Archivio blog

SOCIOGENESI DEL NOI


Oltre a quanto sopra suggerito (dalla teoria della costruzione di nicchia in avanti), può essere utile, per vedere con che modalità il dispositivo cervello-mente permette alle reti sociali d’appoggiarsi in modo epigenetico sulle reti neurali per cablarle, affrontare anche il problema teorizzato dall’ipotesi della selezione multi-livello (Multi-level Selection Theory, MST) dove si parla d’una selezione di un carattere o tratto, a livello di gruppo, intendendo poi per gruppo l’insieme degli organismi che arrivano a condividere questo tratto che permette loro d’arrivare a formare un sistema sociale coeso all’interno d’una popolazione (dunque valorizzando una selezione naturale che avviene nell’ottica delle dinamiche macroevolutive); questo con la clausola che i detti organismi, oltre al livello di gruppo, possiedono anche altri livelli che sono tra loro organizzati secondo la logica delle matrioske (una matrìoska è formata da una bambola di legno composta da una serie di bambole che si replicano con dimensioni diverse e sono contenute ciascuna, esclusa la più piccola, nella cavità di quella più grande che segue; e la logica che ne consegue, fuori metafora, è che ciò che compone un livello gerarchicamente più basso è incluso e fa parte di ciò che compone un livello gerarchico superiore), come dire che i livelli sono annidati e incistati uno dentro l’altro nella gerarchia biologica e dove i livelli nidificati di dimensione crescente implicati sono quello dei geni, delle cellule, degli organismi, dei gruppi, delle popolazioni, degli ecosistemi etc.; ancora, a ogni livello è presente una variazione che si traduce in un processo evolutivo che origina una selezione delle entità che lo compongono con caratteristiche sue proprie (per esempio, la selezione neurale differisce per operatività dalle altre selezioni), e ogni selezione a un livello agisce in sincronia con tutti gli altri livelli, per cui il gene s’esprime a livello molecolare, le molecole s’aggregano dando origine alle cellule che arriveranno a formare gli organi e i tessuti e dove l’assemblaggio di questi origina un organismo etc. (e può capitare che effetti minimi a un livello bio-gerarchico possano avere un’ampia portata su un livello precedente o successivo, per esempio, come capita nella coevoluzione cultura-gene, v. supra), ragione per cui complessivamente s’adotta, nell’ottica d’una teoria gerarchica, il termine selezione multi-livello; può quindi capitare che un dato gruppo d’organismi, in date circostanze, agisca come veicolo in un processo di selezione naturale (cioè in un processo basato sui principi di variazione/ereditarietà/adattamento), il che comporta uno sviluppo di quel tratto, che si sincronizza con gli altri livelli, e che partecipa, potenziandolo, alla sopravvivenza di quel gruppo in competizione con altri gruppi all’interno d’una popolazione, e dove, se si manifesta una competizione interna, cioè quella con altri individui del gruppo, questa risulta essere sempre subordinata alla competizione del gruppo vincente così come si manifesta nei suoi effetti storici in una popolazione; e quale esempio di questa selezione del carattere di gruppo si potrebbe avanzare la selezione parentale (kin selection) dove gli organismi del gruppo sono geneticamente imparentati tra loro e dove gli atti altruistici tra parenti, anche se a spese della propria sopravvivenza e riproduzione, aiutano la sopravvivenza e il successo riproduttivo del gruppo parentale (la sua fitness) o, meglio ancora, si potrebbe citare l’altruismo che, per il tramite d’una pressione selettiva manifestatasi storicamente, fa sì che un gruppo (un’unità sociale) sia il veicolo d’una selezione che, favorendo il tratto altruistico in questi organismi, ne potenzia anche l’abilità competitiva nei confronti d’altri gruppi non altruisti migliorandone la fitness; e quello che vale per l’altruismo può valere, essendo il genere Homo legato sempre a delle reti sociali, anche per altri tratti che investono le capacità relazionali, e dove, ancora, e in generale, è implicito che la selezione del carattere di gruppo porta vantaggi di fitness a ogni singolo individuo del gruppo coeso (questo per il tramite della selezione naturale a livello dell’organismo), con la clausola che questo tratto selezionato può però essere adattativo, cioè manifestarsi e agire, solo a livello di gruppo, e quale esempio, si vedano i modi di produzione della cultura materiale e l’esplicarsi delle norme sociali che, nelle loro metamorfosi, sono il risultato di processi storici che coevolvono e che per manifestarsi richiedono in prima istanza (a livello delle competenze operative acquisite tramite la trasmissione verticale e a livello dell’autocontrollo richiesto nella sempre presente competizione infragruppo) un adeguamento dell’organismo a un controllo normativo che coinvolge il corpo intero e che traduce una selezione che avviene a livello di gruppo e che può manifestare i suoi effetti (sempre storici) sull’ambiente solo a livello di gruppo (ciò che ci traduce un cablaggio delle reti neurali da parte delle reti sociali); dunque il gruppo, al pari degli altri livelli, è un’unità adattativa che investe un macro-livello che però risulta evidenziato solo nelle dinamiche storiche socio-economiche, e senza mai dimenticare ch’esistono sullo sfondo, all’interno d’una popolazione, anche le già dette selezioni multi-livello dove, con una logica verticale, dei vettori causali possono percorrere verso l’alto e verso il basso i livelli gerarchici presenti della gerarchia, tanto che i livelli bio-gerarchici così risincronizzati e in equilibrio partecipano storicamente anch’essi e, infine, premiano quei tratti che favoriscono la fitness d’un gruppo rispetto a quella d’altre unità sociali; e che il tutto avviene in un equilibrio, dinamico e mai statico tra i livelli, che s’esplicita storicamente, cioè variando nel tempo, tra i multi-livelli implicati (fatto salvo che l’adattamento, quale che sia il livello implicato, richiede a quel dato livello un processo di selezione naturale che però tende sempre a essere compromesso, nel senso di disgregato, dalla selezione naturale presente a livelli bio-gerarchici più bassi); per inciso, è poi da ricordare che la detta selezione multi-livello fa poi il paio con un’altra selezione nell’ipotesi della teoria gerarchica (Hierarchy theory), là dove la selezione multi-livello, riclassificata come gerarchia genealogica (Genealogical Hierarchy), è legata da rapporti di presupposizione reciproca alla gerarchia ecologica e economica (Economic Hierarchy), e dove, in questo modello duale, sono presenti (di là della sopra detta selezione verticale mobile) dei vettori causali che pongono in essere una trasmissione orizzontale che funziona secondo un modello detto dello sloshing bucket (difficile da tradurre alla lettera, su cui v. infra), il tutto nell’ottica di considerare sì la selezione naturale come una delle principali dinamiche causali, ma non escludendo anche la presenza, non solo sullo sfondo, d’altre dinamiche causali che possono essere coinvolte nei fenomeni evolutivi; quale esempio della  teoria gerarchica, si consideri l’estinzione di massa avvenuta alla fine del Permiano (v. supra) che ha cancellato tra l’80-90%, e forse oltre, delle specie viventi (altri dice 60%) e che ha mutato le condizioni ambientali in un modo tale che l’ecosistema globale ha impiegato ca. 5-10 milioni d’anni per ritornare in una situazione d’equilibrio resiliente e di ripristino d’una piena funzionalità biotica del globo, ciò che mostra la casualità d’una perdita al macro-livello dei taxa più alti (in termini di specie, generi e famiglie, ciò che investe la replicazione dell’informazione genetica e la riproduzione) e la causalità nella differenziazione dei nuovi taxa che s’evolvono nella biosfera (in termini di biocenosi e d’ecosistemi, ciò che investe, con la riconfigurazione delle nicchie lasciate vuote, il trasferimento di nutrienti/energia), dunque secondo una logica che mostra gli effetti di legame duale che investono e la gerarchia ecologica e quella genealogica (multilivello); il modello che s’impiega per esplicitare questa dualità è quello dello sloshing bucket, e per apprezzarlo ci s’immagini un secchio (bucket) pieno d’acqua che nel trasporto oscilla tracimando  da entrambi i lati acqua (sloshing), secchio che più oscilla, e più fa sversare acqua, ed è nei termini della quantità d’acqua fuoriuscita che s’applica questa metafora del secchio, là dove molta acqua fuoriuscita è equiparata a un degrado dell’ecosistema pari a un’estinzione di massa, con gli effetti sopra descritti; meno acqua sversata rimanda a una degrado dell’ecosistema non a scala globale, ma a scala regionale (lato della gerarchia ecologica), dunque con un impulso d’avvicendamento (turnover pulse) che prevede estinzioni minori e minori speciazioni (lato della gerarchia genealogica), oppure, che poca acqua tracimata è pari a una perturbazione ecologica locale con pochi o nessun cambiamento evolutivo; come dire che il secchio oscilla, in avanti e all’indietro, sversando acqua con frequenze ripetute o medie o infime, dalla gerarchia ecologica (un lato del secchio) alla gerarchia genealogica (l’altro lato del secchio) e viceversa, ciò che vuol dire, fuori di metafora, che il modello dello sloshing bucket afferma che la stima del cambiamento evolutivo possibile (speciazione/estinzione) è legata alle variazioni d’intensità e magnitudo del disturbo arrecato all’ecosistema (globale, regionale, locale), ossia ch’è l’interazione/fusione tra le due gerarchie che agisce sui modelli di evoluzione a tutte le scale dette, dunque che in questo modello duale sono presenti delle trasmissioni orizzontali bidirezionali tra le due gerarchie, tanto che nessun organismo sfugge dal fatto ch’è simultaneamente irrelato in entrambi i sistemi gerarchici (e vedi, a questo proposito, la teoria di costruzione di nicchia); ora, per riprendere la selezione multi-livello all’altezza d’uno sloshing bucket stazionario (dunque in uno spazio fisico, un biotopo, con una biocenosi che perdura nel tempo, v. supra), l’idea che un gruppo abbia un cervello sociale, ossia una mente distribuita ch’è collettiva (e dove le reti sociali, la cui impalcatura rimanda alla cultura materiale, s’appoggiano sulle reti neurali), è una logica conseguenza di questa teoria della selezione multi-livello (v., per esempio, gli insetti eusociali, supra); infatti, l’ipotesi del cervello sociale (Social Brain Hypothesis, SBH) rimanda al fatto che non esiste nessun confine facilmente identificabile tra lo stato mentale d’un organismo (là dove si trovano le competenze, le abilità e le credenze) e quello degli altri appartenenti allo stesso gruppo e questo perché il vivere sociale impone una collaborazione tra i soggetti all’interno d’una collettività che produce, per quanto la tecnologia sia stata o sia povera, una diffusione verticale/trasversale d’informazioni cumulate e integrate, cioè della conoscenza (pragmatica o altro) e delle credenze sociali che, dopo avere modificato con modalità epigenetiche le reti neurali, s’estendono e si distribuiscono al di fuori dei cervelli, nei corpi, negli strumenti che in un dato contesto ambientale si sono potuti utilizzare, insomma nella materialità che, sfruttando l’habitat nativo quale impalcatura (scaffolding) su cui appoggiarsi per quasi 3 milioni d’anni, ha circondato gli individui e in cui questi sono stati immersi (e quale esemplificazione si veda, supra, le società di caccia e raccolta nell’ipotesi della Landscape Mind Theory); tanto, che l’interazione fra gli organismi consiste alla fin fine nel sapere meglio sfruttare o negoziare le possibilità offerte dall’ambiente sociale emerso dal contesto ecologico, ciò che arriva a determinare un’interazione e una collaborazione tra gli agenti sociali che si costruisce in modo tale che non si sia più in grado di dire con certezza dove finisce il distribuito mentale di uno e dove comincia quello d’un altro, ciò che rende emergente una rete identitaria che, sorretta dall’intenzionalità congiunta dei detti agenti, rende oggettiva e operativa l’identità sociale del noi; e quanto qui s’ipotizza valga anche a dispetto di chi afferma l’autonomia mentale del soggetto (l’io) e lo fa ignorando le contingenze e i determinismi che l’interfacciano, il soggetto, all’impalcatura che sostiene il tutto, ossia la materialità dell’esistere in un ambiente spesso ostile che presenta un ruolo determinante nel vincolare le modalità d’essere e d’evolversi delle reti neurali degli organismi, reti poi legate, per necessità di scopo, anche al controllo diretto delle risorse proprie alla sfera emozionale degli organismi coinvolti (per esempio, con l’autocontrollo, v. supra) e che sono necessarie per la produzione delle reti sociali, cioè tutto quanto nel percorso storico del genere Homo è stato evolutivamente inglobato nella formazione dei legami sociali in cui l’affacciarsi dell’io è qui da valutare come un fenomeno contingente (senza però ignorare che nelle reti sociali sono presenti dei comportamenti antisociali che valorizzano l’io a discapito del noi e, infine, senza nulla togliere all’emergere nell’individuo dei correlati neurali nei processi di rientro, v., supra, tra cui il fenomeno della coscienza che dice io, su cui si ritornerà); per valutare quanto è in gioco nella maturazione del sistema nervoso, nella plasticità neurale del fenotipo e nel ruolo dell’algoritmo decisionale del noi (tratti che sono alla base dei meccanismi dell’apprendimento culturale gestiti e trasmessi, in prima istanza, per il tramite dell’interazione sociale), si prenda come oggetto d’analisi lo sviluppo d’un feto in bambino (ch’è classificato come tale da quando è neonato ai 6 anni ca.), sempre ricordando che l’affermazione del bipedismo nel genere Homo ha comportato nelle femmine un canale del parto ristretto che ha obbligato, per fare in modo che la testa del neonato possa attraversare un passaggio così stretto, che le sue dimensioni, alla nascita, non siano ancora completamente sviluppate (v. supra); il che comporta che il feto si presenti al parto in una fase di crescita decisamente prematura, che il neonato non sia autosufficiente nell’ambiente extrauterino, che siano necessarie lunghe cure parentali (senza però ignorare che qui l’unità d’analisi evolutiva, anche se sono coinvolte le figure genitoriali, non sarà la famiglia, ma il gruppo visto nell’ottica offerta dal modello di fissione/fusione, v. infra) e, soprattutto, che  la crescita del cervello sia completata extra-utero (alla nascita il cervello è all’incirca il 23% di quelle che saranno le dimensioni finali), e questo senza ignorare che i cervelli dei neonati (e del feto in fase di formazione) sono progettati per reagire solo a determinati