Oltre a
quanto sopra suggerito (dalla teoria della costruzione di nicchia in avanti),
può essere utile, per vedere con che modalità il dispositivo cervello-mente
permette alle reti sociali d’appoggiarsi in modo epigenetico sulle reti neurali
per cablarle, affrontare anche il problema teorizzato dall’ipotesi della
selezione multi-livello (Multi-level
Selection Theory, MST) dove si parla d’una selezione di un carattere o
tratto, a livello di gruppo, intendendo poi per gruppo l’insieme degli
organismi che arrivano a condividere questo tratto che permette loro d’arrivare
a formare un sistema sociale coeso all’interno d’una popolazione (dunque valorizzando
una selezione naturale che avviene nell’ottica delle dinamiche macroevolutive);
questo con la clausola che i detti organismi, oltre al livello di gruppo,
possiedono anche altri livelli che sono tra loro organizzati secondo la logica
delle matrioske (una matrìoska è formata da una bambola di
legno composta da una serie di bambole che si replicano con dimensioni diverse
e sono contenute ciascuna, esclusa la più piccola, nella cavità di quella più
grande che segue; e la logica che ne consegue, fuori metafora, è che ciò che
compone un livello gerarchicamente più basso è incluso e fa parte di ciò che
compone un livello gerarchico superiore), come dire che i livelli sono annidati
e incistati uno dentro l’altro nella gerarchia biologica e dove i livelli nidificati
di dimensione crescente implicati sono quello dei geni, delle cellule, degli organismi,
dei gruppi, delle popolazioni, degli ecosistemi etc.; ancora, a ogni livello è presente una variazione che si
traduce in un processo evolutivo che origina una selezione delle entità che lo
compongono con caratteristiche sue proprie (per esempio, la selezione neurale
differisce per operatività dalle altre selezioni), e ogni selezione a un livello
agisce in sincronia con tutti gli altri livelli, per cui il gene s’esprime a
livello molecolare, le molecole s’aggregano dando origine alle cellule che arriveranno
a formare gli organi e i tessuti e dove l’assemblaggio di questi origina un
organismo etc. (e può capitare che
effetti minimi a un livello bio-gerarchico possano avere un’ampia portata su un
livello precedente o successivo, per esempio, come capita nella coevoluzione
cultura-gene, v. supra), ragione per
cui complessivamente s’adotta, nell’ottica d’una teoria gerarchica, il termine
selezione multi-livello; può quindi capitare che un dato gruppo d’organismi, in
date circostanze, agisca come veicolo in un processo di selezione naturale (cioè
in un processo basato sui principi di variazione/ereditarietà/adattamento), il
che comporta uno sviluppo di quel tratto, che si sincronizza con gli altri
livelli, e che partecipa, potenziandolo, alla sopravvivenza di quel gruppo in
competizione con altri gruppi all’interno d’una popolazione, e dove, se si manifesta
una competizione interna, cioè quella con altri individui del gruppo, questa risulta
essere sempre subordinata alla competizione del gruppo vincente così come si
manifesta nei suoi effetti storici in una popolazione; e quale esempio di
questa selezione del carattere di gruppo si potrebbe avanzare la selezione
parentale (kin selection) dove gli
organismi del gruppo sono geneticamente imparentati tra loro e dove gli atti
altruistici tra parenti, anche se a spese della propria sopravvivenza e
riproduzione, aiutano la sopravvivenza e il successo riproduttivo del gruppo
parentale (la sua fitness) o, meglio
ancora, si potrebbe citare l’altruismo che, per il tramite d’una pressione
selettiva manifestatasi storicamente, fa sì che un gruppo (un’unità sociale) sia
il veicolo d’una selezione che, favorendo il tratto altruistico in questi
organismi, ne potenzia anche l’abilità competitiva nei confronti d’altri gruppi
non altruisti migliorandone la fitness;
e quello che vale per l’altruismo può valere, essendo il genere Homo legato sempre a delle reti sociali,
anche per altri tratti che investono le capacità relazionali, e dove, ancora, e
in generale, è implicito che la selezione del carattere di gruppo porta
vantaggi di fitness a ogni singolo individuo
del gruppo coeso (questo per il tramite della selezione naturale a livello
dell’organismo), con la clausola che questo tratto selezionato può però essere
adattativo, cioè manifestarsi e agire, solo a livello di gruppo, e quale esempio,
si vedano i modi di produzione della cultura materiale e l’esplicarsi delle
norme sociali che, nelle loro metamorfosi, sono il risultato di processi
storici che coevolvono e che per manifestarsi richiedono in prima istanza (a
livello delle competenze operative acquisite tramite la trasmissione verticale e
a livello dell’autocontrollo richiesto nella sempre presente competizione
infragruppo) un adeguamento dell’organismo a un controllo normativo che
coinvolge il corpo intero e che traduce una selezione che avviene a livello di
gruppo e che può manifestare i suoi effetti (sempre storici) sull’ambiente solo
a livello di gruppo (ciò che ci traduce un cablaggio delle reti neurali da
parte delle reti sociali); dunque il gruppo, al pari degli altri livelli, è
un’unità adattativa che investe un macro-livello che però risulta evidenziato
solo nelle dinamiche storiche socio-economiche, e senza mai dimenticare ch’esistono
sullo sfondo, all’interno d’una popolazione, anche le già dette selezioni multi-livello
dove, con una logica verticale, dei vettori causali possono percorrere verso l’alto e verso il basso i
livelli gerarchici presenti della gerarchia, tanto che i livelli bio-gerarchici
così risincronizzati e in equilibrio partecipano storicamente anch’essi e,
infine, premiano quei tratti che favoriscono la fitness d’un gruppo rispetto a quella d’altre unità sociali; e che
il tutto avviene in un equilibrio, dinamico e mai statico tra i livelli, che
s’esplicita storicamente, cioè variando nel tempo, tra i multi-livelli
implicati (fatto salvo che l’adattamento, quale che sia il livello implicato, richiede a quel
dato livello un processo di selezione naturale che però tende sempre a essere compromesso,
nel senso di disgregato, dalla selezione naturale presente a livelli bio-gerarchici
più bassi); per inciso, è poi da ricordare che la detta selezione multi-livello
fa poi il paio con un’altra selezione nell’ipotesi della teoria gerarchica (Hierarchy theory), là dove la selezione
multi-livello, riclassificata come gerarchia genealogica (Genealogical Hierarchy), è legata da rapporti di presupposizione reciproca
alla gerarchia ecologica e economica (Economic
Hierarchy), e dove, in questo modello
duale, sono presenti (di là della sopra detta selezione verticale mobile) dei
vettori causali che pongono in essere una trasmissione orizzontale che funziona
secondo un modello detto dello sloshing
bucket (difficile da tradurre alla lettera, su cui v. infra), il tutto nell’ottica di considerare sì la selezione naturale come una
delle principali dinamiche causali, ma non escludendo anche la presenza, non
solo sullo sfondo, d’altre dinamiche causali che possono essere coinvolte nei fenomeni
evolutivi; quale esempio della teoria
gerarchica, si consideri l’estinzione di massa avvenuta alla fine del Permiano
(v. supra) che ha cancellato tra
l’80-90%, e forse oltre, delle specie viventi (altri dice 60%) e che ha mutato
le condizioni ambientali in un modo tale che l’ecosistema globale ha impiegato
ca. 5-10 milioni d’anni per ritornare in una situazione d’equilibrio resiliente
e di ripristino d’una piena funzionalità biotica del globo, ciò che mostra la
casualità d’una perdita al macro-livello dei taxa più alti (in termini di specie, generi e famiglie, ciò che
investe la replicazione dell’informazione genetica e la riproduzione) e la
causalità nella differenziazione dei nuovi taxa
che s’evolvono nella biosfera (in termini di biocenosi e d’ecosistemi, ciò che
investe, con la riconfigurazione delle nicchie lasciate vuote, il trasferimento
di nutrienti/energia), dunque secondo una logica che mostra gli effetti di
legame duale che investono e la gerarchia ecologica e quella genealogica
(multilivello); il modello che s’impiega per esplicitare questa dualità è
quello dello sloshing bucket, e per
apprezzarlo ci s’immagini un secchio (bucket)
pieno d’acqua che nel trasporto oscilla tracimando da entrambi i lati acqua (sloshing), secchio che più oscilla, e più
fa sversare acqua, ed è nei termini della quantità d’acqua fuoriuscita che
s’applica questa metafora del secchio, là dove molta acqua fuoriuscita è
equiparata a un degrado dell’ecosistema pari a un’estinzione di massa, con gli
effetti sopra descritti; meno acqua sversata rimanda a una degrado
dell’ecosistema non a scala globale, ma a scala regionale (lato della gerarchia
ecologica), dunque con un impulso d’avvicendamento (turnover pulse) che prevede estinzioni minori e minori speciazioni
(lato della gerarchia genealogica), oppure, che poca acqua tracimata è pari a una
perturbazione ecologica locale con pochi o nessun cambiamento evolutivo; come
dire che il secchio oscilla, in avanti e all’indietro, sversando acqua con
frequenze ripetute o medie o infime, dalla gerarchia ecologica (un lato del
secchio) alla gerarchia genealogica (l’altro lato del secchio) e viceversa, ciò
che vuol dire, fuori di metafora, che il modello dello sloshing bucket afferma che la stima del cambiamento evolutivo possibile
(speciazione/estinzione) è legata alle variazioni d’intensità e magnitudo del
disturbo arrecato all’ecosistema (globale, regionale, locale), ossia ch’è l’interazione/fusione
tra le due gerarchie che agisce sui modelli di evoluzione a tutte le scale
dette, dunque che in questo modello duale sono presenti delle trasmissioni
orizzontali bidirezionali tra le due gerarchie, tanto che nessun organismo
sfugge dal fatto ch’è simultaneamente irrelato in entrambi i sistemi gerarchici
(e vedi, a questo proposito, la teoria di costruzione di nicchia); ora, per
riprendere la selezione multi-livello all’altezza d’uno sloshing bucket stazionario (dunque in uno spazio fisico, un
biotopo, con una biocenosi che perdura nel tempo, v. supra), l’idea che un gruppo abbia un cervello sociale, ossia una
mente distribuita ch’è collettiva (e dove le reti sociali, la cui impalcatura
rimanda alla cultura materiale, s’appoggiano sulle reti neurali), è una logica conseguenza
di questa teoria della selezione multi-livello (v., per esempio, gli insetti eusociali,
supra); infatti, l’ipotesi del
cervello sociale (Social Brain Hypothesis,
SBH) rimanda al fatto che non esiste nessun confine facilmente identificabile
tra lo stato mentale d’un organismo (là dove si trovano le competenze, le
abilità e le credenze) e quello degli altri appartenenti allo stesso gruppo e
questo perché il vivere sociale impone una collaborazione tra i soggetti all’interno
d’una collettività che produce, per quanto la tecnologia sia stata o sia povera,
una diffusione verticale/trasversale d’informazioni cumulate e integrate, cioè della
conoscenza (pragmatica o altro) e delle credenze sociali che, dopo avere
modificato con modalità epigenetiche le reti neurali, s’estendono e si
distribuiscono al di fuori dei cervelli, nei corpi, negli strumenti che in un
dato contesto ambientale si sono potuti utilizzare, insomma nella materialità
che, sfruttando l’habitat nativo quale
impalcatura (scaffolding) su cui
appoggiarsi per quasi 3 milioni d’anni, ha circondato gli individui e in cui
questi sono stati immersi (e quale esemplificazione si veda, supra, le società di caccia e raccolta
nell’ipotesi della Landscape Mind Theory);
tanto, che l’interazione fra gli organismi consiste alla fin fine nel sapere meglio
sfruttare o negoziare le possibilità offerte dall’ambiente sociale emerso dal
contesto ecologico, ciò che arriva a determinare un’interazione e una
collaborazione tra gli agenti sociali che si costruisce in modo tale che non si
sia più in grado di dire con certezza dove finisce il distribuito mentale di
uno e dove comincia quello d’un altro, ciò che rende emergente una rete
identitaria che, sorretta dall’intenzionalità congiunta dei detti agenti, rende
oggettiva e operativa l’identità sociale del noi; e quanto qui s’ipotizza valga
anche a dispetto di chi afferma l’autonomia mentale del soggetto (l’io) e lo fa
ignorando le contingenze e i determinismi che l’interfacciano, il soggetto, all’impalcatura
che sostiene il tutto, ossia la materialità dell’esistere in un ambiente spesso
