[... ] ora, giacché
la NTC prevede anche la migrazione/dispersione opportunista d’organismi che si
spostano nello spazio, cioè che si trasferiscono in nuovi ambienti (delocalizzazione)
dove devono sperimentare altre condizioni, si pensi alla portata dell’affermazione
sulle dinamiche transgenerazionali di nicchia se oggetto di studio diventa il
genere Homo, là dove tutto il suo
vissuto è fenomeno
leggibile anche come effetto di una costruzione di nicchia transgenerazionale che
si basa sulle dinamiche esperienziali di delocalizzazione e domesticazione
dell’ambiente (v. supra) da parte d’una
collettività d’organismi guidata dal cervello sociale (di cui s’è parlato diffusamente
sopra e che sarà definito a seguire); questo dato che, s’è vero che le informazioni e i comportamenti acquisiti
dagli organismi attraverso processi ontogenetici non possono essere ereditati in
quanto si perdono dopo la loro morte, processi come l’appreso dai suoi discendenti
in un contesto sociale, possono essere di notevole importanza per la
sopravvivenza di questi (trasmissione verticale), per la loro diffusione promossa
tra i componenti all’interno della generazione presente (trasmissione
orizzontale) e per la trasmissione dell’appreso a una generazione più giovane
messa in atto da un qualsiasi componente d’una generazione precedente (trasmissione
obliqua), giacché il dispositivo dell’ereditarietà ecologica può permettere al
cervello sociale di valutare e controllare in modo dinamico e plastico i
parametri critici della costruzione di nicchia attraverso le modalità di
circolazione dell’appreso (intesi i parametri critici come tutto ciò che può ridurre l’incertezza negli ambienti selettivi rispetto
agli interessi manifestati dagli organismi riguardo alla loro fitness, cioè controllando il ventaglio degli
ambienti di sviluppo cui possono essere esposti gli eredi), con la clausola che l’appreso dalla collettività
d’organismi sia poi inteso in termini di flussi di conoscenze accumulate, di comportamenti
e di pratiche acquisite; un insieme, dunque, ch’è veicolato da un cervello
sociale in un processo di sociogenesi ininterrotta che, come mostra l’iter del genere Homo, implica
dei cambiamenti tanto nel trasferimento transgenerazionale dell’ereditarietà ecologica
quanto nella loro stabilizzazione (selettiva) storicamente data e determinata; e in special modo nel momento in
cui la costruzione di nicchia gli
permette di persistere, cioè di sussistere e riprodursi, nelle condizioni
ambientali frammentate, instabili e ostative, ossia inospitali e proprie al
vissuto di domesticazione dell’ambiente da parte del genere Homo (v. per esempio, supra, l’effetto di tamponamento, o buffering), condizioni d’antropizzazione
che come si vedrà creano poi le premesse per la domesticazione e la colonizzazione
dell’intero pianeta da parte di Homo
sapiens; senza però dimenticare che questo dato di fatto, cioè che l’ereditarietà
ecologica influenza fortemente le dinamiche evolutive, vale tanto per il genere
Homo quanto per le centinaia di specie sociali di
mammiferi, uccelli e pesci, così come per gli insetti eusociali (quali termiti,
formiche, api, vespe e altre ancora), cioè in tutte quelle specie in cui la
capacità d’interagire con l’ambiente, grazie al detto dispositivo di conoscenza
e comportamento acquisito promosso dall’ingegneria ecologica, non è una capacità
ch’è garantita dalla presenza di geni selezionati dall’evoluzione; o, detto
altrimenti, è sempre sottinteso che questo dispositivo d’ereditarietà ecologica
rappresenta un’eredità extragenetica che allarga il concetto stesso d’ereditarietà
di là dalla genetica di trasmissione, ciò che sottolinea, in generale, come non tutto lo sviluppo sia sotto stretto
controllo genetico (e
sempre fatta salva la causalità reciproca e ricorsiva tra eredità ecologica e
eredità genetica); ora, l’appreso dalla citata collettività d’organismi rimanda
a quello che qui s’intende con il termine cultura, termine ombrello di
difficile esplicitazione semantica a causa del suo uso polisemico (o, volendo, del
suo uso come concetto passe-partout
che difficilmente trova unanime consenso), che qui s’adotta nella sua valenza
di strumento di trasmissione e modellamento sociale grazie al quale il genere Homo ha potuto costruire le sue nicchie
in grado di modificare l’ambiente abiotico e biotico degli ecosistemi a suo
vantaggio (e con ricadute evolutive anche per piante e animali, che sfociano infine
nella selezione artificiale; per esempio, v., infra, la loro domesticazione) e che possiamo tradurre, come sopra
accennato, attraverso il ricorso ai flussi di conoscenze, di comportamenti e di pratiche acquisite trasmesse
(in modo non passivo) con lo stoccaggio delle memorie e delle competenze che
transitano nei cervelli e con la loro esplicitazione attraverso il linguaggio o
l’imitazione o con altri modalità d’apprendimento sociale (o social learning), oppure con altri strumenti
e metodi d’immagazzinamento esterno della memoria (v. infra), tratti che sono tutti d’interfaccia nell’interazione via
via più complessa dell’organismo con l’ambiente e che possono essere
indicizzati grazie al tasso d’uno sviluppo economico e sociale storicamente
dato (e sono
tratti d’interfaccia perché lo stoccaggio della memoria culturale ci dovrebbe
rendere edotti del fatto che la cognizione immagazzinata non è qualcosa che capita
solo nel nostro cervello alla stregua d’una routine
biologica, ma che la cognizione in gioco che abita e che transita nella nostra
mente è la risultante storica dei cambiamenti che intervengono nelle strutture d’assemblaggio
e in quelle di relazione tra le eterogenee componenti biotiche e abiotiche d’un
ambiente, d’una realtà); tasso di sviluppo economico e sociale storicamente
dato, dunque, che poi può essere indicizzato, più o meno in dettaglio per gli
ultimi 100 000 anni, questo ricorrendo alla tipologia delle risorse utilizzate,
ai mezzi di produzione utilizzati per trasformarle in prodotto (e, a seguire, a
distribuirlo per il consumo) e dai rapporti sociali che si creano nella
collettività in riferimento alle possibilità di sfruttamento delle risorse offerte
