura, b), e gli strati più antichi (in figura,
e) lo sono rispetto al camino (a), al primo strato (b) e alla faglia (d), ch’è
poi a sua volta più antica della discordanza stratigrafica (la linea ondulata
in grassetto, in figura, c; v. infra):
Figura
n. . Fonte: van Andel, 1988, p. 26.
Sempre
a livello di principi costitutivi si può poi affermare che procedendo lungo una
sequenza di strati orizzontali si possono rilevare dei cambiamenti di facies, come mostra la figura seguente:
Figura
n. . Fonte: van Andel, 1988, p. 28.
Mentre,
se gli strati sono inclinati, procedendo in una direzione ci spostiamo in
avanti nel tempo, mentre procedendo nella direzione opposta ci muoviamo
all’indietro, come mostra la figura seguente:
Figura
n. . Fonte: van Andel, 1988, p. 28.
Ora,
sia la stratificazione di rocce sedimentarie data dalla figura seguente:
Figura
n. . Fonte: van Andel, 1988, p. 23.
La
lettura delle rocce qui rappresentate, tutte sedimentarie, s’inizia dal basso,
dove sono presenti strati di calcare dovuto a deposizione chimica, privi o
quasi di fossili marini e senza detriti d’ambienti di costa e fluviali, ciò che
suggerisce, nell’ordine, la facies marina,
la lontananza dalla terraferma e l’assenza di sbocchi fluviali sulle coste (cioè
un clima asciutto); lo strato successivo contiene fossili marini (ostriche, resti
fossili dei Molluschi bivalvi del genere Ostrea)
e, prima di transitare verso l’altro strato mostra, e più abbondanti, argille e
sabbie (cioè sedimentazioni clastiche, coerenti le prime in quanto costituite
da minuscoli detriti che si sono accumulati per decantazione in acque marine, incoerenti
le seconde perché derivate da processi caotici di degradazione di rocce
preesistenti), ciò che nell’ordine, indica l’innalzamento del fondo del mare
(giacché le ostriche non vivono né in acque profonde né in mare aperto, ma in
ambienti non profondi oltre i 30 m) e la vicinanza a una costa; gli strati
successivi presentano arenarie e argilliti (rocce clastiche litificate, le
prime, costituite da granuli di sabbia a prevalente composizione non
carbonatica, di cui alcune a stratificazioni incrociate, cioè con strati
inclinati rispetto allo strato principale; rocce formatesi dal consolidamento
di depositi marini d’argilla, le seconde), ciò ch’indica una facies costiera con la presenza
occasionale di spiagge sabbiose; quelli successivi presentano argilliti con
strati carboniosi (derivate dal consolidamento di depositi lacustri), indice
d’una pianura costiera paludosa; gli strati successivi di ghiaia e arenaria
presentano una superficie erosa seguita, senza fasi di transizione da
stratificazioni di calcare marino, ciò ch’indica una discordanza stratigrafica (mostrata,
in figura, dalla linea ondulata in grassetto), cioè una discontinuità nella successione
cronologica (detta iato) a causa di un’interruzione nei processi di formazione,
indice dunque d’una sequenza d’eventi non documentabile, anche se il tutto
delle facies sopra elencate, in ogni
caso, è poi leggibile come documentazione di regressioni e trasgressioni
marine. Il problema ora si sposta alla domanda se questa variazione del livello
marino è stata un fenomeno solo locale o se fa parte d’una fenomenologia più
estesa, cioè se le successioni rocciose deposte in uno stesso bacino di sedimentazione
si ritrovano anche in bacini adiacenti o in bacini geograficamente distanti tra
loro, cioè se sono correlate, e un metodo per risolvere in generale il problema
della correlazione è dato, come visto sopra, dalla stratigrafia basata sui
fossili e sulle loro associazioni, o biostratigrafia (basata sul principio
dell’irreversibilità dei processi evolutivi grazie alla quale un’associazione
fossile può essere tipica solo d’un dato periodo e non d’un altro). Per quanto
riguarda la valutazione cronologica del passato geologico prendendo in carico
le rocce fino ad ora escluse, cioè quelle ignee e metamorfiche, valgano poi le
informazioni a seguire.
