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LA CATENA ALIMENTARE


Sopra s’è accennato alla latitudine e su come essa influenza il clima, ma è da ricordare che la latitudine e il clima non sono solo una possibilità di localizzazione geografico-climatica, ma anche qualcosa d’altro. Prendiamo, quale esempio, due aree agricole localizzate una nella fascia tropicale (latitudini ±23°27’, cioè tra il Tropico del Cancro e il Tropico del Capricorno, ed escludendo i climi aridi a cavallo dei Tropici), l’altra nella fascia temperata dell’Emisfero boreale (latitudini comprese tra 23°27’ e 66°33’, tra il Tropico del Cancro e il Circolo Polare Artico, ed escludendo i climi subtropicali caldi e quelli subartici); ora, nella fascia temperata, le temperature medie annue sono moderate, la stagione invernale è ben definita, le piogge sono ben distribuite nell’anno e in quantità variabile (con prevalenza nelle stagioni fredde) e, salendo verso le più alte latitudini, la crescita dei prodotti agricoli dura dai 6 mesi a qualche settimana, e il rendimento seme/prodotto è alto perché i suoli sono profondi e fertili, e questo fenomeno è dovuto in gran parte ai fenomeni ripetuti nel tempo, di cui parleremo a seguire, di glaciazioni e deglaciazioni che hanno spostato in avanti e poi fatto arretrare i ghiacciai che, frantumando ripetutamente le rocce hanno lasciato depositi detritici, cioè creato e stratificato suoli profondi (o suoli morenici), cui s’aggiunga il fatto che le sostanze organiche che si depositano sui suoli richiedono tempi lunghi di decomposizione, per cui, non essendo trasportati rapidamente dalle piogge, rilasciano nutrienti in profondità che rendono fertili i suoli, cui ancora si somma un basso tasso di riproduzione degli organismi patogeni (insetti, muffe etc.) che non infestano e danneggiano i raccolti; al contrario, nella fascia tropicale l’insolazione è abbondante, la temperatura è calda (con una media di circa 20 °C) e la stagione invernale è inesistente, il regime pluviale è copioso e la possibilità di crescita dei prodotti agricoli dura tutto l’anno, solo che il rendimento seme/prodotto è basso perché i suoli sono poco profondi e poco fertili giacché i materiali organici che si depositano ai suoli si decompongono rapidamente a causa d’un costante clima torrido e non permangono nei suoli perché l’abbondante piovosità li dilava e li rende legati e soggetti all’accelerazione del ciclo idrologico, cui si somma un alto tasso di riproduzione degli organismi patogeni che, a differenza delle regioni temperate, non sono bloccati a livello riproduttivo dagli inverni (per cui il loro ciclo deve ripartire ogni volta da capo) e pertanto infestano e danneggiano gravemente i raccolti, e senza dimenticare che questi organismi patogeni sono numerosi anche per la maggiore biodiversità permessa dal clima e dalla copertura vegetale, ciò ch’induce, grazie allo sviluppo e alla riproduzione continua degli agenti trasmettitori del contagio, anche un’elevata mortalità e morbilità tra gli uomini. Come dire che la latitudine è anche un primo indicatore, a livello di società umane, dello stato di salute delle collettività, questo perché è un dato di fatto incontrovertibile che la posizione geografica d’una formazione economico-sociale influisce in modo primario (oltre, va da sé, ad altri fattori presentati nel prosieguo dell’indagine) sulle modalità d’accesso da parte della popolazione alla catena alimentare; quest’argomento sarà in seguito ripreso e convenientemente sviluppato, per cui valga, per il momento, la schematicità di quanto precede.
LOCALIZZAZIONI GEOGRAFICHE

Come vedremo, la posizione della Terra nello spazio è il risultato d’una composizione di moti che presentano caratteristiche e periodicità fra loro differenti, tra questi qui c’interessa il moto di rotazione della Terra intorno al proprio asse, asse ch’interseca la superficie terrestre in due punti, detti per convenzione Polo Nord e Polo Sud. Ora, supposta la Terra come una sfera, la linea immaginaria che traccia una circonferenza sulla superficie della Terra equidistante dai citati Poli e produce un piano perpendicolare all’asse di rotazione, la si definisce Equatore, e grazie ad essa vediamo che il piano equatoriale divide la Terra in due Emisferi, uno che fa capo al Polo Nord e l’altro al Polo Sud, l’uno detto Emisfero settentrionale, o Boreale, l’altro detto Emisfero meridionale, o Australe (e dove Borea e Austro, che stanno alla base delle denominazione degli Emisferi, sono l’uno il vento che spira dal Nord e l’altro quello che spira dal Sud). Dato il piano dell’Equatore, i paralleli sono le circonferenze ideali reperite su piani ch’intersecano la Terra, di raggio via via minore, piani che sono poi paralleli al piano dell’Equatore e come questo perpendicolari all’asse di rotazione della Terra, come mostra la figura seguente (dove N e S identificano il Nord e il Sud):


Figura n.   . Fonte: Lupia Palmieri, Parotto, 2009, p. 74.

Di questi paralleli, dall’Equatore ad un Polo, ne sono reperibili 90 misurati in gradi sessagesimali (questi gradi, indicati con il simbolo °, sono dati a partire da un angolo di 1°, pari alla novantesima parte di un angolo retto; ogni grado è diviso in 60 primi sessagesimali, con simbolo ‘, ciascuno dei quali è a sua volta diviso in 60 secondi sessagesimali, con simbolo ‘‘; volendo, un grado sessagesimale è l’ampiezza dell’angolo che sottende un arco di lunghezza pari a 1/360 dell’angolo giro di 360° d’una circonferenza), di modo che l’Equatore sia a 0° e il Polo sia a 90° e si definisce latitudine il reperimento di un punto su un parallelo (e va da sé che tutti i punti reperiti su uno stesso parallelo presentano la stessa latitudine); i 90 paralleli dell’Emisfero boreale sono poi, per convenzione, positivi (da 0° a 90°, latitudine Nord), mentre quelli dell’Emisfero australe sono negativi (da 0° a -90°, latitudine Sud); per esempio, i Tropici sono situati a 23°27’ di latitudine Nord (Tropico del Cancro) e di latitudine Sud (Tropico del Capricorno, o -23°27’); il Circolo Polare artico ha latitudine Nord di 66°33’ e quello antartico ha latitudine Sud di 66°33’ (o -66°33’). Il meridiano e l’antimeridiano sono invece dati una linea immaginaria che traccia una circonferenza su di un piano ch’attraversa la Terra e che passa per il Polo Nord e il Polo Sud ed è perciò perpendicolare al piano dell’Equatore e ai suoi paralleli; data questa circonferenza, il meridiano ne identifica la prima metà, cioè la semicirconferenza, che ha inizio e fine tra i due Poli, mentre l’antimeridiano è l’altra metà della semicirconferenza che ha inizio e fine sempre tra i due Poli, ma dalla parte opposta del globo terrestre, come mostra la figura seguente (dove il meridiano B passa per Monte Mario, a Roma, adottato nell’Ottocento dalla cartografia del Regno d’Italia, cioè prima della scelta del meridiano 0° odierno, oggi situato rispetto a questo a una longitudine Est di 12°27’08’’):


Figura n.   . Fonte: Lupia Palmieri, Parotto, 2009, p. 74.

