LA
BIOSFERA
Dato per assodato che, sulla Terra, la
fascia (o biosfera) che ha permesso per 3,6 miliardi d’anni le condizioni fisiche
e chimiche indispensabili per mantenere in essere i viventi, dunque la fascia che
ha contenuto e contiene tutte le forme di vita attualmente conosciute, presenta
uno spessore di 20 km in tutto, comprese le parti basse dell’atmosfera, le
poche decine di metri (2 km ca.) ch’arrivano dalla pedosfera al sottosuolo e,
nei mari, le fosse oceaniche che della biosfera ne sono il limite inferiore (il
tutto, all’incirca 10 km sopra e sotto la crosta terrestre), e intendendo con
vita il discrimine tra ciò ch’è animato dall’inanimato, e fatto salvo il fatto
che la biosfera, nei limiti della sua resilienza (v. infra), è sempre stata
soggetta a trasformazioni (geologiche o storiche che siano) ch’hanno investito
e la morfologia del pianeta e le variazioni climatiche che, nelle loro
interrelazioni, hanno comportato e speciazioni e estinzioni (cioè l’ambiente e
l’andamento dei processi biotici), assodato e fatto salvo tutto questo, per
spiegare l’origine della vita (il Big
Birth, la grande nascita, o biogenesi, cioè un evento che s’è manifestato
solo una volta, ma i cui effetti di trasmissione ancora governano tutto il
vivente, dai batteri alle piante, dalle muffe a noi) che si presenta in
quest’irrisorio spessore, partiamo dall’ipotesi della panspermia, che suppone
che le sostanze organiche che compongono i viventi siano esogene, vale a dire
formate nello spazio e giunte sulla Terra attraverso asteroidi, o loro
frammenti, come le meteoriti, o comete e, dunque già esistenti nel Sistema
solare prima della comparsa della vita sulla Terra. Per esempio, nella materia
di cui sono composte le nubi molecolari è possibile ritrovare, oltre ad
idrogeno ed elio, tracce di composti capaci di resistere nelle condizioni dello
spazio interstellare, quali monossido di carbonio (CO), formaldeide (H2CO),
alcol metilico (CH3OH), acqua, acido cianidrico (HCN), glicolaldeide
(C2H402, uno zucchero a otto atomi), composti
di silicati (cioè minerali contenenti silicio, ossigeno, magnesio, ferro) e
altro ancora, e visto che questa materia è nelle regioni fredde dello spazio,
composti volatili come l’acqua e il metano (che congela a -182 °C) si
condensano sulla polvere interstellare e possono formare molecole ancora più
complesse, molte simili a quelle che ritroviamo negli esseri viventi. Ora,
nelle meteoriti che cadono sulla Terra resta traccia di questa materia, quale
quella ritrovata in una meteorite caduta in Messico nel 1969 (dove è stato
escluso il rischio d’inquinamento biologico di materiale preesistente), è stata
scoperta la presenza di numerosi aminoacidi (o amminoacidi, cioè sostanze
organiche che rappresentano i costituenti fondamentali delle proteine, v. infra), destrogiri; e, sempre nel 1969,
in Australia, in una rara meteorite di condrite carbonacea, la cui nascita è
stata fatta risalire a 4,6 miliardi d’anni fa (si tratta probabilmente di
frammenti di materia da cui ebbe origine il sistema solare), sono stati trovati
oltre 90 tipi diversi di aminoacidi formatisi nello spazio (8 dei quali
coinvolti nella formazione delle attuali proteine) in una miscela racemica
(cioè suddivisi in parti uguali, anche se la questione è dibattuta), dunque sia
levogiri che destrogiri (v. infra),
cui s’aggiungano complesse sequenze di zuccheri, chiamate polioli, contenenti
più gruppi ossidrile (-OH) e prima d’allora mai rinvenuti sulla Terra e di
alcuni nucleotidi che sono i monomeri degli acidi nucleici (RNA e DNA, v. infra); ancora, in una meteorite
proveniente da Marte (caduto ca. 13 000 anni fa sulla Terra, in Antartide, e
datato 4,5 miliardi d’anni fa, in sigla ALH 84001) si sono ritrovate, ma la
questione è estremamente controversa, forme fossili di microrganismi con un
diametro tra 20 e 100 nm, individuati come nanobattèri, cioè decisamente più
piccoli dei più piccoli batteri conosciuti (la meteorite presenta, infatti,
catene di microscopici cristalli magnetici d’un minerale di ferro, la magnetite
(un minerale raro costituito di ossido ferroso-ferrico, d’un nero lucente e con
evidente polarità magnetica), indistinguibili da quelli che si trovano
all’interno di batteri, detti magnetotattici, che ne fanno uso per orientarsi);
delle micrometeoriti (che sono più piccole di 5×10−4 m) si sa che,
attualmente, portano sulla Terra una quantità di carbonio di ca. 500 tonnellate
all’anno, per cui si può supporre che nei milioni di anni trascorsi prima
d’arrivare a forme di vita (3,9 miliardi di anni fa) una quantità enorme di
carbonio si sia accumulata in misure decine di volte superiori maggiori di
quella presente nella biosfera odierna, e poiché nelle micrometeoriti sono
state individuate sostanze organiche complesse, non si può escludere a priori un
loro significativo contributo all’evoluzione biochimica sulla Terra primordiale.
Ancora, nelle cometa di Halley sono state identificate numerose molecole
organiche, tra cui pirimidine e purine (cioè molecole costituenti le basi
azotate degli acidi nucleici; per esempio, la purina si ritrova in derivati
aminici, quali adenina e guanina che partecipano alla costituzione degli acidi
nucleici) e analisi spettrografiche di composti organici nelle nebulose hanno
mostrato la presenza di 130 molecole organiche (tra cui la formaldeide, H2CO,
e l’acido cianidrico, HCN, che risultano essere le molecole organiche più
abbondanti); e si sa che la formaldeide potrebbe essere un buon punto di
partenza per la produzione di zuccheri, quale il ribosio C5H10O5,
che presenta una formula pari a cinque volte quella della formaldeide, e il
ribosio è un monosaccaride a cinque atomi di carbonio, cioè un pentoso che fa
parte dell’RNA e dell’adenosina trifosfato, ATP, v. infra; così come si sa che l’adenina, C5N5H5,
è una base azotata costituente degli acidi nucleici, RNA e DNA, che mostra una
formula pari a cinque volte quella dell’acido cianidrico), cui s’aggiunga la
presenza dell’aminoacido glicina (H2N−CH2− COOH, C2H5NO2,
forse formato per esposizione ultravioletta di ghiaccio d’acqua contenente
molecole organiche di metano e d’ammoniaca), l’α-aminoacido più semplice e componente
normale nelle proteine (v. infra);
ora, se è pur vero che gli aminoacidi presenti negli esseri viventi terrestri
sono tutti levogiri, il fatto di averne trovati di destrogiri non può impedire
di pensare che l’ambiente terrestre possa averli utilizzati ai primordi
cancellandone la firma, o che forse una sostanza organica esogena abbia casualmente
trovato le condizioni ideali per rendere possibile la conversione dei monomeri
in polimeri (cioè dall’unione, o polimerizzazione, spontanea di più molecole
uguali, o monomeri; in altre parole, aver effettuato il primo passo per la
creazione delle proteine e degli acidi nucleici), vale a dire una
configurazione che ne ha permesso la sussistenza e la riproduzione. In ogni
caso, tutti gli elementi che ritroviamo sulla Terra, con la possibile eccezione
dell’idrogeno, sono stati creati dalla nucleosintesi cosmologica e stellare e
nella fasi finali della formazione del pianeta, nel periodo del bombardamento
meteoritico (impact clusterings, v. supra) iniziato ca. 4,5 miliardi d’anni
fa e durato fino a 3,9 miliardi d’anni fa, sono state portate sulla Terra acqua
(formatasi o negli spazi prima della nascita del Sistema solare o all’interno
della nebulosa che ha portato al Sole e ai suoi pianeti) e sostanze chimiche
ch’evaporano a temperature relativamente basse, quali diossido di carbonio, metano
e ammoniaca, elementi, tutti, che contengono carbonio (C), idrogeno (H), azoto
(N), ossigeno (O), fosforo (P) e zolfo (S), cioè la famiglia CHNOPS, vale a
dire gl’ingredienti fondamentali, o biogenici, per lo sviluppo della vita sulla
Terra, ch’inizia appunto ca. 100 milioni d’anni dopo la fine di questi impatti,
come mostra l’abbondanza d’un isotopo del carbonio 12C nelle rocce
del periodo, indizio certo di resti d’una qualsivoglia forma di vita che ad un
isotopo più pesante del carbonio preferiscono il 12C perché
attraversa più facilmente le membrane cellulari.
Fatta salva quest’ipotesi della panspermia
(che non è attualmente più di tanto accreditata, anche se studiata
dall’esobiologia, che indaga, per il tramite dello studio dei corpi celesti, se
al di fuori della terra esistono meccanismi che possono dare origine alla vita
e se questa può interagire o meno con la vita sulla Terra), si suppone, con la Teoria
della sintesi prebiotica (ossia esente da processi biologici, abiogenica), che
le prime tracce di vita sulla Terra siano probabilmente dovute a una capacità
della materia inorganica ad essere portatrice d’istruzioni d’autorganizzazione
in strutture ordinate (cioè in composti organici fondamentali, quali gli aminoacidi,
le proteine e gli acidi nucleici) idonee a loro volta, con fonti d’energia
esterne, a autoreplicarsi e svilupparsi in una cellula biologica contenente
materiale genetico da cui si sono, in seguito, originati in dati ecosistemi degli
organismi prima monocellulari (Procarioti, Archaea)
e, in seguito, pluricellulari (Eucarioti); e poiché tutti gli organismi viventi
(secondo la Teoria monofiletica) sono organizzati in modo uniforme a partire da
quattro basi azotate che rimandano alla diversità degli acidi nucleici e a una
ventina d’aminoacidi che rimandano a quella delle proteine, sono qui necessarie
alcune precisazioni ch’investono, appunto, gli aminoacidi, le proteine e gli
acidi nucleici; un aminoacido è un composto organico che presenta nella sua
molecola uno o più gruppi carbossilici (cioè i composti organici che contengono
uno o più gruppi formati da un atomo di carbonio, due di ossigeno e uno di idrogeno, -COOH) e uno o più
gruppi aminici (vale a dire
i
composti organici che contengono uno o più gruppi formati da un atomo di azoto
e due di idrogeno, -NH2);
gli aminoacidi conosciuti sono 23 e questi, legati tra loro, formano le proteine (o
protidi o molecole proteiche), ossia quelle molecole, presenti in tutti gli
organismi viventi (animali o vegetali che siano, dai batteri all’uomo e alle
piante, e nel corpo umano esistono almeno 100 000 tipi diversi di proteine, e
l’elenco non è del tutto noto, e in ogni sua cellula sono presenti ca. 20 000
tipi diversi di proteine per un numero complessivo da ca. 100 milioni), che
delle cellule sono tanto gli elementi costitutivi predominanti, quanto gli
elementi indispensabili per il loro funzionamento (questo date le loro
caratteristiche strutturali, energetiche ed enzimatiche, per esempio,
nell’uomo, esse formano moltissime strutture, la pelle, i capelli, le unghie,
le ossa, i tendini, le fibre elastiche contenute nelle pareti delle arterie e
parte del sangue e permettono la contrazione muscolare, la trasmissione degli
impulsi nervosi, svolgono la funzione d’enzimi, cioè, come detto, catalizzano
la maggior parte delle reazioni chimiche ch’avvengono nell’organismo, difendono
il corpo dalle infezioni, trasportano altre molecole e così via, v. anche infra); gli aminoacidi, inoltre, costituiscono importanti intermedi
di numerose reazioni metaboliche, anche se vi sono negli organismi alcuni aminoacidi
in forma
libera
che non entrano nella costituzione delle proteine; sono poi detti essenziali
gli aminoacidi (nel numero di 8 su 20) che gli organismi animali non riescono a
sintetizzare (gli organismi animali, infatti, attraverso la catena alimentare
riescono a sintetizzare solo 12 aminoacidi, mentre gli organismi vegetali, al
contrario, sono capaci di sintetizzare tutti gli aminoacidi da acqua, diossido di
carbonio, azoto e altri composti inorganici, attraverso la fotosintesi); non essenziali
gli altri; gli aminoacidi essenziali e non (nel numero detto di 20) che vanno a
costituire le proteine
rientrano poi nella categoria α (alfa, e sono detti α-aminoacidi) e presentano
la seguente struttura (NH2CHRCOOH):
Figura n. .
Fonte:
dove si nota
che un gruppo carbossilico (-COOH) e uno amminico (-NH2) sono legati a un
atomo di carbonio (detto carbonio α), a sua volta legato un gruppo variabile
(R; per esempio, nell’α-aminoacido più semplice, la glicina, il gruppo R è
costituito da un solo atomo di idrogeno, mentre tutti gli altri presentano
gruppi R, detti radicali, più complessi, costituiti da atomi di carbonio,
idrogeno, ossigeno, azoto e zolfo); un aminoacido, come sopra detto, può poi
avere una conformazione levogira (L, cioè che devia il piano della luce
polarizzata verso sinistra, in senso orario) o destrogira (D, che devia il piano
della luce polarizzata verso destra, in senso orario), e qui bisogna
sottolineare che in tutti i composti viventi gli α-aminoacidi sono levogiri (in
formula, L-α-aminoacidi); se andiamo ora a livello dei ribosomi, cioè degli
organelli fondamentali all’interno delle cellule di organismi Procarioti (unicellulari e primitivi) o Eucarioti
(pluricellulari ed evoluti) che presentano una struttura differenziata cui è
delegata la funzione della sintesi nucleica, gli L-α-aminoacidi s’uniscono in
sequenze lineari formando quella ch’è la struttura primaria delle proteine (e
questo è possibile grazie al processo della sintesi proteica, che procede
secondo le informazioni contenute nel e dettate dal DNA, con la mediazione
dell’RNA, cioè dagli acidi nucleici, v. infra)
e affinché due alfa-aminoacidi s’uniscano, il gruppo -COOH d’un aminoacido deve
reagire con il gruppo -NH2 d’un altro aminoacido
adiacente (cioè si deve formare un legame tra l’atomo di azoto N del gruppo
amminico e l’atomo di carbonio C del gruppo carbossilico); con questa reazione,
detta di condensazione, si libera una molecola d’acqua e tra i due aminoacidi
si costituisce così un legame covalente -CO-NH-, detto peptidico, come mostra
la figura seguente;
Figura
n. . Fonte: Cavalli Sforza e Cavalli Sforza,
2010a, p. 15;
reazione che
deve ripetersi sino alla conclusione della citata sintesi proteica che porta
così alla formazione d’una lunga catena che ci dà il polipeptide (che
può contenere da 15-20 aminoacidi fino a molte migliaia); per diventare
una proteina in grado di svolgere la sua funzione specifica, il polipeptide
subisce in molti casi delle modificazioni ad opera d’enzimi (mentre i citati
gruppi R dei diversi aminoacidi della catena interagiscono poi tra di loro a
causa delle cariche elettriche di cui sono portatori e della loro composizione
chimica, formando o legami chimici deboli, tipo legami idrogeno, o forti, tipo
ponti disolfuro, legami che determinano poi la morfologia a tre dimensioni del polipeptide, ossia le sue modalità di
ripiegamento, di torsione, là dove gli aminoacidi idrofobici sono rivolti verso
l’interno e quelli idrofilici verso l’esterno, liberi così d’interagire con
altri composti); i polipeptidi, tramite legami deboli, possono poi unirsi
ad altri polipeptidi (uguali o differenti, non importa) formando una proteina
composta da più subunità; una proteina può dunque definirsi come una
macromolecola formata da una o più catene non ramificate (ma spazialmente
ripiegate) d’aminoacidi di diverse specie (con un numero complessivo che va da
una cinquantina a migliaia di unità) uniti tra loro da legami peptidici in modo
che risultano liberi solo il gruppo -NH2 del primo aminoacido e quello -COOH
dell’ultimo; da ogni terzo atomo di carbonio sporge poi dalla catena un residuo
dei diversi aminoacidi (indicati con il nome di catene laterali) che, grazie
alla loro natura chimica, al loro numero e alla loro disposizione localizzata
nella sequenza caratterizzano la proteina stessa; ora, la struttura primaria
della proteina è data da una sequenza d’aminoacidi (ch’è specifica per ogni
proteina), mentre la sua struttura secondaria è data dall’esistenza, in
porzioni consecutive della stessa catena peptidica, di legami idrogeno tra i
gruppi NH e CO che la portano a una torsione nello spazio ch’assume una
configurazione finale ad elica (e con le citate catene laterali disposte
all’esterno); queste eliche possono poi ripiegarsi nello spazio a tre
dimensioni secondo tre modalità, cioè o affiancate l’una all’altra in senso
longitudinale, o intrecciate l’una all’altra in spire, o avvolgersi, infine,
con morfologie a sfera o ellissoidi, con la clausola ch’ogni specie proteica
deve ripresentare poi sempre la stessa modalità di ripiegamento spaziale
adottata; per quanto riguarda, infine, gli acidi nucleici, essi sono di due
tipi, l’acido desossiribonucleico, o DNA, ch’è il depositario del patrimonio
genetico contenuto in ogni cellula ed è costituito da due filamenti
(complementari) avvolti a doppia elica, e l’acido ribonucleico, o RNA, che
presenta una solo filamento (e intendendo con filamento la catena
polinucleotidica d’una molecola di DNA o RNA, cioè polimeri formati da molti nucleotidi, e dove
un nucleotide è formato dalla combinazione di tre molecole, una di acido
fosforico o gruppo fosfato, P, una di zucchero pentoso, vale a dire a cinque
atomi di carbonio, ch’è presente come ribosio nell’RNA e come desossiribosio
nel DNA, Z, e quattro contenenti azoto e chiamate basi, o basi azotate, B (esse
sono l’adenina, la timina, la guanina e la citosina), tre di loro uguali nel
DNA e RNA e una diversa per ogni acido nucleico, v. infra; il filamento è poi una catena in cui ciascuna molecola P si
alterna con una molecola Z e dove a ogni Z è attaccata una B disposta in modo
da sporgere nel filamento, come mostra la figura seguente:
[…]
) e ch’è
responsabile della trascrizione e della traduzione del messaggio genetico
(quest’ultimo presenta tre diverse tipologie, pari a tre diverse conformazioni
spaziali, l’RNA messaggero, mRNA; l’RNA ribosomiale, rRNA, e l’RNA di trasferimento,
tRNA; v. infra); la struttura fondamentale di questi acidi nucleici
è data, come sopra visto, da un filamento in cui sono presenti molecole di uno
zucchero che s’alternano a gruppi fosfato (lo zucchero presente nel DNA è il
desossiribosio e nell’RNA il ribosio, v. supra),
legata poi a una base azotata (che nel DNA s’appaia da una filamento all’altro
e rende complementari i due filamenti. A questo proposito, si deve sapere che
l’alfabeto genetico, ch’è uguale in tutti i viventi (che è dire che si presenta
lo stesso tipo d’acidi nucleici, DNA e RNA, che dà poi origine a genomi tra
loro diversi, cioè a ordinamenti e strutturazioni dell’alfabeto diversamente
assemblate e articolate, in quanto è diversa l’informazione genetica necessaria
a implementare da una cellula duplicata un organismo vivente che deve a sua
volta duplicarsi) è dato da quattro nucleotidi, che contengono l’informazione
ereditaria,, segnati con le lettere A, T, G, C, che indicano, rispettivamente
le già citate adenina, tiamina, guanina e citosina, che s’assemblano a coppia
su ogni filamento con una sintassi obbligata (imposta dai legami chimici), ch’è
replicata in ogni vivente, in cui A s’associa con T e G con C, per cui se un
filamento mostra, per ipotesi, la sequenza ATGGTGC, l’altro avrà TACCACG); la sequenza con cui sono
disposte le basi azotate contiene le informazioni presenti negli acidi
nucleici, ed è questa la sequenza ch’è interpretata dalla cellula come una
sequenza d’aminoacidi e che permette poi alla cellula la sintesi delle proteine
(l’interpretazione s’attualizza grazie a un codice genetico ch’è identico in
tutte le cellule di tutti gli
organismi viventi, e una cellula legge e interpreta solo quei geni che hanno le
informazioni che le sono necessarie per potere svolgere la sua specifica funzione,
ma prima che una cellula possa leggere/interpretare/tradurre un gene è
necessario che venga effettuata una copia nel nucleo e che i due filamenti del
DNA si separino in modo che le coppie A/T e G/C siano separate giusto nel punto
in cui si trova il gene da leggere, ed è a questo punto che in pochi secondi un
duplicatore situato nel nucleo, l’RNA polimerasi, utilizza uno dei due
filamenti come stampo per copiare la sequenza di A,T, G e C specifica, con la
differenza che nella sequenza di lettere nella copia le timine sono rimpiazzate
dall’uracile, U, come dire che la sequenza originale di partenza si compone di
A, T, G, C, mentre la copia presenta A, U, G, C, una sequenza che non è più
composta dal DNA, ma bensì dall’RNA, copia ch’è poi spostata al di fuori dal
nucleo cellulare dov’è utilizzata dai ribosomi che leggono la copia del gene,
lettura ch’implica che in una catena di basi, cioè in un gene di numero
variabile da 500 a diverse centinaia di migliaia, la lettura consequenziale ne
sia effettuata con tre lettere per volta, per esempio se una copia ipotetica
presenta una catena composta da GUGCAC, i ribosomi leggeranno i sintagmi GUG e
CAC in sequenza, dove ciascuna sequenza a tre, detta codone, o tripletta, rappresenta
un dato e determinato aminoacido, e quando i ribosomi leggono una copia del
gene per triplette sanno quale dei 20 α-aminoacidi, v. supra, è associato ad ogni codone, cioè, per continuare l’esempio,
che GUC corrisponde alla valina e CAC alla istidina o CTA la leucina; ora, è
quest’interpretazione, quella che permette alla cellula di tradurre i codoni in aminoacidi, ch’è detta codice genetico e va
da sé che un solo errore di trascrizione nella copia del gene può generare una
proteina difettosa, cioè una sequenza di aminoacidi, detta mutazione, in cui
uno è errato, con le conseguenze negative del caso (o positive, se la mutazione
porta a un miglioramento nella formazione della proteina, con la possibilità
che l’organismo mutato la trasmetta); si ricorda, ancora, che ogni nucleo di cellula
contiene, avvolti su delle particelle di natura proteica, o nucleosomi, poi
riavvolte con il DNA, quasi due metri di DNA, lunghezza che corrisponde a 3,2
miliardi di lettere sufficienti a consentire 103 480 000 000 possibili
combinazioni, e se si tiene conto del fatto che il nostro corpo contiene ca. 10
000 trilioni di cellule s’arriva alla cifra ch’indica quanto DNA possediamo,
ca. 20 000 000 di chilometri; il 97% del DNA contenuto nella cellula non è pero
soggetto a trascrizione, cioè non è codificante, e non si sa, a tutt’oggi,
quale sia il suo ruolo, tanto che comunemente lo si chiama DNA spazzatura, junk DNA; l’intera informazione genetica
che caratterizza ogni organismo vivente, suddivisa in unità ereditarie distinte
dette geni, che nell’organismo umano sono ca. 35-40 000, e codificata dal DNA,
ci dà poi il genoma); sono gli acidi nucleici che
presentano dunque i geni, cioè i tratti che contengono l’informazione genetica
e la sua traduzione operativa, geni (ereditabili) il cui ruolo è poi quello di
presiedere al metabolismo della cellula, alla regolazione della sintesi delle
proteine e al controllo coordinato delle cellule, infine, dei processi di
divisione cellulare, cioè della crescita dell’organismo, di un tutto superiore
sì alle parti che lo compongono, ma che non esisterebbe senza la
multiprocessualità coordinata delle reazioni chimiche che s’è cercato di
descrivere (per inciso, con metabolismo s’intende l’insieme delle reazioni
chimiche e degli effetti della richiesta energetica concomitante alle reazioni
e pari alle trasformazioni delle sostanze, reazioni che avvengono nelle cellule
e nei tessuti degli organismi, animali o vegetali che siano, e che ne
permettono la conservazione e il rinnovamento in un ciclo vitale). Ripetiamo,
per amore di comprensione, tutto il processo attraverso tre figure (in gioco
c’è una cellula del corpo umano), a ognuna delle quali segue una spiegazione.