MISURE
CRONOGEOLOGICHE (riscrittura)
La
Terra è una macchina termica in cui, al calore presente a partire dalla sua
formazione iniziale, si somma quello prodotto dalla radioattività. Come vedremo
meglio a seguire, il nucleo d’un atomo è costituito da protoni e neutroni, e il
numero dei protoni determina il suo comportamento chimico, che rimane identico
anche se, negli isotopi, il numero dei neutroni aumenta; per esempio l’ossigeno
ha 8 protoni, ma può presentare 8, 9 o 10 neutroni, dando origine a tre isotopi
(v. infra), con 8 protoni e otto
neutroni, o 16O, con 8
protoni e nove neutroni, o 17O e, infine, con 8 protoni e 10 neuroni,
o 18O; ora, molti isotopi sono stabili, ma altri no, per cui può
capitare che alcuni siano instabili, ossia decadano in altri elementi, per
esempio il carbonio ha tre isotopi, due stabili, 12C e 13C,
e uno instabile, il 14C, che decade in azoto etc.; gli isotopi che decadono emettono poi delle radiazioni dal
nucleo, i raggi α, β (β-, β+), γ, e sono
per questo detti radioattivi, e poiché ogni elemento che si presenta ha degli
isotopi, affinché un isotopo presenti un nucleo instabile il suo peso atomico (v.
infra) deve essere superiore ad 83. La
figura seguente mostra le tre radiazioni; l’isotopo che decade è poi detto
madre e quello che ne risulta è detto figlia (qui non s’analizzano le
differenze tra le radiazioni):
Figura
n. . Fonte (adattata): van Andel, 1988,
p. 41.
Come
dire che i minerali presenti in certe rocce della litosfera convertono la loro
massa in energia in modo estremamente efficace,
e una percentuale del calore della Terra in quanto macchina termica, per
esempio, può essere attribuito proprio al decadimento spontaneo dei minerali
presenti in queste rocce, cioè al rilascio d’energia termica (con l’emissione
di radiazioni) dovuto al citato fatto che una parte della massa, quella dell’isotopo
che decade, si trasforma in energia; ancora, gli elementi radioattivi quando decadono,
sempre spontaneamente, subiscono una modificazione nella struttura dei loro
nuclei atomici instabili (ch’è data dalla somma di protoni e di neutroni che
s’altera), come detto un decadimento radioattivo che permette loro di
trasformarsi in un nucleo diverso, proprio a un altro elemento o a un isotopo
dello stesso elemento; alcuni decadono poi in un solo passaggio (per esempio, 14C),
altri, invece, decadono attraversano una serie di passaggi, o catena, e il
processo di decadimento continua finché il nucleo alla fine non diventa stabile;
perché il processo sia poi classificato come spontaneo questo decadimento si
deve verificare in un tempo che non può superare i 1010 anni,
altrimenti il nucleo atomico è ritenuto stabile o il decadimento indotto; il
materiale radioattivo inoltre, e quale che sia, per decadere della metà impiega
sempre lo stesso tempo (o tempo di dimezzamento o emivita, t1/2), e
questo suo valore, ch’indica il numero degli atomi instabili che decade in un
cert’arco di tempo, rimanda a un dato statistico, medio, ossia alla metà della
sua vita media, con la clausola che, dopo la prima emivita, la seconda è metà
della metà della quantità iniziale, cioè un quarto, e via via scalando, come
dire che la velocità di decadimento può essere usata come un indicatore
temporale (infatti, poiché la quantità d’un elemento radioattivo che si trova
in un minerale decade con un tasso costante, è poi possibile ricostruire la
durata del tempo intercorso a partire dalla formazione del minerale stesso
misurando la quantità dell’isotopo prodotto dal decadimento stesso), come dire,
ancora, che conoscendo la quantità di radioattività presente in un materiale e
la sua emivita, se ne può calcolare l’età indipendentemente dai fattori propri
all’habitat che lo ospita (quali le
condizioni di pressione, temperatura, magnetismo o d’ambiente chimico, cioè le facies di cui sopra). L’emivita può poi
presentarsi con valori che vanno dall’ordine del microsecondo a quello
paragonabile all’età della Terra, per cui per il tramite dello studio delle
rocce, della loro struttura e composizione, è possibile definire i tempi
dell’evoluzione della Terra e mettere tra loro in correlazione configurazioni
geologiche di rocce ignee, metamorfiche e sedimentarie avvenute in zone fra
loro anche molto lontane dal punto di vista geografico. Per esempio, presenti
in molti minerali della litosfera si trovano isotopi radioattivi come quelli
dell’uranio 238 (238U), che hanno un’emivita dell’ordine di 4,510
miliardi d’anni (t1/2=4,510x109), e sono utilizzati per
le datazioni geologiche di materiale inorganico (ossia, rocce), mentre sono
utilizzati per la datazione di materiali organici, quali conchiglie, ossa,
legni fossili, semi o manufatti con età compresa tra 1 000 e 70 000 anni etc., e risalenti a non più di 50-70
mila anni fa, gli isotopi radioattivi del carbonio 14 (14C), che
presentano un’emivita di 5730 ±40 anni in
quanto, dopo 8 emivite, rimane solo lo 0,39% del carbonio radioattivo
originale, cioè una quantità irrisoria per consentire misurazioni attendibili.