ostile che presenta un ruolo determinante nel vincolare le modalità d’essere e
d’evolversi delle reti neurali degli organismi, reti poi legate, per necessità
di scopo, anche al controllo diretto delle risorse proprie alla sfera emozionale
degli organismi coinvolti (per esempio, con l’autocontrollo, v. supra) e che sono necessarie per la
produzione delle reti sociali, cioè tutto quanto nel percorso storico del
genere Homo è stato evolutivamente inglobato
nella formazione dei legami sociali in cui l’affacciarsi dell’io è qui da
valutare come un fenomeno contingente (senza però ignorare che nelle reti
sociali sono presenti dei comportamenti antisociali che valorizzano l’io a
discapito del noi e, infine, senza nulla togliere all’emergere nell’individuo
dei correlati neurali nei processi di rientro, v., supra, tra cui il fenomeno della coscienza che dice io, su cui si
ritornerà); per valutare quanto è in gioco nella maturazione del sistema
nervoso, nella plasticità neurale del fenotipo e nel ruolo dell’algoritmo
decisionale del noi (tratti che sono alla base dei meccanismi dell’apprendimento
culturale gestiti e trasmessi, in prima istanza, per il tramite dell’interazione
sociale), si prenda come oggetto d’analisi lo sviluppo d’un feto in bambino (ch’è
classificato come tale da quando è neonato ai 6 anni ca.), sempre ricordando
che l’affermazione del bipedismo nel genere Homo
ha comportato nelle femmine un canale del parto ristretto che ha obbligato, per
fare in modo che la
testa del neonato possa attraversare un passaggio così stretto, che le sue
dimensioni, alla nascita, non siano ancora completamente sviluppate (v. supra);
il che comporta che il feto si presenti al parto in una fase di crescita
decisamente prematura, che il neonato non sia autosufficiente nell’ambiente
extrauterino, che siano necessarie lunghe cure parentali (senza però ignorare che qui
l’unità d’analisi evolutiva, anche se sono coinvolte le figure genitoriali, non
sarà la famiglia, ma il gruppo visto nell’ottica offerta dal modello di
fissione/fusione, v. infra) e, soprattutto,
che la crescita del cervello sia
completata extra-utero (alla nascita
il cervello è all’incirca il 23% di quelle che saranno le dimensioni finali), e
questo senza ignorare che i cervelli dei neonati (e del feto in fase di
formazione) sono progettati per reagire solo a determinati aspetti della realtà
(interni/esterni) e non ad altri, ossia presentano una struttura di base che li
vincola a una interpretazione dei dati che guida il loro apprendimento, ciò che
fa sì che il feto prima, i neonati, poi, siano strutturalmente equipaggiati per
relazionarsi con competenza e attivamente con la realtà che li aspetta (ciò che,
nella complessità del sociale del gruppo d’appartenenza, fa sì che sia loro
distribuita una mente); valga, per
esempio, l’osservare come un bambino apprende, questo partendo dal
differenziarsi dei processi sinestetici nel feto (che è definito come tale a
partire dalla 13a settimana di gestazione; per le fasi, v. supra) e qui valorizzando il fenomeno dall’imprinting che permette d’avviare un
processo storicamente situato d’apprendimento e memorizzazione, quello che fa
sì che il feto, ancora nell’utero, sia capace di riconoscere chimicamente l’odore
della madre (proprio la di lei specifica impronta genetica, giacché ogni impronta olfattiva, o odortypes, è geneticamente determinata,
è cioè un biomarcatore d’identità); e a riconoscere, a seguire, l’odore del
collo, delle ascelle e delle secrezioni areolari dei capezzoli materni, e, entro
6 giorni dalla nascita, l’odore del latte materno, odori molto simili a quelli già
conosciuti nel liquido amniotico (ciò che, grazie al continuum delle informazioni olfattive autorilevate dal feto nel
liquido amniotico e postparto sulla madre, permette al neonato di orientarsi positivamente
nel nuovo ambiente extrauterino, ossia di tradurre in comportamenti positivi
quanto appreso e codificato attraverso un significante olfattivo di natura
chimica che veicola esperienze affettive di sicurezza, cioè un legame
d’attaccamento alla madre); e lo stesso la madre che impara durante la
gravidanza a riconoscere l’odore del corredo genetico di suo figlio (il suo odortype) che si sta mescolando al suo e,
finita la gestazione, tra i tanti odori
(anche quelli dei figli d’altre donne) è subito in grado d’identificare quello
tipico di suo figlio (sono sufficienti tra i 10 minuti e un’ora di contatto post partum con il neonato, e una madre
riconosce l’impronta olfattiva del figlio anche in sua assenza, per esempio su
un indumento); odori che, attraverso un apprendimento che parte dai chemiocettori
e arriva alle reti neurali, rafforzano dunque socialmente, con l’unicum della loro firma olfattiva, il
rapporto diadico figlio/madre, madre/figlio (pare, infatti, che l’odore del
corpo neonatale inneschi
nelle madri, in ispecie nelle primipare, anche delle risposte corticali, cioè
delle cascate neuroendocrine di rinforzo motivazionale del legame con il
neonato all’interno
del sistema dopaminergico di ricompensa; sulla dopamina, v. supra); sempre nell’utero il feto
familiarizza poi con il tono di voce, con il ritmo e l’intonazione della madre,
cioè con suoni che il feto cattura attraverso lo sviluppo dell’apparato uditivo
(che avviene all’incirca tra i 2 e gli 8 mesi), suoni che quando sarà completata
la connessione neurale tra la còclea e la corteccia uditiva, cioè quando sarà
possibile la trasformazione dei suoni in impulsi elettrici, avranno l’effetto
di catturarne l’attenzione, che sarà in seguito rinforzata nel neonato come
preferenza uditiva nelle prime manifestazioni di vita extrauterina; attenzione
che poi, in un finestra temporale privilegiata che inizia tra i 6 mesi (per le
vocali) e i 9 mesi (per le consonanti) e trova il suo acme tra i 12 e i 16 mesi,
verrà stimolata nel neonato con un modo di parlare a lui adatto (detto parlata
da bimbo, o baby talk; si trovano anche,
nell’uso, motherese, in italiano
maternese, o child directed speech, linguaggio
indirizzato a bambini) da parte di chi lo circonda (principalmente dalle figure
genitoriali), modo che sembra obbedire a uno schema specie-specifico in quanto
attestato in culture con lingue madri fra loro molto diverse (schema non da
tutti gli studiosi accettato), e che consiste in uno schema stereotipato di
rapporti comunicativi che ricorre a un preciso repertorio, ossia a un parlare a
voce alta (per differenziarsi dai rumori di sottofondo); a un parlare lentamente
(cioè con un’articolazione dei fonemi e delle sillabe lenta, accurata e con
curva intonativa enfatizzata, questo perché i bambini processano le
informazioni del flusso uditivo a metà della velocità degli adulti); a una riduzione
della complessità sillabica delle parole (ossia con il ricorso a parole brevi
per permetterne di reperirne i confini fonetici e l’assimilazione); a una semplificazione
delle strutture morfosintattiche (per sottrazione di elementi grammaticali) e
lessicali (attraverso l’uso dei diminutivi) della lingua; a un uso del tono
acuto (estensione di frequenza alla quale i bambini sono sensibili a partire da
ca. 3 mesi d’età); a un uso di parole ripetute (per esempio, con la ridondanza fonetica
che ne favorisce la stabilità semantica); il tutto di questo parlare, che ha
una valenza emotiva prima che comunicativa, è spesso accompagnato da componenti
comunicative non verbali, quali l’indicare e il guardare gli oggetti nel mentre
li si nomina (questo perché i bambini seguono sempre lo sguardo di chi
interagisce con loro, v. anche infra),
le mimiche esasperate del volto e i movimenti della labbra o la gestualità posturale
coinvolgente del corpo, questo perché nel Baby
Talk chi ascolta è impegnato in un doppio compito, deve elaborare degli algoritmi
neurali per potere riconoscere la frequenza statistica dei fonemi della sua
lingua madre (tra gli 800 che potrebbe articolare prima d’apprendere la lingua
madre e che sono la somma dei fonemi delle lingue esistenti), cioè quell’apprendimento
basato sulla regolarità statistica di pattern
che stabiliscono connessioni nel cervello con le reiterazioni proprie alla
lingua madre; deve, ancora, non solo ricorrere a un ascolto solo passivo dei
fonemi e delle altre componenti linguistiche, ma deve effettuare anche una
sintonizzazione emotiva con chi gli parla, cioè deve mettere in atto un ascolto
attivo ch’è determinato dall’intensità dell’immersione in un dato contesto
affettivo e sociale (come dire che la prevalenza emotiva del maternese è ciò
che poi, di fatto, attiva il sistema cerebrale della ricompensa che l’attività
d’ascolto presume, specificamente per le aree che usano la dopamina come neurotrasmettitore
nel corso delle interazioni sociali, v. supra
e infra); e se interessa, un sintomo
preciso di avvenuta sintonizzazione figlio/madre lo si può poi reperire nel feedback positivo tra il sorriso sociale
(social smiles) del bambino e quello
della madre; infatti, se è vero che prima dei due mesi i bambini sorridono,
sorridono però senza che sia presente una qualsivoglia correlazione con uno
stato emotivo e solo perché scariche neurali spontanee nel tronco encefalico
avvengono in prossimità della bocca (detto sorriso endogeno), correlazione che
invece è presente nel sorriso sociale che si manifesta a partire dai 2 mesi e
in cui è coinvolto un muscolo specifico presso l’occhio (il muscolo orbicolare)
che non può essere controllato volontariamente, ma che s’evidenzia con una
contrazione ch’è presente solo in concomitanza d’uno stato emotivo gratificante,
contrazione che mette in moto il muscolo zigomatico maggiore che produce un
sorriso e fa nel contempo arricciare gli occhi (sintomi visivi, questi, del
sorriso autentico, o sorriso di Duchenne, ch’è possibile grazie una
trasmissione veloce e un’elaborazione più efficace degli impulsi nervosi fra
differenti aree del cervello dovuta alla mielinizzazione dei gangli della base,
v. supra, che si ha appunto a partire
dai 2 mesi); sorriso sociale, ancora, che viene plasmato con l’apprendimento e
permette di manifestare nel corso del tempo un ventaglio di sorrisi in sintonia
(lo stesso delle espressioni facciali) con la diversità dei contesti
gratificanti che il bambino via via vive, un sorridere che dimostra competenza
sociale e selettività e che trova la sua origine prima nel feedback con la figura della madre; detto questo, si può affermare
che la strategia emotiva e comunicativa nel rapporto figlio/madre del Baby Talk ha dunque il ruolo di favorire
nel figlio lo sviluppo delle reti neurali e l’integrazione delle reti sociali
che vi s’appoggiano, vale a dire l’adattamento cognitivo al contesto e la
capacità d’attenzione e di sviluppo affettivo nei processi di socializzazione
del bambino all’interno del milieu
familiare, questo grazie alla bidirezionalità del parlato (e al meccanismo
della turnazione che è implicato nella relazione diadica) che instaura un feedback di rinforzo reciproco tra il parlato
del bambino e il parlato della figura materna; il bambino inizia con un balbettio
(o lallazione) e poi, a partire dalla finestra temporale sopra citata, continua
il suo apprendimento con l’emettere prima lunghe serie di vocali, poi di
consonanti che diventano , sui 10 mesi, delle combinazioni tra vocali e consonanti
(cioè delle sillabe) ripetute in serie e via via si perfeziona fino a che,
all’altezza di ca. 4 anni, è in grado di sviluppare frasi corrette (cioè
occorrenze fonetiche, lessicali, sintattiche e semantiche obbedienti alla norma
grammaticale); il parlato della figura materna parentale o di cura (il maternese),
con il suo feedback positivo, compartecipa
inoltre a questo processo per indirizzarlo, nel tempo, ad appropriarsi della
norma grammaticale propria alla lingua madre; ossia gli permette d’impadronirsi
del linguaggio (a partire dal reiterato controllo dei muscoli fonatori presente
nell’esecuzione compulsiva dei fonemi della lingua madre o negli esercizi
reiterati di messa insieme di sillabe incoerenti in quella che si chiama
glossolalia), per arrivare a favorire lo sviluppo ch’è correlato con la
maturazione di aree dell’emisfero sinistro associate al linguaggio, cioè permette
al bambino d’appropriarsi di una tra le più importanti delle abilità sociali,
il sapere comunicare, a partire dal linguaggio olofràstico (quello in cui una sola parola equivale,
nell’uso che fa il bambino, al significato d’una frase intera), con il lessico
e la sintassi usati nell’architettura della loro complessità, e il tutto con