Figura
n. . Fonte: Altschuler, 2005, p. 132.
Il nucleo di ciascuna cellula contiene 23 coppie di cromosomi, nei quali è
contenuto il genoma (gli istoni, in figura, sono un gruppo omogeneo di proteine
semplici a carattere basico che costituiscono la struttura dei cromosomi, o
proteine strutturali su cui s’avvolge il filamento a doppia elica del DNA).
Figura
n. . Fonte: Altschuler, 2005, p. 150.
Salvo le cellule germinali (o gameti, che presentano un numero cromosomico
aploide, cioè con una
sola serie di cromosomi, uguali nella femmina, XX, e diversi, XY, nel maschio), ogni cellula
contiene 23 coppie di cromosomi (cioè è diploide); ogni cromosoma e costituito
da una molecola di DNA avvolta e condensata in una matrice proteica; ogni
filamento di DNA è poi un polimero (vale a dire una struttura composta di più
elementi analoghi) naturale formato da un catena di nucleotidi, ciascuno dei
quali comprende un gruppo di fosfati, uno zucchero (desossiribosio) e una base
azotata (adenina, tiamina, citosina e guanina, A, T,C e G); il DNA si presenta
sotto forma di una doppia elica estremamente regolare, nella quale un filamento
s’unisce all’altro attraverso un legame idrogeno tra le coppie adenina e
tiamina, A-T, e citosina e guanina, G-T;
ciascun filamento della doppia elica funge da stampo per la sintesi d’un nuovo
filamento, e la replicazione produce due doppie eliche figlie tra loro
identiche, ciascuna delle quali e la copia esatta dell’unico DNA parentale.
Figura
n. . Fonte: Altschuler, 2005, p. 45.
Nel nucleo d’una cellula, l’RNA è prodotto per trascrizione, in un processo
simile a quello di replicazione del DNA; l’RNA sostituisce però il
desossiribosio con un altro zucchero, il ribosio, e la timina con un’altra
base, l’uracile, U, ed è di solito formato da un solo filamento; un tipo di
RNA, l’RNA messaggero, o mRNA, trasferisce nel citoplasma della cellula le
istruzioni per la sintesi proteica contenuta nel DNA; qui ciascun codone
dell’mRNA, attaccandosi in modo temporaneo a un organulo citoplasmatico, il
ribosoma, si lega (sotto forma di RNA ribosomiale, o rRNA, non designata in
figura) a una forma specifica di RNA di trasferimento, o tRNA, contenente un
codone di basi complementari e il tRNA, a sua volta, trasferisce un singolo
aminoacido nella catena proteica in formazione, come dire che ciascun codone
determina in modo univoco l’aggiunta d’un aminoacido alla proteina.
Ciò detto, ritorniamo al problema, cioè a cosa ha permesso l’incoatività di
questo processo, illustrandone da un punto di vista statistico le modalità di
autoformazione spontanee (che di qui bisogna partire) usando l’esempio del
collàgene, una comune e abbondante proteina ch’è costitutiva delle fibre del tessuto
connettivo, osseo e cartilagineo nei vertebrati, e ch’è formata da tre catene
polipeptidiche (ciascuna delle quali lega ca. 1000 aminoacidi), cioè da tre
filamenti che spazialmente s’avvolgono uno sull’altro a formare una tripla
elica; ora per arrivare a sintetizzare il collagene sono necessari 1055 aminoacidi,
dati, questi, in una sola ed unica sequenza prestabilita (cioè corretta), e le
probabilità che questa sequenza s’autoassembli spontaneamente sono a dir poco
molto basse, per non dire nulle; per valutare cosa vuol dire l’occorrenza di
1055 aminoacidi in sequenza corretta, ci s’immagini una slot machine che, invece di 3 o 4 ruote, ognuna con pochi simboli
in rotazione, ne abbia 1055 e che ogni ruota abbia ben 20 simboli (uno per ogni
L-α-aminoacido), e ci s’immagini, ancora, quante volte sarà necessario
abbassare la leva affinché 1055 simboli si presentino nella sequenza corretta
(tenendo fermo il numero dei simboli per ruota e facendo i conti con soli 200
ruote, la possibilità che si sistemino tutti in una sequenza prescritta è di 1
seguito da 260 zeri, 10260); ecco perché spiegare una presunta
capacità della materia inorganica ad essere creatrice di vita è difficile,
tanto che le teorie che la spiegano sono solo tentativi, e tra queste un gruppo
segue un orientamento evolutivo che vede prima la cellula e, a seguire, le
proteine e gli acidi nucleici, mentre un’altra teoria segue un processo
evolutivo inverso che parte dagli acidi nucleici, passa attraverso le proteine
e arriva alle cellule; in ogni caso s’arriva o si parte per arrivare a un
qualcosa ch’è portatore d’istruzioni d’autorganizzazione in strutture ordinate,
e questo qualcosa non è per niente facile da realizzare, ai limiti
dell’impensabile se si valorizza il fatto che non è sufficiente la sequenza
corretta degli aminoacidi perché, quand’anche avesse raggiunto questa
complessità, la proteina non servirebbe a niente se non fosse in grado di
riprodursi, cioè se non si chiamassero a concorrere le capacità di replicazione
del DNA, che sarebbe a sua volta inutile se non ci fossero le proteine e la
messa in cellula del materiale genetico; per cui, è difficile sapere quale sia
stata la meccanica spontanea di quest’inizio che ha permesso l’imponderabile
formazione di composti organici (cioè di molecole formate da atomi di carbonio
legati a elementi quali l’idrogeno, l’ossigeno e l’azoto, con l’aggiunta di
zolfo, fosforo, calcio e ferro), la possibilità della loro autoreplicazione e,
infine, l’integrazione in una cellula del materiale genetico, e questo anche
supponendo un metabolismo primigenio che si sia evoluto con un’archeoatmosfera riducente
in una zuppa primordiale grazie a forme molecolari che si sono accumulate per
sintesi, oppure che si sia evoluto nei fondali oceanici nei pressi delle bocche
termali, ad alte temperature e pressioni, sulla superficie dei minerali di
pirite, il tutto dovuto a un processo di riduzione del diossido di carbonio
contenuto nelle acque, dunque grazie a un’interfaccia tra un solido e un liquido
che ha garantito le reazioni chimiche necessarie, ossia la fissazione del
carbonio con un metabolismo di superficie (ipotesi, queste, avanzate secondo la
logica di formazione cellule/proteine/acidi nucleici); la figura seguente
mostra uno di questi ambienti estremi (queste bocche vulcaniche dei fondali
oceanici sono soprannominate spesso come fumarole nere perché i minerali
disciolti nell’acqua condensano e formano nubi nere non appena l’acqua che li
trasporta si scontrano con l’acqua fredda che li circonda):
Figura
n. . Fonte: Clark, 2010, p. 127.
Oppure
che il metabolismo primigenio si sia evoluto grazie al ruolo giocato dai
microcristalli inorganici contenuti nell’argilla che hanno preceduto la
comparsa degli acidi nucleici, microcristalli in cui gli ioni dei metalli sono
portatori d’una informazione genetica, cioè autoreplicantesi, come lo saranno,
a seguire, le basi nucleotidiche d’una molecola di RNA (e in grado di dare teoricamente
origine, nell’interazione con delle molecole intrappolate nell’argilla, a
materiali protorganici a loro volta autoreplicantesi secondo le regole imposte
dall’argilla madre), oppure grazie a un avvio semplificato in presenza di pochi
aminoacidi e pensando che in
grado di autoreplicarsi, in un ambiente complesso, sia stata inizialmente una
forma di RNA, cioè un polimero ch’assolve e la funzione degli acidi nucleici
(cioè quella d’essere i depositari dell’informazione da replicare) e, in pari
tempo, quella delle proteine (ossia quella di permettere la catalizzazione),
simultaneità che risolve il problema se si sia evoluta prima l’informazione
genetica o la catalisi (ipotesi, queste ultime, avanzate secondo la logica di
formazione acidi nucleici/proteine/cellule); nell’assenza di certezze,
s’accetti dunque il caso dell’ultima teoria citata, vale a dire che una forma
di vita che presenti come struttura di base una forma primitiva, dovuta a
reazioni prebiotiche, di RNA sia più semplice da realizzarsi, e che questa
sorta di paleo-RNA possa non solo replicarsi, cioè creare copie di se stesso,
ma, primo, possa trasmettere anche (in pari tempo) alle copie la capacità di
replicarsi sfruttando i prodotti fisico-chimici dell’ambiente circostante (come
dire che questo paleo-RNA si presenta come molecola in grado e di
autocatalizzare, cioè autoaccelerare, la propria sintesi e di contenere l’informazione
genetica, cioè di presentare contemporaneamente capacità metaboliche e
ereditarie, genetiche, senza l’ausilio d’una proteina); secondo, può presentare
una transizione evolutiva (dovuta forse alla cooperazione fra paleo-RNA ad
assemblarsi in rete, secondo la logica che A aiuta B ad autoassemblarsi, B aiuta
ad assemblarsi C e C aiuta A, cioè creando efficienti cicli d’autoassemblaggio
e di selezione cumulativa e adattativa capace, per esempio, d’associarsi con
proteine attraverso un rapporto parassitario prima, mutualistico e capace d’equilibrio
stabile poi, cioè omeostatico, attraverso dispositivi capaci di regolare il
variare delle condizioni esterne in quanto finalizzate a uno scopo previsto dal
programma di funzionamento stesso) passando dallo stato di precursore ancestrale
del materiale genetico a RNA e, a seguire, di DNA, ossia di passare a una
modalità biochimica dominata dalle proteine, cui spettano compiti metabolici e
strutturali, e in cui RNA e DNA hanno il ruolo d’immagazzinare ed elaborare l’informazione
genetica ereditaria; in ogni caso, supposto che prima di questi batteri sia
esistita un’archeologia chemiosintetica che s’è manifestata prima
dell’esistenza delle cellule procariote e eucariote da noi conosciute (anche se
oggi, più che la dicotomia Procarioti/Eucarioti che si basa sulla morfologia
percepita degli organismi, cioè nella suddivisione tra cellule semplici e
cellule complesse, si preferisce la tricotomia basata sulla comparazione, non
percepibile con l’osservazione diretta, delle sequenze molecolari di RNA
ribosomiale, tricotomia data dagli Eubatteri, Bacteria, che con linguaggio comune, si chiamano batteri; dagli
Archeobatteri, Archaea, che non sono
organismi procarioti né eucarioti e sono così chiamati perché, come visto, vivono
in habitat con condizioni di vita
estreme, e dagli Eucarioti, Eukarya, ossia
quelli che comprendono gli organismi pluricellulari; questi tre domini, in cui
i primi due, calcolando tutta la massa degli esseri viventi, dai batteri alle
piante e agli animali, cioè a livello di biomassa, sono più dell’80%, sono poi
illustrati dall’albero filogenetico universale della vita raffigurato a seguire,
in cui gli uomini rientrano negli animali, Animalia,
cioè in un frammento collaterale di un misero 20% che totalizza la biomassa
degli animali e anche quella di tutte le piante, Plantae, e dei funghi, Fungi,
a sottolineare che la più estesa biodiversità sulla Terra appartiene ai batteri
e agli archeobatteri, e senza dimenticare che questi sono stati dominanti per più
della metà della vita sulla Terra, cioè ben 2 miliardi d’anni e ch’è necessario
aspettare un altro miliardo d’anni per vedere animarsi la storia evolutiva
degli Eukarya, cioè la nascita di
nuovi taxa:
Figura
n. . Fonte: Creative Commons)
e che ciascuna delle linee cellulari
appena citate sia evoluta da primo organismo ancestrale cellulare che avrebbe utilizzato l’RNA, come
mostra la somiglianza nella biochimica di tutte le cellule odierne (infatti, dal
punto di vista della filogenesi, con rare eccezioni, il codice genetico è il
medesimo dagli organismi semplici a quelli complessi, e lo stesso dicasi del processo
di sintesi delle proteine; quello che cambia è il genoma, le cui differenze si
presentano tra specie diverse ch’evolvono da un antenato ancestrale, tanto che
si confrontano uno ad uno i nucleotidi del DNA di geni corrispondenti nelle
diverse specie s’ha una misura del loro grado di parentela, e più la differenza
è piccola, più la parentela è avvicinata), e che avrebbe dato origine all’evoluzione
attuale dei tre domini sopra citati e ch’è conosciuto con il nome di progenote;
quest’ultimo antenato comune universale (Last
Universal Common Ancestor) che sta alla base dell’albero evolutivo è una
cellula ancestrale che sarebbe vissuta nei fondali oceanici nei pressi d’una
zona tettonicamente attiva e vulcanica da dove, a tutt’oggi, fuoriesce da delle
fenditure dell’acqua alcalina fortemente riscaldata e povera di particelle
cariche, o protoni, che si mescola all’acqua oceanica che, invece, n’è ricca,
ed è in quest’ecosistema, cioè nei pressi di queste bocche geotermiche o
idrotermali, che una cellula avrebbe elaborato una membrana porosa capace di
sfruttare il differenziale di concentrazione dei protoni per produrre una
molecola d’ATP, cioè l’adenosina trifosfato, che è l’energia che serve per i
processi metabolici della cellula (v. infra),
membrana ch’appunto avrebbe utilizzato la sua porosità per regolare il flusso
in entrata e in uscita dei protoni; il passo successivo sarebbe stato quello
d’una colonizzazione d’altri ecosistemi ch’avrebbe portato alla modificazione
della membrana in vista d’una diversa modalità di produzione d’ATP per il
tramite d’una diversa pompa protonica in grado d’espellere i protoni e
consentirne il flusso, dunque archeobatteri e batteri, il passaggio dagli
ambienti alcalini a quelli acidi e via via a seguire; oppure, è un’altra
ipotesi, che agli inizi della vita vi sia stato non un organismo ancestrale,
bensì una comunità d’organismi che ha sfruttato la meccanica del trasferimento
genetico orizzontale per scambiare materiale genetico che ha reso possibile una
condivisione dell’informazione genica, cioè un superorganismo con un unico pool genico che scompare quando un solo
organismo sfrutta la meccanica del trasferimento genetico verticale, cioè il
meccanismo dell’ereditarietà ch’implementa processi di selezione e
competizione, ossia ancora una volta un progenote, un organismo ancestrale;
progenote che, per riassumere il percorso in uno schema, avrebbe dato vita ai
primi organismi ch’utilizzano materia bioinerte (attraverso un processo d’abiogenesi
o per panspermia, impossibile deciderlo) per generare l’RNA che, diventata la
prima molecola in grado di autoreplicarsi, ha sviluppato organismi con genoma a
RNA e sistemi biochimici relativamente semplici che, a loro volta, si sono
evoluti in organismi più complessi in grado di sintetizzare proteine e, infine,
in cellule con genomi a DNA e apparati biochimici complessi; ebbene, organismi che
si possano far risalire a questa genealogia biochimica sono stati ritrovati in
rocce che risalgono a 3,85 miliardi d’anni fa, a ridosso della formazione della
crosta terrestre, e presentano la forma più arcaica di vita cellulare finora
ritrovata; si tratta d’organismi unicellulari eterotrofi (cioè inadatti a
sintetizzare in proprio composti organici) capaci di ricavare energia per il
loro metabolismo da reazioni chimiche inorganiche (cioè attraverso la
trasformazione di composti dello zolfo) e di vivere in condizioni anaerobiche
ed estreme; in condizioni anaerobiche perché, come detto sopra, dovrebbero
vivere senza ossigeno, allora non dato
in un’atmosfera ricca di diossido di carbonio (e la cui assenza, per non
avvenuta ossidazione, avrebbe dovuto favorire questi processi di formazione
abiotica della vita); in condizioni estreme perché gli habitat che dovrebbero permettere la vita di questi che sono batteri
a tutti gli effetti manifestano, a dire poco, l’essenza dell’inospitalità; nell’impossibilità
di descrivere quest’inospitalità d’epoca, si può fare un elenco di queste
condizioni estreme oggi per averne un’idea, ciò che ci porta a parlare dell’assenza
di luce solare (propria a organismi viventi al di sotto della soglia della cd.
zona fotica situata a 200 m); delle temperature molto basse o molto elevate (da
-20 °C fino a un massimo di 120 °C); delle acque con alti gradienti di
salinità, o con pH alto, cioè acide, o sature di zolfo (dunque con un
metabolismo fondato sulla chemiosintesi e non sulla fotosintesi), degli
ambienti sotterranei ad alte pressioni; per
continuare l’esempio, oggi abbiamo archeobatteri in grado di vivere
nelle pareti delle bocche idrotermali, buie, calde fino a 350-400 °C e ad
altissima pressione, sul fondale degli oceani, oppure nelle profondità dei
ghiacci antartici, in assenza d’acqua liquida, o in rocce profonde della
litosfera riscaldate da processi geotermici, giacché s’è scoperto (ora come
allora) che fintanto che ci sono acqua allo stato liquido e una fonte d’energia
chimica, e quale che sia il gradiente d’ostilità d’un habitat, c’è possibilità di vita stabile (attualmente, infatti, ci
sono organismi che possiamo immaginare simili ai paleobatteri d’allora, cioè i citati
archeobatteri, quali gli ipertermofili, che vivono ai limiti dei 121 °C, e che
morirebbero se la temperatura dell’acqua che li circonda scendesse al di sotto
dei 90 °C; i criofili, che vivono fino ai limiti dei -20 °C; gli alofili, che
vivono in ambienti altamente saturati di sale; gli acidofili, che vivono in pH
alti; i barofili, che vivono sottoposti a pressioni superiori a mille atmosfere,
i litotrofi che si cibano dei minerali contenuti nelle rocce, le Halomonadaceae che incorporano arsenico
nel loro DNA etc., cioè tutta quella
categoria d’organismi, oggi detti anche estremofili, che trova in queste condizioni
di passaggio dalla non vita alla vita il suo ecosistema o habitat congeniale e che ci permette, come detto, d’immaginare o
d’esemplificare quale può essere stato il passaggio dalle cellule più semplici
a quelle più complesse); ora, si presume che questo mondo, in cui questi batteri
sono l’unica forma di vita, abbia avuto una durata di poco meno d’un miliardo
d’anni e che solo 3,1 miliardi d’anni fa si siano evoluti, nelle acque al di
sopra della litosfera, degli organismi capaci di sfruttare l’energia solare, la
sua radiazione elettromagnetica, attraverso un processo di fotosintesi (e per
questo detti fotoautotrofi, autotrofi perché adatti a sintetizzare composti
organici a partire da sostanze inorganiche, fotoautotrofi perché utilizzano nel
loro metabolismo la luce solare); questi organismi unicellulari, che
s’aggregano in colonie o formano filamenti, probabilmente evoluti dai sopra
citati batteri (cioè estremofili chemiosintetici e anaerobici d’epoca risaliti
nelle acque di superficie), sono detti cianobatteri, e sono organismi (detto in
modo semplificato) capaci d’utilizzare l’acqua e il diossido di carbonio come
fonte chimica e la luce solare come fonte di energia, di trasformare cioè in
materia organica (carboidrati) il carbonio ricavato dalla combinazione di
diossido di carbonio e d’acqua e di liberare ossigeno molecolare, O2,
come prodotto di rifiuto (in un processo detto di fotosintesi ossigenica),
ossigeno che, in quanto più leggero dell’acqua in cui è stato prodotto, si
libera poi nell’atmosfera, evento che rappresenta la più importante, e tuttora
importante, innovazione metabolica nella storia della vita sulla Terra (fotosintesi
che non è però da confondere con quella delle piante, ch’è episodio evolutivo
più tardo, v. infra, anche se questa
fotosintesi s’è probabilmente evoluta per endosimbiosi quando un cianobatterio
ha colonizzato un protista, v. infra).
