Archivio blog

SOCIOGENESI DEL NOI


Oltre a quanto sopra suggerito (dalla teoria della costruzione di nicchia in avanti), può essere utile, per vedere con che modalità il dispositivo cervello-mente permette alle reti sociali d’appoggiarsi in modo epigenetico sulle reti neurali per cablarle, affrontare anche il problema teorizzato dall’ipotesi della selezione multi-livello (Multi-level Selection Theory, MST) dove si parla d’una selezione di un carattere o tratto, a livello di gruppo, intendendo poi per gruppo l’insieme degli organismi che arrivano a condividere questo tratto che permette loro d’arrivare a formare un sistema sociale coeso all’interno d’una popolazione (dunque valorizzando una selezione naturale che avviene nell’ottica delle dinamiche macroevolutive); questo con la clausola che i detti organismi, oltre al livello di gruppo, possiedono anche altri livelli che sono tra loro organizzati secondo la logica delle matrioske (una matrìoska è formata da una bambola di legno composta da una serie di bambole che si replicano con dimensioni diverse e sono contenute ciascuna, esclusa la più piccola, nella cavità di quella più grande che segue; e la logica che ne consegue, fuori metafora, è che ciò che compone un livello gerarchicamente più basso è incluso e fa parte di ciò che compone un livello gerarchico superiore), come dire che i livelli sono annidati e incistati uno dentro l’altro nella gerarchia biologica e dove i livelli nidificati di dimensione crescente implicati sono quello dei geni, delle cellule, degli organismi, dei gruppi, delle popolazioni, degli ecosistemi etc.; ancora, a ogni livello è presente una variazione che si traduce in un processo evolutivo che origina una selezione delle entità che lo compongono con caratteristiche sue proprie (per esempio, la selezione neurale differisce per operatività dalle altre selezioni), e ogni selezione a un livello agisce in sincronia con tutti gli altri livelli, per cui il gene s’esprime a livello molecolare, le molecole s’aggregano dando origine alle cellule che arriveranno a formare gli organi e i tessuti e dove l’assemblaggio di questi origina un organismo etc. (e può capitare che effetti minimi a un livello bio-gerarchico possano avere un’ampia portata su un livello precedente o successivo, per esempio, come capita nella coevoluzione cultura-gene, v. supra), ragione per cui complessivamente s’adotta, nell’ottica d’una teoria gerarchica, il termine selezione multi-livello; può quindi capitare che un dato gruppo d’organismi, in date circostanze, agisca come veicolo in un processo di selezione naturale (cioè in un processo basato sui principi di variazione/ereditarietà/adattamento), il che comporta uno sviluppo di quel tratto, che si sincronizza con gli altri livelli, e che partecipa, potenziandolo, alla sopravvivenza di quel gruppo in competizione con altri gruppi all’interno d’una popolazione, e dove, se si manifesta una competizione interna, cioè quella con altri individui del gruppo, questa risulta essere sempre subordinata alla competizione del gruppo vincente così come si manifesta nei suoi effetti storici in una popolazione; e quale esempio di questa selezione del carattere di gruppo si potrebbe avanzare la selezione parentale (kin selection) dove gli organismi del gruppo sono geneticamente imparentati tra loro e dove gli atti altruistici tra parenti, anche se a spese della propria sopravvivenza e riproduzione, aiutano la sopravvivenza e il successo riproduttivo del gruppo parentale (la sua fitness) o, meglio ancora, si potrebbe citare l’altruismo che, per il tramite d’una pressione selettiva manifestatasi storicamente, fa sì che un gruppo (un’unità sociale) sia il veicolo d’una selezione che, favorendo il tratto altruistico in questi organismi, ne potenzia anche l’abilità competitiva nei confronti d’altri gruppi non altruisti migliorandone la fitness; e quello che vale per l’altruismo può valere, essendo il genere Homo legato sempre a delle reti sociali, anche per altri tratti che investono le capacità relazionali, e dove, ancora, e in generale, è implicito che la selezione del carattere di gruppo porta vantaggi di fitness a ogni singolo individuo del gruppo coeso (questo per il tramite della selezione naturale a livello dell’organismo), con la clausola che questo tratto selezionato può però essere adattativo, cioè manifestarsi e agire, solo a livello di gruppo, e quale esempio, si vedano i modi di produzione della cultura materiale e l’esplicarsi delle norme sociali che, nelle loro metamorfosi, sono il risultato di processi storici che coevolvono e che per manifestarsi richiedono in prima istanza (a livello delle competenze operative acquisite tramite la trasmissione verticale e a livello dell’autocontrollo richiesto nella sempre presente competizione infragruppo) un adeguamento dell’organismo a un controllo normativo che coinvolge il corpo intero e che traduce una selezione che avviene a livello di gruppo e che può manifestare i suoi effetti (sempre storici) sull’ambiente solo a livello di gruppo (ciò che ci traduce un cablaggio delle reti neurali da parte delle reti sociali); dunque il gruppo, al pari degli altri livelli, è un’unità adattativa che investe un macro-livello che però risulta evidenziato solo nelle dinamiche storiche socio-economiche, e senza mai dimenticare ch’esistono sullo sfondo, all’interno d’una popolazione, anche le già dette selezioni multi-livello dove, con una logica verticale, dei vettori causali possono percorrere verso l’alto e verso il basso i livelli gerarchici presenti della