dallo stato dei mezzi di produzione e dall’accesso al consumo dei prodotti, ivi
compreso il lavoro e la sua parcellizzazione (con tassi di delega allo
stoccaggio specializzato delle conoscenze accumulate che variano al variare
delle complessità sociale e della divisione complessiva del lavoro necessario
per mantenere in essere e permettere la riproduzione sociale della struttura
economica); e giacché ruoli e compiti che alterano il comportamento degli
individui del genere Homo in una
società storicamente situata lo fanno in un modo plastico e radicale, la modificazione
dell’insieme (che, come vedremo a seguire, si basa sulla produzione materiale) include
anche l’organizzazione degli stati mentali (epistemici o meno che siano, e là
dove l’episteme riguarda l’indagine razionale del percepito), l’intrecciarsi
dei vissuti emotivi (prosociali) e dei vincoli paradigmatici che i sistemi delle
credenze e i sistemi valoriali (insomma i sistemi legati allo stato delle forze
produttive e delle visioni del mondo, o Weltanschauungen),
stabiliscono e plasmano all’interno delle collettività proiettate verso la loro
riproduzione sociale in fase d’assestamento o di stabilizzazione (ciò che comprende
anche la gestione della violenza istituzionale verso l’esterno e della violenza
intraspecie all’interno) e altro ancora; con la clausola, ritornando alla
costruzione di nicchia, che il serbatoio dell’appreso transgenerazionale (o
eredità culturale,
cultural inheritance) è poi da intendersi come una
componente dell’eredità ecologica, un suo sottoinsieme che può essere definito come costruzione d’una
nicchia culturale (cultural niche
construction)
o, detto altrimenti, che l’eredità non è tripla (genetica, ecologica e
culturale), ma duale (genetica e ecologica) essendo la costruzione della
nicchia culturale solo una componente, sia pur molto pervasiva
nell’antropizzazione dell’ambiente, dell’eredità ecologica (o, detto
altrimenti, non tutta la costruzione della nicchia umana è costruzione della nicchia
culturale, e non tutta l’eredità ecologica umana è eredità culturale); e a
proposito della pervasività di questo tratto della costruzione culturale, e
fatto salvo il caso che l’eredità ecologica possa implicare un processo culturale senza alcuna ricaduta genetica, si presenta il
problema dell’evoluzione dell’eredità genetica umana che si
combina con l’eredità culturale (o coevoluzione cultura-gene, detta anche teoria
dell’eredità duale, o Dual inheritance theory, DIT), il tutto come un effetto endogeno
della costruzione di nicchia che potrebbe influenzare la
selezione naturale dei geni nel genere Homo,
selezione che, a sua volta, potrebbe a volte poi influenzare l’espressione dei
processi culturali e l’antropizzazione dell’ambiente.
LA COEVOLUZIONE CULTURA-GENE
Detto
che si stima che centinaia di geni siano stati oggetto di selezione positiva (relativamente)
recente, e spesso in risposta alle attività umane, e sottolineato che in
moltissimi casi deve ancora essere dimostrato il fatto che la causa di
selezione del gene sia derivata da una pratica culturale, quest’ipotesi della
DIT suggerisce che i processi culturali possono influenzare notevolmente
l’evoluzione genetica con il tasso di variazione delle frequenze alleliche
innescate come risposta a una modificazione delle condizioni ambientali, e sempre
fatto salvo il fatto che sia presente un tempo sufficiente affinché si fissi l’allele
benefico associato alla modificazione (come dire che la costruzione di nicchia
culturale, introducendo una variante extragenetica che rende una mutazione
vantaggiosa solo per date variabili ambientali, è in grado d’alterare positivamente
l’esito previsto dalla trasmissione puramente genetica); dinamiche d’innesco
delle variazioni alleliche che sono poi, in generale, più veloci, nel tempo richiesto
per la fissazione dell’allele benefico associato, rispetto alle condizioni
richieste dalle dinamiche evolutive convenzionali (o che, come pressioni
selettive culturali, possono essere dismesse più velocemente, s’è il caso),
questo perché operano con una frequenza maggiore e su un ventaglio più ampio e
variato di situazioni; tanto che le pratiche culturali innovative, nei
confronti d’una mutazione genetica che obbedisce ai tempi evolutivi standard, hanno solitamente risposte più
rapide alla selezione, anche perché la popolazione sulla quale agisce la
diffusione d’una innovazione culturale è di fatto numericamente amplificata
dalla rapidità della sua diffusione, ciò che fa sì che s’amplifichi nella
popolazione anche l’intensità della selezione della variante genetica
dimostratasi vantaggiosa; ora, visto che gli ultimi 100 000 anni hanno
prodotto, date la nicchie culturali presenti, una pressione selettiva sui
fenotipi legata a nuovi habitat e
climi; visto che la pressione selettiva s’è esercitata là dove la densità
abitativa ha via via promosso l’esposizione a nuovi patogeni legati allo stile
di vita antropomorfo (per esempio, alla sedentarietà; v. infra) e dove la vicinanza ad animali domesticati (o in fase di
domesticazione, v. infra) ha favorito
la diffusione di malattie legate a patogeni zoomorfi (dette zoonosi; v. infra); visto poi che la pressione
selettiva s’è storicamente assestata con la transizione dalle società di caccia
e raccolta a quelle pastorali e agricole che, affermatesi a partire dagli
ultimi 10 000 anni, sono state, infatti, caratterizzate da un rapido e vincente
incremento demografico; visto tutto questo, possiamo dunque dire che le
situazioni demografiche venutesi a creare potrebbero avere poi permesso ad
alcune mutazioni di poter essere vantaggiose e di creare un nuovo genotipo
adattato, diciamo così, alla densità abitativa (ragione per cui è possibile che
il passaggio dallo stile di vita nomade proprio ai cacciatori-raccoglitori a
quello sedentario e ad alta densità demografica degli agricoltori abbia
facilitato la diffusione di agenti infettivi legati a un’ampia casistica, ciò
che potrebbe avere portato a un rapido incremento della frequenza degli alleli
in grado di proteggere contro questi agenti e molto altro ancora); in generale,
e partendo dall’assioma che la costruzione di nicchia umana è informata da una