Ossigeno che, nell’arco temporale tra i 2,5 e i 1,75 miliardi d’anni fa, si
lega chimicamente con il ferro per formare ossidi ferrici ch’arrivano a
rilasciare, sui fondali degli oceani, dei depositi a strati di rocce ferrose; oltre
a ciò, le colonie di cianobatteri, riuscendo a intrappolare nei loro tappeti
mucillaginosi, e non solo nei fondali bassi, microparticelle di residui
carbonatici (carbonato di calcio) e residui organici, sono poi in grado di cementare
il tutto, strato su strato, in loco formando delle strutture che saranno poi sedimentarie
per diagenesi (v. supra) e denominate
Stromatoliti, una specie di roccia calcarea viva che si sviluppa in modo
estremamente lento (in verticale durante il giorno, cioè a contatto con la
luce, in orizzontale la notte; si stima che un metro quadrato di queste rocce
riesca a contenere una colonia di ca. 3 miliardi di cianobatteri e che per
arrivare a un metro d’altezza siano necessari due miliardi d’anni) che dà
origine a un mutuo rapporto di vantaggio fra i cianobatteri che vivono in
superficie e i batteri, oggi archeobatteri, che vivono nei fondali, di fatto il
primo ecosistema nella storia della Terra. Esauriti i legami chimici
dell’ossigeno con i minerali riducibili (tra cui dominante è il ferro)
disponibili negli oceani, il nuovo ossigeno molecolare di scarto prodotto dai
cianobatteri si rende disponibile e inizia ad accumularsi nell’acqua degli oceani
e a diffondersi nell’atmosfera ossidando in pari tempo i minerali riducibili
anche sulle terre emerse, aumento in percentuale dell’ossigeno nelle acque che
provoca poi la prima grande estinzione di massa (v. infra), quella degli organismi anaerobi che si riducono quindi alla
categoria degli estremofili adattatasi a vivere nelle nuove condizioni;
nell’atmosfera l’ossigeno modifica l’atmosfera primigenia con la sua permanenza
e con l’ossidazione del metano a diossido di carbonio che, avendo un effetto
serra (cioè surriscaldante) inferiore a quello prodotto dal metano, e a fronte
d’una radiazione solare più debole dell’attuale (v. supra) partecipa a un raffreddamento che sfocia in una glaciazione
che s’estende su tutta la Terra (tra 2,4 e 2,1 miliardi d’anni fa); a seguire, affinché
quest’ossigeno prodotto per fotosintesi sia in grado di modificare la
troposfera è stato necessario il trascorrere di 1,5 miliardi d’anni (e s’è
passati dallo 0,1% d’ossigeno presente nell’atmosfera a percentuali pari o
superiori al 10%; oggi l’ossigeno, come sopra detto, è al 21%), dopo di che, a
partire da 800-600 milioni d’anni fa si sono presentati nei mari degli
organismi pluricellulari (ciò che rappresenta uno dei più importati passaggi
evolutivi nella storia della vita sulla Terra), cioè degli organismi in grado
di sfruttare l’ossigeno (o specie aerobie) per trasformare i nutrienti e ricavarne dell’energia ch’è decisamente
superiore a quella utilizzata dalle specie anaerobie, di fatto la possibilità
d’evolversi degli organismi Eucarioti (fino all’uomo), il tutto nel mentre
nella stratosfera si forma la fascia d’ozono in grado di preservare queste
forme di vita dall’azione distruttiva (o mutagena) dei raggi ultravioletti
provenienti dal Sole (v. supra); solo
400 milioni d’anni fa ca. questi organismi marini hanno iniziato a colonizzate
le terre emerse dando origine a altre forme di vita; ed è qui necessario un
inciso che valorizzi i termini procariote e eucariote e di ciò che sta alla
base del tutto, la nozione di cellula; partiamo dalla chimica della cellula,
chimica che si basa prevalentemente sui composti del carbonio, su molecole
organiche quali le proteine, i carboidrati, i lipidi e gli acidi nucleici e si fonda quasi esclusivamente su reazioni
chimiche che hanno luogo a temperature normali in soluzione acquosa, come dire
che la cellula è composta da un’alta percentuale d’acqua (da poco più del 50%
fino al 98%), e il restante da molecole proteiche (che comprendono proteine
strutturali ed enzimi), da carboidrati (da cui si ricava l’energia necessaria
alla vita della cellula), da lipidi, che costituiscono una riserva d’energia; da
acidi nucleici, che controllano i meccanismi ereditari della cellula, cui
s’aggiungano molecole organiche più semplici e ioni inorganici; carboidrati,
proteine, lipidi e acidi nucleici, sono dunque le impalcature che sostengono le
cellule, cioè il vivente, e sono poi tutte molecole organiche, o biomolecole,
legate, come detto, al carbonio; i carboidrati (detti anche zuccheri o, più correttamente,
glucidi o glicidi) sono composti di carbonio, idrogeno e ossigeno, e sono,
nella maggio parte, multipli pentagonali o esagonali di CH20, per
esempio il ribosio ne ha cinque, C5H10O5, il
glucosio sei, C6H12O6, e possono comporre
lunghe catene di molecole dette polimeri, ciascuna delle quali prende il nome
di monomero, diffuse sia nel mondo vegetale (saccarosio, amido, cellulosa etc.) che in quello animale (glicogeno,
chitina etc.); sono poi sia zuccheri
semplici, sia polisaccaridi, cioè lunghe catene di molecole di zuccheri; i
lipidi (o grassi), composti anch’essi di carbonio, idrogeno e acqua come i
carboidrati, ma con una diversa distribuzione numerica e spaziale, per esempio
quelli semplici sono formati da lunghe catene d’atomi di carbonio terminanti sempre
con il gruppo –COOH, detto, come visto, gruppo carbossilico, e tra essi i
trigliceridi, i fosfolipidi (costituenti fondamentali della membrana plasmatica)
e il colesterolo (che partecipa alla formazione della membrana e capostipite di
composti chiamati ormoni; infine, le già citate proteine, polimeri in cui oltre
a carbonio, idrogeno e ossigeno, si trova anche azoto, formate dall’unione di
molte subunità, dette aminoacidi (v. supra)
e gli acidi nucleici; ogni cellula, negl’organismi pluricellulari, è indipendente
dalle altre, ma non isolata in quanto le cellule, da un lato, si riconoscono e
interagiscono per mezzo di proteine presenti nella loro membrana esterna e,
dall’altro, sono in movimento grazie a una fitta rete di filamenti proteici con
proprietà contrattili che costituiscono il citoscheletro e a strutture
specializzate, quali ciglia e flagelli; la cellula degli animali, in sé e per
sé, è poi l’unità elementare alla base delle funzioni e del modo di
funzionamento degli organismi viventi (animali e vegetali; ma quella specifica
delle piante sarà descritta a seguire), per esempio estrarre energia dai
nutrienti, assemblare strutture, eliminare i prodotti di scarto, respingere le
aggressioni provenienti dal suo esterno, inviare e ricevere messaggi, effettuare
riparazioni (tanto per dare un’idea di questo ultimo aspetto, il DNA è
attaccato da agenti chimici ogni 8,4 secondi, 10 000 volte al giorno, lesioni
che sono poi suturate nella cellula da un enzima, la DNA polimerasi), e
presenta dimensioni che vanno da 1 µm a qualche centimetro di diametro (come mostra, per
avanzare un esempio tra gli esseri umani, la grandezza dell’ovulo, il gamete
femminile, ch’è più grande di 85 000 volte, ca.0,16 mm, uno spermatozoo, il
gamete maschile, che presenta nella coda una lunghezza di ca. 50 μm e nella
testa ha il diametro di 4-5 μm), mentre in alcune cellule, come in quelle
nervose, i prolungamenti filamentosi possono crescere fino alla lunghezza di un
metro; prendendo sempre ad esempio l’uomo, le cellule alla nascita sono ca. 10
000 trilioni, ma difficilmente una cellula può vivere per più d’un mese,
sebbene esistano vistose eccezioni, come quelle del fegato, dette epatociti, che
possono sopravvivere per anni, mentre le cellule del cervello, i neuroni,
durano tutta la vita (anche se le componenti interne di epatociti e neuroni
sono sostituite dopo pochi giorni); la cellula, ancora, è costituita da varie
parti, una membrana che delimita la cellula, un nucleo al centro delimitato a
sua volta da una membrana e alcune sostanze che stanno tra le membrane (il
citoplasma) e altre presenti all’interno del nucleo; nello specifico, nella
parte centrale denominata nucleo (assente solo nei globuli rossi del sangue) si
trova una matrice ialina (un succo nucleare d’aspetto vetroso), la cromatina
data da un insieme di DNA e di proteine cromosomiche che durante la mitosi e la
meiosi (v. infra) darà origine al
materiale genetico organizzato in cromosomi, uno o più nucleoli costituiti in
prevalenza di RNA e, infine, una delimitazione data da una membrana porosa
(detta membrana nucleare) che consente, per mezzo di pori (di diametro
variabile fra 250 e 1000 Å), gli scambi (non indiscriminati, ma di sostanze
filtrate), e quindi la coordinazione funzionale tra il nucleo stesso e il
citoplasma al suo esterno (i cromosomi sopra citati sono presenti, in numero,
forma, grandezza costanti per ogni specie d’animali o di piante, in coppie
d’elementi omologhi e il cui costituente fondamentale è il DNA e il loro ruolo
è quello di determinare le caratteristiche ereditarie, per esempio nelle
cellule degli umani i cromosomi sono 46 e si presentano in 23 coppie, mentre
nei gatti sono 76, in 38 coppie; detto altrimenti, sui cromosomi si trovano i
geni, cioè come sopra visto i segmenti del DNA sotto forma di sequenza lineare
di nucleotidi, lunghi filamenti che dirigono l’informazione genetica per la
fabbricazione delle proteine; ogni cellula possiede poi, grosso modo, lo stesso
corredo cromosomico); il citoplasma (o citosoma) sta tra le due membrane, cioè
è la parte di protoplasma ch’è compresa tra la membrana terminale della cellula,
quella che la separa dall’ambiente esterno (membrana plasmatica, o plasmalemma,
costituita come detto da fosfolipidi, ossia grassi contenenti fosfati) e la
membrana nucleare, e vi si distinguono il citoplasma fondamentale (o
ialoplasma, dato da una componente semifluida, il citosol, contenente acqua, sali minerali e molecole organiche) e,
inclusi in esso, vari organelli (o organuli, o organiti, quali l’apparato di
Golgi per l’impacchettamento e lo spostamento delle sostanze; il reticolo
endoplasmatico per il trasporto delle sostanze e come supporto dei ribosomi; i
lisosomi, per la digestione di sostanze e l’eliminazione di rifiuti e sostanze
estranee ; i vacuoli per l’eliminazione delle sostanze; i ribosomi, per il
montaggio delle proteine; e i mitocondri per la produzione d’energia; si
sottolinea che questi ultimi, probabilmente, originano da batteri indipendenti rimasti
intrappolati in altre cellule complesse ca. un miliardo d’anni fa e poi
inglobati in modo indissolubile, v. infra)
e differenziazioni specifiche (come le citate ciglia, flagelli, etc.); nel citoplasma, ancora, avvengono
reazioni come quelle di glicolisi e quella di fermentazione, importanti per
l’ottenimento di energia (sono i mitocondri,
infatti, che costituiscono la sede del processo di respirazione cellulare, cioè
di captazione dell’ossigeno, mediante il quale la cellula ricava energia, sotto
forma di molecole di adenosina trifosfato, o ATP, e questo grazie al
metabolismo terminale ossidativo di glucidi, protidi e lipidi, cioè bruciando,
in presenza d’ossigeno, le molecole derivanti dalla demolizione delle sostanze
nutritive; come dire che i mitocondri rappresentano le fonti energetiche della
cellula in quanto, in ciascuno d’essi, si produce e si conserva l’energia
chimica ottenuta, come detto, dal metabolismo del cibo e della respirazione e
che è l’ATP, dunque, che trasporta e immagazzina l’energia necessaria per i
processi metabolici cellulari, per il lavoro biologico dell’organismo, cioè ciò
che ci mantiene in vita; infatti, una cellula del nostro corpo contiene ca. 1
miliardo di queste molecole e può sostenere l’attività metabolica solamente per
una frazione di minuto, tanto che in soli due minuti queste molecole sono consumate
e rimpiazzate dalla rigenerazione d’un altro miliardo d’ATP, così che, per potere
vivere, dobbiamo ogni giorno produrre e utilizzare una quantità d’ATP
equivalente a ca. la metà del nostro peso corporeo); nel citoplasma,
ancora, si trova anche un sistema di filamenti
proteici, il citoscheletro, che è coinvolto con numerose funzioni, quali il
sostegno della membrana cellulare e il movimento ameboide della cellula; ora, stando all’assioma
che tutti i viventi sono formati da cellule, che le cellule costituiscono le
unità fondamentali di ciascun organismo e che tutte le cellule derivano da
altre cellule, s’arriva alla constatazione che gli organismi viventi possono
essere costituiti o da una sola cellula (ch’è in grado, dunque, di funzionare
in modo autonomo) o da più cellule o da un numero molto elevato di cellule; in
base a questa caratteristica, gli organismi possono essere suddivisi in
unicellulari (o monocellulari) e pluricellulari; al primo gruppo appartengono i
Procarioti (come detto, eubatteri e cianobatteri, cui sono da aggiungere gli Archaea); al secondo, tra gli Eucarioti,
i protisti (v. infra) i funghi
pluricellulari, le piante e gli animali che entrano nel dominio degli Eukarya; negli organismi pluricellulari
le cellule collaborano poi a formare livelli di organizzazione superiori, vale
a dire i tessuti (caratterizzati da cellule specializzate a svolgere
determinate funzioni, per esempio, nell’uomo, di rivestimento nella pelle, di
contrazione nei muscoli, di conduzione nei vasi sanguigni, di sostegno
nell’osso e così via), gli organi (composti da più tessuti, che effettuano
anch’essi specifiche funzioni, per esempio, sempre nell’uomo, sono organi interni
il cuore, i polmoni, il cervello, il fegato, i muscoli etc.), i sistemi e gli
apparati (nei sistemi gli organi simili collaborano alla svolgimento della
stessa funzione, per esempio, il sistema muscolare, il sistema nervoso, il
sistema endocrino etc.; negli
apparati organi diversi interagiscono per il compimento della stessa funzione,
per esempio, apparato digerente, con stomaco, fegato, intestino, apparato
riproduttivo maschile, con testicoli, pene etc.),
infine, l’organismo (si ricorda che ogni elemento di un livello superiore è
dotato di capacità che l’elemento al livello inferiore non possiede); in
entrambi i casi, unicellulare o pluricellulare che sia, la cellula possiede
sempre tutte le proprietà che caratterizzano gli organismi viventi (e, in
questo contesto, si sottolinea che non sono considerati viventi, in quanto
mancano di metabolismo autonomo, strutture come i virus e i prioni; per esempio, il virus, nanorganismo privo di cellula costituito
da un acido nucleico circondato da un rivestimento proteico, è vivo solo
all’interno dell’ospite, quando n’utilizza il metabolismo cellulare per produrre
altri organismi virali, ossia quando integra i suoi geni in un genoma cellulare
e obbliga la cellula ospite a replicarlo; del resto, un semplice batterio ha
bisogno per replicarsi di migliaia di geni, mentre a un virus ne bastano anche meno di dieci), vale a dire le capacità di respirazione,
nutrizione, assimilazione, demolizione e eiezione degli scarti, accrescimento,
riproduzione, reattività (agli stimoli dell’ambiente esterno), cioè la capacità
metabolica data dalla chimica e dalle reazioni chimiche che permettono alle
cellule di crescere, di produrre energia e d’eliminare le scorie, reazioni che
avvengono in presenza di catalizzatori, detti enzimi, costituiti da molecole
proteiche; le informazioni necessarie allo svolgimento delle citate attività metaboliche
delle cellule sono poi contenute negli acidi nucleici, cioè nell’acido
desossiribonucleico, il DNA, che racchiude tutte le istruzioni necessarie alla
cellula per riprodursi, cioè per formare copie di se stessa (e ogni cellula
contiene una copia completa dell’informazione genetica); DNA che fa poi da
stampo per la produzione dell’acido ribonucleico, l’RNA, il quale, sotto forma
di RNA messaggero (RNAm), migrando dal nucleo nel citoplasma e interagendo con delle
strutture proteiche dette ribosomi, dirige il processo di costruzione delle
proteine, ossia determina la sintesi delle proteine, cioè la fabbricazione
delle molecole proteiche (i ribosomi sono poi organuli del citoplasma formati
da due subunità di un particolare tipo di RNA, o RNA ribosomiale, RNAr, che
possono essere associati alle membrane del reticolo endoplasmatico, membrane che
funzionano come vie di comunicazione per le molteplici sostanze che circolano
nel detto citoplasma; ed è in questo modo ch’avviene la formazione degli enzimi
che, a loro volta, permettono lo svolgimento di tutte le attività cellulari [e
l’RNAt ?]); per quanto riguarda poi la demolizione dei rifiuti e delle sostanze
estranee alla cellula (i batteri e i microbi che attaccano l’organismo),
quest’attività è affidata ai lisosomi, sempre organuli del citoplasma derivanti
dall’attività dell’apparato reticolare interno (o apparato del Golgi), dati da
un insieme d’enzimi capaci di idrolizzare proteine, DNA, RNA e alcuni
carboidrati. La riproduzione delle cellule la si ritrova nel fatto che il
nucleo di ciascuna di esse (le cellule madri) si divide
in due (fatto salvo il fatto che, dopo un numero dato di divisioni una cellula
madre va incontro al fenomeno della morte cellulare, o apoptosi, v. infra). Negli organismi procarioti
questa divisione cellulare avviene per scissione diretta perché, mentre il DNA
si replica, la cellula s’allunga fino a dividersi e a formare due cellule
figlie, nelle quali si ripartiscono le due copie del DNA, il che è dire che,
poiché il patrimonio genetico si trova disperso nel citoplasma in quanto non è
contenuto in un nucleo, ne risulta facilitato il processo di duplicazione.
Negli organismi eucarioti il processo di divisione cellulare, o cariocinesi, è
più complicato per l’esistenza del nucleo e si differenzia prendendo il nome di
mitosi e meiosi. La mitosi, ch’investe tutte le cellule escluse quelle
germinali, o cellule somatiche, si ha quando una cellula si divide in due, il
DNA si duplica e si ripartisce con estrema precisione e in uguale quantità fra
le cellule figlie affinché i nuclei delle due cellule figlie possiedano un
corredo cromosomico identico a quello della cellula madre, ivi compresa la
replicazione di tutte le componenti intracellulari (cioè il citoplasma e gli
organuli) nelle due nuove cellule (fenomeno che prende il nome di citodieresi),
che sono poi necessarie al funzionamento delle cellule figlie, come dire che il
processo è più complicato perché la duplicazione non è semplice, ma binaria
giacché coinvolge tutti gli elementi che vanno a formare la cellula, DNA e
nucleo, in modo scalare (cioè prima la mitosi e poi la citodieresi). La
capacità di dividersi delle cellule si differenzia poi, negli organismi
pluricellulari, tra cellule soggette al rinnovamento, che per tutta la vita
dell’individuo sono continuamente sostituite da cellule nuove; cellule in
espansione, che smettono di dividersi quando l’organismo ha completato la sua
crescita, ma che possono occasionalmente riprendere a dividersi come
conseguenza di ferite o traumi, come avviene, negli umani, per esempio, nel
tessuto muscolare liscio; cellule statiche, che perdono la capacità di
dividersi prima ancora che l’accrescimento dell’organismo sia completo, e ne
sono un esempio le cellule nervose; cellule staminali, cioè cellule che nell’organismo
mantengono la capacità di riprodursi per tutta la vita rimanendo però
indifferenziate, potendo quindi dare luogo a diversi tipi cellulari (queste
cellule, infatti, sono in grado di sintetizzare e d’accumulare RNA e proteine fra
loro diverse, senza per questo alterare la sequenza del DNA che le
caratterizza, come dire che il processo di differenziamento implica un’attivazione/disattivazione
selettiva di geni diversi e in una sequenza processuale ch’è programmata al
loro interno, tanto che sono potenzialmente capaci di differenziarsi in
qualsiasi tipo cellulare), e altre tipologie ancora. La meiosi, ch’è il
meccanismo alla base dell’evoluzione, si presenta quando il processo di
divisione cellulare conduce alla formazione di cellule (in special modo gameti,
cioè spermatozoo e ovulo), in cui è presente un numero di cromosomi dimezzato
(numero aploide, n) rispetto a quello di partenza (numero diploide, 2n); detto
altrimenti, da una cellula madre diploide, che deriva a sua volta dalla fusione
d’un gamete materno (M) e paterno (P), attraverso un meccanismo d’incrocio (o cross-over) o tramite l’assortimento
casuale dei cromosomi, si realizzano quattro cellule aploidi fra loro diverse che
presentano, ognuna, la metà del patrimonio genetico della cellula madre (n
invece di 2n), cioè la ripartizione di ciascuna coppia di cromosomi omologhi,
cioè morfologicamente identici, presenti nella cellula iniziale, tanto che le
nuove cellule d’uovo diploidi fertilizzate, o zigoti, ereditano le loro
caratteristiche da M e da P (per esempio, un
gamete aploide standard conterrà
cromosomi M, cromosomi P e, ricombinati fra loro, alcuni cromosomi che
contengono informazioni derivate sia da M che da P). La meiosi si verifica in
tutti gli organismi (animali o vegetali che siano) soggetti a riproduzione
sessuale e consente, da un lato, di conservare costante il numero dei cromosomi
di una specie, che altrimenti si raddoppierebbe ad ogni fecondazione (se invece
di n avessimo in una ipotetica cellula figlia 2n, all’atto della fusione dei
due gameti la duplicazione porterebbe a uno zigote 4n e non 2n com’è invece nella
fusione dei due gameti ognuno dei quali è in partenza dimezzato, n) e,
dall’altro, di rimescolare gli elementi che contribuiscono alla variabilità
genetica delle popolazioni e questo perché gli zigoti non sono mai esattamente
uguali, dato che un gamete maschile, con la sua specifica e unica combinazione
genetica, si fonderà con un gamete femminile, anch’esso con la sua specifica
combinazione genetica, per produrre uno zigote diploide 2n che avrà anch’esso
una combinazione genetica diversa da quella dei due individui diploidi da cui
deriva e diversa da quella di tutti gli altri (fatto salvo il fatto dei gemelli
monozigoti). Per inciso,
un ovulo contiene sempre un cromosoma sessuale X, mentre lo spermatozoo può
contenere o un cromosoma X o un cromosoma Y; pertanto, la fusione dei due
gameti nella fecondazione d’ un ovulo con uno spermatozoo che presenta un
cromosoma X dà origine ad uno zigote con due X, ossia a una femmina; nel caso
contrario s’avrà uno zigote XY, cioè un maschio. Infine, è da sottolineare che
la diversità genetica presente in ogni zigote non investe quelle
caratteristiche che devono rimanere costanti perché proprie d’ogni specie, per
esempio il numero di cromosomi presenti, bensì investe gli stati alternativi d’un gene (due o più) che occupano
la stessa posizione, o locus, su
cromosomi morfologicamente identici (omologhi) e che controllano variazioni
dello stesso carattere e che
ciascuna cellula figlia eredita dalla cellula madre, cioè che la variabilità
genetica è data dagli alleli (v. infra).