gerarchia, tanto che i livelli bio-gerarchici così risincronizzati e in equilibrio partecipano storicamente anch’essi e, infine, premiano quei tratti che favoriscono la fitness d’un gruppo rispetto a quella d’altre unità sociali; e che il tutto avviene in un equilibrio, dinamico e mai statico tra i livelli, che s’esplicita storicamente, cioè variando nel tempo, tra i multi-livelli implicati (fatto salvo che l’adattamento, quale che sia il livello implicato, richiede a quel dato livello un processo di selezione naturale che però tende sempre a essere compromesso, nel senso di disgregato, dalla selezione naturale presente a livelli bio-gerarchici più bassi); per inciso, è poi da ricordare che la detta selezione multi-livello fa poi il paio con un’altra selezione nell’ipotesi della teoria gerarchica (Hierarchy theory), là dove la selezione multi-livello, riclassificata come gerarchia genealogica (Genealogical Hierarchy), è legata da rapporti di presupposizione reciproca alla gerarchia ecologica e economica (Economic Hierarchy), e dove, in questo modello duale, sono presenti (di là della sopra detta selezione verticale mobile) dei vettori causali che pongono in essere una trasmissione orizzontale che funziona secondo un modello detto dello sloshing bucket (difficile da tradurre alla lettera, su cui v. infra), il tutto nell’ottica di considerare sì la selezione naturale come una delle principali dinamiche causali, ma non escludendo anche la presenza, non solo sullo sfondo, d’altre dinamiche causali che possono essere coinvolte nei fenomeni evolutivi; quale esempio della  teoria gerarchica, si consideri l’estinzione di massa avvenuta alla fine del Permiano (v. supra) che ha cancellato tra l’80-90%, e forse oltre, delle specie viventi (altri dice 60%) e che ha mutato le condizioni ambientali in un modo tale che l’ecosistema globale ha impiegato ca. 5-10 milioni d’anni per ritornare in una situazione d’equilibrio resiliente e di ripristino d’una piena funzionalità biotica del globo, ciò che mostra la casualità d’una perdita al macro-livello dei taxa più alti (in termini di specie, generi e famiglie, ciò che investe la replicazione dell’informazione genetica e la riproduzione) e la causalità nella differenziazione dei nuovi taxa che s’evolvono nella biosfera (in termini di biocenosi e d’ecosistemi, ciò che investe, con la riconfigurazione delle nicchie lasciate vuote, il trasferimento di nutrienti/energia), dunque secondo una logica che mostra gli effetti di legame duale che investono e la gerarchia ecologica e quella genealogica (multilivello); il modello che s’impiega per esplicitare questa dualità è quello dello sloshing bucket, e per apprezzarlo ci s’immagini un secchio (bucket) pieno d’acqua che nel trasporto oscilla tracimando  da entrambi i lati acqua (sloshing), secchio che più oscilla, e più fa sversare acqua, ed è nei termini della quantità d’acqua fuoriuscita che s’applica questa metafora del secchio, là dove molta acqua fuoriuscita è equiparata a un degrado dell’ecosistema pari a un’estinzione di massa, con gli effetti sopra descritti; meno acqua sversata rimanda a una degrado dell’ecosistema non a scala globale, ma a scala regionale (lato della gerarchia ecologica), dunque con un impulso d’avvicendamento (turnover pulse) che prevede estinzioni minori e minori speciazioni (lato della gerarchia genealogica), oppure, che poca acqua tracimata è pari a una perturbazione ecologica locale con pochi o nessun cambiamento evolutivo; come dire che il secchio oscilla, in avanti e all’indietro, sversando acqua con frequenze ripetute o medie o infime, dalla gerarchia ecologica (un lato del secchio) alla gerarchia genealogica (l’altro lato del secchio) e viceversa, ciò che vuol dire, fuori di metafora, che il modello dello sloshing bucket afferma che la stima del cambiamento evolutivo possibile (speciazione/estinzione) è legata alle variazioni d’intensità e magnitudo del disturbo arrecato all’ecosistema (globale, regionale, locale), ossia ch’è l’interazione/fusione tra le due gerarchie che agisce sui modelli di evoluzione a tutte le scale dette, dunque che in questo modello duale sono presenti delle trasmissioni orizzontali bidirezionali tra le due gerarchie, tanto che nessun organismo sfugge dal fatto ch’è simultaneamente irrelato in entrambi i sistemi gerarchici (e vedi, a questo proposito, la teoria di costruzione di nicchia); ora, per riprendere la selezione multi-livello all’altezza d’uno sloshing bucket stazionario (dunque in uno spazio fisico, un biotopo, con una biocenosi che perdura nel tempo, v. supra), l’idea che un gruppo abbia un cervello sociale, ossia una mente distribuita ch’è collettiva (e dove le reti sociali, la cui impalcatura rimanda alla cultura materiale, s’appoggiano sulle reti neurali), è una logica conseguenza di questa teoria della selezione multi-livello (v., per esempio, gli insetti eusociali, supra); infatti, l’ipotesi del cervello sociale (Social Brain Hypothesis, SBH) rimanda al fatto che non esiste nessun confine facilmente identificabile tra lo stato mentale d’un organismo (là dove si trovano le competenze, le abilità e le credenze) e quello degli altri appartenenti allo stesso gruppo e questo perché il vivere sociale impone una collaborazione tra i soggetti all’interno d’una collettività che produce, per quanto la tecnologia sia stata o sia povera, una diffusione verticale/trasversale d’informazioni cumulate e integrate, cioè della conoscenza (pragmatica o altro) e delle credenze sociali che, dopo avere modificato con modalità epigenetiche le