Da sottolineare che questo livello di 14C presente in un organismo
vivente, flora o fauna che sia, s’è formato e si forma nell’alta atmosfera dove
i raggi cosmici, composti per la maggior parte di nuclei d’atomi d’idrogeno,
producono, grazie alla collisione/trasformazione continua dell’azoto colpito
dai raggi, il carbonio 14, 14C; questo, in combinazione con
l’ossigeno, dà luogo a diossido di carbonio radioattivo, 14CO2
(presente in modo costante nell’atmosfera grazie all’equilibrio di 14C
che decade e 14C che, come detto, si forma in continuazione), ch’è
stata assimilata dagli organismi viventi, autotrofi e eterotrofi (v. infra) grazie ai cicli della loro
attività metabolica, vuoi d’origine fotosintetica (infatti, la fotosintesi
clorofilliana, v. infra, utilizza il diossido
di carbonio atmosferico per costruire le sostanze organiche, le quali contengono
14C non radioattivo nella stessa proporzione con cui lo contiene il 14CO2
utilizzato), vuoi attraverso la catena alimentare (per esempio, la stessa
proporzione citata di 14C, presente nel 14CO2
utilizzato dalle piante sulla terraferma, è presente negli erbivori che si
nutrono delle piante e nei carnivori che si cibano di erbivori, lo stesso vale
negli oceani etc.); vale a dire che
il livello di 14C è uguale a quello presente nell’ambiente, o
serbatoio di scambio, in cui l’organismo (flora, fauna) ha vissuto; dopo la sua
morte, mentre il carbonio 12, 12C, in quanto stabile rimane
costante, il carbonio 14, 14C, comincia a decadere con un tasso pari
a quello sopra citato trasformandosi in azoto e senza che il carbonio
dell’ecosistema in cui l’organismo ha vissuto possa essere reintegrato nel
processo della sua evoluzione necrotica, tanto che la sua radioattività rivela
qual è il tempo trascorso dalla sua morte (questo in linea di massima, cioè
salvo contaminazioni dei campioni usati). Con questo metodo si scoprono così in
modo assoluto (cioè con una datazione fondata su procedure fisico-chimiche) le
varie età della Terra sopra delineate (le rocce) e gli accidenti ch’essa ha
ovviamente presentato (le biocenosi e le tanatocenosi). E, per continuare e
precisare l’esempio sopra iniziato, valgano per la datazione delle rocce il decadimento
del samario 147, 147 Sm, in neodimio 143, 143Nd, con
un’emivita di 106 000 milioni d’anni; quello del rubidio 87, 87Rb,
in stronzio 87, 87Sr, con un’emivita di 47 000 milioni d’anni (usato
per la datazione dei graniti); quello del torio 232, 232Th, in piombo
208, 208Pb, con un’emivita di 13 900 milioni d’anni; dell’uranio 238,
238U, in piombo 206, 206Pb, con un’emivita di 4 510 milioni
d’anni (molto utilizzato); del potassio 40, 40K, in argon, 40Ar,
che ha un’emivita di 1 300 milioni d’anni (usato per la datazione dei basalti, questo
fatto salvo che la roccia che lo contiene non sia stata esposta a temperature superiori
a 125 °C, perché in questo caso la fuga d’argon lascia determinare soltanto
l’ultimo episodio di riscaldamento ch’essa ha subito); dell’uranio 235, 235U,
in piombo 207, 207Pb, con un’emivita di 713 milioni d’anni o dell’uranio
238, 238U, nel torio 230, 230Th, con un’emivita di 80 000
anni, usato per datare i sedimenti marini, questo perché il 238U presente
nei mari decade in 230Th e
precipita nei sedimenti dei fondali permettendo, con la sua concentrazione, di ricostruirne
l’età, e altri decadimenti ancora. Questi valori ci danno poi la datazione
assoluta (differenti dai valori delle datazioni relative che si basano sul solo
studio degli strati delle rocce sedimentarie, organogene o meno, e sul reperimento
negli strati di fossili guida, nel qual caso questi valori non sono numerici in
quanto permettono soltanto d’affermare la consequenzialità cronologica degli
strati, e sempre che non siano intervenuti fenomeni tettonici di disturbo della
sequenza stratigrafica, cioè che uno strato, o un fossile guida ch’è qui