degli interlocutori semanticamente appartenenti alla stessa rete sociale e che
ne condividono regole, comportamenti e stabilità emotive; per inciso, la parte
cerebrale correlata alla semantica, cioè l’area di Wernicke, v. supra, mostra un picco di formazioni
sinaptiche intorno agli 8-12 mesi con mielinizzazione grossomodo attorno ai 12
mesi o ai mesi seguenti, mentre la parte cerebrale correlata alla sintassi,
cioè l’area di Broca, v. supra,
mostra un picco di formazioni sinaptiche intorno ai 15-24 mesi, ma la
mielinizzazione n’è ritardata ai 4-6 anni d’età (e non si dimentichi quanto
detto sopra, cioè che la mielinizzazione procede per ondate che partono dalla
zona posteriore del cervello per arrivare alla zona anteriore, e che le aree
più vicine alla parte posteriore si modificano relativamente presto, mentre la
corteccia prefrontale non raggiunge la piena maturità se non a partire dalla
fine dell’adolescenza in un processo che dura fino all’inizio dei 30 anni; e lo
stesso vale per la velocità dell’elaborazione neurale, ch’è lenta nel cervello
d’un neonato dove il basso tasso di mielinizzazione degli assoni rende la
velocità di trasmissione delle informazioni all’incirca 16 volte meno
efficiente rispetto a quella un adulto; velocità che poi aumenta via via di
conserva con l’aumento della mielinizzazione, raggiungendo il suo picco
grossomodo verso la fine dell’adolescenza, sui 18-20 anni, salvo il fatto che
questa velocità neurale è però ancora in essere poiché molte aree della
corteccia frontale finiscono il processo di mielinizzazione, come già affermato,
sui 30 anni); il che è dichiarare, se si valuta l’insieme di quanto detto a
proposito del linguaggio indirizzato al bambino (sorriso sociale compreso), che
la costruzione storica in divenire del suo mondo mentale rimanda a un
dispositivo sociale che privilegia di fatto la matrice delle relazioni interpersonali
fra bambino e madre, cioè a un cervello sociale distribuito che s’impianta grazie
a una meccanica diadica che, garantite le necessità materiali e il rafforzarsi
del legame figlio/madre con il sistema dopaminergico di ricompensa, incorpora e
fa collaborare fra loro i bisogni relazionali del bambino con il comportamento
specie-specifico della madre e delle figure di cura parentale (o caregiver), questo al fine precipuo di
costruire una piattaforma che permetta al bambino d’imparare ad auto-organizzarsi
con coerenza e senso di continuità del sé fino all’inserimento in autonomia
all’interno d’una rete sociale; per quanto riguarda poi l’attenzione che il
bambino presta ai volti e agli occhi, questa è tale già pochi minuti dopo la
nascita ed è anch’essa soggetta a un processo d’apprendimento e perfezionamento
(cioè a un’interpretazione e trasformazione di ciò che il bambino realmente
percepisce del contesto esterno, percezione che si fa via via più evoluta nel
corso del tempo, là dove è difficile distinguere tra ciò che esiste come
materialità e ciò che si produce come un’attribuzione di significato a quella
materialità, a noi esterna, ch’è dovuta al lavorio del cervello, questo perché
nessuno di noi riesce a percepire la realtà qual è nel suo guazzabuglio di
stimoli, bensì percepisce quello che la plasticità neuronale del cervello è stata
addestrata a vedere dopo un processo di selezione/attenuazione/scarto della
realtà in un dato e determinato contesto socio-economico; v., supra, quale esempio, la Landscape Mind Theory); apprendimento in
cui date aree del cervello sviluppano gradatamente una risposta via via più
specifica, specializzata, ai volti e allo sguardo diretto, e si tratta, nella
neuroanatomia dei primati, tanto di un’area denominata come solco temporale
superiore-anteriore, quanto di due vie d’accesso del sistema visivo attraverso
le quali le informazioni visive sono trasmesse dalla parte posteriore del
cervello ai lobi frontali, là dove i flussi di queste informazioni sono
ulteriormente processate dal sistema magnocellulare (comune a tutti i
mammiferi) e da quello parvocellulare (proprio solo ai primati); grossomodo, il
solco temporale superiore-anteriore presenta popolazioni neurali che sono
specializzate nella percezione
dei volti e nella percezione del movimento degli esseri viventi (o movimento biologico); il sistema magnocellulare,
che corre lungo l’area dorsale del cervello, è coinvolto nell’analisi del movimento
e della profondità (terza dimensione) e quello parvocellulare, che segue un
percorso ventrale ed è connesso direttamente all’amigdala (vale a dire a
strutture cerebrali implicate nella percezione e elaborazione delle emozioni, v.
supra), è coinvolto come sistema nell’analisi
del riconoscimento, ossia nell’analizzare il dettaglio della forma e del colore
(tricromia) degli oggetti legandolo al contesto emotivo e, almeno nelle specie
di primati attive durante il giorno, la popolazione neurale parvocellulare è
correlata a variabili quali la dieta e la dimensione del gruppo sociale, e si
sospetta fortemente che gli strati parvocellulari siano aumentati nel corso
dell’evoluzione dei primati allo scopo di meglio processare i dettagli dei
flussi visivi legati alle dinamiche sociali, quali le espressioni facciali, la
direzione dello sguardo e la postura dei partecipanti al gruppo sociale,
stimoli che poi, grazie alle connessioni con l’amigdala, sono emotivamente
connotati, cioè ritenuti segnali di percezione visiva socialmente rilevanti; e
nei bambini, come negli altri primati, quest’evoluzione risponde sì ai segnali
socialmente rilevanti, con la differenza (rispetto ai primati) che i bambini
nel loro sviluppo sono più reattivi agli stimoli di rilevanza sociale perché,
tra i 9 e i 14 mesi incominciano a manifestare un’attenzione congiunta (joint attention) che in seguito si fa
condivisa (shared joint attention),
intendendo con il fenomeno dell’attenzione congiunta la tendenza a focalizzare
l’attenzione in prevalenza sugli stimoli di tipo facciale presenti nei soggetti
di un contesto, tendenza che s’evolve nell’abilità di seguire la direzione
dello sguardo di questi e di guardare nella stessa direzione focalizzando
l’attenzione sullo stesso oggetto che un soggetto sta guardando (focus attentivo); mentre con il fenomeno
dell’attenzione congiunta condivisa s’intende quell’abilità di trasferire lo
sguardo dall’oggetto all’altro soggetto e poi di nuovo all’oggetto per
verificare empiricamente, con quest’alternanza di sguardo, che si stia effettivamente
guardando lo stesso oggetto, alternanza ch’è poi emotivamente connotata; cui
s’aggiunga che, sui 14 mesi, i bambini sono poi capaci di dirigere l’attenzione
d’un adulto verso l’oggetto cui sono interessati e questo può avvenire, per
esempio, attraverso la pratica dell’indicare, cioè con il tramite d’un
linguaggio gestuale (e in cui il gesto d’indicare è detto deittico); questa
regia di gesti deittici e di sguardi incrociati da parte dei bambini ha poi lo
scopo di far sì che l’attenzione dell’adulto sia coordinata, congiunta, con la
loro, il che presuppone che stia iniziando a svilupparsi, a partire dai 14
mesi, un’abilità socio-emotiva di complicità che implicherà il noi (v. infra) e che mostra interrelati gli
attori in gioco grazie alla referenza che hanno in comune; o, detto altrimenti,
il bambino ch’è capace di dirigere l’attenzione d’un adulto verso un oggetto inizia
a produrre socialmente quello che, sui 4-5 anni, sarà il noi, ossia il punto di
non ritorno in cui una rete neurale e una rete sociale si cablano rendendo
indistinto, negli attori implicati, il contributo biologico da quello sociale (e,
se interessa, nessun altro primate, oltre Homo
sapiens, sembra in grado d’adottare dei gesti deittici per coinvolgere
l’attenzione d’un altro membro del suo gruppo sociale); l’attenzione congiunta
condivisa, infatti, è quell’abilità cognitiva di base che fa sì che un bambino,
nell’arco tra i 9 e i 14 mesi, comprenda che i soggetti con cui è interrelato
sono agenti autonomi dotati dell’intenzione di agire (intentional agents), cioè di produrre effetti su uno stato loro
preesistente, e la cui percezione del contesto può essere seguita, orientata,
condivisa e imitata dal bambino; tanto che, in generale, i bambini sono in
grado di riconoscere e reagire allo stato mentale altrui ch’è stato percepito e
compreso (quella che sarà l’abilità di lettura della mente, o mindreading), ciò che favorisce la consapevolezza
che c’è una similarità tra gli scopi dell’agente intenzionale e i propri scopi;
vale a dire che, una volta instaurata l’attenzione congiunta condivisa, si crea
un feedback positivo tra la
reattività del bambino da un lato e l’agire dei soggetti cui questi è interrelato
dall’altro, feedback che potenzia e
alimenta incessantemente un meccanismo di retroazione circolare che permette
all’agente intenzionale di mettere in essere tutte le potenzialità che la trasmissione
culturale (in quel dato contesto storico condizionato dallo stato della
materialità economica e dal possibile sviluppo sociale da questa determinato)
gli può offrire per alimentare le sue (del bambino) abilità cognitive e le sue
capacità d’interazione sociale (ossia la sagomatura della sua mente, o mindshaping); ragione per cui si può
affermare che si viene a costruire una nicchia culturale (cultural niche construction, v. supra)
che può intervenire nella formazione del contesto sociale ed economico
attraverso il detto processo di sagomatura delle menti che inizia nei bambini a
9 mesi e ch’è favorito dalla detta condivisione degli scopi e dalla
trasmissione culturale partecipata degli agenti intenzionali, ciò che permetterà
al bambino, divenuto a sua volta adulto, di potere perpetuare il processo d’accumulazione
delle informazioni proprie alla trasmissione culturale, questo grazie a quello
ch’è stato classificato come effetto dente d’arresto (ratchet effect; ratchet può essere tradotto anche con termini, più
tecnici, come nottolino o cricchetto); per apprezzarne il valore esplicativo si
pensi che se s’incastra un meccanismo d’arresto in una ruota dentata (il citato
ratchet), ecco che questo impedisce alla
ruota dentata la retrocessione, ossia di svolgere il movimento all’indietro
permettendo solo quello in avanti, proprio nello stesso modo in cui, a livello
metaforico, un dente d’arresto ch’è dato dall’attenzione congiunta condivisa non
permette un’involuzione culturale in quanto ne impedisce il moto retrogrado che
porterebbe alla perdita delle informazioni culturali, nel mentre favorisce il
moto in avanti dell’accumulo d’informazioni (questo se e solo se l’intero
processo della trasmissione culturale obbedisce poi a un processo cumulativo d’utilità
sociale plurigenerazionale); ancora, grazie all’attenzione congiunta condivisa,
ossia sempre partire dai 14 mesi, i
bambini iniziano a valutare le reazioni emotive esibite dal volto della madre
(o d’altra figura parentale), quali la sicurezza o l’insicurezza nei confronti
d’un oggetto (per esempio, un giocattolo nuovo) o d’un soggetto (per esempio, un
individuo sconosciuto), e in seguito usano l’informazione ottenuta (cioè l’interpretazione
prodotta dallo scorrere del loro sguardo dalle espressioni del volto della
madre all’oggetto o al soggetto e di nuovo alla madre), per adottare nella
pratica un filtro attentivo (di accettazione/rifiuto) ch’è conforme a quello
manifestato dalla madre nei confronti dello stesso oggetto o soggetto, cioè utilizzano
la madre come riferimento sociale (o social
referencing) per orientare il loro comportamento in un contesto sociale;
così come, sempre a partire dai 14 mesi, inizia ad apparire l’apprendimento per
imitazione (o imitative learning),
che è un compito cognitivo complesso (v., supra,
l’ipotesi dei neuroni specchio e le sue conseguenze per la teoria della mente) in
cui l’abilità imitativa è costruita nel corso dello sviluppo da precise
interazioni sociali e che, di fatto, consiste nel capire le intenzioni
soggiacenti a una sequenza d’azioni motorie d’un dato agente e nel saperle
ripetere con precisione (adozione del modello), il che implica il capire che
l’altro è un agente intenzionale le cui azioni sono mirate a uno scopo (goal-directed) e che queste azioni
equivalgono agli stessi atti motori che il bambino in oggetto adotterebbe nelle
medesime circostanze; ciò che indica ch’è in gioco un processo d’apprendimento
sociale che fa emergere un meccanismo di comprensione dell’equivalenza tra sé stessi
(l’osservatore) e l’altro (l’osservato), questo assieme al fatto che le