reti neurali, s’estendono e si distribuiscono al di fuori dei cervelli, nei corpi, negli strumenti che in un dato contesto ambientale si sono potuti utilizzare, insomma nella materialità che, sfruttando l’habitat nativo quale impalcatura (scaffolding) su cui appoggiarsi per quasi 3 milioni d’anni, ha circondato gli individui e in cui questi sono stati immersi (e quale esemplificazione si veda, supra, le società di caccia e raccolta nell’ipotesi della Landscape Mind Theory); tanto, che l’interazione fra gli organismi consiste alla fin fine nel sapere meglio sfruttare o negoziare le possibilità offerte dall’ambiente sociale emerso dal contesto ecologico, ciò che arriva a determinare un’interazione e una collaborazione tra gli agenti sociali che si costruisce in modo tale che non si sia più in grado di dire con certezza dove finisce il distribuito mentale di uno e dove comincia quello d’un altro, ciò che rende emergente una rete identitaria che, sorretta dall’intenzionalità congiunta dei detti agenti, rende oggettiva e operativa l’identità sociale del noi; e quanto qui s’ipotizza valga anche a dispetto di chi afferma l’autonomia mentale del soggetto (l’io) e lo fa ignorando le contingenze e i determinismi che l’interfacciano, il soggetto, all’impalcatura che sostiene il tutto, ossia la materialità dell’esistere in un ambiente spesso ostile che presenta un ruolo determinante nel vincolare le modalità d’essere e d’evolversi delle reti neurali degli organismi, reti poi legate, per necessità di scopo, anche al controllo diretto delle risorse proprie alla sfera emozionale degli organismi coinvolti (per esempio, con l’autocontrollo, v. supra) e che sono necessarie per la produzione delle reti sociali, cioè tutto quanto nel percorso storico del genere Homo è stato evolutivamente inglobato nella formazione dei legami sociali in cui l’affacciarsi dell’io è qui da valutare come un fenomeno contingente (senza però ignorare che nelle reti sociali sono presenti dei comportamenti antisociali che valorizzano l’io a discapito del noi e, infine, senza nulla togliere all’emergere nell’individuo dei correlati neurali nei processi di rientro, v., supra, tra cui il fenomeno della coscienza che dice io, su cui si ritornerà); per valutare quanto è in gioco nella maturazione del sistema nervoso, nella plasticità neurale del fenotipo e nel ruolo dell’algoritmo decisionale del noi (tratti che sono alla base dei meccanismi dell’apprendimento culturale gestiti e trasmessi, in prima istanza, per il tramite dell’interazione sociale), si prenda come oggetto d’analisi lo sviluppo d’un feto in bambino (ch’è classificato come tale da quando è neonato ai 6 anni ca.), sempre ricordando che l’affermazione del bipedismo nel genere Homo ha comportato nelle femmine un canale del parto ristretto che ha obbligato, per fare in modo che la testa del neonato possa attraversare un passaggio così stretto, che le sue dimensioni, alla nascita, non siano ancora completamente sviluppate (v. supra); il che comporta che il feto si presenti al parto in una fase di crescita decisamente prematura, che il neonato non sia autosufficiente nell’ambiente extrauterino, che siano necessarie lunghe cure parentali (senza però ignorare che qui l’unità d’analisi evolutiva, anche se sono coinvolte le figure genitoriali, non sarà la famiglia, ma il gruppo visto nell’ottica offerta dal modello di fissione/fusione, v. infra) e, soprattutto, che  la crescita del cervello sia completata extra-utero (alla nascita il cervello è all’incirca il 23% di quelle che saranno le dimensioni finali), e questo senza ignorare che i cervelli dei neonati (e del feto in fase di formazione) sono progettati per reagire solo a determinati aspetti della realtà (interni/esterni) e non ad altri, ossia presentano una struttura di base che li vincola a una interpretazione dei dati che guida il loro apprendimento, ciò che fa sì che il feto prima, i neonati, poi, siano strutturalmente equipaggiati per relazionarsi con competenza e attivamente con la realtà che li aspetta (ciò che, nella complessità del sociale del gruppo d’appartenenza, fa sì che sia loro distribuita una mente); valga, per esempio, l’osservare come un bambino apprende, questo partendo dal differenziarsi dei processi sinestetici nel feto (che è definito come tale a partire dalla 13a settimana di gestazione; per le fasi, v. supra) e qui valorizzando il fenomeno dall’imprinting che permette d’avviare un processo storicamente situato d’apprendimento e memorizzazione, quello che fa sì che il feto, ancora nell’utero, sia capace di riconoscere chimicamente l’odore della madre (proprio la di lei specifica impronta genetica, giacché ogni impronta olfattiva, o odortypes, è geneticamente determinata, è cioè un biomarcatore d’identità); e a riconoscere, a seguire, l’odore del collo, delle ascelle e delle secrezioni areolari dei capezzoli materni, e, entro 6 giorni dalla nascita, l’odore del latte materno, odori molto simili a quelli già conosciuti nel liquido amniotico (ciò che, grazie al continuum delle informazioni olfattive autorilevate dal feto nel liquido amniotico e postparto sulla madre, permette al neonato di orientarsi positivamente nel nuovo ambiente extrauterino, ossia di tradurre in comportamenti positivi quanto appreso e codificato attraverso un significante olfattivo di natura chimica che veicola esperienze affettive di sicurezza, cioè un legame d’attaccamento alla madre); e lo stesso la madre che impara durante la gravidanza a riconoscere l’odore del corredo genetico di suo figlio (il suo odortype) che