contenuto, sia o più antico o più recente nei confronti d’un altro che lo
precede o lo segue), datazione che oggi si classifica come datazione
radiometrica, e l’attendibilità di questi valori e legata a un margine d’oscillazione
(range) in anni dovuto al fatto che
la misura è statistica, detto margine d’errore, che presenta valori in più o in
meno rispetto al valore dato
),
e lo standard d’accettabilità di
questo errore dipende dall’età del reperto, per esempio, nel caso di rocce del
Cenozoico il margine è
100 000 anni, mentre è già d’alcuni milioni d’anni
nel Mesozoico e via via che ci s’allontana per arrivare al Precambriano il
margine d’errore si dilata ulteriormente, anche se s’accetta che alcune rocce reperite
in Groenlandia risalgano a 3 700 milioni di anni fa, mentre per altre rocce,
presenti nella parte Nordorientale della baia di Hudson, in Canada, manca l’accordo
sull’età, che varia così da 3 800 a 4 400 milioni d’anni fa. Si sottolinea a
questo punto che se è relativamente facile situare le rocce sedimentarie al
loro posto nella geocronologia utilizzandone le formazioni e le biozone, s’incontrano
invece notevoli difficoltà con le rocce ignee e metamorfiche che non possono
contenere fossili, e che pertanto la datazione con isotopi, pur nei suoi
limiti, è quasi esclusivamente l’unica possibile per dare loro un’età e collocarle
all’interno della storia della Terra. Oltre al reperimento degli isotopi
instabili per datare le rocce, si usa quello degli isotopi non instabili dell’Ossigeno
(18O:16O) per reperire la storia degli oceani e dell’atmosfera;
per esempio, le variazioni delle temperature dell’aria e della superficie degli
oceani, l’estensione nello spazio e nel tempo delle ere glaciali, i vari
livelli in percentuale dell’ossigeno presente nell’atmosfera e nei mari, sono
possibili grazie agli isotopi stabili dell’ossigeno 16, 16O, e
dell’ossigeno 18, 18O (ossia al rapporto ch’esiste tra un isotopo
stabile dell’ossigeno, 18O, e l’ossigeno ordinario, 16O,
ch’è all’incirca di 1 a 500), che s’accumulano a differenti velocità secondo di
quanto ossigeno o diossido di carbonio sono presenti nell’atmosfera o nei mari
e che, messi a confronto nei loro diversi tassi di deposito nelle rocce
calcaree prodotte dalla sedimentazione dei gusci degli organismi presenti sul
fondo degli oceani, o planctonici, permettono ai geochimici di decifrare i
citati accidenti del passato e molto altro ancora (gusci, questi, costruiti
dagli organismi con il carbonato di calcio, CaCO3, ottenuto combinando
l’ossigeno estratto dall’atmosfera con il carbonio). Il rapporto isotopico 18O:16O
s’usa, infatti, perché quando l’acqua evapora dagli oceani, evapora più
facilmente l’isotopo meno pesante, 16O, rispetto a quella
dell’isotopo più pesante, 18O, e l’acqua che resta negli oceani
contiene pertanto, secondo le variazioni apportate o meno dal ciclo idrologico,
più o meno 18O secondo la temperatura presente, ed è possibile così
misurare la concentrazione di quest’isotopo del passato (v., infra, δ18O) perché lo si
ritrova incorporato nei carbonati dei gusci dei Foraminìferi (v. infra)
i cui resti, vissuti in acque calde o fredde, si sono sedimentati, con
il tempo, in rocce; rocce calcaree di cui si può calcolare poi l’età
utilizzando, ma solo per un dato periodo, il citato metodo delle decadenza
radioattiva di 14C. Oltre a questi, esiste un altro metodo di
reperimento di valori assoluti, la magnetostratigrafia, metodo basato
sull’analisi dei minerali ferromagnetici (cioè capaci di magnetizzazioni) presenti
non solo nelle rocce sedimentarie, ma anche in quelle ignee (v. infra), e qui l’analisi, utile per
dedurre i movimenti tettonici della Terra, investe lo studio della successione
delle inversioni di polarità, cioè d’orientamento delle linee di forza del