funzioni che sono attribuite a un oggetto sono tali perché c’è al proposito
dell’attribuzione un consenso collettivo, di natura sociale (e, per inciso, è
probabilmente dovuto a questa identità fra il sé e l’altro anche l’apprendere
ciò che è obbligatorio, o solo permesso, o proibito fare, ciò che rimanda al
senso del dovere, detto anche comportamento deontico, ch’è implicito nelle
regolamentazioni delle interazioni sociali e che dipende dallo stile educativo
proprio a una specifico gruppo); s’è detto, riguardo al consenso sul
significato d’un oggetto, che questo consenso è di natura sociale, fatto che
diventa ancora più evidente quando, a partire dai 24 mesi, iniziano i giochi di
finzione dove un oggetto non è quello che è, ma diventa un’altra cosa, per
esempio, una banana diventa un telefono, e dove questi bambini di 2 anni sono
già cognitivamente attrezzati per essere consapevoli che chi gioca con loro
adotta la stessa finzione, o attribuzione di significato, e questo è un
apprendimento (rispetto ai dati oggettivi) di non poco conto che segnala la
capacità di sapere distinguere oggetti reali da oggetti immaginari e che,
soprattutto, partecipa a un processo di costituzione sociale del noi che inizia
a essere sempre più consapevole e concordato; processo, ancora, ch’è strutturalmente
legato al linguaggio (che i bambini iniziano ad acquisire seriamente a partire
dai 18 mesi) poiché il nome da dare alle cose è associato, come insieme di
fonemi, al loro guardare l’oggetto, oggetto ch’è in pari tempo guardato anche
da chi pronuncia questo insieme di suoni (attenzione congiunta condivisa),
ossia che i nomi dati alle cose sono bidirezionali o socialmente condivisi e
rimandano a un’unica referenza, ragione per cui se il bambino, in un altro
contesto, vuole che la figura di riferimento condivida l’attenzione nei
confronti dello stesso evento o dello stesso oggetto (ossia ponga attenzione a
quella referenza che dev’essere comune ai locutori affinché si produca una
comunicazione linguistica), deve ripetere quell’insieme arbitrario di fonemi (il
significante) che il linguaggio socialmente condiviso attribuisce come
significato a quell’oggetto o evento; e l’allenamento continuo richiesto da questa
tipologia d’apprendimento per imitazione triadica (significante/significato/referenza)
è fondamentale nella trasmissione culturale, come può, per esempio, mostrare il
fatto che un repertorio lessicale ampio è in grado di permettere ai bambini di
correggersi e di meglio comunicare con l’interlocutore nel caso s’accorgano che
questi potrebbe non sapere a cosa si stanno riferendo (ciò ch’è poi capire e
valutare che, riguardo a una referenza qualsivoglia, gli altri possono mostrare
percorsi o prospettive di riferimento diverse dalle loro); a 4-5 anni, al
repertorio di ciò che il bambino ha appreso, si aggiunge poi via via la
consapevolezza che gli altri, oltre che a essere agenti intenzionali, sono
anche agenti mentali (mental agents);
come dire che alla consapevolezza precedentemente acquisita di stati mentali relativamente semplici
come la motivazione, l’attenzione e l’intenzione o il desiderio (stato, questo, che investe
ciò che si vuole, o volizione), aggiungono quella del riconoscimento degli
stati mentali di credenza (che sono, dal punto di vista cognitivo, astratti e molto
più complessi), vale a dire ch’essi iniziano a rendersi conto che il
comportamento altrui è guidato dalle credenze sul mondo che ognuno di questi
altri ha, e in questo modo arricchiscono notevolmente l’abilità di lettura
della mente propria e altrui, questo perché i bambini devono essere in grado di
separare la propria conoscenza del contesto dalle credenze sul contesto manifestate
dall’altro, ossia devono rendersi conto (in base alle competenze operative che
possiedono) che le credenze che guidano il comportamento dell’altro sono
sbagliate, ovvero devono avere una credenza sulle credenze dell’altro per poter
capire che s’è in presenza d’una falsa credenza (o false belief) e, inoltre, devono essere consapevoli del fatto che
c’è una realtà ch’è tale indipendentemente dalla credenze proprie e altrui,
cioè che non dipende dal punto di vista di chi questa realtà la valuta; vale a
dire una competenza sulla lettura della realtà e sulla lettura della mente che tiene conto delle rappresentazioni
multiple e possibili della realtà e che arriverà poi a costituire (su un
repertorio di nessi causali e di inferenze sul comportamento altrui che sono il
motore della mindreading) una teoria
della mente che permette di spiegare il comportamento altrui e di fare previsioni,
ossia la sopra illustrata Theory of Mind;
cui s’aggiunga che, se sui 2 anni il punto di vista dei bambini sulla realtà è
limitato al loro punto di vista (prevalenza dell’io) e a quei punti di vista
che condividono di volta in volta con chi li circonda (intenzionalità condivisa,
o shared intentionality), sui 4-5
anni si rendono conto che ci sono punti di vista che vanno oltre ciò che loro
sperimentano nei loro contesti d’interazione, punti di vista che sono condivisi
da tutti coloro che partecipano alla cultura cui anch’essi appartengono, e che
permettono il passaggio dall’intenzionalità condivisa nella relazione diadica
all’intenzionalità collettiva (collective
intentionality); così che ciò che prima ruotava attorno all’egocentrismo
del bambino (l’affermazione dell’io) e alla relazione di attaccamento con una
figura di riferimento (la madre), ora ruota intorno alla collettività (il noi),
il tutto a partire dalla presenza di relazioni d’attaccamento non più diadiche
(bambino/madre), ma plurime, relazioni in cui s’esplicitano comportamenti
affiliativi e altruistici; tanto che si può affermare che con l’intenzionalità
collettiva s’è infine manifestata l’occorrenza d’un cervello sociale cui il
bambino, quando smette d’essere tale (a partire dai 6 anni), potrà poi parteciperà
con tutto il repertorio degli stati emotivi e delle abilità cognitive e
operative di tipo intersoggettivo che sono ritenute fondamentali e necessarie
per muoversi attraverso quella data realtà culturale (per inciso, una delle
ultime competenze acquisite dal bambino è poi quella della conversazione e
delle sue regole, per esempio, il rispetto del meccanismo di turnazione);
realtà culturale che, di fatto, ha poi prodotto gli stati emotivi e le abilità cognitive
intersoggettive del bambino grazie a un dispositivo cervello-mente (v. supra) creato dal cablaggio sociale
delle reti neurali (dispositivo che, peraltro, è storicamente situato e legato
allo stato dell’economia e alla struttura sociale corrispondente, ciò che vincola
la libertà comportamentale degli individui promuovendo solo dati e determinati
modelli di destino sociale, vale a dire impedendo, o cercando d’impedire, ogni altro
storicamente possibile modello di sviluppo); come dire ch’è la sociogenesi del
noi che rende esplicita l’occorrenza d’un cervello sociale e d’una mente
distribuita, occorrenza necessaria per sostenere gli equilibri correlati al mantenimento
d’una rete sociale (sul problema dei free-rider,
v. infra).
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COSTRUZIONE DI NICCHIA CULTURALE
È
necessario affermare, come assioma di partenza, che la dinamica della produzione
della struttura del corpo umano (v. supra,
Bauplan) e del funzionamento dei suoi
organi e dei suoi apparati fisiologici, compreso il cervello, non è sufficiente
a formare il dispositivo cervello-mente; infatti, questo dispositivo, come s’è
detto sopra a proposito della GNST (Groups
Neuronal Selection Theory), mostra la sua processualità (casuale, dinamica
e plastica) a partire dalla vita fetale con la formazione del sistema neurale
(il repertorio primario) e continua, come detto, sino alla morte, arco di vita
dove si presenta l’interazione del cervello (del corpo) con l’ambiente esterno
(repertorio secondario) che compartecipa via via alla costruzione d’una nicchia
ecologica e culturale, fenomeno (il cui stampo è imprevedibile, cioè unico e
irripetibile) ch’è dovuto a una dinamica dove le reti sociali, appoggiandosi
sulle reti neuronali grazie ai fenomeni del rientro e della categorizzazione e
ricategorizzazione percettiva, sono corresponsabili della transizione della
mente dallo stato neonatale (coscienza primaria, propria anche ad altre specie)
allo stato adulto (coscienza d’essere coscienti) dell’organismo, ciò che si
traduce in un coagulo di rapporti tra loro interdipendenti
che l’organismo tesse con la nicchia ecologica, con gli altri organismi della
propria umana specie e d’altre specie (costruzione di nicchia culturale) e nell’eventuale
successo/insuccesso di tali rapporti; ed è importante sottolineare da subito che
questo strumento della nicchia culturale, ossia il dispositivo cervello-mente
edificato per filogenesi dal genere Homo
affinché questi possa arrivare a essere in grado di modellizzare e
rimodellizzare ontogeneticamente il mondo circostante allo scopo d’essere
esonerato dai limiti del qui e ora propri alla coscienza primaria, è solo uno
strumento che, se pur diverso, è pari per valore (ma non per efficacia
creativa/distruttiva) a quello che usano le altre specie per modificare la loro
nicchia ecologica; fatta salva questa parità, bisogna sottolineare che,
eseguendo un’analisi comparata dei tessuti cerebrali di alcune specie (ne sono
state monitorate ca. un centinaio prima di reperire quelle pertinenti), queste
presentano poi una parentela con un meccanismo che nel genere Homo s’ipotizza abbia innescato quella prosocialità
interagente fra insiemi d’organismi che permette infine di costruire una
nicchia culturale, cioè d’implementare delle reti sociali, e che rimanda ai
neuroni di von Economo (von Economo neuron,
o VEN); quest’ipotesi della prosocialità si basa, per il genere Homo, sulla scoperta di una tipologia di
cellule cerebrali fusiformi (a forma di fuso, o spindle cell), cioè sottili e
allungate, e a forma bipolare, con un soma che presenta un assone apicale e un dendrite
all’altra estremità (dunque con una struttura dendritica semplice), cellule la
cui comparsa avviene in piccolo numero nella 36a (altri dice
35a) settimana dopo il concepimento, numero che poi cresce durante i
primi
quattro anni di
vita postnatale (con un picco attorno agli 8 mesi) e che in seguito rimane
relativamente stabile durante l’età adulta, numero che si presenta poi con
valori superiori nell’emisfero destro del cervello per un’asimmetria che emerge
durante i primi mesi di vita
postnatale; ancora, lo sviluppo di queste cellule cerebrali fusiformi durante
l’infanzia potrebbe subire l’influenza di fattori ambientali, quali la assenza/presenza
di stimoli, l’assenza/presenza di fattori di stress, la assenza/presenza di qualità nelle cure parentali etc., con ricadute positive o negative,
durante l’età adulta, sulle competenze/incompetenze cognitive di tipo sociale
(tipo riconoscimento degli errori propri e altrui e pronta risposta adattativa
a condizioni mutevoli); capacità/incapacità di risoluzione dei problemi (problem-solving) che si giustappongono
poi sulla capacità/incapacità dell’autocontrollo emotivo e la presenza/assenza
di stabilità emotiva, ciò che porta a modificare/alterare, a livello
dell’ontogenesi, le tappe dello sviluppo socioemotivo in meglio o in peggio; la
figura seguente mostra una microfotografia di un neurone piramidale (a) e di un
neurone di von Economo (b) colorati con il metodo di Golgi (cioè fissando i preparati
con bicromato di potassio e impregnandoli con nitrato d’argento); in (b) si
nota la struttura fusiforme della cellula e la presenza di un assone apicale che
trasmette le informazioni ricevute dal dendrite basale (sul funzionamento dei
neuroni, v. supra); la barra di scala
vale per entrambe le immagini:
Figura
n. . Fonte: Watson, Jones e
Allman, 2006, p. 1108.
Cellule,
ancora, che sono rare e ca. 4 volte più grandi rispetto alla media degli altri
neuroni e che sono stati individuate per la prima volta da von Economo (da cui
il nome) nello strato V di due regioni del cervello, una chiamata corteccia cingolata anteriore
(anterior cingulate cortex, ACC, v. supra) e l’altra corteccia
frontoinsulare (frontoinsular cortex,
FI, v. supra), come mostra la figura
seguente
dove a sinistra si ha la vista
laterale del cervello con la corteccia frontoinsulare (FI, colore rosso) e a destra se ne ha la vista
mediana con la corteccia cingolata anteriore (ACC, colore rosso):
Figura
n. . Fonte: Ibegbu, Umana, Hamman e Adamu, 2014,
p. 2.