piattaforma unica di conoscenze culturali che sono potenti in quanto
storicamente cumulatesi (e, bene o male, autoimpostesi), si può poi dire che
alla base dei principali eventi che portano alla selezione sui geni umani (e
alla formazione di genotipi inediti) ci sono dunque le innovazioni culturali legate
alle nuove risorse trofiche, solitamente connesse con la colonizzazione di
nuovi habitat, con le pratiche della
loro produzione e con le strategie economiche e sociali di trasmissione
dell’insieme (ma
senza dimenticare che la detta velocità dell’eredità culturale accumula però errori
su errori i cui effetti producono spesso conseguenze maladattative non
previste, passando, come esemplificano gli ultimi 10 000 anni, dall’alterazione
degli equilibri ambientali alla creazione di strutture economico-sociali destabilizzati
perché inegualitarie e altre nefaste conseguenze proprie all’Anthropocene); di risultati certi che
gli studi genetici hanno confermato
essere soggetti a una selezione (relativamente recente) legata alla
coevoluzione cultura-gene ne esistono (anche se, come sopra detto, ci sono moltissimi
casi in cui deve ancora essere dimostrato che la causa di selezione del gene è
derivata da una pratica culturale), e tra questi l’esempio più studiato d’una
mutazione vantaggiosa è quello della c.d. tolleranza al lattosio; e si tratta
d’una mutazione che ha permesso ai portatori una chance di sopravvivenza alimentare aumentata (cioè l’accesso a un surplus di calorie che ha dato ai
portatori una possibilità d’avere più figli rispetto ai non portatori,
specialmente nei periodi di carestia), ciò che ha permesso la diffusione nella
popolazione e nelle generazioni a seguire della mutazione legata, nei climi
freddi o nei climi caldi e aridi (v. infra),
all’ambito della tolleranza al latte d’origine animale dopo lo svezzamento dal
latte materno; ciò che rimanda alla comparsa storica della domesticazione del
bestiame da latte nelle società pastorali e della produzione dei prodotti
caseari fermentati ricavati dal latte (per esempio, yoghurt o formaggio, v. infra), evento di una costruzione di
nicchia culturale che ha alterato gli ambienti selettivi di queste società per un
numero sufficiente di generazioni (poche centinaia di generazioni) che sono
così state in grado, persistendo la pratica culturale, di selezionare quelle
mutazioni che conferiscono maggiore tolleranza al lattosio negli adulti e di
aumentarne, pertanto, il carico calorico disponibile offerto dall’ambiente (questo
perché il latte è un’importante fonte di proteine e grassi; per esempio, è
stata stimata sui 400-600 kg la produzione di latte di una mucca nel periodo
preistorico durante il periodo dello svezzamento dei vitelli, di cui 150-250
possono essere sottratti per l’alimentazione umana, ciò ch’è, in calorie, quasi
equivalente al consumo carneo dell’intera mucca, ciò che ha quantomeno permesso
di fare un uso più economico del bestiame e di meglio valorizzare il bestiame
femminile rispetto a quello maschile, cioè di programmarne il consumo secondo
le esigenze demografiche che si presentano); come detto sopra, è poi il gene LCT quello che poi fornisce
le istruzione per produrre l’enzima della lattasi (lattasi florizin-idrolasi,
o lactase-phlorizin
hydrolase, LPH), enzima che aiuta, durante il transito
intestinale, a digerire uno zucchero complesso presente nel latte, il lattosio
(LPH è poi prevalentemente espresso nell’intestino tenue, v. infra, dove idrolizza il lattosio in
glucosio e galattosio, due zuccheri che sono facilmente assorbiti nel circolo
ematico); mentre la lattasi è smessa d’essere prodotta dall’organismo dopo lo
svezzamento del lattante, generando, in questo modo, un deficit di lattasi congenita che non gli permette più di digerire
il latte d’origine animale (sindrome di malassorbimento detta intolleranza al
lattosio), è capitato che dei polimorfismi a singolo nucleotide (v. supra) nelle regioni circostanti al gene
LCT che la produce siano associati,
negli organismi che presentano queste mutazioni, con la persistenza (ereditabile)
della lattasi dall’infanzia fino all’età adulta, ragion per cui questi
organismi possono consumare latte d’origine animale senza problemi di
malassorbimento, e questo grosso modo si sospetta sia avvenuto in un’economia di
sussistenza già dedita alla pastorizia ca. 6 000 anni fa, specificamente in una
popolazione nomade di pastori di renne (sulla domesticazione della renna, Rangifer tarandus tarandus, v. infra) vicino ai monti Urali, in Russia (si ricorda che altri dice che la tolleranza al
lattosio data a partire da ca. 10 000 anni fa e che solo via via la frequenza
dell’allele è poi aumentata, a basse frequenze 8 000-7 000 anni fa e poi, dal 6
000 e solo in certe aree geografiche, ad alte frequenze); in ogni caso, la distribuzione
del fenotipo tollerante al lattosio si sovrappone al reperimento dei siti che,
in quest’arco temporale di 10 000 anni, mostrano presenza d’attività pastorali
legate all’allevamento di animali da latte e all’attività di produzione, di stoccaggio
e di distribuzione del latte e dei prodotti caseari (sovrapposizione in cui
l’insorgere della mutazione segue l’adozione della pastorizia, ossia una
costruzione di nicchia culturale, dunque una coevoluzione cultura-gene che va
sotto il nome di Cultural Historical
hypothesis; la cui contro-ipotesi
è quella che afferma che la tolleranza al lattosio è stata consentita prima dall’insorgenza
d’una mutazione cui solo a seguire s’è affermata con la diffusione dell’allele
collegata alla pratica culturale della pastorizia che ne ha permesso la persistenza)
e che si ritrova nei climi aridi e caldi e alle alte altitudini; nei climi
aridi e caldi là dove ci sono popolazioni di pastori nomadi che vivono in zone steppose e desertiche, qual è il caso, per esempio, della
Penisola Araba, dove il latte di dromedario (Camelus dromedarius, v. supra
e infra) è usato dai pastori nomadi, i
beduini, e a partire da ca. 4 000 anni fa, come alimento di base che risulta
essere, per coloro che lo consumano, oltre che una fonte di cibo, anche una preziosa
sostanza liquida incontaminata; mentre nei climi freddi il consumo di latte da