Poiché un meridiano/antimeridiano ha una circonferenza con un raggio uguale a quello di tutti gli altri (a differenza dei paralleli dove il raggio diminuisce andando verso i Poli), e le semicirconferenze sono nel numero di 180 (così come i gradi vanno da 0 a 180) andando verso Est, e 180 andando verso Ovest, e oggi si sceglie come grado zero, 0°, per convenzione, il meridiano di Greenwich, e a partire da questo meridiano si annotano i gradi, da  0° a 180° verso Est (segnati come positivi) e da 0° a 180° verso Ovest (segnati come negativi), fatto salvo che i 180° Est coincidono con i 180° Ovest (semicirconferenze che coincidono, a loro volta, con l’antimeridiano di Greenwich, nell’Oceano Pacifico, che segna la linea del cambiamento di data); un punto collocato su un meridiano/antimeridiano ha poi una sua longitudine (e va da sé, ancora, che tutti i punti reperiti su uno stesso meridiano/antimeridiano presentano la stessa longitudine); per esempio, l’Emisfero occidentale, che comprende le Americhe, è compreso tra il 20° meridiano Ovest e il 160° meridiano Est, e l’Emisfero orientale, che comprende l’Eurasia, l’Africa e l’Australia, è compreso tra il 160° meridiano Est e il 20° meridiano Ovest; detto questo, un punto s’identifica geograficamente sul reticolo disegnato da paralleli e longitudini in gradi sessagesimali (o reticolo, o reticolato, geografico), cui, se è il caso, s’aggiungono le frazione di grado, che si reperiscono all’incrocio tra un parallelo (da identificare in gradi Nord o in gradi Sud) e un meridiano (da identificare in gradi Est, o gradi Ovest), oppure con il meno, -, per la latitudine Sud e la longitudine Ovest. Data la figura seguente:


Figura n.   . Fonte: Lupia Palmieri, Parotto, 2009, p. 75.

e detto come si deve, la latitudine è la distanza angolare φ tra un punto, P, e un punto dell’Equatore misurata lungo il meridiano che passa per quel punto P (in figura, il meridiano di P) e corrisponde all’arco di meridiano dato dall’angolo compreso tra P e un punto dell’Equatore, angolo φ che parte dal centro della Terra; la longitudine è la distanza angolare λ di un punto dal meridiano di Greenwich (in figura, meridiano di riferimento), misurata sull’arco di parallelo che passa per il punto P e corrisponde all’angolo compreso tra il meridiano del punto P e il meridiano di Greenwich. Un’altra coordinata geografica, oltre alla latitudine e alla longitudine, è data dall’altitudine, cioè dall’altezza (la distanza misurata lungo la verticale) di un punto rispetto allo zero altimetrico, normalmente il mare al suo livello medio (misurata in metri sul livello del mare, in sigla m s.l.m.), detta altezza assoluta. Oltre al reticolo geografico e all’altitudine, utile può essere il ricorso all’altitudine per la rappresentazione d’un rilievo sulla superficie della Terra, questo attraverso le isòipse, o curve di livello, che rappresentano l’andamento altimetrico del terreno rispetto al livello medio del mare, questo unendo in una linea curva ideale tutti i punti del terreno che hanno la stessa altezza rispetto allo zero altimetrico, e proiettando la curva di livello così ottenuta sul piano di rappresentazione che riporta poi l’altimetria (o quota) reperita, come mostra la figura seguente, là dove ci s’immagina d’intersecare il rilievo con tanti piani, orizzontali e equidistanti (in figura, l’equidistanza è di 100 metri), e proiettando poi tutti i punti d’intersezione con uguale altura, ottenuti sul rilievo dai vari piani intersecanti, su un piano che li rappresenta tutti:


Figura n.   . Fonte: Lupia Palmieri, Parotto, 2009, p. 157.


Questo procedimento si può utilizzare anche per rappresentare i rilievi delle profondità marine o d’acqua dolce, nel qual caso la curva di livello è costruita per punti di uguale profondità rispetto alla superficie dell’acqua e, in questo caso, si parla di isòbate (mentre il termine isoipsa è composto di iso-, uguale, e del greco ὕψος, altezza, il termine isobata, al posto di hýpsos, riporta il greco βάϑος, che sta per profondità). E parlando di profondità, ossia della distanza, misurata sempre lungo la verticale, tra il fondo di una cavità naturale e la sua estremità superiore, per esempio, tra i fondali d’un bacino oceanico e il livello del mare stesso, la disciplina che s’occupa della rappresentazione cartografica delle profondità e della morfologia dei fondali si chiama poi batometrìa (o batimetria, una branca dell’oceanografìa). 
IL DISPOSITIVO CLIMATICO

Semplificando quanto si dirà in modo dettagliato a seguire (v., infra, la meteorologia), alle alte latitudini i raggi del Sole colpiscono la Terra con bassa inclinazione e ne riscaldano la superficie in modo inferiore che non alle basse latitudini, per esempio nelle zone attorno all’Equatore; ed è all’Equatore che si pensa quando si parla di circolazione planetaria dell’atmosfera, là dove si fa incominciare il tutto con la presenza d’un’aria calda che, in quanto più leggera, sale verso l’alto e inizia a fluire, a tappe, verso le alte latitudini, cioè verso i Poli, e contemporaneamente redistribuisce il calore del Sole accumulato all’Equatore su tutta la superficie della Terra (nella misura di ca. l’80%, essendo la restante parte redistribuita dalle correnti oceaniche); quest’aria calda ascendendo ad alta quota e distribuendo calore gradualmente si raffredda e perde la capacità di trattenere il vapor d’acqua, tanto che si sviluppa una cintura equatoriale delle piogge; quando quest’aria giunge all’altezza delle latitudini subtropicali (25-35°) una parte ridiscende e spostandosi lungo la superficie (venti Alisei) ritorna all’Equatore e nel mentre discende dà origine, in quanto si comprime, a una zona d’alta pressione subtropicale (e in pari tempo, la compressione impedisce la cessione di vapor d’acqua, per cui l’aria è secca); il resto dell’aria d’alta quota non ridiscesa, giunge a latitudini medie (35-60°) presso un sistema di basse pressioni e di piogge, e prosegue poi verso i Poli continuando il suo raffreddamento là dove, giunta nelle regioni polari, ritorna come aria fredda di superficie (venti Polari) verso le regioni equatoriali, là dove ricominciano le già citate tappe. La figura seguente mostra quanto s’è cercato di descrivere:


Figura n.  . Fonte: van Andel, 1988, p. 59.