aspetti della realtà (interni/esterni) e non ad altri, ossia presentano una struttura di base che li vincola a una interpretazione dei dati che guida il loro apprendimento, ciò che fa sì che il feto prima, i neonati, poi, siano strutturalmente equipaggiati per relazionarsi con competenza e attivamente con la realtà che li aspetta (ciò che, nella complessità del sociale del gruppo d’appartenenza, fa sì che sia loro distribuita una mente); valga, per esempio, l’osservare come un bambino apprende, questo partendo dal differenziarsi dei processi sinestetici nel feto (che è definito come tale a partire dalla 13a settimana di gestazione; per le fasi, v. supra) e qui valorizzando il fenomeno dall’imprinting che permette d’avviare un processo storicamente situato d’apprendimento e memorizzazione, quello che fa sì che il feto, ancora nell’utero, sia capace di riconoscere chimicamente l’odore della madre (proprio la di lei specifica impronta genetica, giacché ogni impronta olfattiva, o odortypes, è geneticamente determinata, è cioè un biomarcatore d’identità); e a riconoscere, a seguire, l’odore del collo, delle ascelle e delle secrezioni areolari dei capezzoli materni, e, entro 6 giorni dalla nascita, l’odore del latte materno, odori molto simili a quelli già conosciuti nel liquido amniotico (ciò che, grazie al continuum delle informazioni olfattive autorilevate dal feto nel liquido amniotico e postparto sulla madre, permette al neonato di orientarsi positivamente nel nuovo ambiente extrauterino, ossia di tradurre in comportamenti positivi quanto appreso e codificato attraverso un significante olfattivo di natura chimica che veicola esperienze affettive di sicurezza, cioè un legame d’attaccamento alla madre); e lo stesso la madre che impara durante la gravidanza a riconoscere l’odore del corredo genetico di suo figlio (il suo odortype) che si sta mescolando al suo e, finita la  gestazione, tra i tanti odori (anche quelli dei figli d’altre donne) è subito in grado d’identificare quello tipico di suo figlio (sono sufficienti tra i 10 minuti e un’ora di contatto post partum con il neonato, e una madre riconosce l’impronta olfattiva del figlio anche in sua assenza, per esempio su un indumento); odori che, attraverso un apprendimento che parte dai chemiocettori e arriva alle reti neurali, rafforzano dunque socialmente, con l’unicum della loro firma olfattiva, il rapporto diadico figlio/madre, madre/figlio (pare, infatti, che l’odore del corpo neonatale inneschi nelle madri, in ispecie nelle primipare, anche delle risposte corticali, cioè delle cascate neuroendocrine di rinforzo motivazionale del legame con il neonato all’interno del sistema dopaminergico di ricompensa; sulla dopamina, v. supra); sempre nell’utero il feto familiarizza poi con il tono di voce, con il ritmo e l’intonazione della madre, cioè con suoni che il feto cattura attraverso lo sviluppo dell’apparato uditivo (che avviene all’incirca tra i 2 e gli 8 mesi), suoni che quando sarà completata la connessione neurale tra la còclea e la corteccia uditiva, cioè quando sarà possibile la trasformazione dei suoni in impulsi elettrici, avranno l’effetto di catturarne l’attenzione, che sarà in seguito rinforzata nel neonato come preferenza uditiva nelle prime manifestazioni di vita extrauterina; attenzione che poi, in un finestra temporale privilegiata che inizia tra i 6 mesi (per le vocali) e i 9 mesi (per le consonanti) e trova il suo acme tra i 12 e i 16 mesi, verrà stimolata nel neonato con un modo di parlare a lui adatto (detto parlata da bimbo, o baby talk; si trovano anche, nell’uso, motherese, in italiano maternese, o child directed speech, linguaggio indirizzato a bambini) da parte di chi lo circonda (principalmente dalle figure genitoriali), modo che sembra obbedire a uno schema specie-specifico in quanto attestato in culture con lingue madri fra loro molto diverse (schema non da tutti gli studiosi accettato), e che consiste in uno schema stereotipato di rapporti comunicativi che ricorre a un preciso repertorio, ossia a un parlare a voce alta (per differenziarsi dai rumori di sottofondo); a un parlare lentamente (cioè con un’articolazione dei fonemi e delle sillabe lenta, accurata e con curva intonativa enfatizzata, questo perché i bambini processano le informazioni del flusso uditivo a metà della velocità degli adulti); a una riduzione della complessità sillabica delle parole (ossia con il ricorso a parole brevi per permetterne di reperirne i confini fonetici e l’assimilazione); a una semplificazione delle strutture morfosintattiche (per sottrazione di elementi grammaticali) e lessicali (attraverso l’uso dei diminutivi) della lingua; a un uso del tono acuto (estensione di frequenza alla quale i bambini sono sensibili a partire da ca. 3 mesi d’età); a un uso di parole ripetute (per esempio, con la ridondanza fonetica che ne favorisce la stabilità semantica); il tutto di questo parlare, che ha una valenza emotiva prima che comunicativa, è spesso accompagnato da componenti comunicative non verbali, quali l’indicare e il guardare gli oggetti nel mentre li si nomina (questo perché i bambini seguono sempre lo sguardo di chi interagisce con loro, v. anche infra), le mimiche esasperate del volto e i movimenti della labbra o la gestualità posturale coinvolgente del corpo, questo perché nel Baby Talk chi ascolta è impegnato in un doppio compito, deve elaborare degli algoritmi neurali per potere riconoscere la frequenza statistica dei fonemi della sua lingua madre (tra gli 800 che potrebbe articolare prima d’apprendere la lingua madre e che sono la somma dei fonemi delle lingue esistenti), cioè quell’apprendimento basato sulla regolarità statistica di pattern che stabiliscono connessioni nel cervello con le reiterazioni proprie alla lingua madre; deve, ancora, non solo ricorrere a un ascolto solo passivo dei fonemi e delle altre componenti linguistiche, ma deve effettuare anche una sintonizzazione emotiva con chi gli parla, cioè deve mettere in atto un ascolto attivo ch’è determinato dall’intensità dell’immersione in un dato contesto affettivo e sociale (come dire che la prevalenza emotiva del maternese è ciò che poi, di fatto, attiva il sistema cerebrale della ricompensa che l’attività d’ascolto presume, specificamente per le aree che usano la dopamina come neurotrasmettitore nel corso delle interazioni sociali, v. supra e infra); e se interessa, un sintomo preciso di avvenuta sintonizzazione figlio/madre lo si può poi reperire nel feedback positivo tra il sorriso sociale (social smiles) del bambino e quello della madre; infatti, se è vero che prima dei due mesi i bambini sorridono, sorridono però senza che sia presente una qualsivoglia correlazione con uno stato emotivo e solo perché scariche neurali spontanee nel tronco encefalico avvengono in prossimità della bocca (detto sorriso endogeno), correlazione che invece è presente nel sorriso sociale che si manifesta a partire dai 2 mesi e in cui è coinvolto un muscolo specifico presso l’occhio (il muscolo orbicolare) che non può essere controllato volontariamente, ma che s’evidenzia con una contrazione ch’è presente solo in concomitanza d’uno stato emotivo gratificante, contrazione che mette in moto il muscolo zigomatico maggiore che produce un sorriso e fa nel contempo arricciare gli occhi (sintomi visivi, questi, del sorriso autentico, o sorriso di Duchenne, ch’è possibile grazie una trasmissione veloce e un’elaborazione più efficace degli impulsi nervosi fra differenti aree del cervello dovuta alla mielinizzazione dei gangli della base, v. supra, che si ha appunto a partire dai 2 mesi); sorriso sociale, ancora, che viene plasmato con l’apprendimento e permette di manifestare nel corso del tempo un ventaglio di sorrisi in sintonia (lo stesso delle espressioni facciali) con la diversità dei contesti gratificanti che il bambino via via vive, un sorridere che dimostra competenza sociale e selettività e che trova la sua origine prima nel feedback con la figura della madre; detto questo, si può affermare che la strategia emotiva e comunicativa nel rapporto figlio/madre del Baby Talk ha dunque il ruolo di favorire nel figlio lo sviluppo delle reti neurali e l’integrazione delle reti sociali che vi s’appoggiano, vale a dire l’adattamento cognitivo al contesto e la capacità d’attenzione e di sviluppo affettivo nei processi di socializzazione del bambino all’interno del milieu familiare, questo grazie alla bidirezionalità del parlato (e al meccanismo della turnazione che è implicato nella relazione diadica) che instaura un feedback di rinforzo reciproco tra il parlato del bambino e il parlato della figura materna; il bambino inizia con un balbettio (o lallazione) e poi, a partire dalla finestra temporale sopra citata, continua il suo apprendimento con l’emettere prima lunghe serie di vocali, poi di consonanti che diventano , sui 10 mesi, delle combinazioni tra vocali e consonanti (cioè delle sillabe) ripetute in serie e via via si perfeziona fino a che, all’altezza di ca. 4 anni, è in grado di sviluppare frasi corrette (cioè occorrenze fonetiche, lessicali, sintattiche e semantiche obbedienti alla norma grammaticale); il parlato della figura materna parentale o di cura (il maternese), con il suo feedback positivo, compartecipa inoltre a questo processo per indirizzarlo, nel tempo, ad appropriarsi della norma grammaticale propria alla lingua madre; ossia gli permette d’impadronirsi del linguaggio (a partire dal reiterato controllo dei muscoli fonatori presente nell’esecuzione compulsiva dei fonemi della lingua madre o negli esercizi reiterati di messa insieme di sillabe incoerenti in quella che si chiama glossolalia), per arrivare a favorire lo sviluppo ch’è correlato con la maturazione di aree dell’emisfero sinistro associate al linguaggio, cioè permette al bambino d’appropriarsi di una tra le più importanti delle abilità sociali, il sapere comunicare, a partire dal linguaggio olofràstico (quello in cui una sola parola equivale, nell’uso che fa il bambino, al significato d’una frase intera), con il lessico e la sintassi usati nell’architettura della loro complessità, e il tutto con degli interlocutori semanticamente appartenenti alla stessa rete sociale e che ne condividono regole, comportamenti e stabilità emotive; per inciso, la parte cerebrale correlata alla semantica, cioè l’area di Wernicke, v. supra, mostra un picco di formazioni sinaptiche intorno agli 8-12 mesi con mielinizzazione grossomodo attorno ai 12 mesi o ai mesi seguenti, mentre la parte cerebrale correlata alla sintassi, cioè l’area di Broca, v. supra, mostra un picco di formazioni sinaptiche intorno ai 15-24 mesi, ma la mielinizzazione n’è ritardata ai 4-6 anni d’età (e non si dimentichi quanto detto sopra, cioè che la mielinizzazione procede per ondate che partono dalla zona posteriore del cervello per arrivare alla zona anteriore, e che le aree più vicine alla parte posteriore si modificano relativamente presto, mentre la corteccia prefrontale non raggiunge la piena maturità se non a partire dalla fine dell’adolescenza in un processo che dura fino all’inizio dei 30 anni; e lo stesso vale per la velocità dell’elaborazione neurale, ch’è lenta nel cervello d’un neonato dove il basso tasso di mielinizzazione degli assoni rende la velocità di trasmissione delle informazioni all’incirca 16 volte meno efficiente rispetto a quella un adulto; velocità che poi aumenta via via di conserva con l’aumento della mielinizzazione, raggiungendo il suo picco grossomodo verso la fine dell’adolescenza, sui 18-20 anni, salvo il fatto che questa velocità neurale è però ancora in essere poiché molte aree della corteccia frontale finiscono il processo di mielinizzazione, come già affermato, sui 30 anni); il che è dichiarare, se si valuta l’insieme di quanto detto a proposito del linguaggio indirizzato al bambino (sorriso sociale compreso), che la costruzione storica in divenire del suo mondo mentale rimanda a un dispositivo sociale che privilegia di fatto la matrice delle relazioni interpersonali fra bambino e madre, cioè a un cervello sociale distribuito che s’impianta grazie a una meccanica diadica che, garantite le necessità materiali e il rafforzarsi del legame figlio/madre con il sistema dopaminergico di ricompensa, incorpora e fa collaborare fra loro i bisogni relazionali del bambino con il comportamento specie-specifico della madre e delle figure di cura parentale (o caregiver), questo al fine precipuo di costruire una piattaforma che permetta al bambino d’imparare ad auto-organizzarsi con coerenza e senso di continuità del sé fino all’inserimento in autonomia all’interno d’una rete sociale; per quanto riguarda poi l’attenzione che il bambino presta ai volti e agli occhi, questa è tale già pochi minuti dopo la nascita ed è anch’essa soggetta a un processo d’apprendimento e perfezionamento (cioè a un’interpretazione e trasformazione di ciò che il bambino realmente percepisce del contesto esterno, percezione che si fa via via più evoluta nel corso del tempo, là dove è difficile distinguere tra ciò che esiste come materialità e ciò che si produce come un’attribuzione di significato a quella materialità, a noi esterna, ch’è dovuta al lavorio del cervello, questo perché nessuno di noi riesce a percepire la realtà qual è nel suo guazzabuglio di stimoli, bensì percepisce quello che la plasticità neuronale del cervello è stata addestrata a vedere dopo un processo di selezione/attenuazione/scarto della realtà in un dato e determinato contesto socio-economico; v., supra, quale esempio, la Landscape Mind Theory); apprendimento in cui date aree del cervello sviluppano gradatamente una risposta via via più specifica, specializzata, ai volti e allo sguardo diretto, e si tratta, nella neuroanatomia dei primati, tanto di un’area denominata come solco temporale superiore-anteriore, quanto di due vie d’accesso del sistema visivo attraverso le quali le informazioni visive sono trasmesse dalla parte posteriore del cervello ai lobi frontali, là dove i flussi di queste informazioni sono ulteriormente processate dal sistema magnocellulare (comune a tutti i mammiferi) e da quello parvocellulare (proprio solo ai primati); grossomodo, il solco temporale superiore-anteriore presenta popolazioni neurali che sono specializzate nella percezione dei volti e nella percezione del movimento degli esseri viventi (o movimento biologico); il sistema magnocellulare, che corre lungo l’area dorsale del cervello, è coinvolto nell’analisi del movimento e della profondità (terza dimensione) e quello parvocellulare, che segue un percorso ventrale ed è connesso direttamente all’amigdala (vale a dire a strutture cerebrali implicate nella percezione e elaborazione delle emozioni, v. supra), è coinvolto come sistema nell’analisi del riconoscimento, ossia nell’analizzare il dettaglio