si sta mescolando al suo e, finita la  gestazione, tra i tanti odori (anche quelli dei figli d’altre donne) è subito in grado d’identificare quello tipico di suo figlio (sono sufficienti tra i 10 minuti e un’ora di contatto post partum con il neonato, e una madre riconosce l’impronta olfattiva del figlio anche in sua assenza, per esempio su un indumento); odori che, attraverso un apprendimento che parte dai chemiocettori e arriva alle reti neurali, rafforzano dunque socialmente, con l’unicum della loro firma olfattiva, il rapporto diadico figlio/madre, madre/figlio (pare, infatti, che l’odore del corpo neonatale inneschi nelle madri, in ispecie nelle primipare, anche delle risposte corticali, cioè delle cascate neuroendocrine di rinforzo motivazionale del legame con il neonato all’interno del sistema dopaminergico di ricompensa; sulla dopamina, v. supra); sempre nell’utero il feto familiarizza poi con il tono di voce, con il ritmo e l’intonazione della madre, cioè con suoni che il feto cattura attraverso lo sviluppo dell’apparato uditivo (che avviene all’incirca tra i 2 e gli 8 mesi), suoni che quando sarà completata la connessione neurale tra la còclea e la corteccia uditiva, cioè quando sarà possibile la trasformazione dei suoni in impulsi elettrici, avranno l’effetto di catturarne l’attenzione, che sarà in seguito rinforzata nel neonato come preferenza uditiva nelle prime manifestazioni di vita extrauterina; attenzione che poi, in un finestra temporale privilegiata che inizia tra i 6 mesi (per le vocali) e i 9 mesi (per le consonanti) e trova il suo acme tra i 12 e i 16 mesi, verrà stimolata nel neonato con un modo di parlare a lui adatto (detto parlata da bimbo, o baby talk; si trovano anche, nell’uso, motherese, in italiano maternese, o child directed speech, linguaggio indirizzato a bambini) da parte di chi lo circonda (principalmente dalle figure genitoriali), modo che sembra obbedire a uno schema specie-specifico in quanto attestato in culture con lingue madri fra loro molto diverse (schema non da tutti gli studiosi accettato), e che consiste in uno schema stereotipato di rapporti comunicativi che ricorre a un preciso repertorio, ossia a un parlare a voce alta (per differenziarsi dai rumori di sottofondo); a un parlare lentamente (cioè con un’articolazione dei fonemi e delle sillabe lenta, accurata e con curva intonativa enfatizzata, questo perché i bambini processano le informazioni del flusso uditivo a metà della velocità degli adulti); a una riduzione della complessità sillabica delle parole (ossia con il ricorso a parole brevi per permetterne di reperirne i confini fonetici e l’assimilazione); a una semplificazione delle strutture morfosintattiche (per sottrazione di elementi grammaticali) e lessicali (attraverso l’uso dei diminutivi) della lingua; a un uso del tono acuto (estensione di frequenza alla quale i bambini sono sensibili a partire da ca. 3 mesi d’età); a un uso di parole ripetute (per esempio, con la ridondanza fonetica che ne favorisce la stabilità semantica); il tutto di questo parlare, che ha una valenza emotiva prima che comunicativa, è spesso accompagnato da componenti comunicative non verbali, quali l’indicare e il guardare gli oggetti nel mentre li si nomina (questo perché i bambini seguono sempre lo sguardo di chi interagisce con loro, v. anche infra), le mimiche esasperate del volto e i movimenti della labbra o la gestualità posturale coinvolgente del corpo, questo perché nel Baby Talk chi ascolta è impegnato in un doppio compito, deve elaborare degli algoritmi neurali per potere riconoscere la frequenza statistica dei fonemi della sua lingua madre (tra gli 800 che potrebbe articolare prima d’apprendere la lingua madre e che sono la somma dei fonemi delle lingue esistenti), cioè quell’apprendimento basato sulla regolarità statistica di pattern che stabiliscono connessioni nel cervello con le reiterazioni proprie alla lingua madre; deve, ancora, non solo ricorrere a un ascolto solo passivo dei fonemi e delle altre componenti linguistiche, ma deve effettuare anche una sintonizzazione emotiva con chi gli parla, cioè deve mettere in atto un ascolto attivo ch’è determinato dall’intensità dell’immersione in un dato contesto affettivo e sociale (come dire che la prevalenza emotiva del maternese è ciò che poi, di fatto, attiva il sistema cerebrale della ricompensa che l’attività d’ascolto presume, specificamente per le aree che usano la dopamina come neurotrasmettitore nel corso delle interazioni sociali, v. supra e infra); e se interessa, un sintomo preciso di avvenuta sintonizzazione figlio/madre lo si può poi reperire nel feedback positivo tra il sorriso sociale (social smiles) del bambino e quello della madre; infatti, se è vero che prima dei due mesi i bambini sorridono, sorridono però senza che sia presente una qualsivoglia correlazione con uno stato emotivo e solo perché scariche neurali spontanee nel tronco encefalico avvengono in prossimità della bocca (detto sorriso endogeno), correlazione che invece è presente nel sorriso sociale che si manifesta a partire dai 2 mesi e in cui è coinvolto un muscolo specifico presso l’occhio (il muscolo orbicolare) che non può essere controllato volontariamente, ma che s’evidenzia con una contrazione ch’è presente solo in concomitanza d’uno stato emotivo gratificante, contrazione che mette in moto il muscolo zigomatico maggiore che produce un sorriso e fa nel contempo arricciare gli occhi (sintomi visivi, questi, del sorriso autentico, o sorriso di Duchenne, ch’è possibile grazie una trasmissione