Questo quadro è poi complicato dai fenomeni di stagionalità che rendono disuniforme il riscaldamento nelle regioni a clima temperato e polare, dalla forza di Coriolis (v. infra) che influisce sulla direzione d’ogni corrente (sia atmosferica che oceanica), dalla presenza dei continenti e dei bacini oceanici che modificano ulteriormente il flusso delle correnti atmosferiche, dall’estensione o meno dei ghiacciai e delle superfici innevate (effetto albedo, v. infra), dall’evaporazione degli oceani caldi che determinano una copertura di nubi fitta ed estesa (che, con la loro azione di filtro delle radiazioni solari, hanno un effetto di retroazione negativa, cioè di raffreddamento dell’acqua, ciò che riduce la coltre di nubi sino alla ripresa del ciclo), insomma s’alterano le modalità di trasferimento del calore e tutta la complessa casistica che rende il tempo meteorologico estremamente variabile. Ora, dire clima e dire tempo meteorologico è dire due cose diverse, giacché il clima si distingue dal tempo meteorologico in quanto quest’ultimo è, come sopra s’è cercato d’esemplificare, solo un’episodica congiuntura di condizioni d’irraggiamento solare, di temperatura, di precipitazioni, di pressione, d’umidità etc., e rappresenta un’instabilità ch’è sempre a breve termine; mentre il clima, al contrario, elimina con le sue medie queste instabilità episodiche e rimanda a delle serie periodiche che possono essere più o meno cicliche (per esempio, una stagione umida per precipitazioni eccessive non è significativa in quanto episodica, ma una serie prolungata di stagioni umide possono segnalare un cambiamento di clima), giacché con clima s’intende il complesso delle condizioni meteorologiche, che caratterizzano un’area più o meno estesa e relativamente a lunghi periodi di tempo. Il clima, infatti, è la descrizione statistica, in termini di valori medi validi per ampi areali, della variabilità dei tratti distintivi atmosferici (i regimi dei venti, la pressione atmosferica, gli schemi d’irraggiamento solare, l’umidità o meno dell’aria, i gradienti delle precipitazioni etc.) in un periodo di tempo che può andare da una scala umana, cioè di pochi decenni, a quella delle ere geologiche di milioni d’anni e più, come dire che queste serie statistiche sono poi delimitate da fattori quali la latitudine, l’altitudine, la distanza dal mare, l’orientamento delle masse continentali e dei sistemi orogenetici, l’andamento delle correnti oceaniche, la variabilità della morfologia areale, il periodo cronologico preso in esame (in quanto il clima, in una stessa area, può essere soggetto a variazioni dovute, per esempio, alla deriva continentale, ai movimenti tettonici, all’apertura/chiusura di bacini oceanici, alla variazione dell’inclinazione dei raggi solari etc.), ossia da un insieme di fattori tutti tra loro determinati e che determinano, a loro volta, il regime ecologico, cioè floristico e faunistico, degli areali presi in considerazione, e con questi le modalità d’esistenza della catena alimentare e, se in periodo protostorico o storico, la tipologia dell’azione antropica possibile etc.; come dire, ancora, che il clima, nel suo complesso, è un dispositivo ch’assembla in modo statisticamente variabile la terraferma, gli oceani, l’atmosfera, gli organismi e li coordina come insieme strutturato con l’irradiazione del Sole, cioè con l’irradiazione che riscalda il terreno, l’acqua e l’aria e fa vivere gli organismi producendo così effetti di retroazione a catena riconducibili, alla fin fine, a dei modelli seriali macroclimatici. Ed è a questo dispositivo, sia pure opportunamente articolato, che ci si riferirà nel prosieguo della descrizione.
LA LETTURA DELLE ROCCE

La lettura delle rocce, meglio, delle formazioni sedimentarie si basa sulle facies (faccia; il plurale latino è invariato) ch’esse presentano, cioè sull’insieme di quei caratteri tipici (struttura, minerali contenuti, presenza e natura di fossili etc.) che rimandano alla loro modalità di formazione in un dato ambiente di sedimentazione, per esempio, una formazione con facies palustre si riconosce per la presenza di resti carboniosi (vegetali), mentre una facies marina è indicata dalla presenza di resti organogeni, quali fossili o microfossili, che possono indicarne la profondità, per cui avremo una facies profonda e di mare aperto (o batiale o pelagica), oppure una poco profonda e vicina alla costa (o neritica) etc., o che un’arenaria può avere una facies fluviale o costiera e via classificando. Fatto dunque salvo il fatto che una formazione è un’unità stratigrafica definita dal complesso di rocce caratterizzate da un’uniformità litologica, e per questo distinta dalle unità tra cui risulta compresa, per le formazioni sedimentarie (e salvo le eccezioni) valgono i principi esplicativi d’orizzontalità iniziale, di sovrapposizione, di continuità laterale e d’intersezione. Con l’orizzontalità iniziale ci si riferisce a sedimenti indisturbati, che non hanno cioè subito dislocazioni o alterazioni dovute a movimenti tettonici, che grazie alla forza di gravitazione si sono depositati su superfici grosso modo orizzontali, o tutt’al più con un’inclinazione molto bassa, là dove la loro trasformazione in rocce (il processo di litificazione) non ha comportato modificazioni della formazione originaria e dove pertanto l’ordine delle successioni si mantiene nel corso del tempo; la figura seguente raffigura questo principio (qui, depositi di sedimentazione marini):

Figura n.  . Fonte: van Andel, 1988, p. 26.