della forma e del colore (tricromia) degli oggetti legandolo al contesto emotivo e, almeno nelle specie di primati attive durante il giorno, la popolazione neurale parvocellulare è correlata a variabili quali la dieta e la dimensione del gruppo sociale, e si sospetta fortemente che gli strati parvocellulari siano aumentati nel corso dell’evoluzione dei primati allo scopo di meglio processare i dettagli dei flussi visivi legati alle dinamiche sociali, quali le espressioni facciali, la direzione dello sguardo e la postura dei partecipanti al gruppo sociale, stimoli che poi, grazie alle connessioni con l’amigdala, sono emotivamente connotati, cioè ritenuti segnali di percezione visiva socialmente rilevanti; e nei bambini, come negli altri primati, quest’evoluzione risponde sì ai segnali socialmente rilevanti, con la differenza (rispetto ai primati) che i bambini nel loro sviluppo sono più reattivi agli stimoli di rilevanza sociale perché, tra i 9 e i 14 mesi incominciano a manifestare un’attenzione congiunta (joint attention) che in seguito si fa condivisa (shared joint attention), intendendo con il fenomeno dell’attenzione congiunta la tendenza a focalizzare l’attenzione in prevalenza sugli stimoli di tipo facciale presenti nei soggetti di un contesto, tendenza che s’evolve nell’abilità di seguire la direzione dello sguardo di questi e di guardare nella stessa direzione focalizzando l’attenzione sullo stesso oggetto che un soggetto sta guardando (focus attentivo); mentre con il fenomeno dell’attenzione congiunta condivisa s’intende quell’abilità di trasferire lo sguardo dall’oggetto all’altro soggetto e poi di nuovo all’oggetto per verificare empiricamente, con quest’alternanza di sguardo, che si stia effettivamente guardando lo stesso oggetto, alternanza ch’è poi emotivamente connotata; cui s’aggiunga che, sui 14 mesi, i bambini sono poi capaci di dirigere l’attenzione d’un adulto verso l’oggetto cui sono interessati e questo può avvenire, per esempio, attraverso la pratica dell’indicare, cioè con il tramite d’un linguaggio gestuale (e in cui il gesto d’indicare è detto deittico); questa regia di gesti deittici e di sguardi incrociati da parte dei bambini ha poi lo scopo di far sì che l’attenzione dell’adulto sia coordinata, congiunta, con la loro, il che presuppone che stia iniziando a svilupparsi, a partire dai 14 mesi, un’abilità socio-emotiva di complicità che implicherà il noi (v. infra) e che mostra interrelati gli attori in gioco grazie alla referenza che hanno in comune; o, detto altrimenti, il bambino ch’è capace di dirigere l’attenzione d’un adulto verso un oggetto inizia a produrre socialmente quello che, sui 4-5 anni, sarà il noi, ossia il punto di non ritorno in cui una rete neurale e una rete sociale si cablano rendendo indistinto, negli attori implicati, il contributo biologico da quello sociale (e, se interessa, nessun altro primate, oltre Homo sapiens, sembra in grado d’adottare dei gesti deittici per coinvolgere l’attenzione d’un altro membro del suo gruppo sociale); l’attenzione congiunta condivisa, infatti, è quell’abilità cognitiva di base che fa sì che un bambino, nell’arco tra i 9 e i 14 mesi, comprenda che i soggetti con cui è interrelato sono agenti autonomi dotati dell’intenzione di agire (intentional agents), cioè di produrre effetti su uno stato loro preesistente, e la cui percezione del contesto può essere seguita, orientata, condivisa e imitata dal bambino; tanto che, in generale, i bambini sono in grado di riconoscere e reagire allo stato mentale altrui ch’è stato percepito e compreso (quella che sarà l’abilità di lettura della mente, o mindreading), ciò che favorisce la consapevolezza che c’è una similarità tra gli scopi dell’agente intenzionale e i propri scopi; vale a dire che, una volta instaurata l’attenzione congiunta condivisa, si crea un feedback positivo tra la reattività del bambino da un lato e l’agire dei soggetti cui questi è interrelato dall’altro, feedback che potenzia e alimenta incessantemente un meccanismo di retroazione circolare che permette all’agente intenzionale di mettere in essere tutte le potenzialità che la trasmissione culturale (in quel dato contesto storico condizionato dallo stato della materialità economica e dal possibile sviluppo sociale da questa determinato) gli può offrire per alimentare le sue (del bambino) abilità cognitive e le sue capacità d’interazione sociale (ossia la sagomatura della sua mente, o mindshaping); ragione per cui si può affermare che si viene a costruire una nicchia culturale (cultural niche construction, v. supra) che può intervenire nella formazione del contesto sociale ed economico attraverso il detto processo di sagomatura delle menti che inizia nei bambini a 9 mesi e ch’è favorito dalla detta condivisione degli scopi e dalla trasmissione culturale partecipata degli agenti intenzionali, ciò che permetterà al bambino, divenuto a sua volta adulto, di potere perpetuare il processo d’accumulazione delle informazioni proprie alla trasmissione culturale, questo grazie a quello ch’è stato classificato come effetto dente d’arresto (ratchet effect; ratchet può essere tradotto anche con termini, più tecnici, come nottolino o cricchetto); per apprezzarne il valore esplicativo si pensi che se s’incastra un meccanismo d’arresto in una ruota dentata (il citato ratchet), ecco che questo impedisce alla ruota dentata la retrocessione, ossia di svolgere il movimento all’indietro permettendo solo quello in avanti, proprio nello stesso modo in cui, a livello metaforico, un dente d’arresto ch’è dato dall’attenzione congiunta condivisa non permette un’involuzione culturale in quanto ne impedisce il moto retrogrado che porterebbe alla perdita delle informazioni culturali, nel mentre favorisce il moto in avanti dell’accumulo d’informazioni (questo se e solo se l’intero processo della trasmissione culturale obbedisce poi a un processo cumulativo d’utilità sociale plurigenerazionale); ancora, grazie all’attenzione congiunta condivisa, ossia sempre  partire dai 14 mesi, i bambini iniziano a valutare le reazioni emotive esibite dal volto della madre (o d’altra figura parentale), quali la sicurezza o l’insicurezza nei confronti d’un oggetto (per esempio, un giocattolo nuovo) o d’un soggetto (per esempio, un individuo sconosciuto), e in seguito usano l’informazione ottenuta (cioè l’interpretazione prodotta dallo scorrere del loro sguardo dalle espressioni del volto della madre all’oggetto o al soggetto e di nuovo alla madre), per adottare nella pratica un filtro attentivo (di accettazione/rifiuto) ch’è conforme a quello manifestato dalla madre nei confronti dello stesso oggetto o soggetto, cioè utilizzano la madre come riferimento sociale (o social referencing) per orientare il loro comportamento in un contesto sociale; così come, sempre a partire dai 14 mesi, inizia ad apparire l’apprendimento per imitazione (o imitative learning), che è un compito cognitivo complesso (v., supra, l’ipotesi dei neuroni specchio e le sue conseguenze per la teoria della mente) in cui l’abilità imitativa è costruita nel corso dello sviluppo da precise interazioni sociali e che, di fatto, consiste nel capire le intenzioni soggiacenti a una sequenza d’azioni motorie d’un dato agente e nel saperle ripetere con precisione (adozione del modello), il che implica il capire che l’altro è un agente intenzionale le cui azioni sono mirate a uno scopo (goal-directed) e che queste azioni equivalgono agli stessi atti motori che il bambino in oggetto adotterebbe nelle medesime circostanze; ciò che indica ch’è in gioco un processo d’apprendimento sociale che fa emergere un meccanismo di comprensione dell’equivalenza tra sé stessi (l’osservatore) e l’altro (l’osservato), questo assieme al fatto che le funzioni che sono attribuite a un oggetto sono tali perché c’è al proposito dell’attribuzione un consenso collettivo, di natura sociale (e, per inciso, è probabilmente dovuto a questa identità fra il sé e l’altro anche l’apprendere ciò che è obbligatorio, o solo permesso, o proibito fare, ciò che rimanda al senso del dovere, detto anche comportamento deontico, ch’è implicito nelle regolamentazioni delle interazioni sociali e che dipende dallo stile educativo proprio a una specifico gruppo); s’è detto, riguardo al consenso sul significato d’un oggetto, che questo consenso è di natura sociale, fatto che diventa ancora più evidente quando, a partire dai 24 mesi, iniziano i giochi di finzione dove un oggetto non è quello che è, ma diventa un’altra cosa, per esempio, una banana diventa un telefono, e dove questi bambini di 2 anni sono già cognitivamente attrezzati per essere consapevoli che chi gioca con loro adotta la stessa finzione, o attribuzione di significato, e questo è un apprendimento (rispetto ai dati oggettivi) di non poco conto che segnala la capacità di sapere distinguere oggetti reali da oggetti immaginari e che, soprattutto, partecipa a un processo di costituzione sociale del noi che inizia a essere sempre più consapevole e concordato; processo, ancora, ch’è strutturalmente legato al linguaggio (che i bambini iniziano ad acquisire seriamente a partire dai 18 mesi) poiché il nome da dare alle cose è associato, come insieme di fonemi, al loro guardare l’oggetto, oggetto ch’è in pari tempo guardato anche da chi pronuncia questo insieme di suoni (attenzione congiunta condivisa), ossia che i nomi dati alle cose sono bidirezionali o socialmente condivisi e rimandano a un’unica referenza, ragione per cui se il bambino, in un altro contesto, vuole che la figura di riferimento condivida l’attenzione nei confronti dello stesso evento o dello stesso oggetto (ossia ponga attenzione a quella referenza che dev’essere comune ai locutori affinché si produca una comunicazione linguistica), deve ripetere quell’insieme arbitrario di fonemi (il significante) che il linguaggio socialmente condiviso attribuisce come significato a quell’oggetto o evento; e l’allenamento continuo richiesto da questa tipologia d’apprendimento per imitazione triadica (significante/significato/referenza) è fondamentale nella trasmissione culturale, come può, per esempio, mostrare il fatto che un repertorio lessicale ampio è in grado di permettere ai bambini di correggersi e di meglio comunicare con l’interlocutore nel caso s’accorgano che questi potrebbe non sapere a cosa si stanno riferendo (ciò ch’è poi capire e valutare che, riguardo a una referenza qualsivoglia, gli altri possono mostrare percorsi o prospettive di riferimento diverse dalle loro); a 4-5 anni, al repertorio di ciò che il bambino ha appreso, si aggiunge poi via via la consapevolezza che gli altri, oltre che a essere agenti intenzionali, sono anche agenti mentali (mental agents); come dire che alla consapevolezza precedentemente  acquisita di stati mentali relativamente semplici come la motivazione, l’attenzione e l’intenzione  o il desiderio (stato, questo, che investe ciò che si vuole, o volizione), aggiungono quella del riconoscimento degli stati mentali di credenza (che sono, dal punto di vista cognitivo, astratti e molto più complessi), vale a dire ch’essi iniziano a rendersi conto che il comportamento altrui è guidato dalle credenze sul mondo che ognuno di questi altri ha, e in questo modo arricchiscono notevolmente l’abilità di lettura della mente propria e altrui, questo perché i bambini devono essere in grado di separare la propria conoscenza del contesto dalle credenze sul contesto manifestate dall’altro, ossia devono rendersi conto (in base alle competenze operative che possiedono) che le credenze che guidano il comportamento dell’altro sono sbagliate, ovvero devono avere una credenza sulle credenze dell’altro per poter capire che s’è in presenza d’una falsa credenza (o false belief) e, inoltre, devono essere consapevoli del fatto che c’è una realtà ch’è tale indipendentemente dalla credenze proprie e altrui, cioè che non dipende dal punto di vista di chi questa realtà la valuta; vale a dire una competenza sulla lettura della realtà e sulla lettura della mente che tiene conto delle rappresentazioni multiple e possibili della realtà e che arriverà poi a costituire (su un repertorio di nessi causali e di inferenze sul comportamento altrui che sono il motore della mindreading) una teoria della mente che permette di spiegare il comportamento altrui e di fare previsioni, ossia la sopra illustrata Theory of Mind; cui s’aggiunga che, se sui 2 anni il punto di vista dei bambini sulla realtà è limitato al loro punto di vista (prevalenza dell’io) e a quei punti di vista che condividono di volta in volta con chi li circonda (intenzionalità condivisa, o shared intentionality), sui 4-5 anni si rendono conto che ci sono punti di vista che vanno oltre ciò che loro sperimentano nei loro contesti d’interazione, punti di vista che sono condivisi da tutti coloro che partecipano alla cultura cui anch’essi appartengono, e che permettono il passaggio dall’intenzionalità condivisa nella relazione diadica all’intenzionalità collettiva (collective intentionality); così che ciò che prima ruotava attorno all’egocentrismo del bambino (l’affermazione dell’io) e alla relazione di attaccamento con una figura di riferimento (la madre), ora ruota intorno alla collettività (il noi), il tutto a partire dalla presenza di relazioni d’attaccamento non più diadiche (bambino/madre), ma plurime, relazioni in cui s’esplicitano comportamenti affiliativi e altruistici; tanto che si può affermare che con l’intenzionalità collettiva s’è infine manifestata l’occorrenza d’un cervello sociale cui il bambino, quando smette d’essere tale (a partire dai 6 anni), potrà poi parteciperà con tutto il repertorio degli stati emotivi e delle abilità cognitive e operative di tipo intersoggettivo che sono ritenute fondamentali e necessarie per muoversi attraverso quella data realtà culturale (per inciso, una delle ultime competenze acquisite dal bambino è poi quella della conversazione e delle sue regole, per esempio, il rispetto del meccanismo di turnazione); realtà culturale che, di fatto, ha poi prodotto gli stati emotivi e le abilità cognitive intersoggettive del bambino grazie a un dispositivo cervello-mente (v. supra) creato dal cablaggio sociale delle reti neurali (dispositivo che, peraltro, è storicamente situato e legato allo stato dell’economia e alla struttura sociale corrispondente, ciò che vincola la libertà comportamentale degli individui promuovendo solo dati e determinati modelli di destino sociale, vale a dire impedendo, o cercando d’impedire, ogni altro storicamente possibile modello di sviluppo); come dire ch’è la sociogenesi del noi che rende esplicita l’occorrenza d’un cervello sociale e d’una mente distribuita, occorrenza necessaria per sostenere gli equilibri correlati al mantenimento d’una rete sociale (sul problema dei free-rider, v. infra).