veloce e un’elaborazione più efficace degli impulsi nervosi fra differenti aree del cervello dovuta alla mielinizzazione dei gangli della base, v. supra, che si ha appunto a partire dai 2 mesi); sorriso sociale, ancora, che viene plasmato con l’apprendimento e permette di manifestare nel corso del tempo un ventaglio di sorrisi in sintonia (lo stesso delle espressioni facciali) con la diversità dei contesti gratificanti che il bambino via via vive, un sorridere che dimostra competenza sociale e selettività e che trova la sua origine prima nel feedback con la figura della madre; detto questo, si può affermare che la strategia emotiva e comunicativa nel rapporto figlio/madre del Baby Talk ha dunque il ruolo di favorire nel figlio lo sviluppo delle reti neurali e l’integrazione delle reti sociali che vi s’appoggiano, vale a dire l’adattamento cognitivo al contesto e la capacità d’attenzione e di sviluppo affettivo nei processi di socializzazione del bambino all’interno del milieu familiare, questo grazie alla bidirezionalità del parlato (e al meccanismo della turnazione che è implicato nella relazione diadica) che instaura un feedback di rinforzo reciproco tra il parlato del bambino e il parlato della figura materna; il bambino inizia con un balbettio (o lallazione) e poi, a partire dalla finestra temporale sopra citata, continua il suo apprendimento con l’emettere prima lunghe serie di vocali, poi di consonanti che diventano , sui 10 mesi, delle combinazioni tra vocali e consonanti (cioè delle sillabe) ripetute in serie e via via si perfeziona fino a che, all’altezza di ca. 4 anni, è in grado di sviluppare frasi corrette (cioè occorrenze fonetiche, lessicali, sintattiche e semantiche obbedienti alla norma grammaticale); il parlato della figura materna parentale o di cura (il maternese), con il suo feedback positivo, compartecipa inoltre a questo processo per indirizzarlo, nel tempo, ad appropriarsi della norma grammaticale propria alla lingua madre; ossia gli permette d’impadronirsi del linguaggio (a partire dal reiterato controllo dei muscoli fonatori presente nell’esecuzione compulsiva dei fonemi della lingua madre o negli esercizi reiterati di messa insieme di sillabe incoerenti in quella che si chiama glossolalia), per arrivare a favorire lo sviluppo ch’è correlato con la maturazione di aree dell’emisfero sinistro associate al linguaggio, cioè permette al bambino d’appropriarsi di una tra le più importanti delle abilità sociali, il sapere comunicare, a partire dal linguaggio olofràstico (quello in cui una sola parola equivale, nell’uso che fa il bambino, al significato d’una frase intera), con il lessico e la sintassi usati nell’architettura della loro complessità, e il tutto con degli interlocutori semanticamente appartenenti alla stessa rete sociale e che ne condividono regole, comportamenti e stabilità emotive; per inciso, la parte cerebrale correlata alla semantica, cioè l’area di Wernicke, v. supra, mostra un picco di formazioni sinaptiche intorno agli 8-12 mesi con mielinizzazione grossomodo attorno ai 12 mesi o ai mesi seguenti, mentre la parte cerebrale correlata alla sintassi, cioè l’area di Broca, v. supra, mostra un picco di formazioni sinaptiche intorno ai 15-24 mesi, ma la mielinizzazione n’è ritardata ai 4-6 anni d’età (e non si dimentichi quanto detto sopra, cioè che la mielinizzazione procede per ondate che partono dalla zona posteriore del cervello per arrivare alla zona anteriore, e che le aree più vicine alla parte posteriore si modificano relativamente presto, mentre la corteccia prefrontale non raggiunge la piena maturità se non a partire dalla fine dell’adolescenza in un processo che dura fino all’inizio dei 30 anni; e lo stesso vale per la velocità dell’elaborazione neurale, ch’è lenta nel cervello d’un neonato dove il basso tasso di mielinizzazione degli assoni rende la velocità di trasmissione delle informazioni all’incirca 16 volte meno efficiente rispetto a quella un adulto; velocità che poi aumenta via via di conserva con l’aumento della mielinizzazione, raggiungendo il suo picco grossomodo verso la fine dell’adolescenza, sui 18-20 anni, salvo il fatto che questa velocità neurale è però ancora in essere poiché molte aree della corteccia frontale finiscono il processo di mielinizzazione, come già affermato, sui 30 anni); il che è dichiarare, se si valuta l’insieme di quanto detto a proposito del linguaggio indirizzato al bambino (sorriso sociale compreso), che la costruzione storica in divenire del suo mondo mentale rimanda a un dispositivo sociale che privilegia di fatto la matrice delle relazioni interpersonali fra bambino e madre, cioè a un cervello sociale distribuito che s’impianta grazie a una meccanica diadica che, garantite le necessità materiali e il rafforzarsi del legame figlio/madre con il sistema dopaminergico di ricompensa, incorpora e fa collaborare fra loro i bisogni relazionali del bambino con il comportamento specie-specifico della madre e delle figure di cura parentale (o caregiver), questo al fine precipuo di costruire una piattaforma che permetta al bambino d’imparare ad auto-organizzarsi con coerenza e senso di continuità del sé fino all’inserimento in autonomia all’interno d’una rete sociale; per quanto riguarda poi l’attenzione che il bambino presta ai volti e agli occhi, questa è tale già pochi minuti dopo la nascita ed è anch’essa soggetta a un processo d’apprendimento e perfezionamento (cioè a un’interpretazione e trasformazione di ciò che il bambino realmente percepisce del contesto esterno, percezione che si