Certe
rocce della litosfera convertono la loro massa in energia in modo estremamente
efficace (e questo fenomeno è detto radioattività, è perché un elemento sia
radioattivo, cioè presenti un nucleo instabile, il suo peso atomico deve essere
superiore ad 83, v. infra) e una
percentuale del calore della Terra, per esempio, può essere attribuito proprio
al decadimento spontaneo di queste rocce, cioè al rilascio d’energia dovuto al
citato fatto che una parte della massa, quella che decade, si trasforma in
energia (specificamente, con il decadimento s’ha un’emissione di radiazione o
di particelle dal nucleo, i raggi α, β-, β+, e γ, le cui differenze qui non
s’analizzano); ancora, gli elementi radioattivi decadono, sempre
spontaneamente, in altri elementi, cioè i loro nuclei atomici instabili, i
nuclei radioattivi, subiscono una modificazione nella loro struttura, un
decadimento radioattivo, che permette loro di trasformarsi, in genere, in un
nucleo diverso, proprio a un altro elemento o a un isotopo dello stesso
elemento; alcuni decadono poi in un solo passaggio (per esempio, 14C),
altri, invece, decadono attraversano una serie di passaggi, o catena, e il
processo di decadimento continua finché il nucleo non diventa stabile; perché
il processo sia poi classificato come spontaneo questo decadimento si deve
verificare in un tempo che non può superare i 1010 anni, altrimenti
il nucleo atomico è ritenuto stabile o il decadimento indotto); il materiale
radioattivo inoltre, e quale che sia, per decadere della metà impiega sempre lo
stesso tempo (o tempo di dimezzamento o emivita, t1/2), e questo suo
valore, ch’indica il numero degli atomi instabili che decade in un cert’arco di
tempo, rimanda a un dato statistico, medio, ossia alla metà della sua vita
media, con la clausola che, dopo la prima emivita, la seconda è metà della metà
della quantità iniziale, cioè un quarto, e via via scalando, come dire che la velocità
di decadimento può essere usata come un indicatore temporale (infatti, poiché la
quantità d’un elemento radioattivo che si trova in un minerale decade con un
tasso costante, è poi possibile ricostruire la durata del tempo intercorso a
partire dalla formazione del minerale stesso misurando la quantità dell’isotopo,
v. infra, prodotto dal decadimento
stesso,), come dire, ancora, che conoscendo la quantità di radioattività
presente in un materiale e la sua emivita, se ne può calcolare l’età indipendentemente
dai fattori propri all’habitat che lo
ospita (quali le condizioni di pressione, temperatura, magnetismo o d’ambiente
chimico). L’emivita può poi presentarsi con valori che vanno dall’ordine del
microsecondo a quello paragonabile all’età della Terra, per cui per il tramite
dello studio delle rocce, della loro struttura e composizione, è possibile
definire i tempi dell’evoluzione della Terra e mettere tra loro in correlazione
configurazioni geologiche avvenute in zone fra loro anche molto lontane dal punto
di vista geografico (assieme ai fossili, come visto sopra, che spesso esse intrappolano;
flora e fauna, infatti, sono state presenti in vastissime zone di
distribuzione, o areali). Per esempio, presenti in molti minerali della
litosfera si trovano isotopi radioattivi come quelli dell’uranio 238 (238U),
che hanno un’emivita dell’ordine di 4,510 miliardi d’anni (t1/2=4,510x109),
e sono utilizzati per le datazioni geologiche di materiale inorganico (ossia,
rocce; v. infra), mentre sono
utilizzati per la datazione di materiali organici, quali conchiglie, ossa,
legni fossili, semi o manufatti con età compresa tra 1 000 e 70 000 anni etc., e risalenti a non più di 50-70
mila anni fa, gli isotopi radioattivi del carbonio 14 (14C), che
presentano un’emivita di 5730 ±40 anni in
quanto, dopo 8 emivite, rimane solo lo 0,39% del carbonio radioattivo
originale, cioè una quantità irrisoria per consentire misurazioni attendibili.