Con la sovrapposizione, sempre nelle serie sedimentarie indisturbate, si rimanda alla meccanica di deposizione contigua nello spazio e nel tempo degli strati, grazie alla quale risulta che gli strati bassi sono i primi ad essersi sedimentati, e perciò sono i più antichi, e che man mano che questi s’elevano lo strato che segue è sempre più recente di quella che la precede; la figura seguente raffigura questo principio (qui, depositi di sedimentazione continentali):

Figura n.  . Fonte: van Andel, 1988, p. 26.

Con la continuità laterale s’afferma che inizialmente i sedimenti formano degli strati continui e che le loro facies cambiano soltanto quando cambia l’ambiente di deposizione; se però, per esempio, troviamo che uno degli strati, su un lato, termina bruscamente, si deve ipotizzare che, dopo la sua formazione, si sia verificato un evento perturbante, quale la dislocazione d’una faglia (v. infra), oppure un’erosione in corrispondenza d’una costa o d’una valle fluviale, tanto che questo principio permette di ricostituire strati che in precedenza erano di fatto continui, come mostrano le figure seguenti ch’illustrano la ricostituzione della continuità in una valle (la seconda è fluviale e preceduta da copertura vegetale):

Figura n.  . Fonte: van Andel, 1988, p. 26.


Figura n.  . Fonte: van Andel, 1988, p. 28.

Con il principio d’intersezione s’afferma ch’ogni elemento che taglia, cioè attraversa trasversalmente, una stratificazione di rocce sedimentarie che presenta un’inclinazione diversa è fenomeno più recente delle rocce attraversate, più antiche; la figura seguente mostra questi rapporti di taglio trasversale ricorrendo a un filone, cioè alla posizione di giacitura della roccia eruttiva, dunque a un’intrusione magmatica che sfocia in superficie in un vulcano (nella figura, a), o una faglia (nella figura, d), tanto che il camino (a) è più giovane del primo strato (in figura, b), e gli strati più antichi (in figura, e) lo sono rispetto al camino (a), al primo strato (b) e alla faglia (d), ch’è poi a sua volta più antica della discordanza stratigrafica (la linea ondulata in grassetto, in figura, c; v. infra):


Figura n.  . Fonte: van Andel, 1988, p. 26.

Sempre a livello di principi costitutivi si può poi affermare che procedendo lungo una sequenza di strati orizzontali si possono rilevare dei cambiamenti di facies, come mostra la figura seguente:


Figura n.  . Fonte: van Andel, 1988, p. 28.

Mentre, se gli strati sono inclinati, procedendo in una direzione ci spostiamo in avanti nel tempo, mentre procedendo nella direzione opposta ci muoviamo all’indietro, come mostra la figura seguente:


Figura n.  . Fonte: van Andel, 1988, p. 28.

Ora, sia la stratificazione di rocce sedimentarie data dalla figura seguente:


Figura n.  . Fonte: van Andel, 1988, p. 23.

La lettura delle rocce qui rappresentate, tutte sedimentarie, s’inizia dal basso, dove sono presenti strati di calcare dovuto a deposizione chimica, privi o quasi di fossili marini e senza detriti d’ambienti di costa e fluviali, ciò che suggerisce, nell’ordine, la facies marina, la lontananza dalla terraferma e l’assenza di sbocchi fluviali sulle coste (cioè un clima asciutto); lo strato successivo contiene fossili marini (ostriche, resti fossili dei Molluschi bivalvi del genere Ostrea) e, prima di transitare verso l’altro strato mostra, e più abbondanti, argille e sabbie (cioè sedimentazioni clastiche, coerenti le prime in quanto costituite da minuscoli detriti che si sono accumulati per decantazione in acque marine, incoerenti le seconde perché derivate da processi caotici di degradazione di rocce preesistenti), ciò che nell’ordine, indica l’innalzamento del fondo del mare (giacché le ostriche non vivono né in acque profonde né in mare aperto, ma in ambienti non profondi oltre i 30 m) e la vicinanza a una costa; gli strati successivi presentano arenarie e argilliti (rocce clastiche litificate, le prime, costituite da granuli di sabbia a prevalente composizione non carbonatica, di cui alcune a stratificazioni incrociate, cioè con strati inclinati rispetto allo strato principale; rocce formatesi dal consolidamento di depositi marini d’argilla, le seconde), ciò ch’indica una facies costiera con la presenza occasionale di spiagge sabbiose; quelli successivi presentano argilliti con strati carboniosi (derivate dal consolidamento di depositi lacustri), indice d’una pianura costiera paludosa; gli strati successivi di ghiaia e arenaria presentano una superficie erosa seguita, senza fasi di transizione da stratificazioni di calcare marino, ciò ch’indica una discordanza stratigrafica (mostrata, in figura, dalla linea ondulata in grassetto), cioè una discontinuità nella successione cronologica (detta iato) a causa di un’interruzione nei processi di formazione, indice dunque d’una sequenza d’eventi non documentabile, anche se il tutto delle facies sopra elencate, in ogni caso, è poi leggibile come documentazione di regressioni e trasgressioni marine. Il problema ora si sposta alla domanda se questa variazione del livello marino è stata un fenomeno solo locale o se fa parte d’una fenomenologia più estesa, cioè se le successioni rocciose deposte in uno stesso bacino di sedimentazione si ritrovano anche in bacini adiacenti o in bacini geograficamente distanti tra loro, cioè se sono correlate, e un metodo per risolvere in generale il problema della correlazione è dato, come visto sopra, dalla stratigrafia basata sui fossili e sulle loro associazioni, o biostratigrafia (basata sul principio dell’irreversibilità dei processi evolutivi grazie alla quale un’associazione fossile può essere tipica solo d’un dato periodo e non d’un altro). Per quanto riguarda la valutazione cronologica del passato geologico prendendo in carico le rocce fino ad ora escluse, cioè quelle ignee e metamorfiche, valgano poi le informazioni a seguire.