In ogni caso, l’assetto cromosomico, cioè il numero, la forma e la dimensione
dei cromosomi, o cariotipo, è propria ad ogni specie e nel cariotipo umano il
numero diploide di cromosomi caratteristico della specie è 46 (2n); di questi,
44 sono disposti in coppie di omologhi, (sono autosomi), i restanti 2
cromosomi, sessuali, sono eterocromosomi), cioè sono rappresentati da elementi
morfologicamente simili nella femmina (XX), diversi nel maschio (XY); pertanto
il cariotipo della femmina è 46,XX e quello del maschio 46,XY. Il nucleo sopra citato, dal punto di vista semantico,
è di fatto il discrimine tra le cellule procarioti e le cellule eucarioti, in
quanto procariote significa prima del nucleo (composto di pro-, dal greco προ-, ch’è prefisso che significa
davanti, e di κάρυον, nucleo), mentre
eucariote significa dotato del vero nucleo (composto di eu-, dal greco εὐ-, ch’è prefisso che significa buono,
vero, e di κάρυον, nucleo); infatti,
il Procariote è
un organismo unicellulare il cui materiale nucleare non è racchiuso dentro una
membrana e in cui manca, nel citoplasma, la compartimentazione delle funzioni
cellulari in specifici organuli (a eccezione dei ribosomi,
preposti come detto alla sintesi delle proteine), per cui, pur
essendo dotato di membrana plasmatica e parete cellulare, la molecola di DNA
circolare si trova libera nel citoplasma, pur essendo le funzioni cellulari in
ogni caso espletate da complessi enzimatici analoghi a quelli delle cellule
eucarioti; la riproduzione nei Procarioti, infine, non avviene per mitosi, ma
per scissione (si ricorda che i Procarioti, oltre a non avere un vero nucleo,
non hanno nemmeno dei veri cromosomi; il DNA, infatti, non è organizzato in
complessi insieme con proteine e non è racchiuso in un involucro membranoso, ma
costituisce un cromosoma primitivo centrale, circolare ed eventuali altre
molecole d’informazione, più piccole e circolari, dette plasmidi ed è quest’unico
cromosoma presente che si divide prima che l’intera cellula batterica si divida
in due);
mentre l’Eucariote è un organismo costituito da cellule con nucleo ben
differenziato (che contiene il DNA e proteine strutturali, dette istoni,
solitamente presenti in coppie, in un numero variabile e caratteristico di
ciascuna specie; le molecole di DNA, qui lineare, sono molto lunghe e
contenenti molte regioni non codificanti e si presentano in forma di
bastoncelli, i cromosomi, che portano l’informazione genetica, cioè, come
visto, il gene e il genoma; il numero e la forma dei cromosomi dipendono dalla
specie) e separato dal citoplasma per mezzo della citata membrana nucleare e
caratterizzato dalla presenza di organelli (i già citati lisosomi, il reticolo
endoplasmatico, l’apparato del Golgi e i ribosomi); la cellula eucariote è, insomma,
suddivisa in aree funzionali in cui avvengono simultaneamente reazioni
metaboliche che richiedono differenti condizioni ed è per questa proprietà che
risulta più efficiente delle cellule dei Procarioti, prive, come detto, di
organuli (esclusi i ribosomi) e di nucleo; ancora, nei Procarioti RNA e
proteine sono sintetizzate nella stessa area, mentre negli Eucarioti l’RNA è
sintetizzato ed elaborato nel nucleo e le proteine sono sintetizzate nel
citoplasma); in linea generale, la fondamentale differenza tra i Procarioti e
gli Eucarioti è poi rappresentata dalla loro compatibilità o meno nei confronti
dell’ossigeno; i batteri, per esempio, o non riescono a svilupparsi in presenza
d’ossigeno o possono sopravvivere solo in presenza d’ossigeno mentre, al contrario,
gli Eucarioti non possono sopravvivere e riprodursi in assenza d’ossigeno (fatto,
questo, da legare all’aumento dell’ossigeno atmosferico nel momento in cui
questi ultimi organismi iniziarono il loro percorso evolutivo), ancora, gli
Eucarioti sono fino a 10 000 volte più grandi dei Procarioti e possono
contenere una quantità di DNA fino a 1000 volte maggiore; in ogni caso la
membrana plasmatica di tutte le cellule racchiude il contenuto della cellula e
costituisce una barriera fra l’ambiente intracellulare (cioè l’ambiente
interno) e quello extracellulare (l’ambiente esterno) ed è costituita da un
doppio strato di molecole fosfolipidiche (la molecola di un fosfolipide e
costituita da una testa idrofila, cioè ch’attira i liquidi, e una coda
idrofoba, che li respinge, e i due strati sono disposti in modo che
s’affrontino le code idrofobe e le code idrofile siano rivolte le une verso
l’ambiente acquoso del citoplasma, le altre verso l’ambiente acquoso
extracellulare) nelle quali sono interposte molecole di colesterolo e molecole
proteiche con differenti funzioni, come quella del riconoscimento e della
regolazione del trasporto delle sostanze attraverso la membrana stessa (sia le
proteine che i fosfolipidi presentano, infatti, la proprietà di spostarsi lungo
la membrana in relazione alle richieste delle cellule, e nel complesso la
struttura della membrana è definita a mosaico chiuso); la membrana plasmatica,
inoltre, costituisce una barriera semipermeabile, e permette il passaggio
selettivo per diffusione di sostanze che si muovono seguendo un gradiente di
concentrazione, come dire che permette la regolazione della composizione
chimica della cellula (la membrana, insomma, seleziona in ogni caso ciò che può
e ciò che non può passare e molte volte partecipa attivamente a queste
operazioni di trasferimento di molecole, verso l’interno, o endocitosi, o verso
l’esterno della cellula, o esocitosi, consumando energia; il risultato di queste
attività d’endocitosi/esocitosi è che molte sostanze si trovano così o solo
dentro o solo fuori la cellula, oppure hanno concentrazioni assai diverse
all’interno e all’esterno), inoltre la cellula, attraverso la sua membrana,
riceve continuamente segnali di vario tipo dalle altre cellule e dal mondo
circostante; nello specifico, e fatta salva la clausola che tutti gli organismi
viventi hanno in comune un’origine unica e riprendendo in altra prospettiva
quanto sopra detto, nell’era Precambriana (o Archeozoica), 3,6 miliardi d’anni
fa, sono presenti dei Procarioti, vale a dire, lo si ripete, delle cellule
prive di vero nucleo; sempre nel Precambriano, 2,1 miliardi d’anni fa, quando
la troposfera è ossigenata a livello sufficiente dai cianobatteri e quando
risultano le prime tracce d’ossidazione del suolo (marcatori della assenza/presenza
d’ossigeno nelle rocce sono poi la pirite, che si forma in un ambiente chimico
riducente, con rarità dell’ossigeno, e l’ematite, Fe2O3, che si forma per
ossidazione dei materiali ferrosi, dunque in presenza d’ossigeno), indizi certi,
entrambi, d’una quantità congrua d’ossigeno nell’atmosfera (e si risottolinea
che sono stati necessari 1,5 miliardi d’anni per raggiungere questo livello,
ca. il 40% [controllare] della storia della Terra) ecco che si presentano gli
Eucarioti, ossia degli organismi, lo si ripete, con un nuovo tipo di cellula,
dotata di un vero nucleo e di organuli (in senso etimologico, piccoli
strumenti), e s’ipotizza che questo processo sia iniziato quando alcuni batteri
si lasciano catturare da altri microrganismi simili (o li invadono) dando
inizio a una convivenza proficua per entrambi che rende possibili forme di vita
più complesse; si suppone, infatti, che le prime cellule eucarioti siano
comparse grazie all’integrazione tra organismi Procarioti (cioè, nel dominio
dei Bacteria, gli eubatteri e i cianobatteri)
prima fra loro indipendenti, alcuni dei quali si sono insediati in cellule
primitive più grandi, instaurando con esse una simbiosi all’interno del
citoplasma, detta endosimbiosi; dagli eubatteri che vivono in simbiosi, o
simbionti, v. infra, si sarebbero così
evoluti, come sopra detto, i mitocondri, gli organuli citoplasmatici in cui
avviene la respirazione ossidativa cellulare (cioè il metabolismo aerobico),
mentre dai cianobatteri sarebbero derivati i cloroplasti, gli organuli, simili
ai mitocondri, delle cellule vegetali necessari per la fotosintesi
clorofilliana (v. infra; e la teoria
che sostiene quest’ipotesi, che permette di spiegare perché mitocondri e
cloroplasti presentano un DNA indipendente da quello del nucleo è quella procariotica;
per amore di precisione, esistono altre teorie riguardo alla formazione delle
cellule eucariote, per esempio quella dell’esosimbiosi, o inside-out, che si suppone avvenuta per aggregazione cooperativa
forzosa di microorganismi cellulari attorno a un archeobatterio, o quella
acariotica e quella ribotica, teorie qui non presentate); la cellula eucariote
sarebbe quindi il risultato di una simbiosi che ha coinvolto diverse cellule
procarioti e senza questi fenomeni d’endosimbiosi, cioè senza mitocondri e
senza cloroplasti (cioè senza organuli che manipolano l’ossigeno per liberare
energia e metabolizzare una catena alimentare, organica per i primi, inorganica
per i secondi, i quali sono poi alla base della catena alimentare dei primi),
la vita sarebbe rimasta confinata in forme decisamente non evolute; le prime
forme fossili di organismi eucarioti, monocellulari, risalgono a 2,1 miliardi
di anni fa, mentre per quelle pluricellulari bisogna aspettare 680 milioni
d’anni fa, nel periodo Proterozoico finale, quando le cellule eucariote s’organizzano
e si presentano poi sotto forma d’organismi pluricellulari nel dominio degli Eukarya (tra cui rientreranno a seguire,
come sopra detto, anche piante, funghi e animali, cioè la biodiversità tra chi
o espelle l’ossigeno o lo assume); infatti, è in questo periodo, dopo che è
passato poco meno di un miliardo d’anni, che si passa da organismi costituiti
da una cellula eucariotica dotata di nucleo e organuli, cioè da
un’organizzazione morfologica e metabolica primitiva (quali la presentano i Protozoi,
nel regno animale, e i Protofiti, nel regno vegetale, che costituiscono
l’insieme dei protisti), a organismi animali pluricellulari complessi le cui
cellule, a differenza di quanto si verifica nei protisti, sono organizzate in
strati (cioè in tessuti) e in organi che presentano specializzazioni per
diverse funzioni (digestione, movimento, protezione etc.), cioè a organismi che presentano un’organizzazione
morfologica e metabolica evoluta. I resti fossili dei più antichi organismi
multicellulari risalgono al Cambriano; di tutto quello che precede non è,
infatti, rimasta traccia, se non nella cd. fauna di Ediacara, dal nome del
sito, in Australia, dove sono stati rinvenuti e studiati, risalente a 670-550
milioni d’anni fa, dove si ritrovano macrofossili di forme pluricellulari (fauna
e flora) che richiedono ossigeno per vivere riferibili a organismi dal corpo
molle e sottile (per capirci, simili a meduse e foglie) sostenuti da uno
scheletro idraulico e privi di strutture protettive, ch’è difficile attribuire,
se non approssimativamente, a phyla
attualmente esistenti, e probabilmente si tratta d’una radiazione adattativa avvenuta
in un breve arco temporale (stando ai tempi geologici) e diffusa sì a livello
globale, ma rimasta bloccata da un’estinzione, si presume per anossia dei mari
o per la diffusione nel Cambriano d’organismi predatori (qualcuno parla poi,
per questi organismi, non di Metazoi, ma di Vendozoi, cioè d’un gruppo a sé). Per
inciso, con radiazione adattativa s’intende poi quel fenomeno per cui una
categoria morfologica d’organismi, animali o piante che siano, subisce una
notevole diversificazione che porta all’emergere di nuove forme (differenziate
tra loro e per ruolo svolto nell’ecosistema e per lo stile di vita). I resti
fossili del Cambriano, della radiazione adattativa che ci coinvolge, risalgono dunque
all’era Paleozoica, ad un arco temporale che si situa tra i 600 e 500 milioni
d’anni fa, precisamente a 543 milioni d’anni fa. Infatti, a partire da questa
data, e per un periodo durato all’incirca 5 milioni d’anni, si manifesta una
biodiversità prima sconosciuta, con un tasso di speciazione 4 o 5 volte
superiore a quello attuale (si passa, infatti, da 4 a 50 phyla) e si presentano organismi che, per la prima volta, non
necessitano del microscopio per essere analizzati e classificati (e si parla,
per questo, di comparsa della vita manifesta), ossia tutti i phyla esistenti o quasi di piante,
animali e funghi, e probabilmente questa biodiversità (dove la speciazione fenotipica
si lega all’innovazione genomica con ampi gradi di libertà e tolleranza) si può
legare al riscaldamento delle acque alla fine dell’era glaciale Varanger (quando
la Terra, grazie a un aumento della concentrazione del diossido di carbonio
nell’atmosfera, aumento poi legato all’intensificazione delle emissione
vulcaniche, smette d’essere una Snowball
Earth, v. supra), all’aumento
dell’ossigeno nei mari disponibile per organismi aerobici (il livello
dell’ossigeno d’epoca nell’atmosfera è poi paragonabile all’attuale), ai
mutamenti tettonici che provocano la diffusione d’acque marine poco profonde
dove si manifesta una maggiore concentrazione d’ossigeno e la concomitante
presenza di nutrimenti che permettono l’avvio d’una catena alimentare, cioè a
un ecosistema relativamente vuoto e omogeneo dove piani anatomici (o schemi
corporei o Baupläne, singolare Bauplan) inediti hanno buone possibilità
di colonizzarlo, ossia di sopravvivere ed evolversi nei movimenti e nelle
modalità di predazione (in modo accelerato), nella fase incipiente, dunque,
d’una catena alimentare non ancora pienamente dominata dalla competizione (anche
s’è vero che gusci ed esoscheletri presenti in questi nuovi phyla incominciano ad indicare strategie
di difesa da predatori capaci di visione spaziale, vale a dire modalità di predazione,
competizione e difesa già avanzate; infatti, è possibile che le prime forme di
guscio, nate come prodotti di secrezione legati ad attività metaboliche, siano
diventate escrezioni di difesa in un’evoluzione naturale che vede i predatori
efficienti grazie anche ad una nuova area d’intervento permessa da meccanismi
percettivi visivi sofisticati, cioè dagli occhi, vantaggio adattivo ch’inizia a
legare a sé organismi capaci d’uso mimetico, difensivo o meno, dei colori e
delle forme). Sono presenti, tra altre forme viventi, molti gruppi
d’invertebrati marini, quali le Spugne (o Poriferi, Porifera; si tratta di specie sessili, cioè ancorate ai fondali
anche a grandi profondità che, assieme ai coralli, arrivano poi a formare dei
depositi calcarei; sono costituiti d’una parete formata da due strati cellulari
ch’incorpora nel mezzo uno strato amorfo che ricopre una cavità interna; la
cavità comunica poi con l’esterno grazie a un’apertura principale e a diversi fori
dislocati su tutta la parete e l’organismo s’alimenta fagocitando gli alimenti organici
presenti in sospensione nell’acqua; la sua riproduzione è o sessuata, o avviene
per gemmazione, cioè è asessuata); il phylum
dei Molluschi, con le classi di Gasteròpodi (Gasteropoda; privi o con una conchiglia unica) e Cefalòpodi (Cephalopoda, con una conchiglia
estremamente ridotta e con tentacoli intorno alla bocca sviluppatisi a partire
dalla loro struttura locomotoria, ciò che ne fa dei predatori); gli Anèllidi (Annelida; vermiformi e segmentati, cioè
con un corpo costituito da un numero variabile di segmenti successivi fra loro
più o meno simili, ad esclusione di quelli estremi, formanti uno la testa e
l’altro il segmento anale, ritenuti i progenitori degli Artropodi, v. infra); gli Echinodèrmi (phylum Echinodermata; questi organismi
onnivori che vivono su tutti i fondali, costieri o profondi che siano, in
linea di massima sono dotati, da adulti, d’un corpo circolare, provvisto, ma
non sempre, d’un ano e, sull’altro lato, d’un apparato boccale da cui si dirama
una struttura pentaraggiata di braccia provviste d’un sistema idraulico di
canali che, originato da un canale circolare che si trova appunto attorno alla
bocca, facilita la regolazione d’un flusso di liquidi che permette all’insieme una
capacita di contrazione, cioè un allungarsi e un ritrarsi della struttura
radiale, che si traduce in una locomozione, detta acquifera; sono provvisti,
inoltre, di spine, aculei e d’un dermascheletro calcareo posto sotto
l’epidermide); i Celenterati (Coelenterata;
sono organismi di semplice struttura, con un’unica cavità, detta celenteron,
che comunica con l’esterno grazie a un’apertura orale; le sue pareti, di forma
oblunga e cilindrica, sono formate da due strati di cellule, uno interno, o
endoderma, e uno esterno, o ectoderma; possono poi avere una forma non
vincolata o sessile, come i coralli, v. infra);
i Briozòi (Bryozoa; organismi dendriformi,
cioè simili ad arboscelli, che si riuniscono in colonie ancorate al substrato;
ogni individuo della colonia, denominata zoarium,
zoario, di solito non più lungo di 1 mm, è formato da una specie di sacco a
sezione ovoidale, più o meno calcificato, che contiene un tubo digerente
ripiegato a U, sicché le due estremità costituenti la bocca e l’ano sono tra
loro vicine; la bocca è poi circondata da una corona mobile di tentacoli filiformi,
o ciglia, che filtra, per mezzo delle correnti indotte dal movimento ciliare
stesso, le particelle organiche presenti nelle vicinanze; un individuo della
colonia è detto zooide, e ogni zooide forma poi, per gemmazione, un altro
zooide e via a seguire); seguono, infine, i Brachiòpodi (Brachiopoda) e le Trilobiti (Trilobites),
di cui diremo a seguire. La figura
seguente mostra, tra i fossili del Cambriano, una Spugna silicea con spine
radianti (Choia, a), un Mollusco
Gasteropodo che misura pochi millimetri (Scenella,
b), due Anellidi (Canadia, con un
corpo ricoperto di spine e lungo pochi centimetri e Wortheniella; rispettivamente c, d) e, infine, un Echinoderma
Eocrinoide (cioè Echinoderma simile a un Crinoide, Crinoidea, dove il Crinoide è un Echinoderma simile a un giglio,
quindi un organismo con forma aggraziata; Lichenoides,
e):
Figura
n. . Fonte: Padoa, 1971, p. 94.
I Brachiopodi sono poi organismi localizzati
che vivono attaccati agli scogli, questo grazie a un peduncolo sessile, cioè
che si fissa al substrato; presentano una conchiglia bivalve, da non
confondersi con quella dei Molluschi Bivalvi (in cui una valva è a destra e
l’altra a sinistra), perché qui una valva è ventrale e con peduncolo che
fuoriesce dalla sua parte più convessa, mentre l’altra, più piccola, è dorsale;
le valve, inoltre, non sono unite da legamento; la figura seguente mostra un
Brachiopode attaccato al fondo mediante un peduncolo che sporge dalla valva
centrale:
Figura
n. . Fonte: Padoa, 1971, p. 95.
Per
quanto riguarda le Trilobiti, s’informa ch’esse vivono sia in acque poco
profonde, di costa, sia a
grandi profondità (probabilmente infossate
nei fondali), dopo il Cambriano presentano una radiazione adattativa in
funzione difensiva e si sono estinte al termine del permiano; sono forme di
Crostacei (Crustacea) primitivi, subphylum
degli Artropodi marini, cioè organismi invertebrati con un corpo ovale, vale a
dire allungato, con una cuticola di rivestimento fatta di strati di carbonato e
fosfato di calcio dello spessore massimo di 1 mm (o esoscheletro), e distinto
in tre parti o lobi, da cui il nome, ossia da due solchi longitudinali che
originano un lobo mediano e due lobi laterali e con una lunghezza che varia da
pochi millimetri a 70 cm; il capo è provvisto di due antenne pluriarticolate e
di occhi composti da un insieme di numerosi corpuscoli fotosensibili fra loro
giustapposti (sèssili, ossia privi di peduncolo, o peduncolati), testimonianza
fossile, questa, dei primi organi visivi; alcune specie presentano sulla
superficie ventrale di tutte e tre le parti delle appendici articolate in
funzione di deambulazione e di supporto a strutture branchiali. La figura
seguente, delle centinaia di specie (se ne conoscono più di 3500), mostra due Trilobiti
(a, b; rispettivamente Olenello, Olenellus,
e Paedeumias, organismi che rimandano
all’ordine più antico delle Trilobiti) e due organismi Trilobitoformi del
Cambriano (c, d; rispettivamente Emeraldella, Emeraldella brocki, un Artropode dotato di lunghe antenne e con un
corpo a forma di Trilobite, e Waptia,
Waptia fieldensis, un Artropode
probabilmente antenato dei Crostacei):
Figura
n. . Fonte: Padoa, 1971, p. 93.
Le
Trilobiti, come detto, sono una classe degli Artropodi, e si ricorda che gli
Artropodi, cui appartengono, tra gli altri, gli Aràcnidi (Arachnida), i Crostacei e gl’Insetti (Insecta), presentano un corpo ch’è provvisto d’arti, ch’è fatto di
segmenti che s’articolano fra loro, segmentazione ch’è detta metameria, e d’un
esoscheletro (e se la metameria è anche degli Anellidi, questi però non
possiedono arti articolati e sono dunque una linea evolutiva indipendente). È
poi da ricordare il phylum dei cordati
(che comprende i vertebrati, cioè, come già detto, gli organismi che avranno una
colonna vertebrale contenente midollo spinale e un tronco nervoso deputato alla
distribuzione delle informazioni tra cervello e resto del corpo), tra cui il
primo notocordato (Notochordata, vale
a dire cordati la cui corda dorsale non raggiunge l’estremo anteriore del corpo;
detto meglio, dotati d’una struttura di sostegno sul dorso, la corda, che nei
vertebrati è poi sostituita dalla colonna vertebrale ossea o cartilaginea che
sia) di cui s’è a conoscenza, il Pikaia
gracilens, il primo organismo del phylum ch’annovera Pesci, Anfibi, Rettili,
Uccelli e Mammiferi (ma la questione è controversa). Il Pikaia, lungo nei reperti fossili ritrovati tra 1,6 e 6 cm (con una
media di 4 cm), presenta una forma allungata (o fusiforme) dotata d’una
struttura di sostegno tubolare, che va dal capo all’estremità posteriore,
classificabile come notocorda, di segmenti muscolari laterali (o miomeri) e un
apparato vascolare; la parte posteriore presenta un allargamento del corpo a
forma di pinna con la quale quest’organismo si muove nei fondali oceanici
grazie a un moto ondulatorio (similmente all’anguilla), mentre la parte
anteriore presenta una piccola testa distinta, bilobata, con un’apertura
(ch’introduce un tratto digestivo con ano posteriore) e due sottili tentacoli,
capaci probabilmente (l’apertura e i tentacoli), di sinestesie; ogni tentacolo
è poi seguito da 9 piccole appendici ravvicinate (forse branchie). Nella testa
del Pikaia è inoltre presente un
rigonfiamento (vescicola cefalica) che presenta un centro di segnalazione del
sistema nervoso centrale ch’indica la capacità di trasmettere informazioni al
corpo, rigonfiamento ch’è precursore del cervello, ciò che marca uno dei primi
fenomeni di cefalizzazione. Da sottolineare che sono due, attualmente, i giacimenti fossiliferi (o Fossillagerstätten, singolare Fossillagerstätte) che documentano
l’evoluzione del Cambriano, specificamente Burgess, nella Columbia Britannica,
in Canada, e Maotianshan, nella contea di Chengjiang, provincia dello Yunnan,
in Cina; a Burgess è presente una formazione di rocce metamorfiche,
derivata dall’argilla, caratterizzate da una disposizione regolare, in piani
grosso modo paralleli, di lastre sottili e facilmente divisibili, o argilloscisti,
che mostra
organismi pluricellulari dal corpo molle estremamente ben conservati
appartenenti a una cinquantina di generi diversi, con piani anatomici
estremamente variati (detta Fauna di Burgess); lo stesso nel giacimento di
Chengjiang, dove i Baupläne ritrovati,
probabilmente più antichi di quelli di Burgess, rappresentano anche qui
un’estrema ricchezza di biodiversità (Spugne, forme medusoidi, Vermi Priapulidi
e altri simili agli Anellidi, Echinodermi, Artropodi, Emicordati e Cordati, compreso
il primo pesce àgnate, cioè privo di mascella e di denti, mai prima rinvenuto;
e dagli Àgnati, Agnatha, a seguire,
avremo per radiazione adattativa tutti gli altri pesci). Si deve poi
sottolineare che questa varietà d’organismi presuppone anche una ricchezza molto
maggiore di vita vegetale. Attualmente il rapporto ponderale tra animali e
piante si calcola come una massa complessiva che non è superiore ad un rapporto
di 1 a 5, e se si presuppone lo stesso anche per il Cambriano, ciò deve
rimandare ad una presenza veramente abbondante d’alghe, non documentabile giacché
esse non fossilizzano (ad eccezione delle Alghe calcaree, capaci di
mineralizzare la loro membrana cellulare, già presenti e documentate nel
Precambriano). La figura
seguente illustra la situazione delle terre emerse nel Cambriano superiore (o
tardo; i triangoli presenti indicano le zone di subduzione, la data è in
milione d’anni, Ma):
Figura
n. . Fonte: Altschuler, 2005, p. 110.