parte delle popolazioni nomadi di pastori, oltre che ai citati benefici, apporterebbe
loro anche il calcio, ciò che permetterebbe d’evitare la diffusione nella
popolazione delle patologie
delle ossa (rachitismo e osteomalacìa, v. infra), presenti nei detti climi delle alte altitudini a causa
d’una scarsa irradiazione solare (detta Calcium
absorption hypothesis; v. infra; sul problema della
tolleranza/intolleranza al lattosio, v. supra
e infra); un altro esempio di coevoluzione cultura-gene in atto lo si ritrova nelle
popolazioni che appartengono alla famiglia linguistica Kwa dell’Africa occidentale e che coltivano yams (lo yam, o Dioscorèa, della famiglia delle Dioscoreacee, è un tubero d’amido
commestibile d’una pianta rampicante presente nei paesi
tropicali e subtropicali) e i cui i metodi di coltura, vale a dire di gestione antropica
dell’ambiente, hanno favorito l’emergere nelle popolazioni di un’emoglobina
(Hb) con una mutazione che ha dato origine all’emoglobina S (HbS) che protegge i
portatori sani dell’anemia falciforme dalla malaria; bisogna, infatti, sapere che
per fare crescere queste colture di yam gli
agricoltori hanno dovuto tagliare delle radure nelle foreste marginali, ciò che
ha avuto l’effetto, durante le piogge (e lo yam
s’inizia a coltivare quando inizia la stagione delle piogge), d’aumentare la
quantità di acqua stagnante a causa delle diverse modalità di drenaggio dei
suoli, ciò che a sua volta ha creato, complice anche il clima con temperature
che s’aggirano sui 25-30° C, la possibilità d’incrementare la presenza di
popolazioni di zanzare apportatrici di malaria (zanzare femmine infette del genere Anopheles) e, pertanto, la
diffusione della malaria nelle popolazioni che hanno creato queste stagnazioni
(v. infra); fatto salvo che la
malaria ha una fase di sviluppo che coinvolge i globuli rossi dell’organismo infettato,
è questa diffusione della malaria che ha creato le condizioni per una
coevoluzione gene-coltura, nel senso che la pratica antropica di deforestazione
a fini alimentari ha favorito la formazione di varianti dell’emoglobina, ossia
mutazioni del materiale genico codificante l’emoglobina, ciò che ha portano a
emoglobinopatie, quale è il caso dell’emoglobina S, o HbS, che presenta in dati
casi una più alta resistenza alla malaria, ciò che conduce a un significativo
vantaggio evolutivo (se pur relativo) per i portatori di tale mutazione ch’è
molto frequente nelle popolazioni per le quali risulta più alto il rischio di
contrarre la malaria; questo perché, se la malaria è molto diffusa in una data
area geografica, essere portatori di un solo allele falciforme nell’emoglobina
conferisce un vantaggio ai portatori sani dell’emoglobinopatia che sono
soggetti a sintomi meno gravi quando sono infettati (l’allele è poi detto
falciforme perché è la cellula, deformandosi per una carenza d’ossigeno, crea
una struttura a falce, o sickle, da
cui la sigla HbS che aggiunge a Hb la S di sickle);
infatti, è da ricordare che l’emoglobina permette il metabolismo energetico
aerobico, ed è una proteina combinata con il ferro ch’è raccolta nei globuli
rossi del sangue ed è dotata della funzione di combinarsi reversibilmente con
l’ossigeno molecolare O2, cioè d’assumere ossigeno a livello dei
polmoni e di cederlo ai vari tessuti del corpo per permetterne la respirazione
cellulare e, nella fase seguente della respirazione, di trasportare il diossido
di carbonio, CO2, dai tessuti ai polmoni per l’espulsione; ancora,
che l’anemia falciforme (o falcemia o
sickle-cell disease) è una forma ereditaria di carenza d’ossigeno nei
globuli rossi causata dalla detta mutazione del gene che codifica la catena β
dell’emoglobina che, negli individui eterozigoti che possiedono nella catena
mutante un allele normale e uno mutante produce effetti non gravi e protegge
dalla malaria (e quelli che portano un solo tratto falciforme, o Sickle-cell trait, sono detti portatori
sani), a differenza della gravità dei sintomi (che portano a una ridotta
aspettativa di vita) che si presenta negli omozigoti che, nella detta catena,
presentano una coppia di alleli mutanti; da ricordare che qui la variabile
cruciale, cioè la quantità d’acqua stagnante nell’ambiente conseguenza della
coltivazione yam, è in sé una
variabile ecologica e non una variabile culturale che, in parte, dipende da
fattori che sfuggono al controllo della popolazione (cioè dalla quantità delle
effettive precipitazioni nell’area coinvolta; quindi, in senso stretto, il
legame tra l’eredità culturale e quella genetica non è diretto giacché i due
sistemi ereditari, genetici e culturali, necessitano dell’intermediazione d’una
variabile intermedia di tipo abiotico ed ecologico; ma, il fatto che si possa poi
affermare che le popolazioni adiacenti a quelle degli agricoltori yam che, in Africa occidentale, presentano
pratiche agricole non legate alla produzione di questa risorsa trofica, non
mostrino lo stesso aumento nella frequenza allelica dei coltivatori di lingua Kwa può essere di supporto a una
conclusione che affermi che le pratiche culturali possono guidare l’evoluzione
genetica; come lo yam, ch’è un tubero
ricco d’amido, contengono amido anche le patate, le farine di frumento, di mais,
d’orzo, d’avena, di segale, il riso etc.,
e il consumo di questi prodotti amidacei nella dieta umana si presenta come
fortemente strutturato a partire dalle società agricole, questo perché l’amido ha
costituito e costituisce il carboidrato (o glucide) tra i più importanti nella
dieta umana, tanto che questi, per il tramite del suo massiccio consumo nella
costruzione d’una nicchia culturale in fase d’espansione, ha ingenerato anche risposte genetiche
per favorire la sua assimilazione; l’amido, che appartiene al
gruppo dei polisaccaridi, si forma nelle parti verdi
delle piante per fotosintesi da acqua e diossido di carbonio, e s’accumula
quale sostanza di riserva nelle radici, nei tuberi, nei semi (là dove rappresenta
una riserva d’energia per la pianta in crescita) e le quantità più elevate d’amido
si trovano nelle cariossidi (v. infra)
dei cereali e nei tuberi della patata, se pure ne ritrovano, ma in minori quantità,
anche nei legumi, nella frutta etc.