Ora, s’è
scoperto che questi neuroni su cui si basa l’ipotesi sopracitata sono poi presenti
nella famiglia Hominidae al suo
completo, cioè in tutte le sue ramificazioni (v. supra) in generi, cioè Homo,
Pan (Pan
troglodytes e Pan paniscus), Gorilla (Gorilla gorilla)
e Pongo (Pongo pygmaeus e Pongo abelii); i VEN sono poi più
abbondanti in Homo e via via diminuiscono in densità negli altri generi con
la seguente progressione: Homo (Homo sapiens) > bonobo (Pan
paniscus) > scimpanzé comuni (Pan troglodytes) > gorilla (Gorilla
gorilla) > oranghi (Pongo pygmaeus e Pongo abelii) e,
indipendentemente dalla loro densità (ch’è storia evolutiva a seguire), tutto ciò riporta a un loro antenato
comune proveniente dall’Africa settentrionale/orientale (della superfamiglia
Driopitècine, Dryopithecinae) e presente
all’altezza di ca. 15 milioni di anni fa, nel tardo Miocene (dunque prima della
divergenza, datata grossomodo a 6 milioni d’anni fa, fra i lignaggi del genere Homo e del genere Pan, v. supra), cui
bisogna però aggiungere che i VEN sono presenti, se pure in misura minore,
anche nel genere Macaca, anche questo
appartenente come i già citati generi al gruppo di primati delle scimmie Catarrine
(Catarrhini) o scimmie del Vecchio
Mondo, specificamente alla sottofamiglia Cercopithecidae
(Cercopitècidi), sottofamiglia che s’è scissa dal sottordine Catarrine tra l’Oligocene
e il Miocene, ca. 25 milioni d’anni fa (in ogni caso, per i neuroni di von
Economo si tratta d’una recente specializzazione filogenetica, tanto che si
sospetta che la vulnerabilità dei VEN nelle condizioni disfunzionali legate ai
disturbi neurali propri a Homo sapiens,
v. infra, sia dovuta proprio al fatto
che l’evoluzione non abbia potuto plasmare il loro funzionamento e l’integrazione
con altre popolazioni cellulari con il dovuto tempo); la figura seguente mostra
la localizzazione della corteccia frontoinsulare (FI) e della
corteccia cingolata anteriore (ACC) su sezioni coronali di cervello in Homo sapiens, in Pan paniscus (Bonobo) e in Gorilla:
Figura
n. . Fonte: Ibegbu, Umana, Hamman e Adamu, 2014,
p. 2.
Questi VEN,
ancora, s’è poi scoperto che sono presenti anche in elefanti (della famiglia
degli Elefantidi, Elephantidae), balene (della famiglia dei
Balenidi, Balaenidae), delfini (della
famiglia dei Delfinidi, Delphinidae) e,
in misura minore, nei procioni (della famiglia dei Procionidi, Procyonidae) e complessivamente tutti
questi mammiferi fra loro filogeneticamente diversi (umani, scimmie, elefanti,
balene, delfini e procioni) arrivano a suggerire che i VEN derivano da popolazioni
comuni di neuroni (molto probabilmente da una popolazione di neuroni piramidali)
già presenti nella corteccia prefrontale e nella corteccia cingolata anteriore di
mammiferi ancestrali e evoluti più volte nel contesto di specie-specifiche
pressioni adattative, come dire che il fatto che questa classe di neuroni, in
quanto presente in varie specie con distribuzioni corticali simili e con numeri
assoluti di VEN ragionevolmente comparabili, può essere indice dell’evidenza
che i neuroni di von Economo filogeneticamente conservati possono arrivare a rappresentare,
a seguito delle dette pressioni selettive fra loro comparabili, una
specializzazione neurale ch’è squisitamente relativa a dimensioni del cervello molto
grandi; specializzazione, a sua volta, che sarebbe pari, nelle diverse nicchie
ecologiche delle citate specie, alla presenza d’una socializzazione emergente che
coinvolge aspetti emozionali/cognitivi, allocati nelle suddette regioni
corticali e legati alla trasmissioni d’informazioni strategiche per la
sopravvivenza delle specie (ciò che fa rientrare anche queste specie, oltre al
genere Homo, nell’ipotesi della
prosocialità); la figura seguente mostra l’adattamento della filogenesi dei
mammiferi placentati, compresi Ordini (a destra) e Superordini (a sinistra); in
rosso sono indicati ordini che contengono almeno una specie i cui VEN sono
stati descritti:
Figura
n. . Fonte: Butti, Santos, Uppal e Hof,
2013, p. 322.
Infatti, questi
neuroni di von Economo, in quanto grandi e con un’architettura dendritica
semplice e simmetrica, hanno permesso agli studiosi di congetturare che essi sono
stati sviluppati per la velocità di trasmissione delle informazioni, vale a
dire che hanno probabilmente il ruolo d’accelerare, in un cervello a sua volta
grande, la comunicazione della corteccia cingolata anteriore e della corteccia
frontoinsulare con le altre aree del cervello (cioè di avere una funzione d’interconnessione
fra aree corticali e sottocorticali distanti) grazie alla loro stretta arborizzazione
dendritica con collegamenti assonali che s’estendono e attraversano gli strati
della corteccia (questo in base al fatto che nel sistema nervoso la dimensione
dei neuroni spesso si correla con la velocità); le informazioni che la corteccia cingolata
anteriore e la corteccia frontoinsulare anteriore devono poi velocemente veicolare,
in quanto neuroni di proiezione che funzionano da crocevia, o relais, fra diverse aree cerebrali, riguardano
la presenza delle sensazioni che un organismo (qui del genere Homo) sperimenta, sensazioni che le due
citate aree integrano e automonitorano, quali le funzioni d’una regolamentazione
di base delle percezioni proprie agli stati corporei interni, per esempio, di
dolore, di caldo/freddo, di fame e altro ancora (nell’ottica dell’omeostasi fisiologica),
cui s’aggiungono tutti quegli aspetti che
coinvolgono la consapevolezza di sé e degli altri e i processi decisionali effettuati
in condizioni d’incertezza, ciò che s’intreccia con le funzioni esecutive della
corteccia prefrontale (v. infra); ciò
che, ancora, include emozioni quali l’empatia, la fiducia, il senso di colpa e
altro ancora, vale a dire un’intera batteria di percezioni/emozioni/cognizioni che
si presentano come prosociali (e le sperimentazioni su organismi del genere Homo dicono che queste aree s’attivano
per
effettuare una rapida
scelta intuitiva in situazioni sociali più o meno complesse, per esempio, in
un’interazione a due, se si scruta con attenzione la dinamica dell’espressione
facciale dell’altro per discernere e valutarne le intenzioni), tanto che si
sospetta che la consapevolezza di sé (l’automonitoraggio) e la consapevolezza
sociale (v. teoria della mente, supra)
facciano parte d’un dispositivo cervello-mente dove le reti sociali
s’appoggiano in modo epigenetico sulle reti neurali, dunque grazie a un
cablaggio flessibile dei circuiti socioemotivi che potrebbe permettere la
sociogenesi e di dare origine a un cervello sociale; altri esperimenti,
infatti, suggeriscono che le citare aree contenenti VEN sono attivate in
situazioni di monitoraggio della rete sociale cui un individuo partecipa e in
cui scopre un errore sociale dovuto, per esempio, a un cambiamento di stato di
uno dei partecipanti, ciò che può attivare nel soggetto valutante un ventaglio
emotivo intessuto di risentimento, inganno, imbarazzo, ciò che, ancora, può dare
avvio a risposte adattive all’errore rilevato; oppure possono essere attivate dall’empatia
in una situazione di sofferenza da parte di un individuo compresente nella rete
sociale, per esempio, quello d’una madre a fronte di grida d’un bambino in
difficoltà; oppure, ancora, possono essere attivate da segnali prosociali come
l’affetto e la fiducia e altro ancora; inoltre, mentre molte di queste
dinamiche sono coscienti, possono esisterne anche altre di cui l’organismo
agente è inconsapevole, e a questo proposito, per esempio, è stato dimostrato
che quando un soggetto guarda negli occhi il suo interlocutore non è
consapevole se le dimensioni delle pupille di quest’ultimo s’alterano in modo
discordante con la prosocialità ch’è in essere fra i due in quel momento (cioè
s’allargano in modo involontario a causa dello stress emotivo che si mette in atto per simulare una concordanza
che non c’è), inconsapevolezza che, al contrario, la corteccia cingolata
anteriore e l’insula anteriore del soggetto non vivono in quanto s’attivano subito
all’effettuarsi della dilatazione della pupilla dell’interlocutore e subito allertano
il cervello sull’incongruenza presente nel fatto sociale, cioè dell’effettuarsi
probabile d’un errore comportamentale nel caso non s’intervenga (e non si
dimentichi che lo stato delle pupille tra interlocutori è costantemente
monitorato dalle dette regioni cerebrali, sempre e durante tutte le interazioni
sociali); tutto un insieme di fatti che alla fine induce a sospettare che
queste aree cerebrali siano le componenti base d’un dispositivo cervello-mente
preposto al controllo flessibile dei comportamenti diretti a un obiettivo (goal-directed) che si presentano in una
rete sociale, quelli in cui l’individuo partecipante alla detta rete ne valuta sia
gli aspetti negativi che positivi ch’essa al momento presenta in vista della
sopravvivenza sociale; e si dice sopravvivenza perché l’evidenza che i neuroni
di von Economo siano, come sopra affermato, presenti in mammiferi
filogeneticamente diversi come gli esseri umani, le scimmie antropomorfe, gli
elefanti, le balene e i delfini, è interpretabile come risultato d’una loro
evoluzione sotto pressioni evolutive specie-specifiche legate alla costruzione
di nicchie culturali fra loro decisamente comparabili (ossia a una evoluzione
convergente, v. supra, in cui si
presenta un adattamento neurale capace di veicolare con rapidità, in aree fra
loro distanti d’un cervello grande, informazioni rilevanti sul contesto
sociale, volendo, alla specializzazione di circuiti neurali legati alla
cognizione sociale); e a proposito della sopravvivenza in un contesto sociale,
e fatto salvo che una perdita di VEN nella corteccia frontoinsulare può essere
correlata con una disinibizione, mentre una perdita di VEN nella corteccia
cingolata anteriore si può correlare con l’apatia, può essere indiziario della
validità dell’ipotesi della prosocialità (una specie di prova indiretta) il presentarsi nella
demenza frontotemporale (frontotemporal dementia, FTD),
specificamente nella sua variante comportamentale (behavioral variant FTD, o bvFTD), d’un
deterioramento comportamentale che, indagato, mostra che oltre il 70% dei VEN presenti
risultano essere stati distrutti selettivamente (mentre i VEN restanti mostrano
alterazioni importanti nella morfologia, quali soma gonfio e dendriti
intrecciati), ciò che porta a un progressivo restringimento dei lobi frontali e
temporali del cervello, ciò che, ancora, produce il detto deterioramento
comportamentale legato a disturbi della personalità, per esempio, irritabilità,
iperattività, eccessi d’ira, aggressività, inaffidabilità dei giudizi,
autolesionismo, assenza completa d’empatia, indifferenza rispetto al proprio aspetto
fisico, mancanza d’inibizione verbale e comportamentale (con comportamenti
sessuali inappropriati e atti osceni), evitamento dei contatti sociali e altro
ancora; e il tutto porta a sospettare che i neuroni di von Economo siano
coinvolti nell’implementarsi d’una rete sociale, tanto che la loro assenza si
traduce in una totale inconsapevolezza sociale di sé e mancanza
d’autocontrollo, cioè in una completa disgregazione della precedente vita sociale
della persona che subisce la demenza, il tutto, ancora, in un arco temporale relativamente
breve e con un climax distruttivo
dell’intero repertorio comportamentale appreso nel corso del tempo; e questo nel
mentre i neuroni che sono prossimi alle aree danneggiate con deficit di cognizione sociale rimangono
in gran parte inalterati mantenendo integre le aree cerebrali non coinvolte, e
quale esempio di questo fatto si può avanzare la presenza intatta della memoria,
che di solito rimane tale per un ampio tratto nel decorso della bvFTD; ancora,
s’è notato che nella schizofrenia e nell’autismo i VEN sono coinvolti in deficit della regolazione emotiva e delle
competenze sociali e nell’agenesia del corpo calloso in comportamenti sociali carenti
(dovuti a un’errata interpretazione dei segnali sociali o a una impropria
valutazione degli affetti, cioè a un’alessitimia; l’agenesia è poi una condizione
del corpo calloso del cervello dove mancano, in modo totale o parziale, le fibre
commessurali che fanno da ponte di collegamento fra l’emisfero destro e
l’emisfero sinistro); detto questo, valga ora come inciso una precisazione che
riguarda il ruolo specifico assunto dai VEN all’interno della corteccia
cingolata anteriore, corteccia che funziona come interfaccia tra le emozioni e
le cognizioni, e che trasmette i risultati delle trasformazione avvenute nella
corteccia cingolata anteriore a un’area ch’è denominata corteccia frontale
polare (frontopolar cortex, FPC), corteccia ch’è poi classificata come area 10 di Brodmann (A10,
v. supra); ora, si suppone che questa
corteccia frontale polare integri a un livello superiore i risultati di varie
operazioni cognitive (fra loro distinte) che le arrivano dalla corteccia
cingolata anteriore allo scopo d’implementare un obiettivo comportamentale decisamente
più complesso, per esempio, una rapida pianificazione adattativa a condizioni ambientali
e sociali fortemente mutevoli, come dire un’acquisizione d’opzioni legate a
nuovi comportamenti; la figura seguente riporta con il colore blu, in una mappa
cerebrale di Brodmann, la localizzazione dell’area 10 (si noterà ch’è una grande
area che occupa la porzione anteriore del lobo frontale del cervello); la vista
del cervello è poi quella laterale (lateral);
si ricorda che in Homo sapiens A10 è
grande, sia in assoluto che relativamente, ed è molto più piccola, anche se ben
sviluppata, nei Bonobo, negli scimpanzé comuni, nei gorilla e negli oranghi
(l’estensione di A10 cala grossomodo nello stesso ordine in cui diminuisce la
densità del neuroni di von Economo):
Figura n. . Fonte (modificata): Allman, Hakeem, e
Watson, 2002, p. 336.