campo magnetico terrestre, o campo geomagnetico, che le rocce stesse manifestano
come magnetismo residuo e ch’esse conservano nella direzione d’allineamento al
campo geomagnetico (v. infra);
direzione che si mostra o nella deposizione e compattazione (litificazione)
delle rocce sedimentarie (detta magnetizzazione residua detritica) o nel
raffreddamento e solidificazione al di sotto d’una data temperatura delle rocce
ignee (detta magnetizzazione termoresidua; si ricorda che oltre una certa
soglia di calore un materiale magnetico perde questa sua proprietà, detta punto
di Curie, ch’è, per esempio, di 578 °C per la magnetite), questo grosso modo a
partire dal Triassico e dal Giurassico (cioè a partire da 245 milioni d’anni
fa, quando la Pangea si frammenta e, in Gondwana, l’America meridionale inizia
a separarsi dall’Africa e inizia la formazione dell’Oceano Atlantico, v. infra), cui consegue un loro riordino
cronologico in epoche ed eventi magnetici. Infatti, i minerali ferromagnetici
(per esempio, la magnetite, Fe3O4), presentano una
magnetizzazione acquisita ch’è proporzionale all’aumento d’intensità del campo geomagnetico
tanto che, quando raggiunge un valore massimo, o di saturazione, ne conserva la
memoria stabile anche se si rimuove il campo magnetico che l’ha prodotta (e
quest’ereditarietà si definisce, se investe le rocce a partire dal Triassico,
direzione fossile di magnetizzazione); campo magnetico terrestre che poi ha subito
(e subisce tuttora) variazioni che riguardano il senso della direzione delle
linee di forza del campo magnetico, e per convenzione la polarità di questo
campo si dice normale quando presenta inclinazione positiva nell’Emisfero
boreale (definendo positiva la direzione di magnetizzazione verso il basso,
cioè verso il Polo Nord magnetico attuale) e inversa quando nello stesso
Emisfero l’inclinazione si presenta negativa (dove negativa è detta la
direzione di magnetizzazione inclinata verso l’alto e verso il Polo Sud
magnetico attuale, tenendo poi presente che questi Poli non coincidono con
quelli geografici, ma sono loro prossimi) e la scala cronologica di queste
inversioni del campo magnetico che suddividono il tempo geologico in intervalli
costanti di tempo con polarità magnetica normale o inversa ci dà, appunto, la sequenza
ordinata delle unità di polarità magnetostratigrafica (o magnetozone). La
figura seguente mostra a destra la sequenza delle inversioni di polarità dal
Triassico al Cretacico (245-66,5 milioni d’anni fa) e quella a sinistra la
sequenza dal Pliocene al Pleistocene (5,2-00,1 milioni d’anni fa; il nome qui
attribuito alla epoche magnetiche, Gilbert, Gauss, Matuyama e Brunhes, deriva
dai nomi dei primi studiosi del paleomagnetismo; all’interno di ciascuna di
queste epoche sono poi stati rilevati dei periodi di magnetizzazione opposta a
quella dell’epoca di appartenenza, con una durata che va dai 10 000 ai 100 000
anni, detti eventi, in figura non nominati, per esempio, il già citato Olduvai, un evento magnetico normale
all’interno dell’epoca magnetica inversa di Matuyama
e, sempre in Matuyama, un evento magnetico normale collocabile
tra i 940 000 e gli 880 000 anni fa, detto Jaramillo;
Olduvai e Jaramillo sono poi nomi di località nella Great Rift Valley, in Africa orientale, sede di fenomeni di
ritrovamenti fossiliferi della linea che porta a Homo sapiens, v. infra; la
sigla Ma sta poi per milioni d’anni):
Figura
n. . Fonte: Polticelli, 2003, p. 33.
Va
da sé che i metodi di datazione sopra indicati sono solo una parte d’una più vasta
modalità d’indagine cronologica, qui non illustrata, che va dalla datazione del
materiale interstellare a quella dei manufatti preistorici (tra cui si trovano la
spettrometria di massa ultrasensibile, la racemizzazione degli aminoacidi, la
termoluminescenza, la metodologia dell’Electron
Spin Resonance, ESR etc.).