fa via via più evoluta nel corso del tempo, là dove è difficile distinguere tra ciò che esiste come materialità e ciò che si produce come un’attribuzione di significato a quella materialità, a noi esterna, ch’è dovuta al lavorio del cervello, questo perché nessuno di noi riesce a percepire la realtà qual è nel suo guazzabuglio di stimoli, bensì percepisce quello che la plasticità neuronale del cervello è stata addestrata a vedere dopo un processo di selezione/attenuazione/scarto della realtà in un dato e determinato contesto socio-economico; v., supra, quale esempio, la Landscape Mind Theory); apprendimento in cui date aree del cervello sviluppano gradatamente una risposta via via più specifica, specializzata, ai volti e allo sguardo diretto, e si tratta, nella neuroanatomia dei primati, tanto di un’area denominata come solco temporale superiore-anteriore, quanto di due vie d’accesso del sistema visivo attraverso le quali le informazioni visive sono trasmesse dalla parte posteriore del cervello ai lobi frontali, là dove i flussi di queste informazioni sono ulteriormente processate dal sistema magnocellulare (comune a tutti i mammiferi) e da quello parvocellulare (proprio solo ai primati); grossomodo, il solco temporale superiore-anteriore presenta popolazioni neurali che sono specializzate nella percezione dei volti e nella percezione del movimento degli esseri viventi (o movimento biologico); il sistema magnocellulare, che corre lungo l’area dorsale del cervello, è coinvolto nell’analisi del movimento e della profondità (terza dimensione) e quello parvocellulare, che segue un percorso ventrale ed è connesso direttamente all’amigdala (vale a dire a strutture cerebrali implicate nella percezione e elaborazione delle emozioni, v. supra), è coinvolto come sistema nell’analisi del riconoscimento, ossia nell’analizzare il dettaglio della forma e del colore (tricromia) degli oggetti legandolo al contesto emotivo e, almeno nelle specie di primati attive durante il giorno, la popolazione neurale parvocellulare è correlata a variabili quali la dieta e la dimensione del gruppo sociale, e si sospetta fortemente che gli strati parvocellulari siano aumentati nel corso dell’evoluzione dei primati allo scopo di meglio processare i dettagli dei flussi visivi legati alle dinamiche sociali, quali le espressioni facciali, la direzione dello sguardo e la postura dei partecipanti al gruppo sociale, stimoli che poi, grazie alle connessioni con l’amigdala, sono emotivamente connotati, cioè ritenuti segnali di percezione visiva socialmente rilevanti; e nei bambini, come negli altri primati, quest’evoluzione risponde sì ai segnali socialmente rilevanti, con la differenza (rispetto ai primati) che i bambini nel loro sviluppo sono più reattivi agli stimoli di rilevanza sociale perché, tra i 9 e i 14 mesi incominciano a manifestare un’attenzione congiunta (joint attention) che in seguito si fa condivisa (shared joint attention), intendendo con il fenomeno dell’attenzione congiunta la tendenza a focalizzare l’attenzione in prevalenza sugli stimoli di tipo facciale presenti nei soggetti di un contesto, tendenza che s’evolve nell’abilità di seguire la direzione dello sguardo di questi e di guardare nella stessa direzione focalizzando l’attenzione sullo stesso oggetto che un soggetto sta guardando (focus attentivo); mentre con il fenomeno dell’attenzione congiunta condivisa s’intende quell’abilità di trasferire lo sguardo dall’oggetto all’altro soggetto e poi di nuovo all’oggetto per verificare empiricamente, con quest’alternanza di sguardo, che si stia effettivamente guardando lo stesso oggetto, alternanza ch’è poi emotivamente connotata; cui s’aggiunga che, sui 14 mesi, i bambini sono poi capaci di dirigere l’attenzione d’un adulto verso l’oggetto cui sono interessati e questo può avvenire, per esempio, attraverso la pratica dell’indicare, cioè con il tramite d’un linguaggio gestuale (e in cui il gesto d’indicare è detto deittico); questa regia di gesti deittici e di sguardi incrociati da parte dei bambini ha poi lo scopo di far sì che l’attenzione dell’adulto sia coordinata, congiunta, con la loro, il che presuppone che stia iniziando a svilupparsi, a partire dai 14 mesi, un’abilità socio-emotiva di complicità che implicherà il noi (v. infra) e che mostra interrelati gli attori in gioco grazie alla referenza che hanno in comune; o, detto altrimenti, il bambino ch’è capace di dirigere l’attenzione d’un adulto verso un oggetto inizia a produrre socialmente quello che, sui 4-5 anni, sarà il noi, ossia il punto di non ritorno in cui una rete neurale e una rete sociale si cablano rendendo indistinto, negli attori implicati, il contributo biologico da quello sociale (e, se interessa, nessun altro primate, oltre Homo sapiens, sembra in grado d’adottare dei gesti deittici per coinvolgere l’attenzione d’un altro membro del suo gruppo sociale); l’attenzione congiunta condivisa, infatti, è quell’abilità cognitiva di base che fa sì che un bambino, nell’arco tra i 9 e i 14 mesi, comprenda che i soggetti con cui è interrelato sono agenti autonomi dotati dell’intenzione di agire (intentional agents), cioè di produrre effetti su uno stato loro preesistente, e la cui percezione del contesto può essere seguita, orientata, condivisa e imitata dal bambino; tanto che, in generale, i bambini sono in grado di riconoscere e reagire allo stato mentale altrui ch’è stato percepito e compreso (quella che sarà l’abilità di lettura della mente, o mindreading), ciò che favorisce la consapevolezza che c’è una similarità tra gli