La figura
seguente mostra invece, sempre in una mappa cerebrale di Brodmann, la localizzazione,
colorata in
arancione, della
corteccia
cingolata anteriore (ma v. anche supra,
fig. n. ), ritaglio ch’è classificato come area 24 (A24); la mappa rilocalizza,
inoltre, anche l’area 10 per una messa a
confronto delle due aree in oggetto; la vista del cervello è quella mediana (medial):
Figura n. . Fonte (modificata): Allman, Hakeem, e
Watson, 2002, p. 336.
Entrando ancora
di più nel dettaglio, è stato dimostrato che la corteccia cingolata anteriore
opera un continuo monitoraggio dei cambiamenti di feedback dovuti all’interazione dell’organismo con il suo ambiente,
cambiamenti che ne influenzano la sopravvivenza e la riproduzione e avviano
risposte comportamentali per mantenere o migliorare queste condizioni e, in
questo contesto, il ruolo dei VEN è che possono essere utilizzati per
trasmettere l’avvenuto riconoscimento d’una situazione problematica (per esempio,
la discriminazione tra segnali contrastanti) e delle informazioni necessarie per
riaggiustarla ad altre aree corticali e a strutture sottocorticali ed
eventualmente aumentarne la frequenza di trasmissione, cioè che possono
partecipare alla dinamica riparatoria di molti sistemi efferenti (v. infra) all’interno del cervello e,
soprattutto, che i neuroni di von Economo compartecipano all’attività della
corteccia frontale polare (area 10); infatti, la corteccia cingolata anteriore
è propriamente coinvolta nella maturazione comportamentale della consapevolezza
di sé, consapevolezza che si determina (tramite la coazione a una logica non
cieca di prova ed errore, dunque con una valutazione delle alternative ch’è
relativa ed è in attesa di feedback
positivo) con l’avanzare dell’età d’un organismo, ciò che si lega
all’autocontrollo, alla volontà e, appunto, alla capacità acquisita di
riconoscere gli errori e di poterli risolvere (problem solving); e, in questo dispositivo, sia la corteccia
cingolata anteriore che l’area 10 mostrano un legame funzionale, ossia s’attivano
quando un organismo recupera una memoria episodica pertinente (ciò che rimanda
a una memoria a lungo termine), vale a dire quando l’area 24 e l’area 10 sono
coinvolte in attività che richiedono di ricordare eventi specifici accaduti nel
passato, e questa capacità d’integrare eventi passati come protocollo d’azione
per il presente al fine di modificarlo ai propri fini è un aspetto importante
della dinamica di sviluppo dell’autocontrollo (v., infra, l’esempio dei cacciatori-raccoglitori); il che è dire che
l’area 10, con l’apporto delle informazioni veicolate dai VEN, confronta la
situazione attuale con l’esperienza pertinente della memoria episodica, calcola
le probabilità di successo d’un protocollo d’azione, e a seguire, e basandosi
su questi calcoli probabilistici, implementa la strategia ritenuta (salvo gli errori
che potrebbero presentarsi) la più adatta a quel dato contesto; ed è di
supporto alla presenza di questa capacità, ch’è legata a compiti cognitivi
complessi, il fatto che questo processo di maturazione implica, oltre alla
formazione d’una memoria a lungo termine, anche un costante aumento dell’attività
metabolica della corteccia cingolata anteriore nell’arco temporale che va
dall’infanzia all’età adulta dall'infanzia, cui s’aggiunga che v’è anche la
prova d’una maggiore attivazione della corteccia cingolata anteriore in
organismi che presentano una competenza storicamente acquisita a meglio
comprendere le dinamiche sociali e che in condizioni di mancato autocontrollo
dovuto a disturbi per deficit d’attenzione,
quindi di fronte a un problema sociale che il soggetto implicato non riesce a
risolvere, non sono presenti risposte nella corteccia cingolata anteriore e,
pertanto, non v’è alcun legame funzionale con l’area 10; inoltre, le lesioni
all’area 10 sono associate con l’alterazione di quelle competenze cognitive che
permettono di valutare l’esperienza in corso, tanto da comprometterne la pianificazione strategica
prevista come risposta, cioè le funzioni esecutive; per quanto riguarda,
infine, lo scenario evolutivo che ha portato, rispetto ai lignaggi che
precedono Homo sapiens, a una
crescita numerica e funzionale dei neuroni di von Economo e a cambiamenti all’estensione
e alla rilocalizzazione topografica dell’area 10 (compreso un aumento dello
spazio tra strati corticali che ha così permesso un aumento di connettività con
altre aree d’associazione ritenute d’ordine superiore), è importante
sottolineare che questa specializzazione in termini di ridimensionamento e
d’organizzazione suggerisce che le funzioni associate a questa parte della
corteccia sono diventate particolarmente importanti nel corso del processo
d’ominazione, giacché non ci si può impedire di vedere questa relativamente
recente specializzazione se non come legata a una dinamica in continua evoluzione
della pianificazione delle azioni a venire e dell’intrapresa d’inedite iniziative
che implicano, necessariamente, dei fenomeni di sociogenesi (comprendendo in
questi anche l’evoluzione tecnologica per la trasformazione delle risorse) e delle
operazioni di
trasferimento intergenerazionale dei tratti culturali dipendenti dalla
costruzione di nicchia, cioè a un cambiamento materiale e funzionale delle
competenze cognitive, dei comportamenti adattativi e dell’ambiente preesistenti
a Homo sapiens; ora, e fatto salvo
che, come sopra detto, la costruzione della nicchia culturale è solo una
componente (sia pur diffusa e dominante nell’antropizzazione dell’ambiente)
dell’eredità ecologica, può essere utile che, a proposito di cultura materiale
e sociogenesi, s’osservi com’è possibile avanzare l’ipotesi che, nella storia
del genere Homo, delle reti sociali si
siano appoggiate su delle reti neuronali edificando per filogenesi un dispositivo
cervello-mente che permetta al genere Homo
di modellizzare e rimodellizzare ontogeneticamente il mondo circostante, questo
valorizzando il rapporto che i cacciatori-raccoglitori (hunter-gatherer; per il loro stile di vita, v. anche supra) hanno con l’ambiente spaziale e
con l’ecosistema in cui si ritrovano ad agire, rapporto legato a una
processualità di lunga durata del sopra abbozzato dispositivo cervello-mente
durante i 2 milioni di anni in cui questa pratica di sostentamento d’una
collettività è stata vigente (cioè fino alle soglie del Neolitico); questo,
ancora, valorizzando una strategia cognitiva che qui si recupera
dalla Landscape Mind Theory (LMT,
traducibile come teoria della mente basata sul paesaggio, e dove il paesaggio è
da intendersi quale spazio delle interazioni fisiche, cognitive e sociali tra
un organismo appartenente al genere Homo
e l’ecosistema), strategia che s’appoggia, oltre che alle precedenti aree sopra
citate, a due specifiche aree corticali di cui si parlerà a seguire; in
quest’ipotesi s’avanza il sospetto che la pressione ambientale abbia indotto,
nel corso del tempo, una sommatoria d’abilità cognitive adattate a risolvere
problemi spaziali riguardanti la sussistenza (cioè la fenomenologia delle
strategie venatorie da adottare o adottate in quanto imposte da un dato
paesaggio) e, in pari tempo, problemi legati alla classificazione dell’ecosistema
(cioè a problemi tassonomici nell’attribuzione dei nomi da dare ai tratti che
caratterizzano il paesaggio, di fatto alla realtà e alla complessità del vissuto
non solo venatorio); tipologia di problemi che, senza voler arrivare a sostenere
uno stretto isomorfismo tra le strutture del paesaggio e le strutture cognitive
che ne risultano modellate (e che sono in grado, come documentano le ricerche etnografiche, d’organizzare
spazialmente le percezioni, le rappresentazioni e le conoscenze individuali/collettive),
risultano comunque essere tra loro fortemente interdipendenti nella matrice dei
comportamenti storicamente messi in atto nelle società di caccia e raccolta; il
tutto parte dalla costatazione che esiste, nel tempo storico proprio ai cacciatori-raccoglitori,
un’omeostasi che fa sì che le azioni di disturbo continuo
dei fattori casuali (una qualsivoglia contingenza che si presenta) siano mantenute
intorno a un livello d’equilibrio e tra gli organismi che abitano l’ecosistema
e tra la collettività che questi organismi li preda, questo con il ricorso a
un’attività di controllo materiale/immateriale sull’ambiente e sul vissuto dei
detti organismi da parte dei cacciatori-raccoglitori che risultano così essere
gli agenti d’una autoregolazione capace di controllare tutta la realtà (questo in
quanto in grado di regolare, attraverso attività d’inibizione/promozione, i
flussi appropriati del vissuto sociale mediante sistemi di controllo a feedback negativi/positivi); regolazione
omeostatica che interviene, dunque, sia a livello etologico (per esempio,
grazie a un comportamento ch’è la risultante d’una pressione ambientale che
vale per tutti gli organismi di quell’ecosistema, e che nell’ecosistema sociale
è controllata a livello segnico, v. infra)
che ecologico (per esempio, controllando il rapporto prede/predatori); bisogna,
infatti, sottolineare che a livello etologico il detto comportamento non è altro
che la risposta a delle modificazioni, intervenute nell’esistente d’un
organismo, da parte dell’organismo stesso (volendo, a partire qui dal predatore
Homo habilis, v. supra) e che sono promosse dall’interazione fra stimoli che
provengono tanto dal suo interno (interocettivi) quanto dall’esterno che lo circonda (esterocettivi), esterno qui
da intendersi tanto come ecosistema quanto come rapporto con conspecifici;
comportamenti che, in una società di caccia e raccolta, si
producono/riproducono con una stereotipia che, se isolata e resa discreta, si
mostrano poi specie-specifici, cioè tipici di una data specie in un dato
ambiente e in un dato momento storico (e che qui si possono solo congetturare),
e che potrebbero alla fin fine dare origine, se elencati, a quello che si
definisce come un etogramma (che, nel passaggio da una tipologia ambientale/sociale
all’altra, dovrebbe essere poi in grado, grazie ai suoi riaggiustamenti negli
schemi corporei, di mostrare nel repertorio dei comportamenti, fra loro
comparati in modo indiziario e congetturale, le processualità d’una pressione evolutiva);
per ricostruire in modo congetturale questo etogramma, se pure con modalità
rozze e grossolane, cioè per provare a descrivere il comportamento d’un
organismo del genere Homo, e tenendo
conto del fatto che il sistema di caccia e raccolta è l’unica strategia di
sussistenza che, come detto (v. anche supra),
ha caratterizzato l’ontogenesi del genere Homo
per almeno due milioni di anni, è necessario partire dall’indagare come quest’insieme
d’organismi possono organizzare l’approvvigionamento alimentare in un dato
ambiente, cioè analizzare la loro condotta diretta a un obiettivo (goal-directed, v. supra) di acquisizione o di prelievo delle risorse, partendo da quello
che hanno bisogno di sapere dei cacciatori/raccoglitori per portare a
compimento il loro compito (su questa questione, v. anche supra), il tutto al fine di modellizzare con una certa
approssimazione il contesto ambientale in cui questi organismi perseguono il loro
scopo
(gli ambienti occupati dai cacciatori-raccoglitori possono essere o artici o desertici
o forestali, in ogni caso si tratta di zone climatiche caratterizzate da
risorse trofiche e/o idriche relativamente scarse e disperse su territori più o
meno vasti); secondo
una logica che rimanda alla realtà esperenziale che si basa sugli studi etnologici
che hanno come oggetto i cacciatori-raccoglitori odierni e le loro pratiche di
foraggiamento, e fatte salve le competenze ecologiche necessarie in questo tipo
di società, risulta che la pratica della raccolta opera su porzioni
relativamente limitate dell’ecosistema generalmente contigue, ciò che facilita l’orientamento
e la memorizzazione delle direzioni di spostamento sul territorio che sono rese
riconoscibili da punti identificabili nel paesaggio (landmark), mentre la caccia, in quanto le risorse sono mobili, è
costretta ad operare su porzioni molto estese dell’ambiente che impongono, con
la loro non contiguità, un disorientamento nello spostamento ch’è supplito da competenze
cognitive flessibili (v. supra),
ragione per cui qui si prende in carico il solo cacciatore; la figura seguente
mostra le possibili mappature del territorio, a sinistra quella di società di soli
raccoglitori (gathering, in figura)
che si spostano su territori contigui (ciò che richiede, in linea di massima,
una memoria
puramente topografica del territorio), a destra quella di società di cacciatori-raccoglitori
(hunting e gathering, in figura) che si spostano gli uni (gathering) su spazi contigui e gli altri su spazi non contigui (hunting), ciò che dà origine a una
mappatura dell’ecosistema diviso in due parti (divisione segnalata, in figura,
da una linea tratteggiata tra lo spazio dei cacciatori e quello dei
raccoglitori), e dove lo spazio dei cacciatori è suddiviso in due zone, una con
aree di ricovero (shelter) legate strategicamente
ai lunghi percorsi da compiere, e l’altra con le aree discontinue legate al
percorso effettivo o possibile della preda e senza dimenticare che tanto per i
raccoglitori quanto per i cacciatori, le risorse trofiche non sono percepite solo come una cosa, ma implicano,
nella loro rappresentazione mentale, anche un dove e un quando poterle trovare:
Figura
n. . Fonte: Meschiari, 2014, p. 56.