Al Cambriano segue poi, nell’Ordoviciano, una
nuova radiazione adattativa seguita dalla prima tra le cinque estinzioni di
massa (v. infra), ciò che dà origine,
di nuovo, a una radiazione di nuove specie (cioè ai processi di speciazione dei
sopravvissuti, tra cui il phylum dei
cordati). Ma entriamo nel dettaglio, giacché sono in gioco e un’estinzione e due
radiazioni adattive. Sopra s’è descritta, a grandi linee, la paleogeografia
della Terra, che ora è il caso di meglio specificare; infatti, nell’intervallo
compreso tra Cambriano e Siluriano (541-416 milioni d’anni fa) esiste un oceano
Protoatlantico chiamato Giapeto, originariamente situato tra la Laurentia, a
Nord, e la Baltica, a Sud (v. Figura n. […], supra), che tende a ridursi di profondità e d’estensione passando
da un’ampiezza di ca. 3 400 km all’inizio dell’Ordoviciano a 1 000 km
all’inizio del Siluriano; ora, i dati paleontologici di quest’assetto indicano
che le comunità di specie presenti, Trilobiti, Graptoliti e Brachiopodi, dapprima
costituiscono associazioni fra loro molto diverse secondo la sponda abitata,
della Laurentia o della Baltica, e poi, man mano che le sponde s’avvicinano per
la deriva dei continenti tendono a essere composte da elementi simili che
aumentano le strutture protettive, per esempio i gusci, come i Brachiopodi, e
questo presumibilmente per l’aumento degli organismi predatori; ancora, la
riduzione della profondità di Giapeto e l’estinzione di ca. 2/3 delle specie
viventi (specie marine), avvenuta 440 milioni d’anni fa alla fine
dell’Ordoviciano (v. infra), favorisce,
nel Siluriano, la comparsa e la diffusione d’un ecosistema inedito, la barriera
corallina (o Barrier Reef, plurale reefs, usato in italiano al maschile). La
barriera corallina del Siluriano è molto diversa da quelle odierne, ma per
valorizzare il valore e il ruolo di quest’inedito ecosistema ricco di biocenosi
è forse utile spiegare come s’è formato e funziona quello attuale, salvo poi
riprendere i Reefs del Siluriano. Con
polipo (da non confondere con polpo) s’intendono alcune specie di invertebrati
del phylum dei Celenterati, che
presentano una struttura corporea costituita da una colonna centrale con celenteron, v. supra, generalmente fissa al substrato, cioè sessile, e da una
forma arborea (polipoide) all’estremità superiore; gli antozoi (Anthozoa), o coralli, presentano esattamente
un’organizzazione di questo tipo caratterizzata sia da uno scheletro protettivo
di carbonato di calcio (secreto dalle cellule del tessuto epidermico) e sia che
dal loro stesso scheletro; ora, una formazione corallina può essere
rappresentata tanto da un singolo individuo quanto, ciò che capita molto più
spesso, da una colonia in cui le cavità gastrovascolari dei singoli coralli
sono fra loro comunicanti. Una colonia è poi distribuita a profondità comprese
tra i 40 e i 60 m, in cui ogni corallo s’insedia sui depositi calcarei degli
esoscheletri dei coralli morti e si moltiplica per riproduzione asessuata (con
gemmazione a livello della base del corallo) dai fondali fino ad arrivare in
superficie, fatto salvo che si sia in presenza di acque limpide, illuminate, a
salinità elevata e ossigenate, e temperature che oscillano tra i 20 °C e i 30
°C (con temperature ottimali tra i 26 °C e i 27 °C), il tutto con un tasso
d’accrescimento da 1 cm a 100 cm all’anno. Ed è in questo modo che nascono le
barriere coralline, formazioni organogene che ospitano nei loro tessuti delle Alghe
simbionti, dette Zooxantelle, che grazie alla fotosintesi producono delle
sostanze (quali gli zuccheri) utili al sostentamento dei coralli; i coralli, in
cambio, riforniscono le Alghe di fosforo e azoto che sono ricavati dalla
digestione parziale degli organismi (plancton)
intrappolati dalla forma polipoide a scopo alimentare; e poiché la fotosintesi
è alla base di questo scambio simbiotico, ecco che i coralli crescono alle
profondità sopra citata dove la radiazione solare può penetrare; le Alghe,
ancora, svolgendo la fotosintesi, utilizzano l’acido carbonico dei tessuti del
corallo, provocando così la formazione d’un calcare insolubile, estremamente
duro (la composizione chimica d’un corallo è data dall’85% di carbonato di
calcio, 1,4% di solfato di calcio e dal 2,4% di carbonato di magnesio, più
tracce d’acido silicico e iodio). Ciò dà origine ad un ecosistema ricco di
biodiversità giacché le Alghe costituiscono il nutrimento di pesci erbivori e
di numerosissime specie di Molluschi, ciò che alimenta poi una catena
alimentare basata sulla predazione grazie alla presenza di numerosi altri
organismi (pesci d’altre specie, Crostacei, Echinodermi etc.), vale a dire un’elaborata biocenosi. Se quanto sopra
descritto rimanda, come detto, alle attuali barriere, quelle che si formano nel
Siluriano, pur obbedendo a un meccanismo di costruzione ch’è simile, sono
diverse (può esserne un esempio la forma organogena che costruisce la barriera
orizzontalmente e non verticalmente per gemmazione) e costituite da organismi invertebrati
costruttori di barriere (o reef-maker) detti Stromatoporoidi,
simili a spugne e coralli, ch’includono diversi gruppi di coralli, quali i
Rugosa (dei Tetracoralli che vivono in forma solitaria), e i Tabulata (ch’è,
invece, una forma coloniale comprendente anche migliaia d’organismi), cui si
sommano, provenienti da un antenato in comune, Briozoi e Brachiopodi. Si
diffondono inoltre, tra l’Ordoviciano e il Siluriano, le Trilobiti, che
raggiungono per numero di specie, per abbondanza di popolazione e per
accrescimento di taglia (alcune forme raggiungono i 60-70 cm di lunghezza) il
loro climax; i Brachiopodi che
passano da valve di conchiglia formate da sostanze organiche infiltrate di
fosfato di calcio, Ca3(PO4)2, a specie a
conchiglia più spessa formata di carbonato di calcio, CaCO3; e
numerosi sono anche i gusci mineralizzati di Molluschi, quali Gasteropodi,
Bivalvi, Cefalòpodi (Cephalopoda) e
numerose, come detto, le forme coloniali a supporto infiltrato di sali calcarei,
tra cui Celenterati e Briozoi, e di questi ultimi si conoscono nel solo
Ordoviciano più di 1000 specie. La figura seguente illustra alcune colonie di
Briozoi diffuse nel Siluriano, Berenicea
(a), Fenestrellina (b) e Clathopora (c):
Fonte:
Padoa, 1971, p. 99.
Sono
inoltre diffuse le Graptoliti (Graptolithoidea;
appartenenti al phylum degli Emicordati),
apparse già nel Cambriano, ma che ora raggiungono il loro climax; si tratta di colonie i cui individui (detti zooidi, come
nei Briozoi) sono contenuti in cellette o teche di materiale fibroso organico
(collagene; ciò che li distingue, per esempio, dai coralli), disposte in
diversi modi a formare dei rami lungo un asse tubolare costituito da una
sostanza chitinosa flessibile; queste colonie sono sessili in quanto fissate o
ai fondali marini (forme bentoniche) o a una capsula centrale ricoperta da un
organo di galleggiamento (detto pneumatoforo), ciò che, in quest’ultimo caso, consente
loro, e fino all’estinzione, una libertà di diffusione geografica molto ampia (in
quanto forme planctoniche galleggianti in mare aperto, si parla allora d’organismi
coloniali pelagici). La figura seguente mostra lo schema d’una Graptolite:
Fonte:
Padoa, 1971, p. 100.
Le
figure seguenti mostrano invece tre Graptoliti dell’Ordoviciano, Goniograptus (a), Tetragraptus (b) e Glossograptus
(c):
Fonte:
Padoa, 1971, p. 100.
Tra
le numerose altre forme presenti, se ne ricordano due di predatori del
Siluriano, gli Euriptèridi (Eurypterida,
o Gigantòstraci, Gigantostraca) e i
Nautiloidi (Nautiloidea). Gli
Euripteridi, che probabilmente hanno dato origine agli Aracnidi, nel Siluriano
sono presenti nei litorali marini, nel Devoniano migrano verso le acque
salmastre d’estuario e epicontinentali (i mari epicontinentali si presentano
grazie a delle ingressioni d’acqua salata nei continenti a formare mari poco
profondi, quali lagune o simili) e si diffondono poi, nel Carbonifero, nelle
acque dolci (zone palustri). In quanto appartenenti al subphylum dei Chelicerati (Chelicerata),
presentano un corpo appiattito protetto da un esoscheletro chitinoso, suddiviso
tra un cefalotorace e un addome; il cefalotorace presenta due cheliceri (gli
arti preorali a forma di tenaglia e con funzione generalmente prensile; da cui
il nome del subphylum), degli occhi
composti prominenti, grandi, e due occhi piccoli (o ocelli), e varie appendici d’arti locomotori, di cui le
ultime due, grandi, hanno probabili funzioni natatorie; l’addome, costituito da
vari segmenti, termina poi con un telson
(il segmento terminale in cui si apre l’ano, o pigidio), corpo con dimensioni
variabili tra pochi centimetri e i 3 m di lunghezza (il record di taglia tra gli Artropodi estinti e attuali). Dal punto di
vista evolutivo sono i progenitori dei moderni scorpioni (per questo sono anche
detti scorpioni d’acqua). La figura seguente illustra due Euripteridi, il primo
del Siluriano, a grandezza naturale (Hugmilleria,
a), e il secondo del Devoniano, lungo 1,80 m, di cui si notino il diverso telson (la porzione caudata s’è
allargata) e i cheliceri sono simili a chele (Pterigoto, Pterygotus, b):
Fonte:
Padoa, 1971, p. 101.
I
Nautiloidi (le cui prime forme risalgono al Cambriano), raggiungono in questo
periodo la massima
diffusione; si tratta di Molluschi che
presentano una conchiglia fatta di gusci conici di grandezza crescente disposti
prima diritti, poi ricurve e poi a spirale, prima con camere lasse e poi con
camere sempre più strette, e con esemplari che possono arrivare ad una
lunghezza di 2 m); questa conchiglia è poi divisa in setti interni trasversali a
formare camere piene di gas (e si tratta d’un gas con una composizione chimica
non molto diversa da quella dell’atmosfera), tra loro collegate da un condotto,
o sifone, che permette all’organismo di adattarsi alla profondità desiderata
alla ricerca di prede, e nella cui ultima camera (detta d’abitazione, e in cui
il Nautiloide si ritrae in caso d’attacco) si stanzia l’organismo molle, il predatore
vero e proprio con 94 tentacoli attorno alla bocca; nel complesso, si parla di
una conchiglia concamerata. La figura seguente mostra l’evoluzione della
conchiglia concamerata da diritta a spiraliforme:
Sempre rimanendo ai predatori, dal
Cambriano al Siluriano, attraverso l’Ordoviciano, si passa dai pesci Agnati a
quelli dotati di mandibola e denti; nei pesci Agnati (dove –gnato deriva dal
greco γνάϑος, mascella, con a
privativa) le ossa del capo sono spesse, lo scheletro è cartilagineo, la forma del
corpo è piatta, gli occhi piccoli e ravvicinati sono in posizione dorsale, la
bocca è priva di strutture articolate adatte alla presa, aperta a imbuto e
ovaloide (sul lato ventrale) e le narici sono impari (cioè con una sola narice), tutti tratti che li rendono
probabilmente adattati all’alimentazione organica presente sui fondali, mentre
i pesci con mandibola, cioè Gnatòstomi (Gnathostomata,
come tutti i vertebrati dotati di mascella, dove –stomata, deriva dal greco στόμα –ατος, bocca), che si sviluppano nel Siluriano (Cranioti), presentano un
cranio munito di potenti placche ossee e di uno scheletro a cerniera che li
rende provvisti di mascelle articolate, con denti, aperte in avanti e adatte
alla cattura e alla masticazione del cibo e con organi olfattori pari, ed è da
allora che gli Gnatostomi (Pesci, Anfibi, Rettili, Uccelli e Mammiferi, volendo
Pesci e Tetrapodi, cioè forme che respirano per branchie e forme che respirano
per polmoni), tutti dotati d’una struttura dorsale di sostegno (la colonna
vertebrale), d’una struttura muscolare dorsale e ventrale, d’un encefalo
contenuto in un cranio e di uno scheletro osseo (o cartilagineo), d’un midollo
spinale e di guaine mieliniche intorno agli assoni dei loro neuroni che
permette una trasmissione molto veloce dell’impulso nervoso, vale a dire vertebrati
(Cordati) con un’ampia e vigile libertà di movimento, che diventano temibili
predatori e erbivori, cioè adatti ad un successo evolutivo che da poco più di 400
milioni d’anni fa si manifesta come vincente in tutti gli ecosistemi della
Terra. E, se ci ragiona un attimo sopra, è evidente che alla base di tutto c’è
un successo che dipende dall’uso efficiente delle disponibilità alimentari (che
corrisponde, di fatto, con la dismissione della microfagia, cioè dell’alimentazione
per filtrazione di microorganismi presenti nelle acque e l’introduzione della
macrofagia, onnivora o meno che sia). E ora le Piante. Fatto salvo che con il
termine pianta (da cui deriva, nella terminologia botanica, il suffisso –fito,
dal greco ϕυτόν, pianta) s’intendono
qui gli organismi pluricellulari che presentano cellule eucarioti che hanno
come limite delle pareti cellulari costituite di cellulosa, che sono fotoautotrofi in quanto provvisti di pigmenti
fotosintetici (quali la clorofilla) che permettono di trasformare l’energia
solare in energia chimica e che sono, infine, caratterizzati da un
accrescimento indefinito (sono pertanto escluse le Cianofite, appartenenti ai Procarioti
e i Funghi, classificati a sé), si può affermare che nel Siluriano, ad
allargare ancora il campo delle già esistenti possibilità alimentari, si manifestano
le prime piante sulla terraferma, derivate dalle Alghe. Per apprezzare la
transizione, è forse opportuno dire qualcosa attorno alle Tallòfite e alle
Cormòfite, sebbene queste classificazioni siano ormai desuete, cioè non più
utilizzate a livello tassonomico, ma utili come categorie descrittive. Partiamo dal
termine tallo ch’indica il corpo cellulare d’organismi semplici quali le alghe,
i licheni, i muschi e i funghi; questo corpo non è, infatti, organizzato in
tessuti specializzati e organi complessi, ma è formato da cellule che si sono originate
per divisioni ch’avvengono secondo piani particolarmente orientati
(trasversali, longitudinali etc.).
Dunque, una
pianta tallofita non presenta un’organizzazione morfologica evoluta, ciò che
l’obbliga a vivere in ambienti acquatici, o, e qui è il punto, a insediarsi in habitat terrestri che presentino acqua,
anche in forme d’umidità elevata. Come dire, per esempio, che le Alghe, già
primitivamente adattate alla vita nelle acque, non hanno bisogno di strutture
specializzate, differenziate in quanto un tallo, più o meno espanso, assorbe su
tutta la sua superficie l’acqua, il diossido di carbonio e le sostanze
nutritive e che nel suo tessuto cellulare si compiono le complesse sintesi
organiche che permettono la vita autotrofa (questo tessuto, detto parènchima, è
costituito di solito da cellule con pareti ricche di cellulosa, citoplasma
parietale e cavità delimitate da membrane, o vacùoli, con acqua e soluti vari).
Ora, per superare la frontiera acqua/terra, le piante verdi devono mantenere le
capacità fotosintetiche e quindi devono possedere anch’esse dei parenchimi
omologhi a quelli del tallo, ricchi di clorofilla e ai quali dovrà arrivare
l’acqua assorbita dal terreno. Cioè richiedono un apparato di radici, o radicale,
un fusto ricco d’un sistema di vasi, cioè vascolarizzato, che trasporti in ogni
dove i soluti nutritivi, la linfa, e foglie che permettano la fotosintesi
clorofilliana, oltre che di tessuti specializzati per la crescita e la
riproduzione, dunque un’organizzazione strutturale e morfologica evoluta; ciò
che permette di chiamarle piante superiori. Ora, il corpo cellulare delle
piante superiori è il cormo, che si distingue dal tallo per essere costituito
da cellule, tessuti e organi differenziati, adibiti a funzioni specifiche
diverse, come dire che i suoi tessuti sono differenziati in tessuti
fotosintetici, specializzati per fornire le sostanze nutritive alla pianta attraverso
la fotosintesi; tessuti vascolarizzati, per distribuire l’acqua e le sostanze a
tutte le parti della pianta; tessuti di sostegno, che danno solidità e
robustezza alle sue strutture; infine, di tessuti, di solito localizzati negli
apici del fusto e delle radici, costituiti da cellule indifferenziate, ricche
di citoplasma e con parete sottile, capaci di dividersi e successivamente
differenziarsi per formare i tessuti definitivi, o meristematici, a cui si deve
la crescita della pianta in altezza ed eventualmente in larghezza. Insomma il
cormo è dato da un apparato radicale (radice), da un fusto (càule) e dalla
chioma (le foglie), tanto che le piante superiori sono dette cormofite. E, per
rientrare nell’ambito tassonomico, possiamo dire che tutte le piante vascolari,
cioè cormofite, sono complessivamente classificate come Tracheòfite (Tracheophyta) e comprendono tutti i phyla del regno vegetale (escluse le
Briòfite, Bryophyta). Ritornando
indietro, sono le Cloròfite (Chlorophyta,
o Alghe verdi pluricellulari) quelle che hanno colonizzato le coste marine, cioè
quelle forme ancestrali che immagazzinano le sostanze di riserva sotto forma
d’amido ch’è propria anche alle attuali Briofite (epatiche e muschi). Detto
altrimenti, sulla terraferma le prime piante che crescono lo fanno in luoghi
umidi perché, non possedendo strutture vascolari (cioè, come detto, strutture
specializzate per il trasporto, in questo caso dell’acqua), devono assumerla
per osmosi direttamente dall’ambiente di superficie, lo stesso che per la loro
riproduzione, giacché richiedono acqua per trasportare le spore. Per inciso, le
spore sono quelle microscopiche strutture unicellulari deputate alla
trasmissione dei caratteri ereditari della specie che si formano per divisione
cellulare all’interno dell’organismo genitore (dove, del resto, sono prodotte
in grande quantità al fine di propagare, per dispersione tramite agenti esogeni
quali l’acqua o il vento, le caratteristiche della specie; lo stesso il fatto
che le spore siano in grado di sopportare temperature inadatte o assenza
d’acqua, ossia condizioni climatiche sfavorevoli, nel qual caso esse permangono
in uno stato di quiescenza fino al momento in cui sono presenti nuovamente
nell’ecosistema quelle condizioni favorevoli alla germinazione). Ora, poiché
queste prime piante sono prive di semi, ecco che le si descrive come Crittògame
(Cryptogamae; dal suffisso –gamo,
ch’è dal greco γάμος, nozze, unione
sessuale, e critto-, ch’è dal greco κρυπτός,
nascosto, coperto, come dire che la loro riproduzione è nascosta perché non si
vedono i semi). Da questi primitive Crittogame si sviluppano, 430 milioni
d’anni fa, le prime piante con un apparato vascolare in grado di trasportare e
l’acqua e le sostanze nutritive in essa disciolte, o soluti, ossia le Tracheofite,
e tra esse le Riniòfite (Rhyniophyta),
piante alte qualche decimetro, che si riproducono con spore presenti alle
estremità dei rami, e, per il resto, prive anche di cormo, cioè radici, foglie
e fusti, ciò che permette una prima colonizzazione estensiva di queste piccole
piante in zone costiere, paludi e foci dei fiumi (le Riniofite, le più antiche
Crittogame vascolari, s’estinguono nel Devoniano, 380 milioni d’anni fa). La
figura seguente mostra la ricostruzione d’una Rhyniofita (Rhynia maior) del Devoniano, il cui habitat è quello delle zone paludose, che da un fusto sotterraneo,
a sviluppo grosso modo orizzontale e che s’alimenta attraverso filamenti che
fuoriescono dalla parte inferiore, detto rizoma (e i filamenti, rizoidi),
innalza un ramo di ca. 15 cm e più, apicalmente ramificato in due parti, e dove
ogni parte termina con uno sporangio (ossia una struttura pluricellulare che
produce le spore, poi protette dall’esterno da uno spesso rivestimento di
cellule ad uno strato), probabilmente deciduo al fine di disperdere le spore, il
tutto ancora privo di foglie; da sottolineare che la crescita non avviene
verticalmente, ma dal rizoma che striscia sul terreno facendo uscire i nuovi
rami e che questa tipologia della struttura d’insieme è detta a teloma;
Fonte:
Padoa, 1971, p. 104.