COSTRUZIONE DI NICCHIA CULTURALE


 È necessario affermare, come assioma di partenza, che la dinamica della produzione della struttura del corpo umano (v. supra, Bauplan) e del funzionamento dei suoi organi e dei suoi apparati fisiologici, compreso il cervello, non è sufficiente a formare il dispositivo cervello-mente; infatti, questo dispositivo, come s’è detto sopra a proposito della GNST (Groups Neuronal Selection Theory), mostra la sua processualità (casuale, dinamica e plastica) a partire dalla vita fetale con la formazione del sistema neurale (il repertorio primario) e continua, come detto, sino alla morte, arco di vita dove si presenta l’interazione del cervello (del corpo) con l’ambiente esterno (repertorio secondario) che compartecipa via via alla costruzione d’una nicchia ecologica e culturale, fenomeno (il cui stampo è imprevedibile, cioè unico e irripetibile) ch’è dovuto a una dinamica dove le reti sociali, appoggiandosi sulle reti neuronali grazie ai fenomeni del rientro e della categorizzazione e ricategorizzazione percettiva, sono corresponsabili della transizione della mente dallo stato neonatale (coscienza primaria, propria anche ad altre specie) allo stato adulto (coscienza d’essere coscienti) dell’organismo, ciò che si traduce in un coagulo di rapporti tra loro interdipendenti che l’organismo tesse con la nicchia ecologica, con gli altri organismi della propria umana specie e d’altre specie (costruzione di nicchia culturale) e nell’eventuale successo/insuccesso di tali rapporti; ed è importante sottolineare da subito che questo strumento della nicchia culturale, ossia il dispositivo cervello-mente edificato per filogenesi dal genere Homo affinché questi possa arrivare a essere in grado di modellizzare e rimodellizzare ontogeneticamente il mondo circostante allo scopo d’essere esonerato dai limiti del qui e ora propri alla coscienza primaria, è solo uno strumento che, se pur diverso, è pari per valore (ma non per efficacia creativa/distruttiva) a quello che usano le altre specie per modificare la loro nicchia ecologica; fatta salva questa parità, bisogna sottolineare che, eseguendo un’analisi comparata dei tessuti cerebrali di alcune specie (ne sono state monitorate ca. un centinaio prima di reperire quelle pertinenti), queste presentano poi una parentela con un meccanismo che nel genere Homo s’ipotizza abbia innescato quella prosocialità interagente fra insiemi d’organismi che permette infine di costruire una nicchia culturale, cioè d’implementare delle reti sociali, e che rimanda ai neuroni di von Economo (von Economo neuron, o VEN); quest’ipotesi della prosocialità si basa, per il genere Homo, sulla scoperta di una tipologia di cellule cerebrali fusiformi (a forma di fuso, o spindle cell), cioè sottili e allungate, e a forma bipolare, con un soma che presenta un assone apicale e un dendrite all’altra estremità (dunque con una struttura dendritica semplice), cellule la cui comparsa avviene in piccolo numero nella 36a (altri dice 35a) settimana dopo il concepimento, numero che poi cresce durante i primi quattro anni di vita postnatale (con un picco attorno agli 8 mesi) e che in seguito rimane relativamente stabile durante l’età adulta, numero che si presenta poi con valori superiori nell’emisfero destro del cervello per un’asimmetria che emerge durante i primi mesi di vita postnatale; ancora, lo sviluppo di queste cellule cerebrali fusiformi durante l’infanzia potrebbe subire l’influenza di fattori ambientali, quali la assenza/presenza di stimoli, l’assenza/presenza di fattori di stress, la assenza/presenza di qualità nelle cure parentali etc., con ricadute positive o negative, durante l’età adulta, sulle competenze/incompetenze cognitive di tipo sociale (tipo riconoscimento degli errori propri e altrui e pronta risposta adattativa a condizioni mutevoli); capacità/incapacità di risoluzione dei problemi (problem-solving) che si giustappongono poi sulla capacità/incapacità dell’autocontrollo emotivo e la presenza/assenza di stabilità emotiva, ciò che porta a modificare/alterare, a livello dell’ontogenesi, le tappe dello sviluppo socioemotivo in meglio o in peggio; la figura seguente mostra una microfotografia di un neurone piramidale (a) e di un neurone di von Economo (b) colorati con il metodo di Golgi (cioè fissando i preparati con bicromato di potassio e impregnandoli con nitrato d’argento); in (b) si nota la struttura fusiforme della cellula e la presenza di un assone apicale che trasmette le informazioni ricevute dal dendrite basale (sul funzionamento dei neuroni, v. supra); la barra di scala vale per entrambe le immagini:

Figura n.   . Fonte: Watson, Jones e Allman, 2006, p. 1108.

Cellule, ancora, che sono rare e ca. 4 volte più grandi rispetto alla media degli altri neuroni e che sono stati individuate per la prima volta da von Economo (da cui il nome) nello strato V di due regioni del cervello, una chiamata corteccia cingolata anteriore (anterior cingulate cortex, ACC, v. supra) e l’altra corteccia frontoinsulare (frontoinsular cortex, FI, v. supra), come mostra la figura seguente dove a sinistra si ha la vista laterale del cervello con la corteccia frontoinsulare (FI, colore rosso) e a destra se ne ha la vista mediana con la corteccia cingolata anteriore (ACC, colore rosso):


Figura n.   . Fonte: Ibegbu, Umana, Hamman e Adamu, 2014, p. 2.