scopi dell’agente intenzionale e i propri scopi; vale a dire che, una volta instaurata l’attenzione congiunta condivisa, si crea un feedback positivo tra la reattività del bambino da un lato e l’agire dei soggetti cui questi è interrelato dall’altro, feedback che potenzia e alimenta incessantemente un meccanismo di retroazione circolare che permette all’agente intenzionale di mettere in essere tutte le potenzialità che la trasmissione culturale (in quel dato contesto storico condizionato dallo stato della materialità economica e dal possibile sviluppo sociale da questa determinato) gli può offrire per alimentare le sue (del bambino) abilità cognitive e le sue capacità d’interazione sociale (ossia la sagomatura della sua mente, o mindshaping); ragione per cui si può affermare che si viene a costruire una nicchia culturale (cultural niche construction, v. supra) che può intervenire nella formazione del contesto sociale ed economico attraverso il detto processo di sagomatura delle menti che inizia nei bambini a 9 mesi e ch’è favorito dalla detta condivisione degli scopi e dalla trasmissione culturale partecipata degli agenti intenzionali, ciò che permetterà al bambino, divenuto a sua volta adulto, di potere perpetuare il processo d’accumulazione delle informazioni proprie alla trasmissione culturale, questo grazie a quello ch’è stato classificato come effetto dente d’arresto (ratchet effect; ratchet può essere tradotto anche con termini, più tecnici, come nottolino o cricchetto); per apprezzarne il valore esplicativo si pensi che se s’incastra un meccanismo d’arresto in una ruota dentata (il citato ratchet), ecco che questo impedisce alla ruota dentata la retrocessione, ossia di svolgere il movimento all’indietro permettendo solo quello in avanti, proprio nello stesso modo in cui, a livello metaforico, un dente d’arresto ch’è dato dall’attenzione congiunta condivisa non permette un’involuzione culturale in quanto ne impedisce il moto retrogrado che porterebbe alla perdita delle informazioni culturali, nel mentre favorisce il moto in avanti dell’accumulo d’informazioni (questo se e solo se l’intero processo della trasmissione culturale obbedisce poi a un processo cumulativo d’utilità sociale plurigenerazionale); ancora, grazie all’attenzione congiunta condivisa, ossia sempre  partire dai 14 mesi, i bambini iniziano a valutare le reazioni emotive esibite dal volto della madre (o d’altra figura parentale), quali la sicurezza o l’insicurezza nei confronti d’un oggetto (per esempio, un giocattolo nuovo) o d’un soggetto (per esempio, un individuo sconosciuto), e in seguito usano l’informazione ottenuta (cioè l’interpretazione prodotta dallo scorrere del loro sguardo dalle espressioni del volto della madre all’oggetto o al soggetto e di nuovo alla madre), per adottare nella pratica un filtro attentivo (di accettazione/rifiuto) ch’è conforme a quello manifestato dalla madre nei confronti dello stesso oggetto o soggetto, cioè utilizzano la madre come riferimento sociale (o social referencing) per orientare il loro comportamento in un contesto sociale; così come, sempre a partire dai 14 mesi, inizia ad apparire l’apprendimento per imitazione (o imitative learning), che è un compito cognitivo complesso (v., supra, l’ipotesi dei neuroni specchio e le sue conseguenze per la teoria della mente) in cui l’abilità imitativa è costruita nel corso dello sviluppo da precise interazioni sociali e che, di fatto, consiste nel capire le intenzioni soggiacenti a una sequenza d’azioni motorie d’un dato agente e nel saperle ripetere con precisione (adozione del modello), il che implica il capire che l’altro è un agente intenzionale le cui azioni sono mirate a uno scopo (goal-directed) e che queste azioni equivalgono agli stessi atti motori che il bambino in oggetto adotterebbe nelle medesime circostanze; ciò che indica ch’è in gioco un processo d’apprendimento sociale che fa emergere un meccanismo di comprensione dell’equivalenza tra sé stessi (l’osservatore) e l’altro (l’osservato), questo assieme al fatto che le funzioni che sono attribuite a un oggetto sono tali perché c’è al proposito dell’attribuzione un consenso collettivo, di natura sociale (e, per inciso, è probabilmente dovuto a questa identità fra il sé e l’altro anche l’apprendere ciò che è obbligatorio, o solo permesso, o proibito fare, ciò che rimanda al senso del dovere, detto anche comportamento deontico, ch’è implicito nelle regolamentazioni delle interazioni sociali e che dipende dallo stile educativo proprio a una specifico gruppo); s’è detto, riguardo al consenso sul significato d’un oggetto, che questo consenso è di natura sociale, fatto che diventa ancora più evidente quando, a partire dai 24 mesi, iniziano i giochi di finzione dove un oggetto non è quello che è, ma diventa un’altra cosa, per esempio, una banana diventa un telefono, e dove questi bambini di 2 anni sono già cognitivamente attrezzati per essere consapevoli che chi gioca con loro adotta la stessa finzione, o attribuzione di significato, e questo è un apprendimento (rispetto ai dati oggettivi) di non poco conto che segnala la capacità di sapere distinguere oggetti reali da oggetti immaginari e che, soprattutto, partecipa a un processo di costituzione sociale del noi che inizia a essere sempre più consapevole e concordato; processo, ancora, ch’è strutturalmente legato al linguaggio (che i bambini iniziano ad acquisire seriamente a partire dai 18 mesi) poiché il nome da dare alle cose è associato, come insieme di fonemi, al loro guardare l’oggetto, oggetto ch’è in