Riassumendo,
nel periodo Ordoviciano, 500-440 milioni d’anni fa, si presentano nuove
radiazioni adattive, prima e dopo l’estinzione di massa, da parte d’un gran
numero d’organismi, con l’occupazione di nuove nicchie ecologiche nei mari di
tutta la Terra (per il concetto di nicchia ecologica, v. infra), tra cui i primi pesci cartilaginei; radiazione seguita da
un’estinzione di massa cui segue, nel periodo Siluriano, 440-416 milioni di
anni fa, una nuova radiazione adattativa con la comparsa delle barriere
coralline e dei primi pesci ossei, cioè i primi vertebrati (o dotati di colonna
vertebrale) Gnatostomi, e a seguire le prime piante senza seme, come dire ch’è
nel Siluriano che l’evoluzione è presente tanto nei mari, quanto, e
soprattutto, inizia sulla terraferma (da ricordare, a questo proposito, che nel
Siluriano sono presenti degli Aracnidi, una classe degli Artropodi, molto
simili agli attuali scorpioni, anche se resta il dubbio che siano animali non
terrestri ma d’acqua dolce). La figura seguente mostra due scorpioni, uno
vivente (Scorpio, a) e l’altro, molto
simile, che vive nel Siluriano (Palaeophonus,
b):
Fonte:
Padoa, 1971, p. 102.
Dunque,
durante la fine del Siluriano e il periodo Devoniano (416-354 milioni d’anni
fa), che lo
segue, si presenta la diffusione di molti
gruppi di pesci, una linea evolutiva dei quali darà origine agli anfibi, i
quali a loro volta superano la frontiera marina e iniziano a colonizzare le
terre emerse che, nel frattempo vedono, come visto, la diffusione delle prime piante
(da sottolineare che il superamento di questa frontiera è stato un fenomeno
tardivo giacché le flore e le faune, pur
molto ricche di specie, appartengono a pochi gruppi sistematici, nulla o quasi
al confronto con l’inventività delle forme marine). Il tutto nel mentre
l’attività tettonica delle zolle continua. Partendo dalla figura seguente (che
mostra la distribuzione dei continenti 390 milioni d’anni fa, 390 Ma, in un
quadro tettonico molto dinamico):
Figura
n. . Fonte: Altschuler, 2005, p. 110.
si
nota la formazione della Laurussia (o Euroamerica, con la Laurentia e la
Baltica già unite a
formare
questo supercontinente, dato di fatto dall’Europa e il Nord America, ciò che ha
dato origine all’orogenesi degli Appalachi settentrionali e delle catene
montuose non elevate d’Europa, tra cui gli Urali [?], orogenesi detta
Calendonica), la presenza della Siberia (che, unito alla Laurussia, formerà tra
300 e 250 milioni d’anni fa ca., la Laurasia), la sparizione dell’Oceano
Giapeto sostituito dall’espansione dell’Oceano Reico, e il supercontinente Gondwana
(formato grosso modo da quelle che saranno l’Africa, il Sud America, l’Eurasia
del sud, l’Antartide e l’Australia) a Sud, terre emerse che tutte insieme, con
i loro spostamenti, porteranno alla fine del Permiano (ca. 245 milioni d’anni
fa), alla formazione della Pangea (cioè all’unione del Gondwana con la
Laurasia). Per riprendere, a questo punto, la diffusione delle piante terrestri
in questo nuovo contesto continentale in cui sono presenti condizioni
climatiche piuttosto uniformi, con la prevalenza d’un clima caldo-umido, si
sottolinea che sono piante che renderanno, grazie alla loro sintesi delle
sostanze organiche e con la loro attività fotosintetica, abitabile l’ambiente (in
superficie e subaereo) a forme di vita eterotrofe che dipendono, per la loro
sopravvivenza e dall’ossigeno e dalla catena alimentare che le piante
permettono, premessa per comprendere la diffusione degli anfibi dei quali si
parlerà fra poco; piante, inoltre, che con la loro copertura modificano (anche
strutturalmente) il paesaggio e si differenziano in esemplari via via più
complessi, per arrivare alle Cormofite con apparato radicale e aereo (cioè con un
fusto che presenta delle radici ancorate al suolo capaci d’assorbire acqua e
sostanze organiche utili allo sviluppo della pianta, dei rami e delle foglie), e
di dimensioni ben più appariscenti delle piccole Riniofite, prive di tessuti specializzati, sopra citate. Prima
d’offrire un parziale elenco di quest’evoluzione colonizzatrice (che non
bisogna pensare come lineare) bisogna essere informati su alcune cose, cioè
sulle radici, sul fusto, sulle foglie e sui semi (che prendono il posto delle
spore). La radice, ch’è l’organo sotterraneo (o ipogeo) della pianta, ha due
funzioni, una d’assorbimento dell’acqua e dei nutrienti in essa disciolti;
l’altra, di fissazione della pianta al substrato (suolo); essa s’accresce e si
sviluppa grazie a cellule che s’accrescono per distensione, e penetra poi nel
suolo grazie alle sue capacità d’orientarsi secondo la direzione della forza di
gravitazione terrestre (o geotropismo, qui positivo); la prima radice della
pianta (detta radichetta) si sviluppa durante la germinazione dell’embrione e cresce
arrivando a formare la radice primaria; da questa si dipartono, a seguire, le radici
secondarie. Il fusto, o caule, che ha la funzione di sostegno per tutte le
strutture della pianta, è l’organo aereo che stabilisce durante la crescita, e
grazie ai suoi tessuti conduttori disposti verticalmente nei fasci vascolari,
un tramite tra le foglie e la radice; quando questi fasci s’estendono alla foglia,
assumono poi il nome di nervature; mentre il fusto è orientato in senso opposto
alla forza di gravitazione (geotropismo negativo), i rami sono orientati in
senso trasversale (diageotropismo); da sottolineare che il sistema vascolare è costituito
da cellule specializzate in elementi conduttori (trachee e tracheidi) e
che esistono due tipi di tessuti vascolari, lo
xilema, ch’è responsabile del trasporto dell’acqua e dei sali minerali dal
terreno al caule e quindi alle foglie, e il floema, deputato al trasporto delle
sostanze nutritive (sintetizzate per mezzo della fotosintesi), a tutti gli
organi della pianta. La foglia è l’organo deputato all’assorbimento
dell’energia luminosa e degli scambi gassosi dell’intera pianta
(assorbimento/emissione di diossido di carbonio, CO2, e d’ossigeno,
O2) ed è sede della funzione clorofilliana. Dal punto di vista
morfologico è formata da una base per mezzo della quale s’inserisce nel caule,
da un picciòlo (dato dalla parte àssile, di varia lunghezza, che sorregge la
base fogliare e la collega al caule; se questo manca la foglia si dice sessile)
e dalla lamina che, nel caso sia unica, ci dà le foglie semplici. Quest’ultima
rappresenta la parte espansa e appiattita della foglia (il lembo fogliare) e,
dal punto di vista anatomico, è costituita di diversi tessuti, da una parte
superiore (o pagina superiore) rivestita da un’epidermide spessa e priva di
stomi, da una pagina inferiore che ha rivestimento più sottile e stomi più o
meno numerosi secondo la specie; lo stoma è poi l’apparato con cui le parti
aeree delle piante riescono ad avere degli scambi gassosi tra l’esterno e
l’interno (qui i gas sono contenuti negli spazi intercellulari del parenchima),
ed è dato da due cellule di guardia che, con la faccia concava volta l’una
verso l’altra, delimitano una fessura (l’apertura stomatica) che, secondo che
le cellule siano più o meno turgide, s’allarga, si stringe o si chiude
permettendo così di regolare lo scambio gassoso, CO2 e O2,
tra la pianta e l’ambiente esterno. La foglia è inserita sul fusto o sul ramo
in punti specifici, detti nodi, separati da spazi chiamati internodi (e questa
disposizione, detta fillotassi, può variare notevolmente da specie a specie).
Detto questo
del cormo, resta che la più importante innovazione che rende possibile
l’affermazione e l’estensione delle piante sulle terre emerse è lo sviluppo d’una
struttura riproduttiva diversa dalle spore, il seme, che contiene,
miniaturizzate, tutte le parti della pianta adulta (assieme a sostanze di riserva
e di primo nutrimento) che presume una capacità di grande resistenza che
garantisce alla pianta la sua dispersione nell’ambiente, dunque una capacità di
propagazione della specie in nuovi ambienti sottratti alla competizione e,
soprattutto, la sua capacità di conservazione (come organismo quiescente o
dormiente) nell’ipotesi che le condizioni dell’ecosistema d’arrivo siano
sfavorevoli allo sviluppo della pianta stessa. Queste piante dotate di seme,
dette Fanerògame (dal greco ϕανερός, chiaro,
evidente, da leggersi in contrapposizione a Crittogame, cioè dal seme manifesto,
oggi dette Spermatòfite), s’originano in quest’arco temporale da un gruppo di
piante, dette Progimnospèrme, che presentano delle caratteristiche che sono
intermedie tra quelle delle piante prive di seme, le Crittogame trimeròfite
(che per prime sviluppano elementi adibiti al trasporto della linfa grezza, o
tracheidali) e quelle con seme, le Gimnospèrme (Gymnospermae; con le Angiospèrme, Angiospermae, una delle due divisioni delle piante Spermatofite,
dove, nelle Angiosperme, o piante con fiore, i semi sono racchiusi in un
involucro, detto ovario, destinato a trasformarsi in frutto, mentre nelle
Gimnosperme, o piante a seme nudo, i semi sono inseriti tal quali tra lo squame
delle strutture specializzate a ciò atte, dette coni). Possiamo dunque ora dire
che, nel Devoniano, s’assiste ad un’evoluzione (dal tallo al cormo, dalle spore
al seme) e a una colonizzazione delle terre emerse. Esiste, infatti, per questo
periodo la testimonianza fossile di piante con radici, fusto ramificato e
presenza di foglie sessili (come detto, foglie non picciciolate che dal tronco
che le porta non ricevono che vasi), per esempio lo Pseudosporocno (Pseudosporochnus; la cui altezza può
raggiungere i tre metri) e, a seguire, verso la fine del Devoniano, cauli con
vere foglie vascolarizzate, cioè felci primitive classificabili nelle Pteridofite
(Pteridophyta), cui seguono le
Pteridospèrme (Pteridospermae)
destinate a diventare più abbondanti nel Carbonifero, piante che si possono
considerare a cavallo tra le Pteridofite e le Gimnosperme (come detto, piante a
fiori) più primitive, con una struttura vascolare complicata, con un apparato
riproduttore nel quale si sono differenziati ovuli e polline e si presenta la
formazione d’un seme embrionato. La figura seguente mostra la ricostruzione
d’una Pteridosperma del Devoniano, Eospermapteride (Eospermatopteris, oggi classificato come Wattieza, Wattieza; può essere alto fino a 10 m e
presenta fronde simili a felci):
Fonte:
Padoa, 1971, p. 108.
Abbiamo
così una commistione d’alberi che s’estendono a foreste in aree umide (coste di
stagni, zone paludose e acquitrinose, laghi etc.)
quali i Licopòdi (Lycopodium) arborei,
tra cui il Lepidodèndro (Lepidodedron),
forme arcaiche che si riproducono per spore, con apparato radicale a Y
rovesciata, alte fino a 40-45 metri e con un tronco legnoso e corteccia che può
avere diametri anche di 5 metri e i cui rami crescono solo sulla parte
superiore del fusto (per inciso, il Lepidodendro rappresenta una delle più
diffuse essenze arboree del successivo Carbonifero, cui contribuisce in maniera
sostanziale alla formazione dei depositi di carbone fossile risalenti a questo
periodo), associate alle Pteridosperme, che s’estingueranno nel Mesozoico, che
comprendono le Archeopteridèe (Archaeopterideae),
la cui crescita è sia verticale che laterale e il cui apparato radicale non è
superficiale, ma profondo più d’un metro e la cui altezza può arrivare fino a
30 metri e con fronde che sono simili a felci; i sottoboschi e le zone
acquitrinose sono poi ricoperti da fitte concentrazioni di Sfenòpsidi (Sphenopsida), piante con vere radici e
corpo vegetativo suddiviso in internodi tra loro articolati, tra cui gli Equisèti
(Equisetum, paragonabili alle felci
arboree delle attuali foreste tropicali), e una grandissima varietà di felci
arcaiche, gli uni e gli altri che si riproducono nel sottobosco per spore (Equiseti
e felci, per inciso, appartengono alla divisione delle Pteridofite); le felci,
che vivono in ambienti meno umidi delle Briofite, possono inoltre raggiungere
altezze di una decina di metri (come gli Equiseti) e oltre, e, stando alle
testimonianze fossili, s’evolvono a partire dal Devoniano e raggiungono, nel
Carbonifero, uno sviluppo e una diffusione tali, da divenire in breve le piante
colonizzatrici dominanti dell’intera Terra. Va da sé, come sopra accennato, che
l’attività fotosintetica svolta dalle foglie e, ancor più, la diffusione di
piante con apparato radicale, riducono drasticamente il diossido di carbonio
(CO2) e aumentano la quantità d’ossigeno, ciò che muta anche la
fauna nei mari e, per la prima volta, ne permette l’introduzione sulla terraferma.
Nei mari, sono presenti Brachiopodi e Echinodermi, a lato di Graptoliti e Echinodermi
(un gruppo, come detto, d’invertebrati marini bentonici, costieri o abissali), in
via d’estinzione e le Trilobiti, in declino; Briozoi e Tetracoralli,
costruttori di barriere, sono in via di notevole diffusione. Sono inoltre
presenti un gran numero di diversi gruppi di pesci (di cui, nel Devoniano, è
massimo il numero), che iniziano a presentare pinne, squame e articolazione
boccale, tra i quali quelli corazzati, i Condroitti e gli Osteitti. Tra i pesci
corazzati, cioè che presentano dermascheletri di tessuto osseo per protezione
contro i predatori, s’annoverano gli Agnati Ostracodèrmi, gli Acantòdi (Acanthodii) e Placodèrmi (Placodermi). Gli Ostracodermi sono
organismi di piccola taglia, privi di mascella, presentano placche dermiche di
tessuto osseo a formare una specie di corazza continua, una larga piastra sulla
superficie dorsale e laterale della regione cefalica, con il resto del corpo
formato da piccole placche giustapposte, pinne impari e, sul margine ventrale
della regione cefalica, l’apertura delle sacche branchiali; vivono sui fondali
marini, sono cioè organismi bentonici, e si sono estinti 300 milioni d’anni fa,
probabilmente per la predazione dei più efficienti Gnatostomi). La figura
seguente mostra un Ostracoderma (Hemyciclapsis;
la pinna caudale si definisce eterocerca quando l’estremità della colonna
vertebrale si curva dorsalmente in alto):
Figura
n. . Fonte: Polticelli, 2003, p. 80.
Gli
Acantòdi (che sono tra i primi vertebrati ad essere Gnatostomi, cioè dotati di
mandibole mobili
e pinne pari, pinne poi sorrette da
robuste spine con probabile funzione difensiva; di piccole dimensioni, presentano
uno scheletro cartilagineo, a calcificazione avanzata, e il corpo e la testa sono
coperti da un’armatura dermale costituita di vere scaglie; sono detti anche
squali spinosi). I Placodermi (esclusi gli Artrodiri, Arthrodira, un ordine che presenta lunghezze anche di 10 metri),
sono organismi di piccola taglia che abitano di preferenza le acque dolci (o
forme dulcacquicole), se pure sono adattati alla vita sul fondo, e presentano,
su un corpo d’una decina di centimetri, una struttura appiattita in senso
dorso-ventrale ch’è parzialmente ricoperta, cioè limitata alla porzione
cefalica e alla parte anteriore del tronco, da placche ossee (mentre negli
Ostracodermi il rivestimento è continuo, qui sono presenti placche
relativamente piccole e giustapposte); la colonna vertebrale è rudimentale; presentano
pinne pettorali e pelviche e sono i primi tra i vertebrati ad essere dotati
d’una forma della bocca adattata alla presa del cibo, dunque di mascella in
alto e mandibola in basso, ciò che fa di loro i primi organismi a non usare
l’alimentazione per filtrazione e, soprattutto, ad essere animali che cercano
attivamente il cibo, ossia dei temibili predatori (sono poi destinati in gran parte ad essere senza discendenza
a causa dell’estinzione di massa del Devoniano). Le figure seguenti mostrano,
nell’ordine, un Placoderma, detto Pterichthyodes,
di 15 cm di lunghezza, e la corazza del Dinichthys,
un Artrodiro di 10 m di lunghezza (il termine Artrodiri deriva dal greco ἄρϑρον, articolazione, giuntura, e δειρή,
collo, a significare articolazione del collo, ciò che si nota in figura dove è
segnalato lo spazio di manovra tra la regione cefalica e il tronco, cioè dov’è
presente un’articolazione della corazza, ciò che permette una maggiore apertura
e coordinazione dell’apparato buccale e una più grande efficienza predatoria):
Figura
n. . Fonte: Padoa, 1971, p. 142.
Figura
n. . Fonte: Padoa, 1971, p. 144.
A seguire, s’aggiungono i citati Condroitti
(Chondrichthyes, o Condritti) e Osteitti
(Osteichthyes), che probabilmente altro
non sono che phyla staccatisi da un
ceppo ancestrale dei Placodermi e, in seguito, sviluppatisi autonomamente. I Condroitti,
detti anche pesci cartilaginei, sono pesci predatori marini (differenziati
nelle acque dolci, ma diventati stabili in acque salate) con lo scheletro di un
tessuto connettivo, pieghevole e di notevole consistenza, di cartilagine,
appunto (scheletro ch’è poi rinforzato da depositi di calcio, ma è
completamente sprovvisto di tessuto osseo), e presentano denti non fissi alla
mascella; inoltre, presentano fessure branchiali scoperte, numerose pinne, e sono
senza vescicola natatoria (v. infra)
in quanto si mantengono in equilibrio con l’acqua marina mediante un
sovraccarico d’urea che rilasciano o meno con l’urina; i maschi sono dotati d’un
organo copulatore esterno derivato dalla trasformazione della parte posteriore
delle pinne ventrali, mentre le femmine presentano la fecondazione interna; i
condroitti sono inoltre carnivori e predatori (come per esempio, gli squali).
La figura seguente mostra un pesce cartilagineo, Carcharias (si tratta di uno squalo dell’ordine dei Lamniformi, Lamniformes; le abbreviazioni rimandano alle pinne pettorali,
addominali, caudali, dorsale posteriore e anteriore):
Figura
n. . Fonte: Padoa, 1971, p. 147.
Gli Osteitti, o pesci ossei (cioè con la
presenza di tessuto osseo nello scheletro che s’è sviluppato sullo scheletro
cartilagineo dell’embrione), originariamente viventi nelle acque dolci e poi
migrati nelle acque marine, e da qui, ritornati in parte alle acque dolci, a
differenza dei Condroitti presentano una vescica natatoria, vale a dire una
sacca ripiena di gas (in modo prevalente ossigeno), derivata da
un’estroflessione della parete dorsale del primo tratto del canale alimentare, che
permette loro, perdendo o acquistando gas, di raggiungere un equilibrio
idrostatico, ossia d’avvertire le differenze di pressione alle varie profondità
in modo da potere reagire a esse e regolare così il proprio galleggiamento al
variare della profondità (i fluidi interni, inoltre, presentano una
concentrazione salina maggiore dell’acqua dolce e minore di quella marina); il
corpo degli Osteitti è generalmente fusiforme e la bocca ha mascelle provviste
di denti fusi con esse. Questa Superclasse di Vertebrati, ch’include oggi ca.
20 000 specie, all’epoca è suddivisa tra gli Attinopterigi (o Actinopterigi; Actinopterygii), i Crossopterigi (Crossopterygii; il suffisso -pterigi che
ritorna deriva dal greco πτερύγιον,
pinna) e i Dìpnoi (o Dipnòi; Dipnoi).
Gli Attinopterigi (che s’oppongono ai Crossopterigi), sono organismi provvisti
d’un endocranio più o meno ossificato e presentano le pinne pari con
cartilagini basali rudimentali e raggi articolati a ventaglio che le sostengono
(detti lepidotrìchi). La figura seguente mostra un Attinopterigio, Cheirolepis:
Figura
n. . Fonte: Padoa, 1971, p. 159.
I Crossopterigi (di cui, nel Devoniano e
nel Carbonifero è comune l’ordine dei Ripidisti, estintosi nel Permiano), sono predatori
delle acque dolci e presentano un cranio osseo o cartilagineo, un corpo
rivestito di scaglie spesse d’origine cutanea e con pinne pari provviste di
scheletro articolato e muscoli e pinna caudale eterocerca; le pinne di cui sono
in possesso sono poi robuste e con una disposizione ad archipterigio.
L’archipterigio è dato dal fatto che una pinna (o, come visto, pterigio) è sorretta
da un lungo asse scheletrico centrale da cui s’impiantano una o due serie
simmetriche di ossicini radiali (o raggi) di sostegno alla membrana della pinna.
La figura seguente mostra vari modi con cui le pinne sono sostenute dai raggi
(qui si tratta di pinne pettorali dove b, d, e, sono classificate come a
struttura archipterigia):
Figura
n. . Fonte: Padoa, 1971, p. 148.
Si
ricorda che alcuni ritengono che dalle pinne ad archipterigio siano derivati, a
partire dagli anfibi,
gli arti dei vertebrati tetrapodi (ed è
verosimile pensare che tale trasformazione dell’archipterigio in arto sia
avvenuta durante la vita acquatica, quale adattamento ad una locomozione sul
fondo che esige un minimo sforzo, ciò che renderebbe gli arti discretamente
preadattati alla vita sulla terraferma). La figura seguente mostra la probabile
derivazione dell’arto di un vertebrato terrestre (qui un anfibio del Permiano, Eryops, con sei dita) dalla pinna di un
pesce Crossopterigio (qui un Eusthenopteron):
Figura
n. . Fonte: Padoa, 1971, p. 169.
I Dipnoi, legati per linea evolutiva ai
Crossopterigi e anch’essi predatori d’acqua dolce (e con una particolare
dentatura a placche trituranti), sono anche detti pesci polmonati, e questa
denominazione deriva da un’inedita capacità di respirare ossigeno atmosferico,
capacità raggiunta grazie ad una vescica natatoria ch’è vascolarizzata da
un’apposita arteria polmonare che permette una sufficiente ossigenazione del
sangue; questa vescica, infatti, a differenza di quanto avviene negli altri
pesci dove arriva a fungere da organo idrostatico per regolare, come detto, la
profondità di galleggiamento, funziona qui come un vero e proprio polmone,
tanto che i Dipnoi respirano sia per branchie sia per mezzo della vescica
natatoria concamerata (il loro nome, infatti, deriva dal greco δίπνοος, che significa, appunto, con
doppia respirazione). Questo polmone è necessario perché i Dipnoi d’epoca
vivono in regioni nelle quali s’alternano periodi di pioggia a periodi di
siccità, e quando le zone dulcacquicole sono stagnanti o, alla peggio, tendono
a seccarsi, questi pesci sopravvivono nel fango ricorrendo a questa respirazione.