Da sottolineare che questo livello di 14C presente in un organismo
vivente, flora o fauna che sia, s’è formato e si forma nell’alta atmosfera dove
i raggi cosmici, composti per la maggior parte di nuclei d’atomi d’idrogeno,
producono, grazie alla collisione/trasformazione continua dell’azoto colpito
dai raggi, il carbonio 14, 14C; questo, in combinazione con
l’ossigeno, ha dato luogo a diossido di carbonio radioattivo, 14CO2
(presente in modo costante nell’atmosfera grazie all’equilibrio di 14C
che decade e 14C che, come detto, si forma in continuazione), ch’è
stata assimilata dagli organismi viventi, autotrofi e eterotrofi (v. infra), grazie ai cicli della loro
attività metabolica, vuoi d’origine fotosintetica (infatti, la fotosintesi
clorofilliana, v. infra, utilizza il diossido
di carbonio atmosferico per costruire le sostanze organiche, le quali contengono
14C non radioattivo nella stessa proporzione con cui lo contiene il 14CO2
utilizzato), vuoi attraverso la catena alimentare (per esempio, la stessa
proporzione citata di 14C, presente nel 14CO2
utilizzato dalle piante, è presente negli erbivori che si nutrono delle piante
e nei carnivori che si cibano di erbivori etc.);
vale a dire che il livello di 14C è uguale a quello presente
nell’ambiente, o serbatoio di scambio, in cui l’organismo (flora, fauna) ha
vissuto; dopo la sua morte, mentre il carbonio 12, 12C, rimane
costante, il carbonio 14, 14C, comincia a decadere con un tasso pari
a quello sopra citato trasformandosi in azoto e senza che il carbonio
dell’ecosistema in cui l’organismo ha vissuto possa essere reintegrato nel
processo della sua evoluzione necrotica, tanto che la sua radioattività rivela
qual è il tempo trascorso dalla sua morte (questo in linea di massima, cioè
salvo contaminazioni dei campioni usati). Con questo metodo si scoprono così in
modo assoluto (cioè con una datazione fondata su procedure fisico-chimiche) le
varie età della Terra sopra delineate (le rocce) e gli accidenti ch’essa ha
ovviamente presentato (le biocenosi). Per esempio, le variazioni delle temperature
dell’aria e della superficie degli oceani, l’estensione nello spazio e nel
tempo delle ere glaciali, i vari livelli in percentuale dell’ossigeno presente
nell’atmosfera e nei mari, e questo grazie agli isotopi dell’ossigeno 16, 16O,
e dell’ossigeno 18, 18O (ossia al rapporto ch’esiste tra un isotopo
stabile dell’ossigeno, 18O, e l’ossigeno ordinario, 16O,
ch’è all’incirca di 1 a 500), che s’accumulano a differenti velocità secondo di
quanto ossigeno o diossido di carbonio sono presenti nell’atmosfera o nei mari e
che, messi a confronto nei loro diversi tassi di deposito nelle rocce calcaree
prodotte dalla sedimentazione dei gusci degli organismi presenti sul fondo degli
oceani, o planctonici, permettono ai geochimici di decifrare i citati accidenti
del passato e molto altro ancora (gusci, questi, costruiti dagli organismi con
il carbonato di calcio, CaCO3, ottenuto combinando l’ossigeno estratto
dall’atmosfera con il carbonio). Il rapporto isotopico 18O:16O
s’usa, infatti, perché quando l’acqua evapora dagli oceani, evapora più
facilmente l’isotopo meno pesante, 16O, rispetto a quella
dell’isotopo più pesante, 18O, e l’acqua che resta negli oceani
contiene pertanto, secondo le variazioni apportate o meno dal ciclo idrologico,
più o meno 18O secondo la temperatura presente, ed è possibile così misurare
la concentrazione di quest’isotopo del passato (v., infra, δ18O) perché lo si ritrova incorporato nei
carbonati dei gusci dei Foraminìferi (v. infra)
i cui resti, vissuti in acque calde o
fredde, si sono sedimentati, con il tempo, in rocce; rocce calcaree di cui si può
calcolare poi l’età utilizzando il citato metodo delle decadenza radioattiva. E,
per continuare e precisare l’esempio sopra iniziato, valgano per la datazione
delle rocce il decadimento del samario 147, 147 Sm, in neodimio 143,
143Nd, con un’emivita di 106 000 milioni d’anni; quello del rubidio 87,
87Rb, in stronzio 87, 87Sr, con un’emivita di 47 000 milioni
d’anni; quello del torio 232, 232Th, in piombo 208, 208Pb,
con un’emivita di 13 900 milioni d’anni; dell’uranio 238, 238U, in piombo
206, 206Pb, con un’emivita di 4 510 milioni d’anni; del potassio 40,
40K, in argon, 40Ar, che ha un’emivita di 1 300 milioni
d’anni (questo fatto salvo che la roccia che lo contiene non sia stata esposta
a temperature superiori a 125 °C, perché in questo caso la fuga d’argon lascia
determinare soltanto l’ultimo episodio di riscaldamento ch’essa ha subito); dell’uranio
235, 235U, in piombo 207, 207Pb, con un’emivita di 713
milioni d’anni o dell’uranio 238, 238U, nel torio 230, 230Th,
con un’emivita di 80 000 anni, usato per datare i sedimenti marini, questo
perché il 238U presente nei mari decade in 230Th e precipita nei sedimenti dei
fondali permettendo, con la sua concentrazione, di ricostruirne l’età, e altri
decadimenti ancora. Questi valori ci danno poi la datazione assoluta
(differenti dai valori delle datazioni relative che si basano sullo studio degli
strati delle rocce sedimentarie, organogene o meno, e del reperimento negli