(e ci si ricordi, a questo proposito, di quanto sopra detto rispetto alle variazioni
di consumo di bulbi, tuberi, radici e rizomi nel genere Homo, cioè degli organi di riserva sotterranei, o USO, underground storage organs, che sono
cibi ad alto valore nutritivo, cioè amidi che potrebbero avere facilitato la
comparsa iniziale e la diffusione di Homo
erectus dall’Africa; per inciso, dal punto di vista nutrizionale l’amido apporta,
per ogni grammo, 4,2 kcal); nell’organismo la digestione degli amidi si
presenta a partire dall’insalivazione nella bocca dei detti cibi masticati
(dove di fatto avviene, a livello di quantità, una notevole digestione dell’amido) e sono le ghiandole
salivari che, per il tramite dell’amilasi prodotta, catalizzano il primo passaggio
nella digestione degli amidi (dove l’amilasi rappresenta un gruppo d’enzimi che
catalizzano l’idrolisi del legame α-1,4-glicosidico dei polisaccaridi
costituenti l’amido per arrivare poi a formare una miscela di glucosio e
maltosio; l’amilasi salivare, o α-amilasi, è detta anche ptialina, v. infra, ed è la prima espressione
dell’amilasi); è poi il gene AMY1 che codifica l’enzima presente nella saliva come amilasi salivare (v. infra), e poiché il consumo d’amido in Homo sapiens
si stima si sia storicamente presentato a partire da ca. 200 000 anni fa per
poi differenziarsi nelle varie società presentandosi, a partire dalla
transizione neolitica, come una caratteristica alimentare propria alle società
agricole, e questo a differenza delle società dei cacciatori-raccoglitori delle
foreste fluviali e dei territori circumartici (escluse dunque quelle società di
cacciatori-raccoglitori che hanno operato e operano in ambienti aridi, per
esempio, gli Hadza, v. supra) e di
quelle pastorali, che consumano molto meno amido, è allora possibile che queste
differenze alimentari portino a pressioni selettive diversificate in società
culturalmente diverse nelle modalità di sfruttamento antropico dell’ambiente, cioè
che le differenze di dieta nell’esposizione agli amidi, dovute ai vincoli
storici contingenti via via presentatisi, abbiano agito sull’amilasi salivare,
come mostra, per esempio, il fatto che gli individui provenienti storicamente da
popolazioni che hanno praticato diete ad alto contenuto d’amido (o high-starch) hanno, mediamente, più copie
AMY1 rispetto a quelli con diete
tradizionalmente a basso contenuto d’amido (o low-starch), là dove il più alto numero di copie AMY1 è nei fatti ipotizzabile come opera d’una selezione naturale che ha
plasmato una variazione del numero di copie AMY1 in funzione del miglioramento digestivo degli alimenti ricchi d’amido (si
ricorda, ancora, che l’amilasi salivare persiste nello stomaco e nell’intestino
dopo l’ingestione, ciò che aumenta in tal modo l’attività enzimatica dell’amilasi
pancreatica nel piccolo intestino, come dire che un numero di copie superiore di
AMY1 è in grado di migliorare l’efficienza
con cui diete ricche d’amido sono digerite in bocca, nello stomaco e nell’intestino
potendo, così, anche tamponare gli effetti di riduzione della fitness di
problemi intestinali eventualmente presenti); ed è notevole il fatto che la
transizione neolitica (in tutte le aree dov’è avvenuta) abbia coinvolto anche la
dieta del cane (Canis familiaris, v. infra), all’epoca in fase di domesticazione,
dando inizio ad una coevoluzione biologica e culturale cane/uomo, coevoluzione
che s’ipotizza con il fatto che la dieta del cane in questo periodo muta
profondamente poiché, come mostrano alcune indagini paleogenetiche sul DNA
antico (ancient DNA, aDNA) di alcuni
esemplari di canidi (v. supra; qui si
tratta di cani e lupi) sparsi in Eurasia, inizia a digerire gli amidi
provenienti dai cereali, cioè da risorse trofiche di scarto, ma edibili, dei
prodotti agricoli coltivati da Homo
sapiens (il quale modifica, a sua volta e come sopra visto, dieta e
modalità digestive), e questo grazie all’enzima dell’amilasi
pancreatica codificato dal gene AMY2B, che nel DNA del cane presenta un’amplificazione genica, tanto che questo
gene arriverà, dalle iniziali 2 copie precedenti a 8-7 000 anni fa, a essere
presente con copie via via più numerose con il decorrere del tempo (e con
l’affermarsi definitivo delle pratiche agricole in Eurasia) fino alle attuali e
possibili 34 copie, ciò che traduce il passaggio da una dieta esclusivamente carnivora
a una onnivora, e questo mentre un parente stretto, il lupo (Canis lupus, v. infra), con il suo tipo di dieta radicalmente carnivora ne presenta
a tutt’oggi, e nella più parte dei casi (60 %), solo 2, ciò che può fornire ai
cani domesticati un forte vantaggio adattivo in un contesto agricolo, legato
probabilmente questo più al cambiamento della dieta e delle abitudini
alimentari di Homo sapiens durante il
Neolitico piuttosto che a un rilassamento delle naturali pressioni selettive
legate a una fase della domesticazione del cane (e un’analoga ristrutturazione
dietetica è stata vissuta anche durante la domesticazione dal gatto, Felis catus, come si sostiene per i gatti di Quanhucun, in Cina, che
hanno modificato e allungato le loro viscere per l’estrazione e l’assimilazione
dei principi nutritivi presenti nel consumo del miglio comune, Panicum miliaceum, loro offerto dagli
agricoltori all’altezza 6-5 000 anni fa, v. infra); e che il tutto sia probabilmente legato al cambiamento della dieta e
delle abitudini alimentari di Homo
sapiens, cioè alla costruzione di una nicchia culturale, questo lo mostra anche il
fatto che alcuni canidi selvatici o semidomesticati, quali i dingo australiani (Canis dingo) e i siberian husky, che provengono da regioni dove le pratiche agricole
erano inesistenti, o si sono presentate tutt’al più recentemente (come dire che
si parla di canidi la cui dieta storica predilige, per il dingo, la carne e,
per i siberian husky, la carne e il
pesce), presentano, i dingo, 2 copie del gene AMY2B al pari del lupo
e, i siberian husky, da 4 a 8 copie; e senza dimenticare, primo, che l’adattamento a una dieta amidacea (e relativamente
ricca di scarti) da parte del cane ha avuto un impatto non solo sulle funzioni
digestive, ma anche sui tratti morfologici legati al mordere e al masticare (per
esempio, sui denti, il cranio e la conformazione della mandibola); secondo, che
analisi genetiche di popolazione canine hanno permesso di identificare un
elenco di geni sotto selezione positiva durante il processo della loro domesticazione
che si sovrappone a lungo con la relativa lista dei geni selezionati
positivamente nello stesso periodo negli esseri umani, tanto che c’è chi
sostiene che quest’evoluzione parallela (dove la selezione naturale, spinta da