pari tempo guardato anche da chi pronuncia questo insieme di suoni (attenzione congiunta condivisa), ossia che i nomi dati alle cose sono bidirezionali o socialmente condivisi e rimandano a un’unica referenza, ragione per cui se il bambino, in un altro contesto, vuole che la figura di riferimento condivida l’attenzione nei confronti dello stesso evento o dello stesso oggetto (ossia ponga attenzione a quella referenza che dev’essere comune ai locutori affinché si produca una comunicazione linguistica), deve ripetere quell’insieme arbitrario di fonemi (il significante) che il linguaggio socialmente condiviso attribuisce come significato a quell’oggetto o evento; e l’allenamento continuo richiesto da questa tipologia d’apprendimento per imitazione triadica (significante/significato/referenza) è fondamentale nella trasmissione culturale, come può, per esempio, mostrare il fatto che un repertorio lessicale ampio è in grado di permettere ai bambini di correggersi e di meglio comunicare con l’interlocutore nel caso s’accorgano che questi potrebbe non sapere a cosa si stanno riferendo (ciò ch’è poi capire e valutare che, riguardo a una referenza qualsivoglia, gli altri possono mostrare percorsi o prospettive di riferimento diverse dalle loro); a 4-5 anni, al repertorio di ciò che il bambino ha appreso, si aggiunge poi via via la consapevolezza che gli altri, oltre che a essere agenti intenzionali, sono anche agenti mentali (mental agents); come dire che alla consapevolezza precedentemente  acquisita di stati mentali relativamente semplici come la motivazione, l’attenzione e l’intenzione  o il desiderio (stato, questo, che investe ciò che si vuole, o volizione), aggiungono quella del riconoscimento degli stati mentali di credenza (che sono, dal punto di vista cognitivo, astratti e molto più complessi), vale a dire ch’essi iniziano a rendersi conto che il comportamento altrui è guidato dalle credenze sul mondo che ognuno di questi altri ha, e in questo modo arricchiscono notevolmente l’abilità di lettura della mente propria e altrui, questo perché i bambini devono essere in grado di separare la propria conoscenza del contesto dalle credenze sul contesto manifestate dall’altro, ossia devono rendersi conto (in base alle competenze operative che possiedono) che le credenze che guidano il comportamento dell’altro sono sbagliate, ovvero devono avere una credenza sulle credenze dell’altro per poter capire che s’è in presenza d’una falsa credenza (o false belief) e, inoltre, devono essere consapevoli del fatto che c’è una realtà ch’è tale indipendentemente dalla credenze proprie e altrui, cioè che non dipende dal punto di vista di chi questa realtà la valuta; vale a dire una competenza sulla lettura della realtà e sulla lettura della mente che tiene conto delle rappresentazioni multiple e possibili della realtà e che arriverà poi a costituire (su un repertorio di nessi causali e di inferenze sul comportamento altrui che sono il motore della mindreading) una teoria della mente che permette di spiegare il comportamento altrui e di fare previsioni, ossia la sopra illustrata Theory of Mind; cui s’aggiunga che, se sui 2 anni il punto di vista dei bambini sulla realtà è limitato al loro punto di vista (prevalenza dell’io) e a quei punti di vista che condividono di volta in volta con chi li circonda (intenzionalità condivisa, o shared intentionality), sui 4-5 anni si rendono conto che ci sono punti di vista che vanno oltre ciò che loro sperimentano nei loro contesti d’interazione, punti di vista che sono condivisi da tutti coloro che partecipano alla cultura cui anch’essi appartengono, e che permettono il passaggio dall’intenzionalità condivisa nella relazione diadica all’intenzionalità collettiva (collective intentionality); così che ciò che prima ruotava attorno all’egocentrismo del bambino (l’affermazione dell’io) e alla relazione di attaccamento con una figura di riferimento (la madre), ora ruota intorno alla collettività (il noi), il tutto a partire dalla presenza di relazioni d’attaccamento non più diadiche (bambino/madre), ma plurime, relazioni in cui s’esplicitano comportamenti affiliativi e altruistici; tanto che si può affermare che con l’intenzionalità collettiva s’è infine manifestata l’occorrenza d’un cervello sociale cui il bambino, quando smette d’essere tale (a partire dai 6 anni), potrà poi parteciperà con tutto il repertorio degli stati emotivi e delle abilità cognitive e operative di tipo intersoggettivo che sono ritenute fondamentali e necessarie per muoversi attraverso quella data realtà culturale (per inciso, una delle ultime competenze acquisite dal bambino è poi quella della conversazione e delle sue regole, per esempio, il rispetto del meccanismo di turnazione); realtà culturale che, di fatto, ha poi prodotto gli stati emotivi e le abilità cognitive intersoggettive del bambino grazie a un dispositivo cervello-mente (v. supra) creato dal cablaggio sociale delle reti neurali (dispositivo che, peraltro, è storicamente situato e legato allo stato dell’economia e alla struttura sociale corrispondente, ciò che vincola la libertà comportamentale degli individui promuovendo solo dati e determinati modelli di destino sociale, vale a dire impedendo, o cercando d’impedire, ogni altro storicamente possibile modello di sviluppo); come dire ch’è la sociogenesi del noi che rende esplicita l’occorrenza d’un cervello sociale e d’una mente distribuita, occorrenza necessaria per sostenere gli equilibri correlati al mantenimento d’una rete sociale (sul problema dei free-rider, v. infra).