Ora, s’è scoperto che questi neuroni su cui si basa l’ipotesi sopracitata sono poi presenti nella famiglia Hominidae al suo completo, cioè in tutte le sue ramificazioni (v. supra) in generi, cioè Homo, Pan (Pan troglodytes e Pan paniscus), Gorilla (Gorilla gorilla) e Pongo (Pongo pygmaeus e Pongo abelii); i VEN sono poi più abbondanti in Homo e via via diminuiscono in densità negli altri generi con la seguente progressione: Homo (Homo sapiens) > bonobo (Pan paniscus) > scimpanzé comuni (Pan troglodytes) > gorilla (Gorilla gorilla) > oranghi (Pongo pygmaeus e Pongo abelii) e, indipendentemente dalla loro densità (ch’è storia evolutiva a seguire), tutto ciò riporta a un loro antenato comune proveniente dall’Africa settentrionale/orientale (della superfamiglia Driopitècine, Dryopithecinae) e presente all’altezza di ca. 15 milioni di anni fa, nel tardo Miocene (dunque prima della divergenza, datata grossomodo a 6 milioni d’anni fa, fra i lignaggi del genere Homo e del genere Pan, v. supra), cui bisogna però aggiungere che i VEN sono presenti, se pure in misura minore, anche nel genere Macaca, anche questo appartenente come i già citati generi al gruppo di primati delle scimmie Catarrine (Catarrhini) o scimmie del Vecchio Mondo, specificamente alla sottofamiglia Cercopithecidae (Cercopitècidi), sottofamiglia che s’è scissa dal sottordine Catarrine tra l’Oligocene e il Miocene, ca. 25 milioni d’anni fa (in ogni caso, per i neuroni di von Economo si tratta d’una recente specializzazione filogenetica, tanto che si sospetta che la vulnerabilità dei VEN nelle condizioni disfunzionali legate ai disturbi neurali propri a Homo sapiens, v. infra, sia dovuta proprio al fatto che l’evoluzione non abbia potuto plasmare il loro funzionamento e l’integrazione con altre popolazioni cellulari con il dovuto tempo); la figura seguente mostra la localizzazione della corteccia frontoinsulare (FI) e della corteccia cingolata anteriore (ACC) su sezioni coronali di cervello in Homo sapiens, in Pan paniscus (Bonobo) e in Gorilla:


Figura n.   . Fonte: Ibegbu, Umana, Hamman e Adamu, 2014, p. 2.

Questi VEN, ancora, s’è poi scoperto che sono presenti anche in elefanti (della famiglia degli Elefantidi, Elephantidae), balene (della famiglia dei Balenidi, Balaenidae), delfini (della famiglia dei Delfinidi, Delphinidae) e, in misura minore, nei procioni (della famiglia dei Procionidi, Procyonidae) e complessivamente tutti questi mammiferi fra loro filogeneticamente diversi (umani, scimmie, elefanti, balene, delfini e procioni) arrivano a suggerire che i VEN derivano da popolazioni comuni di neuroni (molto probabilmente da una popolazione di neuroni piramidali) già presenti nella corteccia prefrontale e nella corteccia cingolata anteriore di mammiferi ancestrali e evoluti più volte nel contesto di specie-specifiche pressioni adattative, come dire che il fatto che questa classe di neuroni, in quanto presente in varie specie con distribuzioni corticali simili e con numeri assoluti di VEN ragionevolmente comparabili, può essere indice dell’evidenza che i neuroni di von Economo filogeneticamente conservati possono arrivare a rappresentare, a seguito delle dette pressioni selettive fra loro comparabili, una specializzazione neurale ch’è squisitamente relativa a dimensioni del cervello molto grandi; specializzazione, a sua volta, che sarebbe pari, nelle diverse nicchie ecologiche delle citate specie, alla presenza d’una socializzazione emergente che coinvolge aspetti emozionali/cognitivi, allocati nelle suddette regioni corticali e legati alla trasmissioni d’informazioni strategiche per la sopravvivenza delle specie (ciò che fa rientrare anche queste specie, oltre al genere Homo, nell’ipotesi della prosocialità); la figura seguente mostra l’adattamento della filogenesi dei mammiferi placentati, compresi Ordini (a destra) e Superordini (a sinistra); in rosso sono indicati ordini che contengono almeno una specie i cui VEN sono stati descritti:


Figura n.   . Fonte: Butti, Santos, Uppal e Hof, 2013, p. 322.

Infatti, questi neuroni di von Economo, in quanto grandi e con un’architettura dendritica semplice e simmetrica, hanno permesso agli studiosi di congetturare che essi sono stati sviluppati per la velocità di trasmissione delle informazioni, vale a dire che hanno probabilmente il ruolo d’accelerare, in un cervello a sua volta grande, la comunicazione della corteccia cingolata anteriore e della corteccia frontoinsulare con le altre aree del cervello (cioè di avere una funzione d’interconnessione fra aree corticali e sottocorticali distanti) grazie alla loro stretta arborizzazione dendritica con collegamenti assonali che s’estendono e attraversano gli strati della corteccia (questo in base al fatto che nel sistema nervoso la dimensione dei neuroni spesso si correla con la velocità);  le informazioni che la corteccia cingolata anteriore e la corteccia frontoinsulare anteriore devono poi velocemente veicolare, in quanto neuroni di proiezione che funzionano da crocevia, o relais, fra diverse aree cerebrali, riguardano la presenza delle sensazioni che un organismo (qui del genere Homo) sperimenta, sensazioni che le due citate aree integrano e automonitorano, quali le funzioni d’una regolamentazione di base delle percezioni proprie agli stati corporei interni, per esempio, di dolore, di caldo/freddo, di fame e altro ancora (nell’ottica dell’omeostasi fisiologica), cui s’aggiungono tutti quegli  aspetti che coinvolgono la consapevolezza di sé e degli altri e i processi decisionali effettuati in condizioni d’incertezza, ciò che s’intreccia con le funzioni esecutive della corteccia prefrontale (v. infra); ciò che, ancora, include emozioni quali l’empatia, la fiducia, il senso di colpa e altro ancora, vale a dire un’intera batteria di percezioni/emozioni/cognizioni che si presentano come prosociali (e le sperimentazioni su organismi del genere Homo dicono che queste aree s’attivano per effettuare una rapida scelta intuitiva in situazioni sociali più o meno complesse, per esempio, in un’interazione a due, se si scruta con attenzione la dinamica dell’espressione facciale dell’altro per discernere e valutarne le intenzioni), tanto che si sospetta che la consapevolezza di sé (l’automonitoraggio) e la consapevolezza sociale (v. teoria della mente, supra) facciano parte d’un dispositivo cervello-mente dove le reti sociali s’appoggiano in modo epigenetico sulle reti neurali, dunque grazie a un cablaggio flessibile dei circuiti socioemotivi che potrebbe permettere la sociogenesi e di dare origine a un cervello sociale; altri esperimenti, infatti, suggeriscono che le citare aree contenenti VEN sono attivate in situazioni di monitoraggio della rete sociale cui un individuo partecipa e in cui scopre un errore sociale dovuto, per esempio, a un cambiamento di stato di uno dei partecipanti, ciò che può attivare nel soggetto valutante un ventaglio emotivo intessuto di risentimento, inganno, imbarazzo, ciò che, ancora, può dare avvio a risposte adattive all’errore rilevato; oppure possono essere attivate dall’empatia in una situazione di sofferenza da parte di un individuo compresente nella rete sociale, per esempio, quello d’una madre a fronte di grida d’un bambino in difficoltà; oppure, ancora, possono essere attivate da segnali prosociali come l’affetto e la fiducia e altro ancora; inoltre, mentre molte di queste dinamiche sono coscienti, possono esisterne anche altre di cui l’organismo agente è inconsapevole, e a questo proposito, per esempio, è stato dimostrato che quando un soggetto guarda negli occhi il suo interlocutore non è consapevole se le dimensioni delle pupille di quest’ultimo s’alterano in modo discordante con la prosocialità ch’è in essere fra i due in quel momento (cioè s’allargano in modo involontario a causa dello stress emotivo che si mette in atto per simulare una concordanza che non c’è), inconsapevolezza che, al contrario, la corteccia cingolata anteriore e l’insula anteriore del soggetto non vivono in quanto s’attivano subito all’effettuarsi della dilatazione della pupilla dell’interlocutore e subito allertano il cervello sull’incongruenza presente nel fatto sociale, cioè dell’effettuarsi probabile d’un errore comportamentale nel caso non s’intervenga (e non si dimentichi che lo stato delle pupille tra interlocutori è costantemente monitorato dalle dette regioni cerebrali, sempre e durante tutte le interazioni sociali); tutto un insieme di fatti che alla fine induce a sospettare che queste aree cerebrali siano le componenti base d’un dispositivo cervello-mente preposto al controllo flessibile dei comportamenti diretti a un obiettivo (goal-directed) che si presentano in una rete sociale, quelli in cui l’individuo partecipante alla detta rete ne valuta sia gli aspetti negativi che positivi ch’essa al momento presenta in vista della sopravvivenza sociale; e si dice sopravvivenza perché l’evidenza che i neuroni di von Economo siano, come sopra affermato, presenti in mammiferi filogeneticamente diversi come gli esseri umani, le scimmie antropomorfe, gli elefanti, le balene e i delfini, è interpretabile come risultato d’una loro evoluzione sotto pressioni evolutive specie-specifiche legate alla costruzione di nicchie culturali fra loro decisamente comparabili (ossia a una evoluzione convergente, v. supra, in cui si presenta un adattamento neurale capace di veicolare con rapidità, in aree fra loro distanti d’un cervello grande, informazioni rilevanti sul contesto sociale, volendo, alla specializzazione di circuiti neurali legati alla cognizione sociale); e a proposito della sopravvivenza in un contesto sociale, e fatto salvo che una perdita di VEN nella corteccia frontoinsulare può essere correlata con una disinibizione, mentre una perdita di VEN nella corteccia cingolata anteriore si può correlare con l’apatia, può essere indiziario della validità dell’ipotesi della prosocialità (una specie di prova indiretta) il presentarsi nella demenza frontotemporale (frontotemporal dementia, FTD), specificamente nella sua variante comportamentale (behavioral variant FTD, o bvFTD), d’un deterioramento comportamentale che, indagato, mostra che oltre il 70% dei VEN presenti risultano essere stati distrutti selettivamente (mentre i VEN restanti mostrano alterazioni importanti nella morfologia, quali soma gonfio e dendriti intrecciati), ciò che porta a un progressivo restringimento dei lobi frontali e temporali del cervello, ciò che, ancora, produce il detto deterioramento comportamentale legato a disturbi della personalità, per esempio, irritabilità, iperattività, eccessi d’ira, aggressività, inaffidabilità dei giudizi, autolesionismo, assenza completa d’empatia, indifferenza rispetto al proprio aspetto fisico, mancanza d’inibizione verbale e comportamentale (con comportamenti sessuali inappropriati e atti osceni), evitamento dei contatti sociali e altro ancora; e il tutto porta a sospettare che i neuroni di von Economo siano coinvolti nell’implementarsi d’una rete sociale, tanto che la loro assenza si traduce in una totale inconsapevolezza sociale di sé e mancanza d’autocontrollo, cioè in una completa disgregazione della precedente vita sociale della persona che subisce la demenza, il tutto, ancora, in un arco temporale relativamente breve e con un climax distruttivo dell’intero repertorio comportamentale appreso nel corso del tempo; e questo nel mentre i neuroni che sono prossimi alle aree danneggiate con deficit di cognizione sociale rimangono in gran parte inalterati mantenendo integre le aree cerebrali non coinvolte, e quale esempio di questo fatto si può avanzare la presenza intatta della memoria, che di solito rimane tale per un ampio tratto nel decorso della bvFTD; ancora, s’è notato che nella schizofrenia e nell’autismo i VEN sono coinvolti in deficit della regolazione emotiva e delle competenze sociali e nell’agenesia del corpo calloso in comportamenti sociali carenti (dovuti a un’errata interpretazione dei segnali sociali o a una impropria valutazione degli affetti, cioè a un’alessitimia; l’agenesia è poi una condizione del corpo calloso del cervello dove mancano, in modo totale o parziale, le fibre commessurali che fanno da ponte di collegamento fra l’emisfero destro e l’emisfero sinistro); detto questo, valga ora come inciso una precisazione che riguarda il ruolo specifico assunto dai VEN all’interno della corteccia cingolata anteriore, corteccia che funziona come interfaccia tra le emozioni e le cognizioni, e che trasmette i risultati delle trasformazione avvenute nella corteccia cingolata anteriore a un’area ch’è denominata corteccia frontale polare (frontopolar cortex, FPC), corteccia ch’è poi classificata come area 10 di Brodmann (A10, v. supra); ora, si suppone che questa corteccia frontale polare integri a un livello superiore i risultati di varie operazioni cognitive (fra loro distinte) che le arrivano dalla corteccia cingolata anteriore allo scopo d’implementare un obiettivo comportamentale decisamente più complesso, per esempio, una rapida pianificazione adattativa a condizioni ambientali e sociali fortemente mutevoli, come dire un’acquisizione d’opzioni legate a nuovi comportamenti; la figura seguente riporta con il colore blu, in una mappa cerebrale di Brodmann, la localizzazione dell’area 10 (si noterà ch’è una grande area che occupa la porzione anteriore del lobo frontale del cervello); la vista del cervello è poi quella laterale (lateral); si ricorda che in Homo sapiens A10 è grande, sia in assoluto che relativamente, ed è molto più piccola, anche se ben sviluppata, nei Bonobo, negli scimpanzé comuni, nei gorilla e negli oranghi (l’estensione di A10 cala grossomodo nello stesso ordine in cui diminuisce la densità del neuroni di von Economo):