pressioni ambientali fra loro convergenti, potrebbe avere lavorato su una serie
analoga di geni nei genomi tanto di Canis
familiaris quanto di Homo sapiens)
è più evidente nei geni implicati nella digestione, nel
metabolismo, nei processi neurologici (v. infra)
e, infine, nell’insorgere di forme tumorali maligne; sempre restando
nell’ambito della dieta del genere Homo,
si possono valorizzare le modalità di cottura degli alimenti sulle braci di
legna (per esempio, della carne o degli USO, underground storage organs)
al fine d’incorporare un ventaglio più ampio di risorse trofiche
(v. supra e infra), modalità che però presentano un fattore negativo, di
rischio, in quanto fanno sì che ci s’esponga al fumo, cioè che s’inalino
durante la cottura degli elementi nocivi causati dalla parziale combustione di
sostanze organiche (il detto legno), principalmente idrocarburi policiclici
aromatici (Polycyclic aromatic
hydrocarbons, PAH); lo stesso se si usa il fuoco per riscaldare un
ambiente che poi diventa fumoso e può causare asfissia da fumo (per esempio, quando
il genere Homo trova un riparo contro
il freddo a fronte d’ambienti ostili, e laddove i focolari sono poi posti in una
posizione centrale nelle profondità delle caverne, là dove avvengono le
pratiche sociali legate alla sopravvivenza) o, volendo, con l’uso controllato
del fuoco da parte dei cacciatori-raccoglitori per stanare le prede o per
essiccare o affumicare la carne (rendendola così adatta allo stoccaggio o al
trasporto), o per preparare il terreno a pratiche di coltura in società
seminomadi, cioè per arricchire il suolo di azoto al fine di renderlo fertile
per la semina per una stagione (v. infra),
o perché serve a controllare lo sviluppo di un certo
tipo di vegetazione, oppure quando lo si usa come strumento
di difesa contro i predatori e d’offesa contro i nemici, o in quanto permette la visione notturna, o, a partire dal Neolitico, quando
s’usa il fuoco regolato per manipolare i metalli e le argille per la
costruzione di strumenti etc.; insomma quando
si presenta una costruzione di nicchia che, grazie alla tecnologia del fuoco
(v. supra), introduce un nuovo regime
ecologico estremamente versatile (che rimanda, per inciso, alla profonda
alterazione d’un equilibrio naturale e d’un paesaggio) e che, in quanto costruzione
di nicchia culturale, cioè socialmente trasmessa, diventa irreversibile; ossia
da quando il genere Homo è stato in
grado di controllare il fuoco opportunistico (v. supra), ecco che si presenta un effetto collaterale non previsto,
un metabolismo xenobiotico (v. infra) che porta a effetti negativi per Homo Neanderthalensis, ma che, grazie a una mutazione intervenuta
in Homo sapiens, permette la
convivenza, diciamo così, con gli idrocarburi policiclici aromatici; infatti,
l’uso continuato del fuoco, oltre ai benefici, ha un costo per la salute del
genere Homo in quanto il fumo prodotto
dalla combustione (di legno o d’altro materiale organico) genera un insieme di
fini particelle solide (o particolato) che contiene svariate sostanze chimiche
tossiche e irritanti, compresi i citati PAH; particolato che, ad alte
concentrazioni, può causare reazioni tossiche acute e una successiva tossicità
cronica
che, nelle citate collettività, potrebbero arrivare a un’alta frequenza percentuale (o a un elevato tasso di morbilità), tra cui, a causa
dell’esposizione materna al fumo, a un aumento della morte programmata delle cellule
germinali femminili (o apoptosi degli ovociti) e a un aumento del tempo di
gravidanza e, per i neonati, a un elevato rischio di basso peso legato a un’alta
mortalità infantile e, nei maschi, a una ridotta spermatogenesi e, in generale,
a infezioni respiratorie acute e all’introduzione di fattori mutanti che sono in grado di causare dei tumori (sono cioè fattori oncògeni); ora, s’è
detto, sopra, metabolismo xenobiotico, là dove con il termine xenobiotico si rimanda
a quell’insieme di sostanze naturali (cui s’aggiungono, oggi, le sostanze
attive sintetizzate ex novo da Homo sapiens) che sono estranee al normale
metabolismo dell’organismo, dunque a ciò che mangia, beve o respira; sostanze
che possono presentarsi come atossiche o tossiche, e dove il grado di tossicità
è presente quando queste sostanze sono in grado di produrre un danno a carico
dell’organismo che si ritrova a metabolizzarle, danno che nel caso dei tossici idrocarburi
policiclici aromatici è alleggerito in Homo
sapiens (diversamente che in Homo
neanderthalensis) come mostra una recente analisi dei dati di sequenze paleogenetiche
sull’esoma (grossomodo con il sequenziamento delle regioni codificanti del
genoma d’un individuo in grado d’esprimere proteine) di 3 Homo neanderthalensis (uno nello strato 11 della grotta di Denisova
nei Monti Altai, in Siberia, Russia, detto Altai
Neanderthal; uno dalla Cueva [cava]
del Sidrón nelle Asturie, a Nord-Ovest
della Spagna e l’ultimo dalla grotta di Vindija, nel Nord della Croazia) e di
un uomo di Denisova (sempre dalla grotta di Denisova, da cui deriva il suo nome,
dove sono stati trovati, tra gli strati 9-11, dei suoi reperti fossili che lo
imparentano, come ominine, con Homo
neanderthalensis; questa grotta, inoltre, è stata frequentata oltre che dal
detto Homo Neanderthalensis, anche da
Homo sapiens); questi dati sono poi
stati confrontati con il DNA di 9 Homo
sapiens (3 d’origine sub-sahariana, 3 d’origine europea e, infine, 3 d’origine
asiatica); a seguito delle analisi, la discontinuità tra Homo neanderthalensis e Homo
sapiens è emersa grazie alla differenza che si presenta nel recettore
arilico per gli idrocarburi (aryl
hydrocarbon receptor, AHR; scritto anche come Ah Receptor), cioè in quel recettore che regola la risposta metabolica
dell’organismo ai PAH (questo perché l’AHR è coinvolto nella regolazione dell’espressione
di numerosi geni, per
esempio quelli che codificano per enzimi coinvolti nel metabolismo, come
il gene CYP1A1, ossia è una proteina
che, come fattore di trascrizione del DNA, posta a fronte delle molecole di idrocarburi
policiclici aromatici può presentare degli errori di trascrizione recettore; da non dimenticare però che questo recettore, oltre a funzioni
esogene, influenza anche numerose funzioni endogene, tra cui il metabolismo
lipidico e la funzione immunitaria); infatti, in Homo sapiens, rispetto a Homo
neanderthalensis, questi composti tossici prodotti dal mangiare carne cotta
alla brace e dall’esposizione al fumo, grazie a una differenza presente nel
recettore arilico, ossia a una mutazione, sono metabolizzati molto più
lentamente, con meno danni all’organismo; vale a dire che presentano un
cambiamento funzionale significativo nella tolleranza ambientale, un’evoluzione