MISURE CRONOGEOLOGICHE (riscrittura)

La Terra è una macchina termica in cui, al calore presente a partire dalla sua formazione iniziale, si somma quello prodotto dalla radioattività. Come vedremo meglio a seguire, il nucleo d’un atomo è costituito da protoni e neutroni, e il numero dei protoni determina il suo comportamento chimico, che rimane identico anche se, negli isotopi, il numero dei neutroni aumenta; per esempio l’ossigeno ha 8 protoni, ma può presentare 8, 9 o 10 neutroni, dando origine a tre isotopi (v. infra), con 8 protoni e otto neutroni, o 16O,  con 8 protoni e nove neutroni, o 17O e, infine, con 8 protoni e 10 neuroni, o 18O; ora, molti isotopi sono stabili, ma altri no, per cui può capitare che alcuni siano instabili, ossia decadano in altri elementi, per esempio il carbonio ha tre isotopi, due stabili, 12C e 13C, e uno instabile, il 14C, che decade in azoto etc.; gli isotopi che decadono emettono poi delle radiazioni dal nucleo, i raggi α,  β (β-, β+), γ, e sono per questo detti radioattivi, e poiché ogni elemento che si presenta ha degli isotopi, affinché un isotopo presenti un nucleo instabile il suo peso atomico (v. infra) deve essere superiore ad 83. La figura seguente mostra le tre radiazioni; l’isotopo che decade è poi detto madre e quello che ne risulta è detto figlia (qui non s’analizzano le differenze tra le radiazioni):


Figura n.  . Fonte (adattata): van Andel, 1988, p. 41.