La loro fecondazione, inoltre, è esterna e ovipara, e le uova fecondate, grandi
e avvolte in un secreto gelatinoso che si gonfia a contatto con l’acqua, sono
deposte fra le piante acquatiche e si schiudono dopo una decina di giorni dando
origine a larve simili ai girini degli Anfibi. La figura seguente mostra la
ricostruzione di un esemplare di Dipnoo:
Figura
n. . Fonte: Polticelli, 2003, p. 84.
La
figura seguente illustra la filogenesi dei Pesci (le zone in grigio illustrano
le abbondanze relative, in crescita, in calo, o estinte, che dipendono dalla
loro distribuzione temporale):
Figura
n. . Fonte: Polticelli, 2003, p. 86.
È
poi dai sopra citati pesci ossei (Crossopterigi Ripidisti e Dipnoi), per
affinità presenti nelle caratteristiche strutturali e per la doppia
respirazione, che si possono ritrovare le basi delle linee evolutive che
portano agli anfibi (tutti d’acqua dolce) e, da questi, a tutti i tetrapodi
terrestri. Esistono così, per radiazione adattativa degli Osteitti, e ca. 360
milioni d’anni fa (tra il Devoniano e il Carbonifero), in un periodo prolungato
di grandi siccità che obbligano ad adattamenti alla vita fuori dalle acque
dolci, a grossi anfibi dotati d’una lunga coda appiattita e d’un cranio rivestito
da una massiccia corazza di placche ossee, con una sostanziale mancanza del
collo e con una lunghezza che può raggiungere i 2 metri e, soprattutto, in
possesso di veri polmoni (in quanto le branchie, presenti in periodo larvale,
sono state riassorbite alla metamorfosi), d’una struttura scheletrica ossificata
adattata, grazie ad arti primitivi evoluti dalle pinne robuste e lobate, a
colonizzare la terraferma (anche se con un ciclo riproduttivo legato all’acqua;
infatti, nell’acqua depongono le uova senza guscio nelle quali si sviluppa,
senza amnio, un embrione a respirazione branchiale che continua a vivere
nell’acqua sino alla metamorfosi; l’amnio, amnios,
come sopra detto, è un involucro embrionale e fetale che ha la forma di un
sacco nella cui cavità interna è contenuto l’embrione, poi il feto, sospeso in
un liquido sieroso limpido, o liquido amniotico, che serve a proteggerlo; per
questo gli Anfibi sono detti anamni e, in questo, si differenziano da Rettili, Uccelli
e Mammiferi che, invece, sono amnioti). Questi Anfibi sono detti Stegocefali (Stegocephali), e appartengono a una linea
evolutiva poi estintesi nel Mesozoico, e l’Ichthyostega
eigeli, come forma transizionale tra Pesci e Anfibi, n’è il più antico
rappresentante, da cui discenderanno e si diffonderanno a seguire, nel
Carbonifero, i Rettili. La figura seguente mostra l’apparato scheletrico d’Ichthyostega eigeli (con veri arti,
anche se corti, tozzi, con un corpo appiattito sul terreno non molto efficienti
per la marcia sul terreno):
Figura
n. . Fonte: Polticelli, 2003, p. 84.
Alla
fine del Devoniano (354 milioni d’anni fa) si presenta un’estinzione di massa
che colpisce soprattutto le specie localizzate nella fascia tropicale, e il
Carbonifero (354-290 milioni d’anni fa), che segue, vede, con la dominanza con
un clima caldo-umido, la diffusione d’estese foreste palustri, dove le specie
più diffuse sono la Calamite (Calamites),
genere della famiglia delle Articolate (Articulatae;
che comprende uno dei gruppi dominanti durante questo periodo che, spesso,
presentano un’altezza tra i 20 e i 30 metri, cui è pari una struttura
complessa); e le sopra citate Pteridofite, con i Lepidodendri cui s’aggiunge la
Sigillaria (Sigillaria; della
famiglia di piante dell’ordine lepidodendrali), piante queste con un fusto diritto
alto fino a 15-20 m e un apparato
fogliare che le porta fino a 30 m, con un diametro che può essere alla base di
2 m, terminante generalmente con rami più abbondanti nel Lepidodendron e più raccolti in Sigillaria,
come mostra la figura seguente (la Sigillaria
è a sinistra):
Figura
n. . Fonte: Padoa, 1971, p. 106.
Si
presentano inoltre, al loro apogeo, le Pteridosperme e le Cordaitali (Cordaitales), vere e proprie
Gimnosperme, d’un gruppo destinato ad estinguersi alla fine del Permiano, ma
dal quale hanno probabilmente preso origine le Conifere (Coniferae, classificate oggi come Pinophyta; classe di piante delle Gimnosperme che presentano un
fusto diritto centrale da cui si dipartono i rami su tutta la lunghezza, con
foglie squamiformi o aghiformi), di cui il genere più antico e la Walchia. Altre componenti di queste
foreste del Carbonifero sono le felci arboree, simili alle forme tropicali
ancor oggi viventi, come mostra la ricostruzione di Megaphyton nella figura seguente:
Figura
n. . Fonte: Padoa, 1971, p. 108.
Per
inciso, l’accumulo d’una grande quantità di sostanze organiche, piante e altro,
che portano alla formazione d’immensi giacimenti di carboni fossili, il
processo è facilitato per quanto riguarda le piante dal fatto che i grandi
alberi del Carbonifero, avendo un apparato radicale ampiamente espanso in senso
orizzontale, ma privo di robuste radici a fittone (cioè che si sviluppano
prevalendo, soprattutto in spessore, sulle laterali), possono essere facilmente
atterrate da fenomeni atmosferici quali il vento o le piogge che rendono i
fiumi alluvionali, ciò che ne permette il trasporto per accumulo sui fondali di
zone paludose e acquitrinose che ne impediscono poi la decomposizione (e dati i
tempi lunghi di questo processo di carbonificazione, si tratta di giacimenti d’antracite,
v. supra). In quest’ambiente si sono
poi diffusi degli Artropodi, tra cui la famiglia dei Blattidi, (dell’ordine Blattoidei,
Blattoidea, molto simili agli
scarafaggi odierni), organismi ch’amano gli ambienti umidi e risultano essere
predominanti, e insetti alati, simili a libellule, con forme relativamente
gigantesche e con un’apertura alare che può superare il mezzo metro; tra gli
Aracnidi, si trovano scorpioni (Scorpiones)
tra i primi organismi, come detto, probabilmente a transitare dalle acque alla
terraferma e a colonizzarla assieme alle Piante); Chilognati (Chilognatha), o millepiedi, amanti dei
detriti vegetali, di cui si cibano; e Aranei (Araneae), predatori conosciuti con il nome di ragni. Infine, tra i
Molluschi, si trovano le chiocciole (nome comune dei Gasteropodi Polmonati
dell’ordine Stilommatofori, famiglia Elicidi). Dagli anfibi (Amphibia), come detto i primi vertebrati
in grado di vivere anche in habitat
terrestri (e di colonizzarli), compaiono in seguito, per radiazione adattativa dovuta
ad affrancamento dalle zone acquatiche, i Rettili (Reptilia); questi Rettili, strutturalmente simili agli anfibi e
diffusi alla fine del Carbonifero e nel successivo Permiano, introducono, oltre
a un sistema circolatorio più efficiente, una novità evolutiva, che li rende
capaci di colonizzare anche ecosistemi ostili, cioè capaci d’affrontare
difficili condizioni ambientali, novità ch’è data dalla comparsa d’un uovo subaereo
(le uova, infatti, sono deposte sul terreno) il cui guscio protegge l’embrione dall’ostilità
dell’ambiente e dalla disidratazione e ne permette in pari tempo, grazie alla
sua porosità, la sua respirazione, cioè gli scambi gassosi con l’esterno
(diossido di carbonio in uscita, ossigeno in entrata), uovo il cui interno è anche
in grado di fornire alimento in quanto provvisto di amnios (e tutti i tetrapodi sono amnioti, a differenza degli Anfibi
che, come sopra detto, sono anamni), cioè un uovo amniotico in cui avvengono le
prime fasi di sviluppo dell’embrione protetto dal guscio. Ancora, nei Rettili
manca il sistema di termoregolazione quale lo presentano i restanti Tetrapodi,
cioè Uccelli e Mammiferi (i Rettili, infatti, sono animali a sangue freddo la
cui temperatura corporale, non molto diversa da quella dell’ambiente esterno,
ne subisce le variazioni, sono cioè eterotermi, a differenza di uccelli e
mammiferi che sono a sangue caldo, omeotermi, ossia con una condizione corporale
di relativa stabilità termica che, grazie a meccanismi interni di
termoregolazione, permette loro una parziale indipendenza dalle oscillazioni
termiche dell’ambiente); eterotermia che fa sì ch’essi dipendano dalla
temperatura esterna, cioè o da suoli caldi o dalla radiazione solare (ciò che
spiega perché ibernino al freddo o estivino, cioè rallentino il loro
metabolismo in una specie di stato di torpore, se troppo caldo). Le
testimonianze fossili del passaggio dagli Anfibi ai Rettili sono scarse, ed è
per questo ch’è accettato come primo rettile l’Hylonomus, un organismo carnivoro e insettivoro d’una ventina di
centimetri di ca. 315 milioni d’anni fa che ricorda la lucertola, cui segue
un’imponente radiazione adattativa con lo sviluppo di diverse linee evolutive. Se
nel Carbonifero si manifestano gli appartenenti all’ordine dei Cotilosàuri (Cotylosauria), rettili simili
nell’aspetto agli anfibi e caratterizzati da un cranio massiccio e da arti
corti e tozzi terminati da cinque dita, sia con piccole che con medie forme (si
parte da pochi decimetri per arrivare, ma raramente, a superare i due metri),
per la fine del Permiano da questi si sono già evoluti e assestati una dozzina
d’ordini (di cui ne sopravvivono solo quattro) che rendono i Rettili ormai dominanti
sulla terraferma dove questi, infine, o predano gli Anfibi o li ricacciano ai
bordi dell’acqua. La figura seguente illustra un Cotilosauro del genere Limnoscelis (lungo 1,50 m):
Figura
n. . Fonte: Padoa, 1971, p. 194.
Nei
mari sono poi presenti, tra altri, i Fusulìnidi (Fusulinidae; organismi cellulari protisti con guscio fusiforme o
discoidale costituito da una lamina calcarea avvolta a spirale simmetrica, con
tanti setti trasversi che delimitano altrettante logge), appartenenti un gruppo
di Foraminiferi (Foraminifera) di
piccole dimensioni (tra 1 e 7 cm) e i Molluschi predatori Cefalopodi (classe
che comprende oggi seppie, polpi, calamari, etc.).
Nel Permiano (290-245 milioni d’anni fa), che segue il Carbonifero, si chiude
il Paleozoico (o Primario), ed è questo il periodo in cui la tettonica delle zolle
porta all’aggregazione in un unico blocco delle terre emerse, ciò che forma il
supercontinente Pangea, cui è pari un restringersi della superficie marina;
infatti, la fine del Primario è segnata da una regressione, estesa a tutte le
terre emerse, dei mari epicontinentali, non si sa se per innalzamento delle
masse continentali o per sprofondamento dei fondi oceanici, seguite nel
Secondario da una nuova trasgressione marina (ossia da un riavanzamento dei
mari a riformare mari epicontinentali). La figura seguente mostra la paleogeografia
della Terra di 225 milioni d’anni fa (225 Ma):
Figura
n. . Fonte: Altschuler, 2005, p. 110.
(si
noti, nella figura che il Sudamerica e l’Africa sono unite nel Gondwana, come
dimostrano anche alcuni ritrovamenti fossili di Mesosaurus, Lystrosaurus,
Cynognathus e Glossopteris su
entrambe le attuali coste, v. supra).
In questo periodo è, inoltre, presente una notevole attività vulcanica e il
clima si differenzia fra gli Emisferi, e si presenta caldo-arido in quello boreale
e, al contrario freddo in quello australe (com’è testimoniato da depositi
glaciali). Nella flora si sviluppano le Gimnosperme, tra cui le Conifere, e le Glossopteris (diffuse soprattutto
nell’Emisfero australe, nel Gondwana), felci a sviluppo arboreo, alte fino a 6
metri e con un diametro del troco sino a 40 cm; diffusione ch’è pari alla
riduzione dei Lepidodendri e delle Calamites.
Nella fauna s’estinguono le Trilobiti, gli Echinodermi, i Brachiopodi, nel
mentre si sviluppano le barriere coralline (grazie alle colonie di Briozoi,
numerose e diversificate); le Ammoniti (Ammonoidea),
una sottoclasse di Molluschi Cefalopodi con conchiglia calcarea di dimensioni
variabili avvolta a spirale su un piano e divisa da setti in tante camere di
cui l’ultima, come nei Nautiloidi, è abitata dall’animale (le Ammoniti prevalgono
poi, nel Secondario, sui Nautiloidi); gli Insetti (quasi tutti gli ordini che
oggi sopravvivono hanno fatto la loro apparizione nel Permiano) e i Rettili, ormai
diffusi al pari degli Anfibi. Tra i Rettili, si presentano anche i Pelicosauri
(Pelycosauria), dotati generalmente di
una grande cresta dorsale, ricca di vasi sanguigni e sostenuta da lunghe spine neurali
delle vertebre (come, per esempio, nel Dimetrodon),
interpretabile come superficie traspirante che permette a questi organismi di conquistare
qualcosa di simili all’omeotermia, cioè di liberarsi in parte dai
condizionamenti imposti dalle temperature dell’ambiente esterno (infatti, se
esposta al Sole, la cresta dorsale permette di ricevere calore, se tenuta
all’ombra o di taglio rispetto al Sole, serve a irradiare, cioè a sottrarre
calore dal corpo), fatto generalmente interpretato come ponte evolutivo
dell’omeotermia presente negli Uccelli e Mammiferi. La figura seguente mostra
la struttura esterna del Dimetrodon
(di lunghezza di ca. 3,5 m); si ricorda che il termine Dimetrodonte significa
che ha denti di due misure (dal greco δί-,
due, μέτρον, misura e ὁδούς ὁδόντος, dente), ciò che rimanda
al fatto che quest’organismo presenta due differenti tipi di dentatura, cioè è
eterodonte, laddove una dentatura è adatta a tagliare mentre l’altra è
acuminata, ciò che gli permette, a differenza dei rettili che il cibo
l’ingurgitano per intero, di tagliarlo, di fatto di digerirlo meglio e con più
facilità (la dieta del Dimetrodonte è carnivora); si ricorda ch’è quest’eterodontia
che apparenta quest’organismo a tutti i mammiferi, cetacei esclusi):
Figura
n. . Fonte: Padoa, 1971, p. 216.
Nel
Triassico (245-195 milioni d’anni fa), che segue il Permiano e apre il
Mesozoico (o Secondario), s’inaugura una fase di smembramento della Pangea che
si suddivide in Laurasia (a Nord) e Gondwana (a Sud); questa frammentazione è
accompagnata, a causa della distensione della superficie terrestre, cioè di
fenomeni d’assestamento, dall’apertura di fosse tettoniche dalle quali
risalgono abbondanti flussi di materiale lavico (magma basaltico) mentre
nell’America settentrionale si presenta un grande complesso di pieghe che
s’estendono in lunghezza per poco meno di 3 000 km e formano infine il sistema
montagnoso degli Appalachi (Appalachian
Mountains); il mare, inoltre, è in espansione su vaste porzioni di terre
emerse (cioè presenta fenomeni di trasgressione marina, v. supra), là dove forma lagune e laghi salati (a questo proposito, come
detto, si parla di mare epicontinentale, epeirec
sea); ancora, è importante ricordare che gli organismi che si presentano in
questo periodo sono o sopravvissuti o nuove speciazioni che seguono
l’estinzione di massa avvenuta alla fine del Permiano, che ha cancellato il 96%
delle specie, come dire, dunque, che sono il risultato d’una riorganizzazione
delle biocenosi. Infatti, gli studiosi dicono che l’ecosistema globale ha
impiegato ca. 5-10 milioni d’anni per ritornare in una situazione d’equilibrio
resiliente a causa della situazione ereditata dal periodo Postpermiano, e ne è
un esempio, il fatto che sono presenti temperature di 40 °C nelle acque marine
di superficie (contro i 25-30 °C dei periodi normali), e fino a 50-60 °C nelle
zone emerse, questo nelle regioni della fascia tropicale ed equatoriale, ciò
che rende di fatto impossibile per lungo tempo la ripresa della vita negli habitat tropicali ed equatoriali, vita
ch’è in lenta ripresa solo al di fuori di questa fascia priva di forme viventi
o quasi. Nel Triassico, in un clima
generalmente caldo-arido, la flora terrestre si presenta molto diversa da
quella di fine Primario; scompaiono, infatti, le grandi Licopodiali arboree (le
Licopodiàcee, Lycopodiaceae,
appartengono alle Pteridofite), i Lepidodendri e le Sigillarie (v. Figura
n. ); inoltre le felci, le Pteridosperme
e le Articolate arboree (tra cui le Calamite sopra citate) sono sostituite da
forme sistematicamente affini, ma di minor taglia, mentre le principali essenze
forestali sono soprattutto rappresentata dalle piante Gimnosperme, come visto
piante che, nell’ipotesi che le condizioni dell’ecosistema d’arrivo del seme
siano sfavorevoli allo sviluppo della pianta stessa, rendono il seme stesso
quiescente. Tra queste scompaiono le Cordaitali (v. supra) e compaiono le Cicadali (Cycadales,
piante con un fusto aereo, semplice o poco ramificato, terminante con un ciuffo
di foglie, simili a felci arborescenti o a palme); le Ginkgoali (Gingkoales) che, pur preesistenti,
mostrano nel Mesozoico una maggiore variabilità morfologica, grazie all’azione
mitigatrice dei mari continentali (e di cui è testimonianza fossile vivente il Ginkgo biloba) e, infine, la diffusione
delle Conifere, mentre solo in certe zone persistono ancora le felci e, negli
ambienti palustri, sono dominanti le Equisetacee. Le Conifere sono poi piante a
fusto legnoso, con un fusto alto, diritto e ramificato su tutta la lunghezza
(con una chioma a triangolo rovesciato), e solo per alcune specie è arbustivo o
strisciante; le foglie, sottili e di ridotte dimensioni, sono generalmente a
forma d’ago (aghiformi), e portano i semi nudi sulle squame (formate, queste,
da foglie modificate) d’una specie di frutto conico, detto cono (o strobilo),
contenente numerosi semi (o pinoli) che risultano essere protetti dalle squame;
i semi cadono solo quando il cono è giunto a maturazione, cioè quando apre le
squame; le foglie che cadono, inoltre, sono sostituite da altre, il che fa sì
che i rami sono generalmente sempreverdi (le Conifere non sono piante decidue);
i coni, distribuiti su rami separati, sono poi maschili e femminili, e i coni
maschili, piccoli, portano il polline, mentre i coni femminili, più grandi,
sviluppano una o più cellule-uova; il polline, ch’è prodotto in grandi
quantità, è poi trasportato dal vento (con una disseminazione anemocora, v.
infra) grazie alle espansioni alari di cui è dotato, e quando raggiunge le
cellule-uova le feconda provocando lo sviluppo del seme, tanto che le squame
che portano le cellule-uova, se fecondate, s’ingrandiscono e lignificano fino a
formare quella che si chiama pigna, con cui reinizia il processo. Nelle acque
calde e salate, grazie all’abbondanza dei mari epicontinentali che formano
ambienti acquatici di modesta profondità, sono presenti organismi biocostruttori
coloniali, con la rapida diffusione degli Esacoralli, Hexacorallia, noti anche come Sclerattinie, che sostituiscono i
precedenti Tetracoralli, cui s’aggiungano le Calcisponge, Calcispongiae, o Spugne calcaree, anch’esse viventi a poca profondità,
isolate o in colonie. Grande sviluppo presentano, inoltre, le Diploporèe (Diplopora), Alghe diffuse con molti
generi che presentano il corpo vegetativo (il sopra citato tallo), incrostato
di carbonato di calcio, CaCO3, che fa di loro degli organismi
costruttori di scogliere; i Bivalvi (Bivalvia),
detti anche Lamellibranchi, classe di Molluschi comprendente tutti animali
acquatici, generalmente marini, dal corpo compresso, simmetrico, senza capo
differenziato, che vivono in acque basse; i Crinoidi (Crinoidia), una classe d’Echinodermi, tra cui si trovano anche gli
Asteroidi (Asteroideae, detti anche
stelle di mare) e gli Echinoidi (Echinoidea,
detti anche ricci di mare) che cominciano ad assumere importanza. Ma sono soprattutto
le Ammoniti che raggiungono una preminenza enorme, per numero di specie e
d’individui, tra i Molluschi Cefalopodi (con numerosi generi che non si
propagano però oltre questo periodo). Tra gli invertebrati, sono inoltre presenti
le prime specie di quegl’insetti in grado d’effettuare una metamorfosi
completa, da larva ad adulto. Quanto ai Vertebrati è da segnalare la presenza
di Dipnoi adatti alla doppia respirazione, uno sviluppo degli Anfibi che
presentano le forme più gigantesche della classe (per esempio, il Mastodontosauro,
Mastodonsaurus, un Anfibio
stegocefalo con un cranio a forma triangolare tronco e coda corti fino a una
lunghezza di 4 metri; il cranio, da solo, misura 1 metro di lunghezza) e il
considerevole slancio evolutivo dei Rettili morfologicamente ben differenziati
che provocano la grande decadenza degli Anfibi. Rettili che conquistano anche
gli ambienti acquatici e tra questi i Placodonti (Placodontia), di lunghezza tra 1 e 2 metri, provvisti di denti
caratteristici a placca che servono probabilmente per triturare le conchiglie
dei Molluschi del fondo di cui si nutrono; i Notosauri (Nothosauri), con un corpo di dimensioni variabili, medio-piccole, un
cranio triangolare, arti poco sviluppati e con le estremità parzialmente
modificate per il nuoto, probabilmente delle membrane a legare le dita, che rappresentano
un ritorno dei Rettili ad una vita nell’acqua, alla quale si sono più o meno adattati.
La figura seguente illustra lo scheletro d’un Notosauro (qui un Lariosauro, Lariosaurus, con una lunghezza compresa
tra 60 e 130 cm):
Figura
n. . Fonte: Padoa, 1971, p. 199.