nella risposta al fuoco/fumo e alle sue componenti xenobiotiche che si traduce, in
Homo sapiens, a una versione mutante
della proteina AHR ch’è di 150-1 000 volte meno sensibile agli effetti deleteri
del fumo rispetto a Homo neanderthalensis; in dettaglio, nella proteina AHR il cambiamento riguarda un singolo
aminoacido, che in Homo sapiens
presenta nella posizione 381 una valina (Val381; variante derivata), mentre in Homo neanderthalensis e in Homo di Denisova in questa posizione c’è
un’alanina (Ala381; variante ancestrale), mutazione scritta come A → V381 AHR; mutazione, lo si ripete, che permette a Homo sapiens una desensibilizzazione nei confronti di date sostanze
xenobiotiche tossiche, ossia rallenta la produzione degli enzimi in gioco per
la trasformazione degli idrocarburi che sono responsabili della generazione dei
metaboliti tossici, mentre, al contrario, in Homo Neanderthalensis si presenta un’accelerazione nella produzione
degli enzimi che dovrebbero metabolizzarli, fenomeno che sovraccarica il
metabolismo e produce una tossicità cellulare perniciosa (da ricordare,
infatti, che i metaboliti svolgono anche una funzione di regolazione del
metabolismo dato che variazioni della loro concentrazione sono in grado
d’influenzare la velocità e l’andamento delle reazioni in gioco decelerandole o
accelerandole; là dove un metabolita è poi il prodotto d’una reazione e,
insieme, la causa di un’altra reazione nel complesso di tutte le reazioni di
biosintesi e di degradazione proprie all’organismo, cioè di trasformazione
delle molecole); per inciso, ancora, l’alanina, o acido α-aminopropionico, è un
aminoacido non essenziale; la valina, o acido
α-aminoisovalerianico, è un aminoacido essenziale, v. supra); di qui, dato l’articolato sopra esposto di fatti, s’è
sviluppata nei ricercatori l’ipotesi d’un vantaggio selettivo contro gli effetti
collaterali negativi della PAH per la specie (tra i quali la detta
spermatogenesi e l’apoptosi degli ovociti), vantaggio dunque che sarebbe legato
poi a un miglioramento, nella popolazione di Homo sapiens, della fitness;
questo in base al noto principio che se una mutazione genera una variabilità
genetica casuale in una popolazione (per esempio, Homo sapiens che presenta una mutazione che protegge il suo organismo
dagli effetti nocivi del PAH), si ha che, quando una popolazione sperimenta nella
costruzione di nicchia un’esposizione a livelli elevati di PAH, ecco che gli
organismi che trasportano la mutazione sono in grado di sopravvivere e
riprodursi in presenza di questi livelli elevati di PAH e in più risultano favoriti
nella riproduzione perché lasciano agli eredi un genoma adattato a quella
specifica nicchia culturale, con l’effetto transgenerazionale finale d’avere geni
che codificano per la resistenza alla PAH che si ritrovano via via sempre più
diffusi nelle popolazioni che si susseguono e che adottano lo stesso stile di
vita (oltre che in Homo sapiens,
questo meccanismo si presenta anche in alcune popolazioni di pesci all’interno
di habitat altamente inquinati, ciò
che fornisce una forte evidenza al fatto che i vertebrati possono adattarsi a
una pressione evolutiva dovuta a una persistente esposizione a ligandi AHR
ambientali tossici, come mostra il rilascio
industriale ad alta concentrazione, durato per ca. 30 anni, nel fiume Hudson,
negli Stati Uniti, dei planari bifenili policlorurati, planar polychlorinated
biphenyls o PCB, riconosciuti per essere dei potenti ligandi
AHR, ciò che ha portato le popolazioni di Atlantic
tomcod, o Microgadus tomcod, che
lo abitano a evolversi, e nel giro di poche generazioni, si suppone ca. 60
anni, in un modo all’incirca analogo a quello sperimentato da Homo sapiens, in un modo cioè che permetta
loro di resistere a molti degli effetti negativi dovuti all’esposizione al PCB,
per esempio la mortalità embrionale acuta in condizioni di sovraesposizione
dell’AHR ligando; sul concetto di ligando, v. supra); sempre nell’ambito della manipolazione degli alimenti,
della loro cottura, legate a uno sviluppo culturale che vede implicati
meccanismi di regolazione del cervello, dei denti e del tubo digerente, e di
cui si parlerà a seguire a proposito della pratica del cucinare, è interessante
un fenomeno che riguarda il gene MYH16 che codifica la
principale proteina contrattile che costituisce i tessuti dei muscoli,
denominata miosina, implicata nei muscoli masticatori dei primati non umani, e che ha subito una delezione nel lignaggio degli ominini,
dove con delezione s’intende una mutazione genica che consiste nella perdita di
uno o più nucleotidi in una sequenza di DNA; ora, si sospetta che questa
mutazione possa provocare una massiccia riduzione nei muscoli masticatori della
mascella (la mutazione è riconducibile a ca. 2,4 milioni d’anni fa), vale a
dire che s’ipotizza che la riduzione marcata delle dimensioni di singole
fibre muscolari e di interi muscoli masticatori, ossia il decremento (in
termini di dimensioni) dei muscoli masticatori la cui causa si ritrova nell’inattivazione
di MYH16, abbia rimosso, a partire da
ca. 2 milioni d’anni fa (nel passaggio da Paranthropus
a Homo ergaster/erectus, v. supra), un
vincolo evolutivo sull’encefalizzazione negli ominini, questo permettendo ai
piccoli muscoli della mascella di rimodellare il cranio giusto quando la
capacità cranica è in fase d’espansione, questo perché la ridotta dimensione
dei muscoli della mascella ha necessità di una regione del cranio molto più
piccola per il fissaggio di questi muscoli alla struttura ossea (e va da sé che
il gene MYH16 dei primati non umani
fa sì che questi continuino a presentare presentano potenti muscoli in una mascella
massiccia ch’è legata alla loro dieta crudista, muscoli che, causa il loro
ampio spazio d’ancoraggio richiesto alla struttura ossea, non hanno lasciato spazio
all’espansione del cranio); la figura seguente mostra che la dimensione
relativa dei muscoli masticatori è molto diversa tra primati non umani e Homo sapiens; partendo da destra,
abbiamo due crani di primati non umani, specificamente un cranio di Macaca fascicularis (un primate
principalmente frugivoro, con dieta completata da foglie, fiori, radici,
cortecce, insetti, uova d’uccelli e piccoli vertebrati) seguito dal cranio di Gorilla gorilla (un primate folivoro,
frugivoro e, in modo opportunistico, insettivoro nel privilegiare termiti e
formiche); a sinistra in cranio di Homo
sapiens (un primate con dieta onnivora); le differenze nella muscolatura nei
tre crani (robuste vs. fragili) si
riflettono in alcune caratteristiche delle morfologie craniofacciali, quali la
fossa temporale e zigomatica evidenziate in rosso nei tre crani:
Figura
n. . Fonte (modificata): Stedman et alii, 2004, p. 417.