Figura n.  . Fonte (modificata): Allman, Hakeem, e Watson, 2002, p. 336.

La figura seguente mostra invece, sempre in una mappa cerebrale di Brodmann, la localizzazione, colorata in arancione, della corteccia cingolata anteriore (ma v. anche supra, fig. n. ), ritaglio ch’è classificato come area 24 (A24); la mappa rilocalizza, inoltre,  anche l’area 10 per una messa a confronto delle due aree in oggetto; la vista del cervello è quella mediana (medial):


Figura n.  . Fonte (modificata): Allman, Hakeem, e Watson, 2002, p. 336.

Entrando ancora di più nel dettaglio, è stato dimostrato che la corteccia cingolata anteriore opera un continuo monitoraggio dei cambiamenti di feedback dovuti all’interazione dell’organismo con il suo ambiente, cambiamenti che ne influenzano la sopravvivenza e la riproduzione e avviano risposte comportamentali per mantenere o migliorare queste condizioni e, in questo contesto, il ruolo dei VEN è che possono essere utilizzati per trasmettere l’avvenuto riconoscimento d’una situazione problematica (per esempio, la discriminazione tra segnali contrastanti) e delle informazioni necessarie per riaggiustarla ad altre aree corticali e a strutture sottocorticali ed eventualmente aumentarne la frequenza di trasmissione, cioè che possono partecipare alla dinamica riparatoria di molti sistemi efferenti (v. infra) all’interno del cervello e, soprattutto, che i neuroni di von Economo compartecipano all’attività della corteccia frontale polare (area 10); infatti, la corteccia cingolata anteriore è propriamente coinvolta nella maturazione comportamentale della consapevolezza di sé, consapevolezza che si determina (tramite la coazione a una logica non cieca di prova ed errore, dunque con una valutazione delle alternative ch’è relativa ed è in attesa di feedback positivo) con l’avanzare dell’età d’un organismo, ciò che si lega all’autocontrollo, alla volontà e, appunto, alla capacità acquisita di riconoscere gli errori e di poterli risolvere (problem solving); e, in questo dispositivo, sia la corteccia cingolata anteriore che l’area 10 mostrano un legame funzionale, ossia s’attivano quando un organismo recupera una memoria episodica pertinente (ciò che rimanda a una memoria a lungo termine), vale a dire quando l’area 24 e l’area 10 sono coinvolte in attività che richiedono di ricordare eventi specifici accaduti nel passato, e questa capacità d’integrare eventi passati come protocollo d’azione per il presente al fine di modificarlo ai propri fini è un aspetto importante della dinamica di sviluppo dell’autocontrollo (v., infra, l’esempio dei cacciatori-raccoglitori); il che è dire che l’area 10, con l’apporto delle informazioni veicolate dai VEN, confronta la situazione attuale con l’esperienza pertinente della memoria episodica, calcola le probabilità di successo d’un protocollo d’azione, e a seguire, e basandosi su questi calcoli probabilistici, implementa la strategia ritenuta (salvo gli errori che potrebbero presentarsi) la più adatta a quel dato contesto; ed è di supporto alla presenza di questa capacità, ch’è legata a compiti cognitivi complessi, il fatto che questo processo di maturazione implica, oltre alla formazione d’una memoria a lungo termine, anche un costante aumento dell’attività metabolica della corteccia cingolata anteriore nell’arco temporale che va dall’infanzia all’età adulta dall'infanzia, cui s’aggiunga che v’è anche la prova d’una maggiore attivazione della corteccia cingolata anteriore in organismi che presentano una competenza storicamente acquisita a meglio comprendere le dinamiche sociali e che in condizioni di mancato autocontrollo dovuto a disturbi per deficit d’attenzione, quindi di fronte a un problema sociale che il soggetto implicato non riesce a risolvere, non sono presenti risposte nella corteccia cingolata anteriore e, pertanto, non v’è alcun legame funzionale con l’area 10; inoltre, le lesioni all’area 10 sono associate con l’alterazione di quelle competenze cognitive che permettono di valutare l’esperienza in corso, tanto da  comprometterne la pianificazione strategica prevista come risposta, cioè le funzioni esecutive; per quanto riguarda, infine, lo scenario evolutivo che ha portato, rispetto ai lignaggi che precedono Homo sapiens, a una crescita numerica e funzionale dei neuroni di von Economo e a cambiamenti all’estensione e alla rilocalizzazione topografica dell’area 10 (compreso un aumento dello spazio tra strati corticali che ha così permesso un aumento di connettività con altre aree d’associazione ritenute d’ordine superiore), è importante sottolineare che questa specializzazione in termini di ridimensionamento e d’organizzazione suggerisce che le funzioni associate a questa parte della corteccia sono diventate particolarmente importanti nel corso del processo d’ominazione, giacché non ci si può impedire di vedere questa relativamente recente specializzazione se non come legata a una dinamica in continua evoluzione della pianificazione delle azioni a venire e dell’intrapresa d’inedite iniziative che implicano, necessariamente, dei fenomeni di sociogenesi (comprendendo in questi anche l’evoluzione tecnologica per la trasformazione delle risorse) e delle operazioni di trasferimento intergenerazionale dei tratti culturali dipendenti dalla costruzione di nicchia, cioè a un cambiamento materiale e funzionale delle competenze cognitive, dei comportamenti adattativi e dell’ambiente preesistenti a Homo sapiens; ora, e fatto salvo che, come sopra detto, la costruzione della nicchia culturale è solo una componente (sia pur diffusa e dominante nell’antropizzazione dell’ambiente) dell’eredità ecologica, può essere utile che, a proposito di cultura materiale e sociogenesi, s’osservi com’è possibile avanzare l’ipotesi che, nella storia del genere Homo, delle reti sociali si siano appoggiate su delle reti neuronali edificando per filogenesi un dispositivo cervello-mente che permetta al genere Homo di modellizzare e rimodellizzare ontogeneticamente il mondo circostante, questo valorizzando il rapporto che i cacciatori-raccoglitori (hunter-gatherer; per il loro stile di vita, v. anche supra) hanno con l’ambiente spaziale e con l’ecosistema in cui si ritrovano ad agire, rapporto legato a una processualità di lunga durata del sopra abbozzato dispositivo cervello-mente durante i 2 milioni di anni in cui questa pratica di sostentamento d’una collettività è stata vigente (cioè fino alle soglie del Neolitico); questo, ancora, valorizzando una strategia cognitiva che qui si recupera dalla Landscape Mind Theory (LMT, traducibile come teoria della mente basata sul paesaggio, e dove il paesaggio è da intendersi quale spazio delle interazioni fisiche, cognitive e sociali tra un organismo appartenente al genere Homo e l’ecosistema), strategia che s’appoggia, oltre che alle precedenti aree sopra citate, a due specifiche aree corticali di cui si parlerà a seguire; in quest’ipotesi s’avanza il sospetto che la pressione ambientale abbia indotto, nel corso del tempo, una sommatoria d’abilità cognitive adattate a risolvere problemi spaziali riguardanti la sussistenza (cioè la fenomenologia delle strategie venatorie da adottare o adottate in quanto imposte da un dato paesaggio) e, in pari tempo, problemi legati alla classificazione dell’ecosistema (cioè a problemi tassonomici nell’attribuzione dei nomi da dare ai tratti che caratterizzano il paesaggio, di fatto alla realtà e alla complessità del vissuto non solo venatorio); tipologia di problemi che, senza voler arrivare a sostenere uno stretto isomorfismo tra le strutture del paesaggio e le strutture cognitive che ne risultano modellate (e che sono in grado, come documentano le ricerche etnografiche, d’organizzare spazialmente le percezioni, le rappresentazioni e le conoscenze individuali/collettive), risultano comunque essere tra loro fortemente interdipendenti nella matrice dei comportamenti storicamente messi in atto nelle società di caccia e raccolta; il tutto parte dalla costatazione che esiste, nel tempo storico proprio ai cacciatori-raccoglitori, un’omeostasi che fa sì che le azioni di disturbo continuo dei fattori casuali (una qualsivoglia contingenza che si presenta) siano mantenute intorno a un livello d’equilibrio e tra gli organismi che abitano l’ecosistema e tra la collettività che questi organismi li preda, questo con il ricorso a un’attività di controllo materiale/immateriale sull’ambiente e sul vissuto dei detti organismi da parte dei cacciatori-raccoglitori che risultano così essere gli agenti d’una autoregolazione capace di controllare tutta la realtà (questo in quanto in grado di regolare, attraverso attività d’inibizione/promozione, i flussi appropriati del vissuto sociale mediante sistemi di controllo a feedback negativi/positivi); regolazione omeostatica che interviene, dunque, sia a livello etologico (per esempio, grazie a un comportamento ch’è la risultante d’una pressione ambientale che vale per tutti gli organismi di quell’ecosistema, e che nell’ecosistema sociale è controllata a livello segnico, v. infra) che ecologico (per esempio, controllando il rapporto prede/predatori); bisogna, infatti, sottolineare che a livello etologico il detto comportamento non è altro che la risposta a delle modificazioni, intervenute nell’esistente d’un organismo, da parte dell’organismo stesso (volendo, a partire qui dal predatore Homo habilis, v. supra) e che sono promosse dall’interazione fra stimoli che provengono tanto dal suo interno (interocettivi) quanto dall’esterno  che lo circonda (esterocettivi), esterno qui da intendersi tanto come ecosistema quanto come rapporto con conspecifici; comportamenti che, in una società di caccia e raccolta, si producono/riproducono con una stereotipia che, se isolata e resa discreta, si mostrano poi specie-specifici, cioè tipici di una data specie in un dato ambiente e in un dato momento storico (e che qui si possono solo congetturare), e che potrebbero alla fin fine dare origine, se elencati, a quello che si definisce come un etogramma (che, nel passaggio da una tipologia ambientale/sociale all’altra, dovrebbe essere poi in grado, grazie ai suoi riaggiustamenti negli schemi corporei, di mostrare nel repertorio dei comportamenti, fra loro comparati in modo indiziario e congetturale, le processualità d’una pressione evolutiva); per ricostruire in modo congetturale questo etogramma, se pure con modalità rozze e grossolane, cioè per provare a descrivere il comportamento d’un organismo del genere Homo, e tenendo conto del fatto che il sistema di caccia e raccolta è l’unica strategia di sussistenza che, come detto (v. anche supra), ha caratterizzato l’ontogenesi del genere Homo per almeno due milioni di anni, è necessario partire dall’indagare come quest’insieme d’organismi possono organizzare l’approvvigionamento alimentare in un dato ambiente, cioè analizzare la loro condotta diretta a un obiettivo (goal-directed, v. supra) di acquisizione o di prelievo delle risorse, partendo da quello che hanno bisogno di sapere dei cacciatori/raccoglitori per portare a compimento il loro compito (su questa questione, v. anche supra), il tutto al fine di modellizzare con una certa approssimazione il contesto ambientale in cui questi organismi perseguono il loro scopo (gli ambienti occupati dai cacciatori-raccoglitori possono essere o artici o desertici o forestali, in ogni caso si tratta di zone climatiche caratterizzate da risorse trofiche e/o idriche relativamente scarse e disperse su territori più o meno vasti); secondo una logica che rimanda alla realtà esperenziale che si basa sugli studi etnologici che hanno come oggetto i cacciatori-raccoglitori odierni e le loro pratiche di foraggiamento, e fatte salve le competenze ecologiche necessarie in questo tipo di società, risulta che la pratica della raccolta opera su porzioni relativamente limitate dell’ecosistema generalmente contigue, ciò che facilita l’orientamento e la memorizzazione delle direzioni di spostamento sul territorio che sono rese riconoscibili da punti identificabili nel paesaggio (landmark), mentre la caccia, in quanto le risorse sono mobili, è costretta ad operare su porzioni molto estese dell’ambiente che impongono, con la loro non contiguità, un disorientamento nello spostamento ch’è supplito da competenze cognitive flessibili (v. supra), ragione per cui qui si prende in carico il solo cacciatore; la figura seguente mostra le possibili mappature del territorio, a sinistra quella di società di soli raccoglitori (gathering, in figura) che si spostano su territori contigui (ciò che richiede, in linea di massima, una memoria puramente topografica del territorio), a destra quella di società di cacciatori-raccoglitori (hunting e gathering, in figura) che si spostano gli uni (gathering) su spazi contigui e gli altri su spazi non contigui (hunting), ciò che dà origine a una mappatura dell’ecosistema diviso in due parti (divisione segnalata, in figura, da una linea tratteggiata tra lo spazio dei cacciatori e quello dei raccoglitori), e dove lo spazio dei cacciatori è suddiviso in due zone, una con aree di ricovero (shelter) legate strategicamente ai lunghi percorsi da compiere, e l’altra con le aree discontinue legate al percorso effettivo o possibile della preda e senza dimenticare che tanto per i raccoglitori quanto per i cacciatori, le risorse trofiche non sono percepite solo come una cosa, ma implicano, nella loro rappresentazione mentale, anche un dove e un quando poterle trovare:


Figura n.  . Fonte: Meschiari, 2014, p. 56.

Per quanto riguarda specificamente il cacciatore (e dato come prerequisito ineliminabile quello della resistenza fisica alla fatica, v. supra), si può grossomodo affermare che questi deve possedere delle conoscenze sulla composizione, sulla struttura, sulla configurazione dei suoli e dei processi che vi operano; deve possedere una profonda consapevolezza geografica del territorio, dei confini distintivi, delle aree di transizione, delle barriere, etc.; deve utilizzare, come i raccoglitori, dei punti di riferimento (landmark) che non coincidono con la meta per potere così organizzare la sua percezione dello spazio; deve memorizzare gli itinerari, la distanza, il tempo necessario per spostarsi da un luogo all’altro; deve possedere delle strategie variate di spostamento nello spazio (legate anche ai cambiamenti stagionali e alle dinamiche metereologiche); deve riconoscere le connessioni ecosistemiche presenti nel repertorio dei luoghi familiari; deve possedere delle competenze biogeografiche sulla distribuzione e sulle dinamiche comportamentali relative alle specie animali cacciate e no; deve essere capace di usare in modo abile le tecnologie di caccia disponibili (dal tardo Paleolitico, archi, lance, mazze); deve possedere una memoria della probabile distribuzione spaziale delle risorse trofiche e deve essere capace di predire ipotesi e formulare decisioni sulla distribuzione delle risorse alimentari; deve possedere delle capacità inferenziali nella lettura degli indizi e delle tracce lasciate dalle prede; deve sapersi coordinare con il gruppo (specialmente se s’impiegano trappole, reti, barricate, palizzate, recinti o altro ancora che necessitano di una forte cooperazione attiva) per elaborare strategie finalizzate alla cattura delle prede e al sostentamento della collettività (e dove la spartizione della carne obbedisce a regole più o meno elastiche, ma sempre presenti); deve saper far fronte agli imprevisti e altro ancora, deve possedere, insomma, una mappatura dell’esistente che sia pari all’intreccio dinamico e contestuale che mettono in moto le sue innumerevoli competenze e i suoi comportamenti in un ambiente che, poiché saturo di segnali ecologici, necessita d’una griglia induttiva per essere interpretato; infatti, a proposito di questa griglia, bisogna sottolineare che ne fa parte anche un surplus legato a una creazione di significati aggiunti, per spiegare i quali partiamo dal fatto che il cacciatore sa ch’esistono delle categorie sistematiche corrispondenti ai vari organismi presenti nell’ecosistema, cioè dei raggruppamenti gerarchici dei viventi o taxa (v. supra), e il cacciatore, come sa di questa gerarchia, sa anche che a ogni livello gerarchico i taxa s’escludono a vicenda e che ogni organismo, preso in sé, è attribuibile a un dato taxon, e anche se i taxa sono classificati in modo variabile nelle varie tipologie di società di caccia e raccolta, in generale i livelli gerarchici fra taxa sono, all’interno d’una data tipologia sociale, stabili; ancora, il cacciatore sa che se due specie presentano una caratteristica comune, se ne può dedurre che tale caratteristica è condivisa anche da altre specie dello stesso taxon tanto che, stando a questa logica inferenziale, se un nuovo organismo è collocato in un taxon, si presenta un automatismo che tende ad attribuirgli le stesse caratteristiche condivise da altri appartenenti allo stesso; ciò nonostante questa tassonomia non però è vissuta in modo così meccanico come la descrizione che precede lascia presupporre, questo perché questa tassonomia manca della componente del rapporto di osmosi fra tutte le cose che risulta essere fondante nell’esperienza del cacciatore; infatti, a questa tassonomia ch’è garante dell’osservabile, vale a dire dei collegamenti ch’esistono di fatto e che il cacciatore istituisce tra gli organismi quali sono presenti nell’ecosistema condiviso (per esempio, la capacità di ratificare la presenza d’una colorazione o d’una morfologia somigliante fra organismi diversi, oppure la competenza nel reperire il rapporto ch’esiste tra predatore/preda, comprese le dinamiche della catena alimentare a ciò correlata etc.), i detti rapporti d’osmosi aggiungono un surplus di significato; e questo surplus, che risulta essere poi legato alla creazione d’immagini, non è dato dal fatto che questa creazione sfrutta in modo parassitario l’esperienza del cacciatore per potere poi produrre i suoi elaborati, ma è l’esperienza stessa del cacciatore quale questi la vive nell’ecosistema ch’è prodotta e strutturata dal suo sistema d’immagini in osmosi con il tutto (sistema, ancora, legato a una trasmissione di tratti culturali intergenerazionali in quelle società), ciò che fa sì che questo sistema possa così agire da collante causale sempre attualizzato nella fabbricazione d’un significato (meaning-making) ch’è in grado di debordare la meccanicità della sopra descritta logica tassonomica creando questo surplus che la scompagina e dove, come mostrano degli studi etnografici, gli organismi non sono percepiti come entità isolate all’interno d’un taxa ma, per esempio, come incrocio di relazioni complesse anche con animali appartenenti a diversi taxa; la figura seguente mostra un esempio di tassonomia presente presso gli Iglulingmiut (gli Iglulingmiut sono un popolo Inuit dell’Artico orientale che vive nella zona di Igloolik, nel Nord del Canada), dove la sistematica dei parlanti di questa zona distingue i nirjutit (alla lettera, gli animali utilizzati per essere mangiati), cioè i mammiferi, che sono divisi in pisuktiit, terrestri (quali il caribù, l’orso polare etc.), e puijiit, marini (quali l’orca, il narvàlo etc.); i tingmiat, gli uccelli (quali il beccaccino, la stròlaga etc.); gli iqaluit, i pesci (quali il ghiozzo, il salmone etc.); i qupirruit, gli animali piccoli (quali gli insetti, i ragni, i vermi etc.) e, infine, gli uviluit, i molluschi, sistematica ch’è legata a una trama di relazioni interspecifiche accessorie tra i taxa (le tassonomie sono rese, in figura, ognuna con un cerchio e dove i cerchi inglobanti i taxa sono fra loro autonomi; le relazioni tra i taxa sono segnalate, in figura, da rette che vanno dal taxon d’un cerchio a un altro d’un altro cerchio); e la trama che s’intesse nella figura è poi dovuta a osservazioni di tipo ecologico che possono debordare e rovesciare la tassonomia anatomica standard; per esempio, il caribù e il tricheco sono tra loro legati per il fatto di essere, in modo simmetrico, la preda del lupo e dell’orca, organismi legati a loro volta in quanto predatori alfa ciascuno nel proprio habitat; altre volte, invece, il legame è dato dalla condivisione della stessa nicchia ecologica, della stessa preda d’elezione, o anche da fattori più aleatori di tipo analogico, come il colore del pelo, o da un’affinità morfologica o etologica minore, tanto che, a livello generale, i taxa possono parzialmente sovrapporsi, sia orizzontalmente che verticalmente, e dare origine a sistemi classificatori anch’essi sovrapposti che conducono a una trasgressione della gerarchia dei livelli e delle regole d’inferenza (modalità che, all’interno del gruppo sociale, è poi riusata per altre tipologie di rappresentazione, per esempio, in narrazioni legate alla cosmologia, al sacro o a altre classi di fenomeni etc., e questo perché nelle società di caccia e raccolta, come si vedrà a seguire, la razionalità operante a livello materiale dell’empiria venatoria e la non-empiria dell’immaginario prodotta dalla sociogenesi dei cacciatori-raccoglitori non sono percepite e vissute come tra loro in opposizione, bensì come inevitabilmente complementari):


Figura n.  . Fonte (modificata): Meschiari, 2014, p. 58.