strati di fossili guida, nel qual caso questi valori non sono numerici in
quanto permettono soltanto d’affermare la consequenzialità cronologica degli
strati, e sempre che non siano intervenuti fenomeni tettonici di disturbo della
sequenza stratigrafica, cioè che uno strato, o un fossile guida ch’è qui
contenuto, è o più antico o più recente nei confronti d’un altro che lo precede
o lo segue), datazione che oggi si classifica come datazione radiometrica, e
l’attendibilità di questi valori e legata a un margine d’oscillazione (range) in anni, o margine d’errore, in
più o in meno rispetto al valore dato
),
e lo standard d’accettabilità di
questo errore dipende dall’età del reperto, per esempio in caso di rocce molto
antiche (e le rocce più antiche finora datate, reperite in Groenlandia, risalgono
a 3700 milioni di anni fa), è
100 000 anni per ogni periodo di 100 milioni d’anni
[?]. Un
altro metodo di reperimento di valori assoluti è la magnetostratigrafia, metodo
basato sull’analisi dei minerali ferromagnetici (cioè capaci di
magnetizzazioni) presenti non solo rocce sedimentarie, ma anche in quelle ignee
(v. infra), e qui l’analisi investe lo
studio della successione delle inversioni di polarità, cioè d’orientamento delle
linee di forza del campo magnetico terrestre, o campo geomagnetico, che le
rocce stesse manifestano come magnetismo residuo e ch’esse conservano nella
direzione d’allineamento al campo geomagnetico (v. infra); direzione che si mostra o nella deposizione e compattazione
(litificazione) delle rocce sedimentarie (detta magnetizzazione residua
detritica) o nel raffreddamento e solidificazione al di sotto d’una data temperatura
delle rocce ignee (detta magnetizzazione termoresidua; si ricorda che oltre una
certa soglia di calore un materiale magnetico perde questa sua proprietà, detta
punto di Curie, ch’è, per esempio, di 578 °C per la magnetite), questo grosso
modo a partire dal Triassico e dal Giurassico (cioè a partire da 245 milioni d’anni
fa, quando la Pangea si frammenta e, in Gondwana, l’America meridionale inizia
a separarsi dall’Africa e inizia la formazione dell’Oceano Atlantico, v. infra), cui consegue un loro riordino
cronologico in epoche ed eventi magnetici. Infatti, i minerali ferromagnetici (per
esempio, la magnetite, Fe3O4), presentano una
magnetizzazione acquisita ch’è proporzionale all’aumento d’intensità del campo geomagnetico
tanto che, quando raggiunge un valore massimo, o di saturazione, ne conserva la
memoria stabile anche se si rimuove il campo magnetico che l’ha prodotta (e
quest’ereditarietà si definisce, se investe le rocce a partire dal Triassico, direzione
fossile di magnetizzazione); campo magnetico terrestre che poi ha subito (e
subisce tuttora) variazioni che riguardano il senso della direzione delle linee
di forza del campo magnetico, e per convenzione la polarità di questo campo si
dice normale quando presenta inclinazione positiva nell’Emisfero boreale (definendo
positiva la direzione di magnetizzazione verso il basso, cioè verso il Polo
Nord magnetico attuale) e inversa quando nello stesso Emisfero l’inclinazione si
presenta negativa (dove negativa è detta la direzione di magnetizzazione inclinata
verso l’alto e verso il Polo Sud magnetico attuale, tenendo poi presente che
questi Poli non coincidono con quelli geografici, ma sono loro prossimi) e la scala
cronologica di queste inversioni del campo magnetico che suddividono il tempo
geologico in intervalli costanti di tempo con polarità magnetica normale o
inversa ci dà, appunto, la sequenza ordinata delle unità di polarità magnetostratigrafica
(o magnetozone). La figura seguente mostra a sinistra la sequenza delle inversioni
di polarità dal Triassico al Cretacico (245-66,5 milioni d’anni fa) e quella a
destra la sequenza dal Pliocene al Pleistocene (5,2-00,1 milioni d’anni fa; il
nome qui attribuito alla epoche magnetiche, Gilbert, Gauss, Matuyama e Brunhes, deriva
dai nomi dei primi studiosi del paleomagnetismo; all’interno di ciascuna di
queste epoche sono poi stati rilevati dei periodi di magnetizzazione opposta a
quella dell’epoca di appartenenza, con una durata che va dai 10 000 ai 100 000
anni, detti eventi, in figura non nominati, per esempio, il già citato Olduvai, un evento magnetico normale all’interno
dell’epoca magnetica inversa di Matuyama
e, sempre in Matuyama, un evento magnetico normale collocabile
tra i 940 000 e gli 880 000 anni fa, detto Jaramillo;
Olduvai e Jaramillo sono poi nomi di località nella Great Rift Valley, in Africa orientale, sede di fenomeni di
ritrovamenti fossiliferi della linea che porta a Homo sapiens, v. infra):
Figura
n. . Fonte: Polticelli, 2003, p. 33.
Va
da sé che i metodi di datazione sopra indicati sono solo una parte d’una più vasta
modalità d’indagine cronologica, qui non illustrata, che va dalla datazione del
materiale interstellare a quella dei manufatti preistorici (tra cui si trovano la
spettrometria di massa ultrasensibile, la racemizzazione degli aminoacidi, la
termoluminescenza, la metodologia dell’Electron
Spin Resonance, ESR etc.).
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