Come dire che i minerali presenti in certe rocce della litosfera convertono la loro massa in energia  in modo estremamente efficace, e una percentuale del calore della Terra in quanto macchina termica, per esempio, può essere attribuito proprio al decadimento spontaneo dei minerali presenti in queste rocce, cioè al rilascio d’energia termica (con l’emissione di radiazioni) dovuto al citato fatto che una parte della massa, quella dell’isotopo che decade, si trasforma in energia; ancora, gli elementi radioattivi quando decadono, sempre spontaneamente, subiscono una modificazione nella struttura dei loro nuclei atomici instabili (ch’è data dalla somma di protoni e di neutroni che s’altera), come detto un decadimento radioattivo che permette loro di trasformarsi in un nucleo diverso, proprio a un altro elemento o a un isotopo dello stesso elemento; alcuni decadono poi in un solo passaggio (per esempio, 14C), altri, invece, decadono attraversano una serie di passaggi, o catena, e il processo di decadimento continua finché il nucleo alla fine non diventa stabile; perché il processo sia poi classificato come spontaneo questo decadimento si deve verificare in un tempo che non può superare i 1010 anni, altrimenti il nucleo atomico è ritenuto stabile o il decadimento indotto; il materiale radioattivo inoltre, e quale che sia, per decadere della metà impiega sempre lo stesso tempo (o tempo di dimezzamento o emivita, t1/2), e questo suo valore, ch’indica il numero degli atomi instabili che decade in un cert’arco di tempo, rimanda a un dato statistico, medio, ossia alla metà della sua vita media, con la clausola che, dopo la prima emivita, la seconda è metà della metà della quantità iniziale, cioè un quarto, e via via scalando, come dire che la velocità di decadimento può essere usata come un indicatore temporale (infatti, poiché la quantità d’un elemento radioattivo che si trova in un minerale decade con un tasso costante, è poi possibile ricostruire la durata del tempo intercorso a partire dalla formazione del minerale stesso misurando la quantità dell’isotopo prodotto dal decadimento stesso), come dire, ancora, che conoscendo la quantità di radioattività presente in un materiale e la sua emivita, se ne può calcolare l’età indipendentemente dai fattori propri all’habitat che lo ospita (quali le condizioni di pressione, temperatura, magnetismo o d’ambiente chimico, cioè le facies di cui sopra). L’emivita può poi presentarsi con valori che vanno dall’ordine del microsecondo a quello paragonabile all’età della Terra, per cui per il tramite dello studio delle rocce, della loro struttura e composizione, è possibile definire i tempi dell’evoluzione della Terra e mettere tra loro in correlazione configurazioni geologiche di rocce ignee, metamorfiche e sedimentarie avvenute in zone fra loro anche molto lontane dal punto di vista geografico. Per esempio, presenti in molti minerali della litosfera si trovano isotopi radioattivi come quelli dell’uranio 238 (238U), che hanno un’emivita dell’ordine di 4,510 miliardi d’anni (t1/2=4,510x109), e sono utilizzati per le datazioni geologiche di materiale inorganico (ossia, rocce), mentre sono utilizzati per la datazione di materiali organici, quali conchiglie, ossa, legni fossili, semi o manufatti con età compresa tra 1 000 e 70 000 anni etc., e risalenti a non più di 50-70 mila anni fa, gli isotopi radioattivi del carbonio 14 (14C), che presentano un’emivita di 5730 ±40 anni  in quanto, dopo 8 emivite, rimane solo lo 0,39% del carbonio radioattivo originale, cioè una quantità irrisoria per consentire misurazioni attendibili. Da sottolineare che questo livello di 14C presente in un organismo vivente, flora o fauna che sia, s’è formato e si forma nell’alta atmosfera dove i raggi cosmici, composti per la maggior parte di nuclei d’atomi d’idrogeno, producono, grazie alla collisione/trasformazione continua dell’azoto colpito dai raggi, il carbonio 14, 14C; questo, in combinazione con l’ossigeno, dà luogo a diossido di carbonio radioattivo, 14CO2 (presente in modo costante nell’atmosfera grazie all’equilibrio di 14C che decade e 14C che, come detto, si forma in continuazione), ch’è stata assimilata dagli organismi viventi, autotrofi e eterotrofi (v. infra) grazie ai cicli della loro attività metabolica, vuoi d’origine fotosintetica (infatti, la fotosintesi clorofilliana, v. infra, utilizza il diossido di carbonio atmosferico per costruire le sostanze organiche, le quali contengono 14C non radioattivo nella stessa proporzione con cui lo contiene il 14CO2 utilizzato), vuoi attraverso la catena alimentare (per esempio, la stessa proporzione citata di 14C, presente nel 14CO2 utilizzato dalle piante sulla terraferma, è presente negli erbivori che si nutrono delle piante e nei carnivori che si cibano di erbivori, lo stesso vale negli oceani etc.); vale a dire che il livello di 14C è uguale a quello presente nell’ambiente, o serbatoio di scambio, in cui l’organismo (flora, fauna) ha vissuto; dopo la sua morte, mentre il carbonio 12, 12C, in quanto stabile rimane costante, il carbonio 14, 14C, comincia a decadere con un tasso pari a quello sopra citato trasformandosi in azoto e senza che il carbonio dell’ecosistema in cui l’organismo ha vissuto possa essere reintegrato nel processo della sua evoluzione necrotica, tanto che la sua radioattività rivela qual è il tempo trascorso dalla sua morte (questo in linea di massima, cioè salvo contaminazioni dei campioni usati). Con questo metodo si scoprono così in modo assoluto (cioè con una datazione fondata su procedure fisico-chimiche) le varie età della Terra sopra delineate (le rocce) e gli accidenti ch’essa ha ovviamente presentato (le biocenosi e le tanatocenosi). E, per continuare e precisare l’esempio sopra iniziato, valgano per la datazione delle rocce il decadimento del samario 147, 147 Sm, in neodimio 143, 143Nd, con un’emivita di 106 000 milioni d’anni; quello del rubidio 87, 87Rb, in stronzio 87, 87Sr, con un’emivita di 47 000 milioni d’anni (usato per la datazione dei graniti); quello del torio 232, 232Th, in piombo 208, 208Pb, con un’emivita di 13 900 milioni d’anni; dell’uranio 238, 238U, in piombo 206, 206Pb, con un’emivita di 4 510 milioni d’anni (molto utilizzato); del potassio 40, 40K, in argon, 40Ar, che ha un’emivita di 1 300 milioni d’anni (usato per la datazione dei basalti, questo fatto salvo che la roccia che lo contiene non sia stata esposta a temperature superiori a 125 °C, perché in questo caso la fuga d’argon lascia determinare soltanto l’ultimo episodio di riscaldamento ch’essa ha subito); dell’uranio 235, 235U, in piombo 207, 207Pb, con un’emivita di 713 milioni d’anni o dell’uranio 238, 238U, nel torio 230, 230Th, con un’emivita di 80 000 anni, usato per datare i sedimenti marini, questo perché il 238U presente nei mari decade in  230Th e precipita nei sedimenti dei fondali permettendo, con la sua concentrazione, di ricostruirne l’età, e altri decadimenti ancora. Questi valori ci danno poi la datazione assoluta (differenti dai valori delle datazioni relative che si basano sul solo studio degli strati delle rocce sedimentarie, organogene o meno, e sul reperimento negli strati di fossili guida, nel qual caso questi valori non sono numerici in quanto permettono soltanto d’affermare la consequenzialità cronologica degli strati, e sempre