Il
tutto che s’è cercato di descrivere s’è poi verificato con
una cadenza temporale che grossomodo può coincidere con la probabile comparsa
storica della cottura (là dove la masticazione di cibi cotti d’un ominine
onnivoro è facilitata rispetto alla masticazione specializzata dei cibi crudi
nei primati non umani, v. supra); se quest’ipotesi
sarà confermata (poiché non tutti gli studiosi sono in ciò concordi, lo stesso
per la data della mutazione spostata, per esempio, a 5,3 milioni d’anni fa), è come dire che
siamo in presenza del fatto che un processo culturale ha contribuito a rimuovere
un vincolo genetico che impediva un cambiamento morfologico, specificamente
quello in grado di correlare la morfologia craniofacciale con la modificazione
della forza della contrazione muscolare masticatoria (ed è poi più che
probabile che diverse altre delezioni geniche possano essersi verificate in
collaborazione con i cambiamenti nella dieta del genere Homo); la tabella seguente, a
riassunto, indica i geni identificati come oggetto d’una selezione
rapida, storicamente recente, dovuta a
pressioni selettive culturali:
GENI
[1]
|
FUNZIONE
O FENOTIPO
|
PRESSIONE
CULTURALE
|
LCT, MAN2A1,
SI, SLC27A4, PPARD, SLC25A20, NCOA1,
LEPR, LEPR, ADAMTS19, ADAMTS20, APEH,
PLAU, HDAC8,
UBR1, USP26, SCP2, NKX2‑2, AMY1,
ADH, NPY1R, NPY5R
|
Digestione
del latte e di prodotti lattiero-caseari; metabolismo dei carboidrati,
dell’amido, di proteine, di lipidi e fosfati; metabolismo dell’alcool
|
Produzione
di latte e uso alimentare del latte; preferenze di tipo alimentare; consumo d’alcool
|
CITOCROMO
P450 [2] (CYP3A5, CYP2E1, CYP1A2 E CYP2D6)
|
Disintossicazione
da
composti secondari della pianta
|
Domesticazione delle piante
|
CD58, APOBEC3F,
CD72, FCRL2, TSLP, RAG1, RAG2, CD226,
IGJ, TJP1, VPS37C, CSF2, CCNT2,
DEFB118, STAB1, SP1,
ZAP70, BIRC6, CUGBP1, DLG3, HMGCR,
STS, XRN2, ATRN,
G6PD, TNFSF5, HbC, HbE, HbS,
Duffy, α‑globin
|
Immunità
e risposta ai patogeni;
resistenza
alla malaria e ad altre
malattie
da affollamento (crowd
diseases)
|
Processi
di dispersione (di distribuzione d’una popolazione su un’altra vasta area); attività
agricole (compresi contatti con il bestiame domesticato); fenomeni d’aggregazione
e di successiva esposizione a nuovi agenti patogeni
|
LEPR, PON1, RAPTOR, MAPK14, CD36,
DSCR1, FABP2, SOD1,
CETP, EGFR, NPPA, EPHX2, MAPK1,
UCP3, LPA, MMRN1
|
Metabolismo
energetico, tolleranza al caldo o al freddo; geni heat-shock [3].
|
Dispersione e successive
esposizioni a nuovi climi
|
SLC24A5, SLC25A2, EDAR, EDA2R, SLC24A4,
KITLG, TYR,
6p25.3, OCA2, MC1R,
MYO5A, DTNBP1, TYRP1, RAB27A,
MATP, MC2R, ATRN, TRPM1, SILV,
KRTAPs, DCT
|
Caratteristiche
del fenotipo visibili esternamente, quali pigmentazione della pelle, spessore
dei capelli, colore degli occhi e dei capelli, lentiggini
|
Dispersione
e adattamento alla situazione locale e/o selezione sessuale
|
CDK5RAP2, CENPJ, GABRA4, PSEN1, SYT1,
SLC6A4, SNTG1,
GRM3, GRM1, GLRA2, OR4C13, OR2B6,
RAPSN, ASPM, RNT1,
SV2B, SKP1A, DAB1, APPBP2, APBA2,
PCDH15, PHACTR1,
ALG10, PREP, GPM6A, DGKI, ASPM,
MCPH1, FOXP2
|
Sistema
nervoso, funzioni cerebrali e processi di sviluppo; competenze linguistiche e
apprendimento vocale
|
Stato
d’esistenza d’una attività cognitiva complessa con la quale la cultura s’intreccia
per potersi manifestarsi [4]; intelligenza sociale; uso della
lingua e
apprendimento
vocale
|
BMP3, BMPR2, BMP5, GDF5
|
Sviluppo scheletrico
|
Dispersione e selezione
sessuale
|
MYH16, ENAM
|
Fibre
muscolari della mascella; spessore dello smalto dei denti
|
Invenzione
della cottura; dieta [5]
|
[1] si ricorda che
esiste una convenzione internazionale riguardante il modo con cui i nomi dei
geni e delle proteine sono scritti; s’usa, per geni e proteine appartenenti al
genere Homo, sempre la lettera maiuscola, scritta in corsivo per i geni
e in testo pieno (non in corsivo) per le proteine codificate dai geni; per le
altre specie, pur mantenendo il corsivo per i geni e il pieno testo per le
proteine, si scrive, di solito, in maiuscolo solo con la prima lettera.
[2] Il citocromo
P450 (CYP) metabolizza tanto le sostanze xenobiotiche o no che vengono ingerite
(anche composti potenzialmente tossici), quanto le sostanze interne, quali le
tossine che si formano all'interno delle cellule (come dire ch’è un
detossificante dell’organismo).
[3] Il termine heat-shock
è traducibile come shock termico, e i geni heat-shock limitano i
danni causati da esposizione a stress ambientali di qualsiasi tipo (specie
in condizioni estreme) e facilitano il recupero cellulare.
[4] V., infra,
il cervello sociale.
[5] Termine da
intendersi come l’insieme dei nutrienti utilizzati per garantire il fabbisogno
alimentare dell’organismo.
Tabella
n. . Fonte (adattata): Laland,
Odling-Smee e Myles, 2010, p. 143.
Detto delle
evidenze empiriche avanzate dalla genetica sulla ristrutturazione da parte
della cultura del genoma del genere Homo (coevoluzione
cultura-gene), restano ora da indagare le modalità di trasmissione degli
adattamenti cognitivi propri alla cultura e quali sono state le sue modalità
evolutive, insomma avvicinarsi a capire come funziona l’essere in esistenza del
repertorio delle pratiche e delle informazioni da cui dipende il genere Homo per la sua sopravvivenza (perché,
come ha detto qualcuno, soli e deprivati della nostra cultura, siamo senza futuro
come specie), e si sospetta fortemente che l’efficacia dimostrata da questo
processo evolutivo della cultura nelle specie del genere Homo (che si forma per accumulazione della memoria storica) dipenda
dalla formazione biologica d’una processualità cervello-mente a livello
individuale, dalla dimensione delle popolazioni (e dei rapporti fra gli
organismi che la compongono) e dalla qualità dell’interconnessione fra le reti nella
trasmissione dei pacchetti culturali, reti che sono poi socialmente prodotte grazie
all’insieme del lavoro materiale/immateriale fin lì accumulato e disponibile in
un dato momento storico; e sarà questo l’argomento a seguire.