Per quanto
riguarda specificamente il cacciatore (e dato come prerequisito ineliminabile
quello della resistenza fisica alla fatica, v. supra), si può grossomodo affermare che questi deve possedere delle
conoscenze sulla composizione, sulla struttura, sulla configurazione dei suoli
e dei processi che vi operano; deve possedere una profonda consapevolezza
geografica del territorio, dei confini distintivi, delle aree di transizione,
delle barriere, etc.; deve
utilizzare, come i raccoglitori, dei punti di riferimento (landmark) che non coincidono con la meta per potere così
organizzare la sua percezione dello spazio; deve memorizzare gli itinerari, la
distanza, il tempo necessario per spostarsi da un luogo all’altro; deve
possedere delle strategie variate di spostamento nello spazio (legate anche ai
cambiamenti stagionali e alle dinamiche metereologiche); deve riconoscere le
connessioni ecosistemiche presenti nel repertorio dei luoghi familiari; deve
possedere delle competenze biogeografiche sulla distribuzione e sulle dinamiche
comportamentali relative alle specie animali cacciate e no; deve essere capace
di usare in modo abile le tecnologie di caccia disponibili (dal tardo Paleolitico, archi,
lance, mazze); deve possedere una memoria della probabile distribuzione
spaziale delle risorse trofiche e deve essere capace di predire ipotesi e
formulare decisioni sulla distribuzione delle risorse alimentari; deve
possedere delle capacità inferenziali nella lettura degli indizi e delle tracce
lasciate dalle prede; deve sapersi coordinare con il gruppo (specialmente se
s’impiegano trappole, reti, barricate, palizzate, recinti o altro ancora che
necessitano di una forte cooperazione attiva) per elaborare strategie
finalizzate alla cattura delle prede e al sostentamento della collettività (e
dove la spartizione della carne obbedisce a regole più o meno elastiche, ma
sempre presenti); deve saper far fronte agli imprevisti e altro ancora, deve possedere,
insomma, una mappatura dell’esistente che sia pari all’intreccio dinamico e
contestuale che mettono in moto le sue innumerevoli competenze e i suoi
comportamenti in un ambiente che, poiché saturo di segnali ecologici, necessita
d’una griglia induttiva per essere interpretato; infatti, a proposito di questa
griglia, bisogna sottolineare che ne fa parte anche un surplus legato a una creazione di significati aggiunti, per
spiegare i quali partiamo dal fatto che il cacciatore sa ch’esistono delle
categorie sistematiche corrispondenti ai vari organismi presenti
nell’ecosistema, cioè dei raggruppamenti gerarchici dei viventi o taxa (v. supra), e il cacciatore, come sa di questa gerarchia, sa anche che
a ogni livello gerarchico i taxa
s’escludono a vicenda e che ogni organismo, preso in sé, è attribuibile a un
dato taxon, e anche se i taxa sono classificati in modo variabile
nelle varie tipologie di società di caccia e raccolta, in generale i livelli
gerarchici fra taxa sono, all’interno
d’una data tipologia sociale, stabili; ancora, il cacciatore sa che se due
specie presentano una caratteristica comune, se ne può dedurre che tale
caratteristica è condivisa anche da altre specie dello stesso taxon tanto che, stando a questa logica
inferenziale, se un nuovo organismo è collocato in un taxon, si presenta un automatismo che tende ad attribuirgli le
stesse caratteristiche condivise da altri appartenenti allo stesso; ciò
nonostante questa tassonomia non però è vissuta in modo così meccanico come la descrizione
che precede lascia presupporre, questo perché questa tassonomia manca della
componente del rapporto di osmosi fra tutte le cose che risulta essere fondante
nell’esperienza del cacciatore; infatti, a questa tassonomia ch’è garante
dell’osservabile, vale a dire dei collegamenti ch’esistono di fatto
e che il cacciatore istituisce tra gli organismi quali sono presenti
nell’ecosistema condiviso (per esempio, la capacità di ratificare la presenza
d’una colorazione o d’una morfologia somigliante fra organismi diversi, oppure
la competenza nel reperire il rapporto ch’esiste tra predatore/preda, comprese
le dinamiche della catena alimentare a ciò correlata etc.), i detti rapporti d’osmosi aggiungono un surplus di significato; e questo surplus, che risulta essere poi legato alla creazione d’immagini,
non è dato dal fatto che questa creazione sfrutta in modo parassitario
l’esperienza del cacciatore per potere poi produrre i suoi elaborati, ma è
l’esperienza stessa del cacciatore quale questi la vive nell’ecosistema ch’è
prodotta e strutturata dal suo sistema d’immagini in osmosi con il tutto
(sistema, ancora, legato a una trasmissione di tratti culturali
intergenerazionali in quelle società), ciò che fa sì che questo sistema possa
così agire da collante causale sempre attualizzato nella fabbricazione d’un
significato (meaning-making) ch’è in
grado di debordare la meccanicità della sopra descritta logica tassonomica
creando questo surplus che la
scompagina e dove, come mostrano degli studi etnografici, gli organismi non
sono percepiti come entità isolate all’interno d’un taxa ma, per esempio, come incrocio di relazioni complesse anche
con animali appartenenti a diversi taxa;
la figura seguente mostra un esempio di tassonomia presente presso gli Iglulingmiut (gli Iglulingmiut sono un popolo Inuit
dell’Artico orientale che vive nella zona di Igloolik, nel Nord del Canada),
dove la sistematica dei parlanti di questa zona distingue i nirjutit (alla lettera, gli animali
utilizzati per essere mangiati), cioè i mammiferi, che sono divisi in pisuktiit, terrestri (quali il caribù,
l’orso polare etc.), e puijiit, marini (quali l’orca, il
narvàlo etc.); i tingmiat, gli
uccelli (quali il
beccaccino, la stròlaga etc.); gli iqaluit, i pesci (quali il ghiozzo, il salmone
etc.); i qupirruit, gli animali piccoli (quali gli insetti,
i ragni, i vermi etc.) e, infine, gli
uviluit, i
molluschi,
sistematica ch’è legata a una trama di relazioni interspecifiche accessorie tra
i taxa (le tassonomie sono rese, in
figura, ognuna con un cerchio e dove i cerchi inglobanti i taxa sono fra loro autonomi; le relazioni tra i taxa sono segnalate, in figura, da rette
che vanno dal taxon d’un cerchio a un
altro d’un altro cerchio); e la trama che s’intesse nella figura è poi dovuta a
osservazioni di tipo ecologico che possono debordare e rovesciare la tassonomia
anatomica standard; per esempio, il caribù e il tricheco
sono tra loro legati per il fatto di essere, in modo simmetrico, la preda del
lupo e dell’orca, organismi legati a loro volta in quanto predatori alfa ciascuno nel proprio habitat; altre volte, invece, il legame
è dato dalla condivisione della stessa nicchia ecologica, della stessa preda
d’elezione, o anche da fattori più aleatori di tipo analogico, come il colore
del pelo, o da un’affinità morfologica o etologica minore, tanto che, a livello
generale, i taxa possono parzialmente
sovrapporsi, sia orizzontalmente che verticalmente, e dare origine a sistemi
classificatori anch’essi sovrapposti che conducono a una trasgressione della gerarchia
dei livelli e delle regole d’inferenza (modalità che, all’interno del gruppo
sociale, è poi riusata per altre tipologie di rappresentazione, per esempio, in
narrazioni legate alla cosmologia, al sacro o a altre classi di fenomeni etc., e questo perché nelle società di
caccia e raccolta, come si vedrà a seguire, la razionalità operante a livello
materiale dell’empiria venatoria e la non-empiria dell’immaginario prodotta
dalla sociogenesi dei cacciatori-raccoglitori non sono percepite e vissute come
tra loro in opposizione, bensì come inevitabilmente complementari):
Figura
n. . Fonte (modificata): Meschiari,
2014, p. 58.