Tutto questo capita perché il sistema d’immagini del cacciatore è basato su un transfert di significato (o semantico) dovuto alla contiguità dei significati (spaziali, causali, temporali etc.) presenti nello stesso campo semantico, quello d’un animale, in cui un termine sostituente, presente (per esempio, in nome del luogo che il cacciatore ha di fronte a sé), sta in un rapporto logico con un termine sostituito e assente (per esempio il nome tassonomico dell’animale ch’è stato da lui visto in quel luogo), laddove il campo semantico, riferito a un singolo elemento linguistico, è poi l’insieme registrato da una collettività dei suoi possibili significati (e, se riferito a un gruppo di elementi, è la sfera di significati che essi hanno in comune), è cioè polisemico, vale a dire provvisto d’una pluralità di significati; ed è questa logica, ch’è quella della figura retorica classificata come metonìmia (o metonimìa), che fa sì che la descrizione tassonomica sopra offerta sia esperita dal cacciatore in modo molto meno meccanico di quanto farebbe un Homo sapiens odierno, il che è dire che per il cacciatore un animale non è mai decontestualizzato dall’ambiente in cui entrambi (preda e predatore) vivono, bensì è vissuto secondo una direttrice metonimica del posto che questi occupa nello spazio fisico e ecosistemico (habitat fisico/biologico), cioè è sempre incistato in una matrice topologica con cui in cui entrambi vivono in un rapporto di reciproca dipendenza e in cui il contenente sta al posto del contenuto, la causa al posto dell’effetto e il concreto al posto dell’astratto (e viceversa, in quanto questi rapporti sono sempre reversibili); e senza dimenticare che se all’inizio questa tassonomia ch’è alla base dell’etogramma del cacciatore ha presumibilmente coperto un ruolo di risposta all’esigenza ineludibile di catalogare le specie commestibili/non commestibili, a seguire la direttrice metonimica s’è estesa anche ad altre forme viventi non necessariamente utilitaristiche; oltre a questa, è poi presente anche una direttrice che si basa sul fenomeno dell’apofenìa (Apophänie), dove l’apofenia è da intendersi, in questo contesto, come la capacità cognitiva di un cacciatore di trovare un significato in configurazioni di realtà che, di fatto, sono solo configurazioni di cose originate dal caso, là dove il cacciatore ha quindi una percezione, che esperimenta, di vedere qualcosa che però non esiste, tanto che la rappresentazione del cacciatore si fonde con lo stimolo sensoriale (visivo, uditivo, olfattivo, tattile) insufficiente a produrre senso, di modo che questa capacità cognitiva gli fa perdere quella capacità che consiste nel differenziare gli elementi sensoriali diretti (la realtà effettiva) da quelli riprodotti a livello corticale (la realtà immaginata), per esempio, nel riconoscere visivamente qualcosa di già sperimentato con effetto di realtà tra le foglie delle piante dove caccia, tipo un predatore (e si sa che in contesti percettivi ambigui si può creare nell’osservatore uno stato d’allerta fisiologico in grado di falsare una percezione reale), o nel riconoscere il verso d’una preda in emissioni sonore dovute al caso (per esempio, al fluire del vento, allo stormire delle foglie, al fluire dell’acqua o a altri suoni naturali), o nel riconoscere delle tracce olfattive che in realtà hanno una origine diversa da quella percepita etc., ed è probabile che questa capacità cognitiva permessa dall’apofenia (ch’è poi una caratteristica generale di varie specie di Homo) non sia un difetto, ma sia stata permessa dall’evoluzione in quanto consente, anche in presenza d’indizi rarefatti, forsanche sbagliati, d’individuare situazioni di pericolo, cioè di potere adottare reazioni rapide di fuga che favoriscono la sopravvivenza, ed è pure plausibile che in ambienti poco antropizzati, dove il contesto percettivo è ambiguo, l’apofenia abbia funzionato per lungo tempo come un meccanismo essenziale di sopravvivenza; l’apofenia, dunque, opera un montaggio tra due campi visivi, uno reale e uno ricostruito a livello corticale in cui il secondo prende il posto del primo, ciò che dà origine a un qualcosa che è pertanto isolato dal continuum percettivo del reale e che, se provvisto di nome, si separa dalla realtà fisica ed entra a far parte d’una realtà ricostruita, culturale, un significato ch’è vissuto da un soggetto appartenente a una società di caccia e raccolta, ed è possibile che a fronte delle turbolenze caotiche, casuali e ingovernabili di questo continuum l’insieme dei soggetti d’una società di caccia e raccolta operi dei tagli e che, nelle slabbrature che si creano, sia messa in opera come collante cognitivo, e a un livello generalizzato, la procedura dell’apofenia che riesce, in questo modo, a produrre una struttura ordinata, una modellizzazione della realtà trasmissibile a livello intergenerazionale, e quale esempio, si può citare l’arte rupestre del Paleolitico (v. infra) nella quale chi intravede delle anomalie nel substrato roccioso (venature, sgocciolamenti di calcare, porzioni convesse o concave, noduli, variazioni cromatiche nelle rocce etc.) può interpretarle come delle parti anatomiche d’un animale (un ventre, uno zoccolo, un occhio etc.) che sono solo da integrare con dei contorni (pittogrammi), come dire che l’animale è visto da subito nella roccia e solo a seguire è completato con tratti complementari, e dove l’abilità apofenica si traduce in una rappresentazione della realtà che travalica il tempo di chi l’ha creata; ancora, l’apofenia è in atto quando il cacciatore è capace di sovrapporre modelli ambientali o ecosistemici noti a luoghi sconosciuti (per esempio, grazie al linguaggio orientato sul paesaggio, landscape oriented, proprio alle società di caccia e raccolta, d’adottare la pratica della denominazione/descrizione di ciò che si vede; ciò che, grazie a questi marcatori topografici, impone al paesaggio sconosciuto i nomi del noto facilitandone la domesticazione), ciò che gli permette di interpretare visivamente e linguisticamente un territorio sconosciuto come se fosse un territorio familiare sulla base di una somiglianza morfologica, anche vaga, imposta dai marcatori topografici, quindi conseguentemente di operare in un habitat sconosciuto, ma simile, così come ha operato nel suo habitat nativo; vale a dire d’attivare, grazie alle somiglianze geomorfologiche, delle attività d’orientamento spaziale (wayfinding, v. infra) e d’inseguimento (stalking) della preda che sono già state attivate in posti simili; di strutturare un orizzonte d’attesa, ch’è già stato messo in atto nell’habitat nativo, nell’habitat sconosciuto che gli è simile (per esempio, un torrente che ricorda al cacciatore l’improvvisa comparsa d’una preda nei pressi d’un torrente simile, ciò che lo mette in allarme, o altro ancora); insomma, tutto un insieme di possibilità induttive che gli permettono strategie efficaci di predazione (di sopravvivenza) dal punto di vista topografico ed ecologico, ciò che, volendo, mostra il vantaggio in termini evolutivi di vedere, grazie a delle catene apofeniche, dei luoghi familiari in luoghi che in realtà non lo sono (come dire che l’apofenia, semplice o complessa che sia, può permettere alla mente d’elaborare, fra entità separate dal punto di vista empirico e fattuale, intere sistematiche isomorfe); il che è affermare, ancora, e allargando le sue procedure all’intero vissuto delle società di caccia e raccolta, che sia la direttrice apofenica che quella metonimica danno origine a un dispositivo generatore di credenze che fa sì che l’autoinganno, come costruzione mentale prima che culturale, sia dotato d’una efficacia pratica (vincente alla prova dei fatti) che spinge il genere Homo a interpretare in modo olistico il tutto dell’ambiente che esperimenta, ciò che lo porta, come accennato, alla sovra-interpretazione di tratti che sono, in sé e per sé, privi di significato, ma che, se legati a una codificazione che arriva a creare dei segni e dei sistemi segnici (v. infra), ecco che questi sistemi segnici possono intervenire nelle strategie operative che portano, da un lato, ai processi che originano la cultura materiale, cioè le modalità complesse di sostentamento (foraging) d’una collettività, e, dall’altro, sono in grado di modellare la produzione e la riproduzione sociale di questa stessa materialità che li sorregge; produzione/riproduzione sociale che in un dato decorso temporale è volta a garantire e perpetuare comportamenti dati e approvati, quali l’elaborazione di strutture rituali e mitiche (documentale da studi etnologici riguardanti la costruzione ecologica del sacro) che traducono l’omeostasi ecologica e la sua manutenzione nelle società di caccia e raccolta attraverso una specie d’isomorfismo tra tempo profano e tempo sacro, isomorfismo ch’è in grado di proiettare sull’ecosistema una rete di significati che permettono anche l’origine di sistemi di regole morali, travestite da credenze, il cui precipuo ruolo è quello di garantire e perpetuare comportamenti individuali/collettivi nell’uso sostenibile delle risorse ambientali e dove (stando all’etnolinguistica) anche il paesaggio è incorporato nelle strutture linguistiche in uso e, pertanto, nella trasmissione delle conoscenze; per quanto riguarda poi la definizione del termine segno, esso è dato da un significante materiale, in sé privo di significato, ch’è associato da un codice, e in un modo arbitrario, a un significato, laddove è poi il codice che produce un segno ch’è riconosciuto, condiviso e trasmissibile come sistema di segni, segnico, dalla collettività degli interpretanti, e ciò che qui interessa è che se la collettività degli interpretanti è data dai cacciatori-raccoglitori e il sistema segnico è il paesaggio, quest’ultimo è allora pensato, appropriato e vissuto in queste società come una matrice cognitiva con la forma d’un ipersegno (ch’è codificato a vari livelli, pratico, rituale, morale e sociale, tutti fra loro sempre compresenti in un dato momento storico) ch’è in grado di mettere ordine in un insieme di significanti materiali, cioè di strutturare ciò ch’è senza nome in una realtà ordinata dotata di senso, vale a dire di creare con il lavoro immateriale della mente una nicchia culturale che facilita il lavoro materiale; ora, il modello cognitivo che coinvolge la sopraddetta gestione dell’ambiente (di fatto la proiezione di reti sociali su delle reti neurali per arrivare a creare un dispositivo cervello-mente), cioè che permette con l’attività di foraggiamento la costruzione di una nicchia culturale da parte di queste società di caccia e raccolta, ha alla sua base anche delle strutture corticali, che svolgono ruoli distinti ma complementari nell’atto del riconoscimento del paesaggio, che coinvolgono l’attivazione di due aree corticali, l’area paraippocampale (Parahippocampal Place Area, PPA) e la corteccia retrospleniale (Retrosplenial Cortex, RSC), aree che presentano un ruolo centrale nella contestualizzazione dello sfondo visivo, vale a dire nel riconoscimento e nella memorizzazione dei luoghi; tanto che, per quanto riguarda il riconoscimento dei luoghi, queste strutture sono direttamente coinvolte nel discriminare visivamente nel paesaggio degli elementi che indichino la direzione da seguire per arrivare a una meta (per esempio, alla predazione), cioè l’orientamento spaziale (o wayfinding, traducibile come scoperta della direzione), così come intervengono, per quanto riguarda la memorizzazione dei luoghi, nella mappatura cognitiva (o cognitive mapping), ossia costruendo una rappresentazione mentale della realtà (del mondo esterno) attraverso una codificazione sommaria delle immagini dei luoghi soggetti a una fenomenologia venatoria (questo perché, per potere essere pragmaticamente utili, cioè riutilizzabili, queste mappe possono essere solo abbozzate), mappatura che però, all’uso, deve poi essere integrata di volta in volta; fatto salvo il ruolo dell’ippocampo (v. supra), ch’è una struttura cerebrale al centro d’un vasto sistema neurale che sottende la rappresentazione e l’uso delle informazioni riguardanti l’ambiente spaziale, nello specifico delle differenze funzionali fra le due citate aree corticali, l’area paraippocampale (PPA), che altro non è che una sottoregione della corteccia paraippocampale (che si trova medialmente nella parte inferiore della corteccia temporo-occipitale), è poi coinvolta in una percezione visiva statica, cioè nella codificazione (percettiva) della struttura spaziale dei luoghi conosciuti/sconosciuti, cioè al modo in cui sono disposte le parti del paesaggio (o layout) e probabilmente nella pianificazione dei percorsi (nei luoghi già mappati e di cui si recupera la mappa da integrare) ed è inoltre reattiva alle scene raffiguranti luoghi piuttosto che ad altri tipi di stimoli visivi, per esempio, a volti o oggetti; mentre la corteccia retrospleniale (RSC, cioè l’area della corteccia retrostante lo splenio, dove a sua volta lo splenio è l’estremità posteriore del corpo calloso, area ch’è situata tra la corteccia parietale e l’ippocampo), tra le altre funzionalità, elabora le caratteristiche permanenti o più stabili d’un ambiente e, in quanto mappa il conosciuto, ne diventa la memoria topografica a lungo termine, tanto che la sua attività varia in funzione del tipo di conoscenza spaziale recuperato (può, per esempio, trattarsi di posizione o d’orientamento; e per inciso, la risposta più forte della RSC si ha poi nel recupero della posizione da parte d’un soggetto); tutto un insieme che ci permette d’affermare che la costruzione d’una nicchia culturale ha alla sua base una costruzione di nicchia ecologica (come ipotizza la Niche Construction Theory, NCT, v. supra) che ne costituisce l’anteriore storico in quanto, come s’è cercato di mostrare (con ipotesi, va da sé, da approfondire e convalidare), è il sistema cognitivo che è stato direttamente modellato dal sistema ecologico, ragione per cui non è una modellizzazione sociale quella che determina le visioni del mondo (Weltanschauungen, v. supra) dei cacciatori-raccoglitori, ma è giusto la materialità imposta dalla modellizzazione ecologica (che traduce la sopravvivenza e la riproduzione dell’organismo) che imposta un modello culturale storicamente determinato nelle sue strategie cognitive, il tutto con l’iniziale complicità della prosocialità (legata ai neuroni di von Economo, VEN) che favorisce un’implementazione delle reti sociali da cui parte la processualità multifattoriale che s’è cercato sopra di spiegare.