che non siano intervenuti fenomeni tettonici di disturbo della sequenza stratigrafica, cioè che uno strato, o un fossile guida ch’è qui contenuto, sia o più antico o più recente nei confronti d’un altro che lo precede o lo segue), datazione che oggi si classifica come datazione radiometrica, e l’attendibilità di questi valori e legata a un margine d’oscillazione (range) in anni dovuto al fatto che la misura è statistica, detto margine d’errore, che presenta valori in più o in meno rispetto al valore dato ), e lo standard d’accettabilità di questo errore dipende dall’età del reperto, per esempio, nel caso di rocce del Cenozoico il margine è  100 000 anni, mentre è già d’alcuni milioni d’anni nel Mesozoico e via via che ci s’allontana per arrivare al Precambriano il margine d’errore si dilata ulteriormente, anche se s’accetta che alcune rocce reperite in Groenlandia risalgano a 3 700 milioni di anni fa, mentre per altre rocce, presenti nella parte Nordorientale della baia di Hudson, in Canada, manca l’accordo sull’età, che varia così da 3 800 a 4 400 milioni d’anni fa. Si sottolinea a questo punto che se è relativamente facile situare le rocce sedimentarie al loro posto nella geocronologia utilizzandone le formazioni e le biozone, s’incontrano invece notevoli difficoltà con le rocce ignee e metamorfiche che non possono contenere fossili, e che pertanto la datazione con isotopi, pur nei suoi limiti, è quasi esclusivamente l’unica possibile per dare loro un’età e collocarle all’interno della storia della Terra. Oltre al reperimento degli isotopi instabili per datare le rocce, si usa quello degli isotopi non instabili dell’Ossigeno (18O:16O) per reperire la storia degli oceani e dell’atmosfera; per esempio, le variazioni delle temperature dell’aria e della superficie degli oceani, l’estensione nello spazio e nel tempo delle ere glaciali, i vari livelli in percentuale dell’ossigeno presente nell’atmosfera e nei mari, sono possibili grazie agli isotopi stabili dell’ossigeno 16, 16O, e dell’ossigeno 18, 18O (ossia al rapporto ch’esiste tra un isotopo stabile dell’ossigeno, 18O, e l’ossigeno ordinario, 16O, ch’è all’incirca di 1 a 500), che s’accumulano a differenti velocità secondo di quanto ossigeno o diossido di carbonio sono presenti nell’atmosfera o nei mari e che, messi a confronto nei loro diversi tassi di deposito nelle rocce calcaree prodotte dalla sedimentazione dei gusci degli organismi presenti sul fondo degli oceani, o planctonici, permettono ai geochimici di decifrare i citati accidenti del passato e molto altro ancora (gusci, questi, costruiti dagli organismi con il carbonato di calcio, CaCO3, ottenuto combinando l’ossigeno estratto dall’atmosfera con il carbonio). Il rapporto isotopico 18O:16O s’usa, infatti, perché quando l’acqua evapora dagli oceani, evapora più facilmente l’isotopo meno pesante, 16O, rispetto a quella dell’isotopo più pesante, 18O, e l’acqua che resta negli oceani contiene pertanto, secondo le variazioni apportate o meno dal ciclo idrologico, più o meno 18O secondo la temperatura presente, ed è possibile così misurare la concentrazione di quest’isotopo del passato (v., infra, δ18O) perché lo si ritrova incorporato nei carbonati dei gusci dei Foraminìferi (v. infra)  i cui resti, vissuti in acque calde o fredde, si sono sedimentati, con il tempo, in rocce; rocce calcaree di cui si può calcolare poi l’età utilizzando, ma solo per un dato periodo, il citato metodo delle decadenza radioattiva di 14C. Oltre a questi, esiste un altro metodo di reperimento di valori assoluti, la magnetostratigrafia, metodo basato sull’analisi dei minerali ferromagnetici (cioè capaci di magnetizzazioni) presenti non solo nelle rocce sedimentarie, ma anche in quelle ignee (v. infra), e qui l’analisi, utile per dedurre i movimenti tettonici della Terra, investe lo studio della successione delle inversioni di polarità, cioè d’orientamento delle linee di forza del campo magnetico terrestre, o campo geomagnetico, che le rocce stesse manifestano come magnetismo residuo e ch’esse conservano nella direzione d’allineamento al campo geomagnetico (v. infra); direzione che si mostra o nella deposizione e compattazione (litificazione) delle rocce sedimentarie (detta magnetizzazione residua detritica) o nel raffreddamento e solidificazione al di sotto d’una data temperatura delle rocce ignee (detta magnetizzazione termoresidua; si ricorda che oltre una certa soglia di calore un materiale magnetico perde questa sua proprietà, detta punto di Curie, ch’è, per esempio, di 578 °C per la magnetite), questo grosso modo a partire dal Triassico e dal Giurassico (cioè a partire da 245 milioni d’anni fa, quando la Pangea si frammenta e, in Gondwana, l’America meridionale inizia a separarsi dall’Africa e inizia la formazione dell’Oceano Atlantico, v. infra), cui consegue un loro riordino cronologico in epoche ed eventi magnetici. Infatti, i minerali ferromagnetici (per esempio, la magnetite, Fe3O4), presentano una magnetizzazione acquisita ch’è proporzionale all’aumento d’intensità del campo geomagnetico tanto che, quando raggiunge un valore massimo, o di saturazione, ne conserva la memoria stabile anche se si rimuove il campo magnetico che l’ha prodotta (e quest’ereditarietà si definisce, se investe le rocce a partire dal Triassico, direzione fossile di magnetizzazione); campo magnetico terrestre che poi ha subito (e subisce tuttora) variazioni che riguardano il senso della direzione delle linee di forza del campo magnetico, e per convenzione la polarità di questo campo si dice normale quando presenta inclinazione positiva nell’Emisfero boreale (definendo positiva la direzione di magnetizzazione verso il basso, cioè verso il Polo Nord magnetico attuale) e inversa quando nello stesso Emisfero l’inclinazione si presenta negativa (dove negativa è detta la direzione di magnetizzazione inclinata verso l’alto e verso il Polo Sud magnetico attuale, tenendo poi presente che questi Poli non coincidono con quelli geografici, ma sono loro prossimi) e la scala cronologica di queste inversioni del campo magnetico che suddividono il tempo geologico in intervalli costanti di tempo con polarità magnetica normale o inversa ci dà, appunto, la sequenza ordinata delle unità di polarità magnetostratigrafica (o magnetozone). La figura seguente mostra a destra la sequenza delle inversioni di polarità dal Triassico al Cretacico (245-66,5 milioni d’anni fa) e quella a sinistra la sequenza dal Pliocene al Pleistocene (5,2-00,1 milioni d’anni fa; il nome qui attribuito alla epoche magnetiche, Gilbert, Gauss, Matuyama e Brunhes, deriva dai nomi dei primi studiosi del paleomagnetismo; all’interno di ciascuna di queste epoche sono poi stati rilevati dei periodi di magnetizzazione opposta a quella dell’epoca di appartenenza, con una durata che va dai 10 000 ai 100 000 anni, detti eventi, in figura non nominati, per esempio, il già citato Olduvai, un evento magnetico normale all’interno dell’epoca magnetica inversa di Matuyama e, sempre in Matuyama, un evento magnetico normale collocabile tra i 940 000 e gli 880 000 anni fa, detto Jaramillo; Olduvai e Jaramillo sono poi nomi di località nella Great Rift Valley, in Africa orientale, sede di fenomeni di ritrovamenti fossiliferi della linea che porta a Homo sapiens, v. infra; la sigla Ma sta poi per milioni d’anni):