Tutto
questo capita perché il sistema d’immagini del cacciatore è basato su un transfert di
significato (o semantico) dovuto alla contiguità dei significati (spaziali,
causali, temporali etc.) presenti
nello stesso campo semantico, quello d’un animale, in cui un termine
sostituente, presente (per esempio, in nome del luogo che il cacciatore ha di
fronte a sé), sta in un rapporto logico con un termine sostituito e assente
(per esempio il nome tassonomico dell’animale ch’è stato da lui visto in quel
luogo), laddove il campo semantico, riferito a un singolo elemento
linguistico, è poi l’insieme registrato da una collettività dei suoi possibili
significati (e, se riferito a un gruppo di elementi, è la sfera di significati
che essi hanno in comune), è cioè polisemico, vale a dire provvisto d’una
pluralità di significati; ed è questa logica, ch’è quella della figura retorica
classificata come metonìmia
(o metonimìa), che fa sì che la descrizione tassonomica sopra offerta sia
esperita dal cacciatore in modo molto meno meccanico di quanto farebbe un Homo sapiens odierno, il che è dire che
per il cacciatore un animale non è mai decontestualizzato dall’ambiente in cui
entrambi (preda e predatore) vivono, bensì è vissuto secondo una direttrice
metonimica del posto che questi occupa nello spazio fisico e ecosistemico (habitat fisico/biologico), cioè è sempre
incistato in una matrice topologica con cui in cui entrambi vivono in
un rapporto di reciproca dipendenza e in cui il contenente sta al posto del
contenuto, la causa al posto dell’effetto e il concreto al posto dell’astratto
(e viceversa, in quanto questi rapporti sono sempre reversibili); e senza
dimenticare che se all’inizio questa tassonomia ch’è alla base dell’etogramma
del cacciatore ha presumibilmente coperto un ruolo di risposta all’esigenza
ineludibile di catalogare le specie commestibili/non commestibili, a seguire la
direttrice metonimica s’è estesa anche ad altre forme viventi non
necessariamente utilitaristiche; oltre a questa, è poi presente anche una
direttrice che si basa sul fenomeno dell’apofenìa (Apophänie), dove l’apofenia è da intendersi, in questo contesto,
come la capacità cognitiva di un cacciatore di trovare un significato in
configurazioni di realtà che, di fatto, sono solo configurazioni di cose
originate dal caso, là dove il cacciatore ha quindi una percezione, che
esperimenta, di vedere qualcosa che però non esiste, tanto che la
rappresentazione del cacciatore si fonde con lo stimolo sensoriale (visivo,
uditivo, olfattivo, tattile) insufficiente a produrre senso, di modo che questa
capacità cognitiva gli fa perdere quella capacità che consiste nel
differenziare gli elementi sensoriali diretti (la realtà effettiva) da quelli
riprodotti a livello corticale (la realtà immaginata), per esempio, nel
riconoscere visivamente qualcosa di già sperimentato con effetto di realtà tra
le foglie delle piante dove caccia, tipo un predatore (e si sa che in contesti
percettivi ambigui si può creare nell’osservatore uno stato d’allerta
fisiologico in grado di falsare una percezione reale), o nel riconoscere il verso d’una
preda in emissioni sonore dovute al caso (per esempio, al fluire del vento, allo stormire delle foglie,
al fluire dell’acqua o a altri suoni naturali), o nel riconoscere delle tracce
olfattive che in realtà hanno una origine diversa da quella percepita etc., ed è probabile che questa capacità
cognitiva permessa dall’apofenia (ch’è poi una caratteristica generale di varie
specie di Homo) non sia un difetto,
ma sia stata permessa dall’evoluzione in quanto consente, anche in presenza
d’indizi rarefatti, forsanche sbagliati, d’individuare situazioni di pericolo,
cioè di potere adottare reazioni rapide di fuga che favoriscono la
sopravvivenza, ed è pure
plausibile che in ambienti poco antropizzati, dove il contesto percettivo è
ambiguo, l’apofenia abbia funzionato per lungo tempo come un meccanismo
essenziale di sopravvivenza; l’apofenia, dunque, opera un montaggio tra due
campi visivi, uno reale e uno ricostruito a livello corticale in cui il secondo
prende il posto del primo, ciò che dà origine a un qualcosa che è pertanto
isolato dal continuum percettivo del
reale e che, se provvisto di nome, si separa dalla realtà fisica ed entra a far
parte d’una realtà ricostruita, culturale, un significato ch’è vissuto da un
soggetto appartenente a una società di caccia e raccolta, ed è possibile che a
fronte delle turbolenze caotiche, casuali e ingovernabili di questo continuum l’insieme dei soggetti d’una
società di caccia e raccolta operi dei tagli e che, nelle slabbrature che si
creano, sia messa in opera come collante cognitivo, e a un livello generalizzato,
la procedura dell’apofenia che riesce, in questo modo, a produrre una struttura
ordinata, una modellizzazione della realtà trasmissibile a livello
intergenerazionale, e quale esempio, si può citare l’arte rupestre del
Paleolitico (v. infra) nella quale
chi intravede delle anomalie nel substrato roccioso (venature, sgocciolamenti
di calcare, porzioni convesse o concave, noduli, variazioni cromatiche nelle
rocce etc.) può interpretarle come
delle parti anatomiche d’un animale (un ventre, uno zoccolo, un occhio etc.) che sono solo da integrare con dei
contorni (pittogrammi), come dire che l’animale è visto da subito nella roccia
e solo a seguire è completato con tratti complementari, e dove l’abilità
apofenica si traduce in una rappresentazione della realtà che travalica il
tempo di chi l’ha creata; ancora, l’apofenia è in atto quando il cacciatore è
capace di sovrapporre modelli ambientali o ecosistemici noti a luoghi
sconosciuti (per esempio, grazie al linguaggio orientato sul paesaggio, landscape oriented, proprio alle società
di caccia e raccolta, d’adottare la pratica della denominazione/descrizione di
ciò che si vede; ciò che, grazie a questi marcatori topografici, impone al
paesaggio sconosciuto i nomi del noto facilitandone la domesticazione), ciò che
gli permette di interpretare visivamente e linguisticamente un territorio
sconosciuto come se fosse un territorio familiare sulla base di una somiglianza
morfologica, anche vaga, imposta dai marcatori topografici, quindi
conseguentemente di operare in un habitat
sconosciuto, ma simile, così come ha operato nel suo habitat nativo; vale a dire d’attivare, grazie alle somiglianze
geomorfologiche, delle attività d’orientamento spaziale (wayfinding, v. infra) e
d’inseguimento (stalking) della preda
che sono già state attivate in posti simili; di strutturare un orizzonte
d’attesa, ch’è già stato messo in atto nell’habitat
nativo, nell’habitat sconosciuto che
gli è simile (per esempio, un torrente che ricorda al cacciatore l’improvvisa
comparsa d’una preda nei pressi d’un torrente simile, ciò che lo mette in
allarme, o altro ancora); insomma, tutto un insieme di possibilità induttive
che gli permettono strategie efficaci di predazione (di sopravvivenza) dal
punto di vista topografico ed ecologico, ciò che, volendo, mostra il vantaggio
in termini evolutivi di vedere, grazie a delle catene apofeniche, dei luoghi
familiari in luoghi che in realtà non lo sono (come dire che l’apofenia,
semplice o complessa che sia, può permettere alla mente d’elaborare, fra entità
separate dal punto di vista empirico e fattuale, intere sistematiche isomorfe);
il che è affermare, ancora, e allargando le sue procedure all’intero vissuto
delle società di caccia e raccolta, che sia la direttrice apofenica che quella
metonimica danno origine a un dispositivo generatore di credenze che fa sì che
l’autoinganno, come costruzione mentale prima che culturale, sia dotato d’una
efficacia pratica (vincente alla prova dei fatti) che spinge il genere Homo a interpretare in modo olistico il
tutto dell’ambiente che esperimenta, ciò che lo porta, come accennato, alla
sovra-interpretazione di tratti che sono, in sé e per sé, privi di significato,
ma che, se legati a una codificazione che arriva a creare dei segni e dei
sistemi segnici (v. infra), ecco che
questi sistemi segnici possono intervenire nelle strategie operative che
portano, da un lato, ai processi che originano la cultura materiale, cioè le
modalità complesse di sostentamento (foraging)
d’una collettività, e, dall’altro, sono in grado di modellare la produzione e
la riproduzione sociale di questa stessa materialità che li sorregge;
produzione/riproduzione sociale che in un dato decorso temporale è volta a garantire e perpetuare
comportamenti dati e approvati, quali l’elaborazione di strutture rituali e
mitiche (documentale da studi etnologici riguardanti la costruzione ecologica
del sacro) che traducono l’omeostasi ecologica e la sua manutenzione nelle
società di caccia e raccolta attraverso una specie d’isomorfismo tra tempo
profano e tempo sacro, isomorfismo ch’è in grado di proiettare sull’ecosistema
una rete di significati che permettono anche l’origine di sistemi di regole
morali, travestite da credenze, il cui precipuo ruolo è quello di garantire e
perpetuare comportamenti individuali/collettivi nell’uso sostenibile delle
risorse ambientali e dove (stando all’etnolinguistica) anche il paesaggio è
incorporato nelle strutture linguistiche in uso e, pertanto, nella trasmissione
delle conoscenze; per quanto riguarda poi la definizione del termine segno,
esso è dato da un significante materiale, in sé privo di significato, ch’è
associato da un codice, e in un modo arbitrario, a un significato, laddove è
poi il codice che produce un segno ch’è riconosciuto, condiviso e trasmissibile
come sistema di segni, segnico, dalla collettività degli interpretanti, e ciò
che qui interessa è che se la collettività degli interpretanti è data dai
cacciatori-raccoglitori e il sistema segnico è il paesaggio, quest’ultimo è
allora pensato, appropriato e vissuto in queste società come una matrice
cognitiva con la forma d’un ipersegno (ch’è codificato a vari livelli, pratico,
rituale, morale e sociale, tutti fra loro sempre compresenti in un dato momento
storico) ch’è in grado di mettere ordine in un insieme di significanti
materiali, cioè di strutturare ciò ch’è senza nome in una realtà ordinata
dotata di senso, vale a dire di creare con il lavoro immateriale della mente
una nicchia culturale che facilita il lavoro materiale; ora, il modello
cognitivo che coinvolge la sopraddetta gestione dell’ambiente (di fatto la
proiezione di reti sociali su delle reti neurali per arrivare a creare un
dispositivo cervello-mente), cioè che permette con l’attività di foraggiamento
la costruzione di una nicchia culturale da parte di queste società di caccia e
raccolta, ha alla sua base anche delle strutture corticali, che svolgono ruoli
distinti ma complementari nell’atto del riconoscimento del paesaggio, che coinvolgono l’attivazione di
due aree corticali, l’area paraippocampale (Parahippocampal
Place Area, PPA) e la corteccia retrospleniale (Retrosplenial Cortex, RSC), aree che presentano un ruolo centrale
nella contestualizzazione dello sfondo visivo, vale a dire nel riconoscimento e
nella memorizzazione dei luoghi; tanto che, per quanto riguarda il
riconoscimento dei luoghi, queste strutture sono direttamente coinvolte nel
discriminare visivamente nel paesaggio degli elementi che indichino la
direzione da seguire per arrivare a una meta (per esempio, alla predazione),
cioè l’orientamento spaziale (o wayfinding, traducibile come scoperta della direzione), così come
intervengono, per quanto riguarda la memorizzazione dei luoghi, nella mappatura
cognitiva (o cognitive mapping), ossia costruendo una rappresentazione
mentale della realtà (del mondo esterno) attraverso una codificazione sommaria
delle immagini dei luoghi soggetti a una fenomenologia venatoria (questo
perché, per potere essere pragmaticamente utili, cioè riutilizzabili, queste
mappe possono essere solo abbozzate), mappatura che però, all’uso, deve poi
essere integrata di volta in volta; fatto salvo il ruolo dell’ippocampo (v. supra), ch’è una struttura cerebrale al
centro d’un vasto sistema neurale che sottende la rappresentazione e l’uso
delle informazioni riguardanti l’ambiente spaziale, nello specifico delle
differenze funzionali fra le due citate aree corticali, l’area paraippocampale
(PPA), che altro non è che una sottoregione della corteccia paraippocampale
(che si trova medialmente nella parte inferiore della corteccia
temporo-occipitale), è poi coinvolta in una percezione visiva statica, cioè
nella codificazione (percettiva) della
struttura spaziale dei luoghi conosciuti/sconosciuti, cioè al modo in cui sono
disposte le parti del paesaggio (o layout)
e probabilmente nella pianificazione dei percorsi (nei luoghi già mappati e di
cui si recupera la mappa da integrare) ed è inoltre reattiva alle scene
raffiguranti luoghi piuttosto che ad altri tipi di stimoli visivi, per esempio,
a volti o oggetti; mentre la corteccia retrospleniale (RSC, cioè l’area della
corteccia retrostante lo splenio, dove a sua volta lo splenio è l’estremità
posteriore del corpo calloso, area ch’è situata tra la corteccia parietale e
l’ippocampo), tra le altre funzionalità, elabora le caratteristiche
permanenti o più stabili d’un ambiente e, in quanto mappa il conosciuto, ne
diventa la memoria topografica a lungo termine, tanto che la sua
attività
varia in funzione del tipo di conoscenza spaziale recuperato (può, per esempio,
trattarsi di posizione o d’orientamento; e per inciso, la risposta più forte
della RSC si ha poi nel recupero della posizione da parte d’un soggetto); tutto
un insieme che ci permette d’affermare che la costruzione d’una nicchia
culturale ha alla sua base una costruzione di nicchia ecologica (come ipotizza
la Niche Construction Theory, NCT, v.
supra) che ne costituisce l’anteriore
storico in quanto, come s’è cercato di mostrare (con ipotesi, va da sé, da
approfondire e convalidare), è il sistema cognitivo che è stato direttamente
modellato dal sistema ecologico, ragione per cui non è una modellizzazione
sociale quella che determina le visioni del mondo (Weltanschauungen,
v. supra) dei cacciatori-raccoglitori, ma è giusto
la materialità imposta dalla modellizzazione ecologica (che traduce la
sopravvivenza e la riproduzione dell’organismo) che imposta un modello
culturale storicamente determinato nelle sue strategie cognitive, il tutto con
l’iniziale complicità
della prosocialità (legata ai neuroni di von Economo, VEN) che favorisce
un’implementazione delle reti sociali da cui parte la processualità
multifattoriale che s’è cercato sopra di spiegare.
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