Figura n.   . Fonte: Polticelli, 2003, p. 33.


Va da sé che i metodi di datazione sopra indicati sono solo una parte d’una più vasta modalità d’indagine cronologica, qui non illustrata, che va dalla datazione del materiale interstellare a quella dei manufatti preistorici (tra cui si trovano la spettrometria di massa ultrasensibile, la racemizzazione degli aminoacidi, la termoluminescenza, la metodologia dell’Electron Spin Resonance, ESR etc.). 
TIPOLOGIA DELLE ROCCE

Valga la seguente casistica delle rocce (di cui, a seguire, si riprenderanno e approfondiranno alcuni aspetti). In genere, le rocce sono composte o da un solo minerale (rocce omogenee, per esempio, i calcari costituiti dal solo carbonato di calcio, o calcite, CaCO3) o da più minerali (rocce eterogenee, la maggioranza); per classificarle s’usa solitamente il criterio delle modalità con cui si sono formate o assemblate (litogenesi, o petrogenesi). Alcune rocce, infatti, cristallizzano a partire da una massa di minerali fusi che proviene dall’interno della Terra (oltre ai gas, la natura della miscela è prevalentemente silicatica, cioè contenente silicio e ossigeno associati ad altri elementi, quali alluminio, ferro, manganese, magnesio, calcio etc.) e sono dette ignee; se i minerali fusi si fermano prima di risalire in superfice prendono il nome di magma, e si parla di litogenesi magmatica; se invece fuoriescono in superficie prendono il nome di lava, e si parla di litogenesi lavica); nel primo caso il magma si raffredda tra le rocce incassanti che l’accolgono nelle profondità della Terra e le rocce ignee sono dette intrusive (o plutoniche) e, poiché il raffreddamento è lento, sono composte di cristalli a grana grossa, di dimensioni apprezzabili, per esempio, il granito, il tipo più comune, presente nelle croste continentali (v. infra) è una roccia ignea intrusiva, come le dioriti, i gabbri e le peridotiti; nel secondo caso, quando le rocce fuse fuoriescono invece alla superficie, in modo eruttivo o non eruttivo, e perdono le componenti gassose a causa della diminuzione della pressione, cioè si presentano sotto forma di lava con un’uscita detta a giorno, sia subaerea, ossia sulla crosta terrestre, o subacquea, sui fondali marini (con una temperatura tra gli 800 e i 1200 °C), il raffreddamento è più rapido e le rocce ignee sono a grana fine (addirittura, causa l’alta viscosità, allo stato vetroso) e sono dette vulcaniche (modalità eruttiva) o effusive (modalità non eruttiva), per esempio, l’ossidiana o il basalto, il tipo più conosciuto, presente nei fondali oceanici e che solidifica in prossimità delle dorsali (v. infra), ma anche le rioliti e le andesiti sono rocce ignee effusive (e la pómice, affine al basalto, è poi l’unica roccia in grado di galleggiare sull’acqua). Altre rocce sono dette sedimentarie (queste ricoprono la litosfera per ca. l’80%, ma il loro volume non supera 1/20 di quello della crosta nel suo insieme), questo se si sono invece formate grazie all’accumulo per sedimentazione e alla compattazione e cementazione dei detriti, o diàgenesi dati dalla disgregazione esogena di rocce preesistenti (detriti, o clasti, che potranno rimanere in loco o essere trasportati e disseminati), per esempio, le areniti (cioè le sabbie d’origine fluviale) e le argille sono rocce sedimentarie clastiche; oppure i frammenti derivano dalla sedimentazione di gusci o scheletri d’organismi, vegetali o animali, una volta viventi, e queste rocce sedimentarie sono dette organogene, e ne sono esempio calcari, diatomiti, ligniti, asfalti, bitumi e petrolio. Per inciso, con diagenesi s’intende l’insieme dei processi di trasformazione fisico-chimica (costipazione, cementazione, dissoluzione e ricristallizzazione) che i sedimenti subiscono in un decorso temporale, sia da parte dell’agente di sedimentazione, generalmente l’acqua, sia per azione di carico da parte dei sedimenti sovrastanti, oppure per scambi chimici in profondità legati alla presenza di acque interstiziali, ciò che permette di passare da un iniziale stato incoerente a una compattezza simile a pietra, o litoide; per esempio, è così che dalle sabbie si formano le arenarie, dalle ghiaie i conglomerati, dall’argilla l’argillite o dalle ceneri e dai lapilli vulcanici i tufi. Altre rocce derivano da un processo di precipitazione per via chimica di una sostanza inorganica da un’altra (che si trova in soluzione salina o colloidale e le cui acque si sono saturate di quello che sarà il precipitato finale della sostanza), quali, per esempio, dolomie, travertini, selci, salgemma, lateriti, e queste sono rocce sedimentarie chimiche (esistono però anche precipitati d’origine organica sui fondali marini la cui formazione è dovuta a meccanismi biochimici implementati da microrganismi); altre rocce, se provenienti dalla disgregazione di rocce eruttive, come le pozzolane e i tufi, sono invece dette rocce sedimentarie piroclastiche; tutte queste rocce sedimentarie presentano poi il fenomeno della successione per sovrapposizione orizzontale di strati di spessore variabile pressoché paralleli, o stratificazione, che ne registra uno spaccato che mostra l’evolversi del regime di sedimentazione, della composizione materiale e della formazione diacronica (ed è qui, in queste stratificazioni, che è poi possibile reperire i fossili), Infine, se le rocce preesistenti (ignee, sedimentarie o già metamorfiche che siano) sono prodotte dall’innalzamento della temperatura e/o della pressione cui sono state sottoposte in seguito a intrusioni magmatiche o a dislocazioni sotterranee della crosta terrestre (per esempio, ai margini delle placche), cioè presentano trasformazioni nella loro struttura e composizione mineralogica (però senza arrivare alla fusione, ciò che distingue le rocce ignee rispetto a quelle metamorfiche), queste sono classificate come rocce metamorfiche e la loro tipologia dipende dal tipo di roccia metamorfizzata e dai gradienti di pressione e temperatura che danno origine al processo. Le rocce ignee, sedimentarie e metamorfiche, che possono tra loro convivere, si trasformano poi incessantemente l’una nell’altra, per esempio una porzione di roccia metamorfica sottoposta a temperature ancora più alte di quella che l’hanno formata, può fondere e ritornare allo stato di magma che, raffreddato, può diventare roccia ignea effusiva; questa, a sua volta sottoposta ad agenti erosivi e trasportata e depositata in altro luogo può compattarsi e cementarsi con altri clasti dando luogo a strati di rocce sedimentarie, rocce che a causa d’un evento catastrofico possono poi sprofondare ed essere sottoposte ad alte pressioni e temperature e trasformarsi in rocce metamorfiche etc.; e va da sé che le trasformazioni continue delle rocce, o per fattori esogeni (atmosferici) o endogeni (tellurici, orogenetici, eruttivi) o fisici (pressione, temperatura) o chimici (per esempio, con la sostituzione degli ioni presenti nella soluzione acquosa che s’infiltra con gli ioni del minerale, con la conseguente ricristallizazione), richiedono tempi di riciclo dei materiali che sono geologici, tanto che, più che di tipologia delle rocce, bisognerebbe parlare di veri e propri cicli litogenetici; la figura seguente mostra i possibili percorsi di questo ciclo:


Figura n. , Fonte: Cavalli Sforza e Cavalli Sforza, 2010b, p. 76.

La tabella seguente riassume la tipologia delle rocce sopra presentata:

TIPOLOGIA DELLE ROCCE
LITOGENESI
ESEMPLIFICAZIONE DI MASSIMA
IGNEE
MAGMATICA (SOLIDIFICAZIONE NELLA PROFONDITÀ DELLA TERRA; INTRUSIVA)
GRANITO
LAVICA (SOLIDIFICAZIONE SULLA SUPERFICIE DELLA TERRA O DEI FONDALI MARINI; EFFUSIVA)
OSSIDIANA, BASALTO
SEDIMENTARIE
CLASTICA
ARENARIA, ARGILLITE
CHIMICA
SALGEMMA
ORGANOGENA
CALCARE, CARBONE FOSSILE [1]
PIROCLASTICA
TUFI
METAMORFICHE
TERMICA/PRESSORIA [2]
[1] Il carbone fossile presenta però la commistione tra una fase organogena e una chimica.
[2] Qualsiasi tipo di roccia può trasformarsi in roccia metamorfica.

Tabella n.  .

Si ricorda che le rocce presenti sulla superficie terrestre, dal punto di vista chimico, sono principalmente composte da ossidi (poco più del 99%), mentre la percentuale restante è formata da cloruri, solfuri e fluoruri; la tabella seguente riporta gli ossidi presenti nella crosta terrestre:

OSSIDI
% IN PESO
FORMULA CHIMICA
DIOSSIDO DI SILICIO
59,71
SiO2
TRIOSSIDO D’ALLUMINIO
15,41
Al2O3
OSSIDO DI CALCIO
  4,90
CaO
OSSIDO DI MAGNESIO
  4,36
MgO
OSSIDO DI SODIO
  3,55
Na2O
OSSIDO DI FERRO
  3,52
FeO
OSSIDO DI POTASSIO
  2,80
K2O
TRIOSSIDO DI FERRO
  2,63
Fe2O3
DIOSSIDO D’IDROGENO (ACQUA)
  1,52
H2O
DIOSSIDO DI TITANIO
  0,60
TiO2
PENTOSSIDO DI FOSFORO
  0,22
P2O5
TOTALE
99,22


Tabella n.  . Fonte: Balzani, Venturi, 2014, p. 79.