Oppure
s’hanno, sempre in ambiente acquatico, gli Ittiosauri (Ichthyosauria), con un corpo fusiforme idrodinamicamente modellato,
con lunghezze da 1 a 15 metri sormontano da una pinna triangolare grande e con
arti che si sono trasformati in brevi pinne, cranio allungato, muso sottile e
collo breve; la loro dieta prevede o pesci o molluschi provvisti di conchiglia
e, a differenza degli altri rettili che sono ovipari, gli Ittiosauri sono
probabilmente vivipari e partoriscono in acqua un piccolo ch’esce per la coda (la
viviparità è tipo di riproduzione in cui, a differenza della oviparità e della
ovoviviparità, l’embrione non si sviluppa all’interno d’un uovo, che dagli
ovipari è deposto e dagli ovovivipari è trattenuto nell’ovidotto fino alla sua
dischiusa, dove l’ovidotto, nell’apparato genitale femminile di questi
organismi, è un canale a pareti proprie dove transitano le uova prodotte negli
ovarii; infatti, nei vivipari l’embrione è accolto e si sviluppa all’interno
dell’utero, laddove la madre provvede alla sua nutrizione attraverso la
placenta; per cui, al termine della gravidanza, la prole o si dischiude
dall’uovo, come negli ovipari, o è partorita vivente, e questo tanto nel caso
della ovoviviparità quanto della viviparità). La figura seguente mostra la
trasformazione propria ai Rettili d’un arto in pinna attraverso cinque esempi
(a, b, Ittiosauri; c, Plesiosauri, Plesosauria;
d, Notosauri; e, Mososauri, Mosasauridae);
le lettere o, u, r, indicano, rispettivamente, la possibilità di riconoscere
l’omero (e il femore), l’ulna, il radio (tibia e fibula) e mano e piede con una
serie di dita, talvolta più, talvolta meno di cinque, caratteristiche per la
plurifalangia:
Figura
n. . Fonte: Padoa, 1971, p. 196.
La
figura seguente mostra invece lo scheletro d’un Ittiosauro del Cretacico (10 m
di lunghezza):
Figura
n. . Fonte: Padoa, 1971, p. 195.
S’ha,
infine, la comparsa dell’ordine dei Terapsidi (Therapsida); si tratta di Rettili in gran parte predatori, con
corpo massiccio, di taglia che varia tra quella di un topo e quella di un cane,
che mostrano lo sviluppo d’un metabolismo ch’è precursore di quello dei
mammiferi; questi Rettili sono inoltre dotati di mascelle che manifestano
eterodontia, ossia provviste di denti robusti e specializzati in grado di
spezzare, tagliare e masticare e quasi certamente si tratta d’animali più o
meno perfettamente omeotermi che presentano, come detto, ridotte dimensioni. È poi
da un gruppo di Terapsidi, i Cinodonti (Cynodontia),
con caratteri mammaliformi molto pronunciati, che s’originano i primi mammiferi
(per esempio, il sopra citato Cynognathus,
di piccola taglia, forse ricoperto di pelo; con l’omero e il femore disposti
quasi verticalmente; eterodonte, con incisivi, canini, e, dietro, quasi dei
molari; con lo sviluppo di un palato secondario che serve per permettere la
masticazione durante la respirazione, necessità dettata dall’omeotermia che
richiede maggiori necessità di ventilazione polmonare; dunque con una struttura
che presenta parentele con quelle dei moderni Mammiferi). In ogni caso, tra i
Mammiferi ancestrali, ci sono quelli noti con il nome di Triconodonti (Triconodonta), che hanno analogamente ai
Terapsidi, ridotte dimensioni corporee e una dieta carnivora (come mostrano la
dentatura differenziata in incisivi, canini particolarmente sviluppati,
premolari e molari e l’articolazione della mandibola); la presenza di robusti
artigli consente loro, inoltre, d’arrampicarsi sugli alberi, dunque di
colonizzare anche l’habitat
arboricolo. La figura seguente mostra lo scheletro d’un Triconodonte:
Figura
n. . Fonte: Polticelli, 2003, p. 106.
Tra
i Rettili, infine, sono presenti anche i Tecodónti (Thecodontia), che presentano un’andatura tetrapode o bipede, sono
rivestiti di una notevole armatura dermica, e hanno denti impiantati in
alveoli; in questo ordine, esclusivo del Triassico, sono poi compresi i progenitori
dei Dinosauri (compresi gli uccelli). Tra i Tecodonti e i mammal-like reptiles (cioè i Rettili che presentano caratteri che
si definiscono mammaliani o mammaliformi, da Mammalia, il nome in latino scientifico che, come visto, designa i
Mammiferi) sono presenti enormi possibilità evolutive, ma bisognerà aspettare
l’estinzione di massa del Cretacico perché queste potenzialità dei mammiferi
possano manifestarsi in modo esplosivo nel Terziario, cioè la del tutto fortuita
estinzione dei Dinosauri. Per inciso, il suffisso -sauri che tante volte si è
ripresentato deriva dal greco σαῦρος,
lucertola. L’estinzione avvenuta nel tardo Triassico (circa 220 milioni di anni
fa), legata alla frammentazione della Pangea, è poi responsabile della
scomparsa del 50% delle specie allora viventi (tra cui Anfibi e Rettili). Nel
Giurassico (detto anche Giurese, e in certi testi Giura; 195-138 milioni d’anni
fa), che segue il Triassico, continua la dinamica di frammentazione della
Pangea, ma in assenza di fenomeni orogenetici imponenti, è permessa
un’espansione della Tetide e una parziale e ineguale sommersione, per
trasgressione marina, delle aree continentali, con formazione di mari bassi e
bacini più profondi (mari epicontinentali), mentre la parte meridionale
dell’Europa e dell’Asia e quella litorale occidentale del Nord America
corrispondono a zone sempre più infossate che diventano di mare profondo;
ancora, nel Gondwana iniziano a separarsi il Sud America e l’Africa, ciò che manifesta
la paleoformazione dell’Atlantico meridionale e l’estensione dei suoi fondali,
e il Nord America si sposta verso Ovest permettendo la neoformazione del Golfo
del Messico e, infine, l’India inizia la sua deriva verso Nord. Da sottolineare
che questa frammentazione incomincia a influenzare la diversità delle
biocenosi; infatti nel Triassico, a fronte d’una Pangea non frammentata, le
associazioni faunistiche, per esempio, presentano, pur in differenti località,
una sostanziale uniformità legata alla continuità del territorio e
dell’ecosistema (cioè con assenza di barriere insormontabili e una situazione
climatica omogenea), come mostrano animali come il Celurosauro Coelophysis o il Prosauropode Plateosaurus e forme strettamente affini
che si ritrovano tal quali in siti fossiliferi di diversi continenti; cosa che
invece non si manifesta nel Giurassico dove, in aree diverse, sono presenti
specie distinte, in altre addirittura generi diversi, il che c’informa sul
fatto che le barriere geografiche imposte dalla frammentazione della Pangea
favoriscono l’isolamento delle popolazioni, ciò ch’innesca processi di differenziazione
degli ecosistemi e, conseguentemente, delle derive genetiche (a causa
dell’inincrocio del pool genico delle
popolazioni residenti, v. infra),
cioè delle linee evolutive diverse e, soprattutto, indipendenti, tanto che, per
continuare l’esempio delle associazioni faunistiche, specie ben distinte
caratterizzano aree geografiche diverse. La figura che segue illustra la situazione
paleogeografica di 150 milioni d’anni fa (150 Ma):
Figura
n. . Fonte: Altschuler, 2005, p. 111.
Il
clima, come mostra l’esistenza di diffuse scogliere e barriere coralline, è
generalmente più umido e caldo (con una fase di maggiore aridità verso la fine
del periodo). La flora, che in linea generale evolve verso forme sempre più
simili a quelle attuali, nelle zone a clima umido è caratterizzata da foreste
costituite da Conifere (Araucarie Araucariaceae),
Ginkgoate e Felci erbacee e arboree; nelle zone a clima più arido sono presenti
Cicadali (v. supra) e Felci igrofile
(cioè che crescono nei terreni umidi); nelle zone boreali si diffondono, tra le
Conifere, le prime Abitinee [Abietinee?]; compaiono inoltre verso la metà del
periodo, quando s’evolvono esemplari di transizione tra le Gimnosperme e le
Angiosperme, le Caytoniali (Caytoniales) che preludono alle Angiosperme vere
e proprie. Particolare importanza acquista la flora marina con le Alghe (nei
mari, lungo le coste e fino ai margini della piattaforma continentale, in un
ambiente che si definisce neritico, in cui la profondità delle acque varia fra
0 e 200 metri, prosperano le Alghe calcaree; si presentano inoltre le Diatomee,
Diatomeae, o Alghe silicee) e,
insieme alle Alghe, gli Esacoralli contribuiscono alla formazione di strutture
organogene. La fauna vede la proliferazione nei mari di tutta la Terra, di predatori,
quali le migliaia di specie d’Ammoniti in rapidissima evoluzione, e delle Belemniti
(Belemnites), le une e le altre
Molluschi cefalopodi, a loro volta, predate dai Rettili marini; sono inoltre
presenti Bivalvi, Foraminiferi bentonici, Brachiopodi e Gasteropodi. Fra i Vertebrati,
i Rettili sono di gran lunga i più importanti per la varietà di forme, per la
mole e per l’adattamento a tutti gli ambienti; alcuni adattati alla vita del mare,
quali Ittiosauri e Plesiosauri, altri alla terraferma, con una varietà di forme
che in alcuni casi raggiunge enormi dimensioni, altri adattati anche alla
colonizzazione dell’aria, come gli Pterosauri (Pterosauria), detti anche Sauri (o Rettili) volanti. Questi Rettili
ultimamente citati, il cui habitat è lungo
le aree costiere, con sfondamenti in mare aperto alla ricerca di cibo (i pesci),
non hanno penne e sono ricoperti di pelo (cioè omeotermi) e adattati al volo e con
una membrana alare d’origine dermica (o patagio) sottesa fra il corpo e l’arto
anteriore e sostenuta principalmente dal quarto dito delle estremità anteriori,
formato da 4 falangi estremamente allungate (cioè da un dito molto più lungo
delle altre 4 dita dell’arto); possiedono, inoltre, ossa cave e pneumatiche e
un cranio con la maggior parte degli elementi saldati insieme, con un cervello
mediamente più grande di quello dei Rettili (ossa e cranio sono poi come negli
Uccelli); nei più antichi Pterosauri non si supera il metro d’apertura alare,
ma, con la loro diffusione, si presentano molteplici specie, fino ad arrivare,
nel Cretacico, al Pteranodònte (Pteranodon,
un sottordine, quello dei Pterodattiloidèi, Pterodactyloidea)
con mascelle conformate a becco (che sono un prolungamento del cranio) e senza
denti e con un’apertura alare di 7,5-8 metri, e al Quetzalcoatlo (Quetzalcoatlus),
con 200 kg di peso, un collo lunghissimo e ben 11-12 metri d’apertura alare. La
figura seguente illustra lo scheletro di due Pterosauri, il primo del
Giurassico (un Ranforincoidèo, Rhamphorhynchoidea,
con cranio provvisto di denti molto lunghi e acuminati, membrana alare lunga e
falcata e coda allungata), il secondo del Cretacico (uno Pterodàttilo, Pterodactylus, con coda molto corta e il
cranio prolungato per lo più in forma di lungo becco, generalmente privo di
denti):
Figura
n. . Fonte: Padoa, 1971, p. 211.
I
dinosauri (in cui il prefisso dino-, dal greco δεινός, deinòs, significa
terribile, terrificante) sono un gruppo di Rettili Arcosauri (Archosauria) con un unico antenato
ancestrale, cioè un gruppo monofiletico, che non va confuso con i Rettili
adattati alla vita del mare o che hanno colonizzato prima degli Uccelli
l’ambiente aereo, come i Rettili volanti (come dire che i Rettili sono un
gruppo polifiletico, derivato da più specie ancestrali); i Dinosauri (compresi
gli Uccelli), infatti, appartengono a un gruppo derivato da un Tecodonte
ancestrale diramatosi in due soli ordini, quello dei Saurischi (Saurischia) e quello degli Ornitischi (Ornithischia), i primi, da subito
bipedi, con forme inizialmente carnivore (Teròpodi, Theropoda) e in seguito quadrupedi ed erbivore (Sauròpidi, Sauropoda); i secondi, di cui solo una
minoranza è bipede, esclusivamente specializzati per un’alimentazione erbivora.
La figura seguente mostra la filogenesi dei Dinosauri:
Figura
n. . Fonte: Polticelli, 2003, p. 97.
I
Dinosauri, inoltre, sono o piccoli o giganteschi, laddove, nei giganteschi, s’arriva
poi fino a un massimo di 30-40 metri di lunghezza e ad una stazza fino a 40-50
tonnellate ca. sostenuta su arti definiti colonnari; si ricorda ch’è solo grazie
alla radiazione adattativa che si sono poi sviluppati dai corpi piccoli quelli
grandi, probabilmente per deriva genetica, cioè a causa della frammentazione
della Pangea che ha imposto con le sue barriere un isolazionismo geografico che
ha portato i pochi individui residenti ad incrociarsi tra loro, con l’effetto
d’un ridimensionamento in grande del corpo. Per esempio, nel passaggio dal
piccolo al grande, tra i Saurischi s’è passati dal non meglio identificato Palaeosaurus al Tirannosauro (Tyrannosaurus), la cui testa può
superare 1 metro di lunghezza, è lungo fino a 15 metri e con un’altezza di 5-6
metri, e la sua mole può raggiungere 3 tonnellate; dal Tecodontosauro (Thecodontosaurus), lungo 2 metri, al Brontosauro (Brontosaurus; oggi classificato come Apatosaurus), alto fino a 20 metri e con una massa tra le 30 e le 50
tonnellate; tra gli Ornitischi dallo Scelidosauro (Scelidosaurus), lungo fino a 4 metri, allo Stegosauro (Stegosaurus), lungo fino a 9 metri, alto
fino a 4 metri e con una stazza di 5 tonnellate, e altri ancora. La figura
seguente mostra uno Stegosauro del Giurassico (si notino gli arti anteriori,
notevolmente più corti di quelli posteriori, il cranio molto piccolo, il tronco
e la coda molto sviluppati, la colonna vertebrale in forma di arco fortemente
convesso verso l’alto, il dorso corazzato con un’enorme cresta dentata, formata
di grandi pezzi ossei dermici subtriangolari appiattiti, sostituiti nell’ultimo
tratto della coda da coppie di lunghi e grossi aculei):
Figura
n. . Fonte: Polticelli, 2003, p. 109.
Tutti
questi, inoltre, condividono un medesimo assetto degli arti posteriori posti
diritti sotto il tronco e non lateralmente come in altri Rettili (gli arti
anteriori talvolta sono meno sviluppati di quelli posteriori, mentre in altri
sono prensili, cioè con il primo dito opponibile; ad ogni modo tutti possiedono
tre dita sviluppate, mentre le altre due sono ridotte), e alcuni presentano un’andatura
tetrapoda, altri bipede, altri ancora tutt’e due le andature (e alcuni sono
molto veloci, fino a 65 km/h, altri molto meno) e dove la lunga e rigida coda
serve a bilanciare il corpo durante i movimenti; è da sottolineare che il
bipedalismo è un tipo di deambulazione sugli arti posteriori ch’è stata
sviluppata solo da alcuni vertebrati tetrapodi; infatti, tra le specie viventi,
è presente negli uccelli, dove questa deambulazione è resa necessaria dalla
trasformazione degli arti superiori in ali; ed è presente anche in pochi altri
Primati e nell’uomo è poi associata alla stazione eretta; nel passato,
caratterizza solo alcuni Dinosauri); presentano, inoltre, una similare
conformazione del bacino (il bacino è un insieme di ossa, specificamente ileo,
ischio e pube, che servono a collegare gli arti posteriori alla colonna
vertebrale; ora, in tutti i Dinosauri l’acetabolo, cioè la cavità rotonda in
cui s’inserisce la testa del femore, è perforato, cosa che nessun altro
vertebrato possiede; ed è poi questa conformazione del bacino che permette ad
alcuni Dinosauri di mantenersi in posizione eretta su due arti; la forma del
bacino è poi triradiata nei Saurischi (caratterizzati da un ileo largo e un
ischio lungo e stretto, entrambi rivolti all’indietro, e un pube, stretto e
lungo, rivolto in avanti, cioè con forme in cui ischio e pube sono divergenti,
contrariamente a quanto avviene negli Ornitischi, com’è attualmente nei Rettili),
mentre negli Ornitischi è tetraradiata (il pube porta un ramo posteriore
parallelo all’ischio, un postpube, che s’estende posteriormente, come negli
Uccelli); un cranio generalmente piccolo e diapside (alcune cavità del cranio
sono note come fosse o finestre temporali o fenestrature, e i Dinosauri ne
hanno due) e denti impiantati in alveoli (come i Tecodonti); il corpo è talora
rivestito di dermascheletro, in forma di solida corazza con placche e aculei; ancora,
sono ovipari (cioè nidificano e depongono le uova, che in alcune specie, sono
covate) e, molti lo sostengono, sono anche omeotermi. La figura seguente
illustra i bacini triradiati dei Saurischi (Allosaurus,
A; Camarasaurus, B) e i bacini
tetraradiati degli Ornitischi (Iguanodon,
C; e Stegosaurus, D; le lettere a, b,
c indicano, rispettivamente, l’ileo, l’ischio e il pube):
Figura
n. . Fonte: Treccani, s.v. Dinosauri.
Come
dire, infine, che i Dinosauri, che spesso si muovono in gruppo, sono in
possesso d’un apparato che risulta essere nel complesso molto più efficiente
del loro antenato rettile (un Tecodonte, appunto). Nel Giurassico, ancora, evoluti
da piccoli Teropodi (come detto, la linea carnivora dei Saurischi) denominati Celurosauri
(Coelurosauria), organismi agili e
veloci, relativamente piccoli (o di medie dimensioni; per esempio il Compsognathus, Compsognathidae, è lungo 60 centimetri) e in genere bipedi, compaiono
i primi Uccelli caratterizzati inizialmente da alcune strutture morfologiche
come mascelle provviste di denti, una lunga coda che presenta una ventina di
vertebre e ricoperti di penne per favorire l’omeotermia, come nel caso
dell’Archeoptèrige (Archaeopterix). La
figura seguente illustra gli scheletri d’Archaeopterix,
del Giurassico, con i caratteri intermedi tra Rettili e Uccelli (per esempio, lo
scheletro è simile a quello d’un Celurosauro, ma è ricoperto di penne che danno
origine ad ali artigliate), e d’un Ittiornìtide (Ichthyornithidae), un vero e proprio Uccello, nella fattispecie,
marino, del Cretacico, con ossa delle ali robuste, da forte volatore, con
l’accorciamento della regione caudale, però con la bocca ancora armata di denti
(questi ultimi sono scomparsi completamente e sostituiti da un becco in tutte
le forme più recenti, la cui prima testimonianza fossile è Confuciusornis, del Cretacico):
Figura
n. . Fonte: Padoa, 1971, p. 227.
Questa
figura, invece, mostra la ricostruzione d’Archaeopterix:
Figura
n. . Fonte: Polticelli, 2003, p. 99.
Per
quanto riguarda i Mammiferi del Giurassico, si conoscono piccole forme erbivore,
carnivore, insettivore o onnivore, tra i quali Multitubercolati (Multituberculata), mammiferi
esclusivamente erbivori, con incisivi adatti a rosicare e molari con numerose
cuspidi (con forme e adattamenti simili agli attuali roditori); Triconodònti (Triconodonta), piccoli mammiferi che per
la loro dentatura differenziata in incisivi, canini particolarmente sviluppati,
premolari e molari, sono ritenuti carnivori e predatori (i molari,
caratterizzati da molari a tre cuspidi disposte sulle stessa linea, quella
mediana più elevata, che si ritiene abbia costituito il modello base da cui si
sono evoluti i denti molari dei mammiferi odierni); e, infine, Pantotèri (Pantotheria), un gruppo di piccoli
mammiferi insettivori che, grazie ai numerosi molari, è capace di triturare il
rivestimento duro degli Insetti; comprende, probabilmente, i progenitori dei
mammiferi attuali (oggi questo gruppo è sostituito da quello dei Driolèstidi, Dryolestida [?]). A seguire il periodo
che chiude il Mesozoico (Secondario) e apre al Cenozoico (Terziario), vale a
dire il Cretacico (138-66,5 milioni d’anni fa), che ha inizio con una vasta
regressione marina pressoché generale dei mari epicontinentali, cui segue alla
fine del periodo una trasgressione (in detta trasgressione il livello del mare
cresce dappertutto inondando circa 1/3 delle terre emerse), ed è caratterizzato
da movimenti tettonici che preannunciano i grandi sommovimenti orogenetici del
Terziario, da fenomeni di vulcanismo e
dall’estensione in terraferma di vaste colate laviche (o trappi); specificamente,
la placca continentale dell’Africa, staccandosi da Gondwana e andando alla
deriva verso Nord, sottopone i fondali della Tetide a potenti forze di
compressione che danno origine ai corrugamenti che, a seguire, nell’era Cenozoica,
determinano il sollevamento della catena delle Alpi); mentre l’Oceano
Atlantico, di recente formazione, s’amplia per l’espansione dei sui fondali,
fenomeno che causa l’ulteriore allontanamento dell’Africa e del Sud America
iniziato nel Giurassico (Africa che si sposta ora verso il Nord convergendo
verso l’Europa). Il subcontinente indiano, separatosi anch’esso da Gondwana,
continua la sua deriva verso Nordest mentre si verifica una sua lenta rotazione
di ben 90° con la punta meridionale che da Ovest si dirige a Sud (come nella
posizione attuale); ciò che comporta il corrugamento dei fondali della Tetide
orientale e, di conseguenza, dà origine all’orogenesi della catena dell’Himalaya;
l’Antartide e l’Australia sono ancora unite e si spostano alla deriva verso Sud
e verso Ovest. Continua poi la deriva verso Ovest del Nord America che produce
via via l’orogenesi delle Ande e delle Montagne Rocciose (sistema di
cordigliere); ancora, l’America settentrionale è divisa in due da un mare
epicontinentale che s’estende in direzione Sud-Nord. L’attività magmatica
prodotta dalla tettonica delle placche sopra citate si manifesta negli Stati
Uniti orientali, nelle Ande e soprattutto in India, dove darà origine ai già
citati trappi basaltici del Deccan (v. supra
e infra). La figura che segue mostra
la situazione paleogeografica al limite tra il Cretacico e il Terziario (65
milioni d’anni fa, 65 Ma; per la segnalazione del Cratere di Chicxulub, v. le
spiegazioni offerte a seguire):
Figura
n. . Fonte: Altschuler, 2005, p. 111.
La Terra, in questo periodo, manifesta una
fase di clima caldo, in cui i Poli sono privi di ghiacci e le temperature, per
esempio quelle significative dei mari artici, presentano temperature superiori
ai 14 °C. È in questo contesto che nella flora continentale s’ha lo sviluppo
delle Angiosperme (Fanerogame o Spermatofite). Queste piante, che oggi
comprendono specie legnose, quali arbusti e alberi, specie erbacee, rampicanti
e piante acquatiche, hanno grandezze estremamente variabili e crescono negli
ambienti più disparati, dalle regioni temperate a quelle desertiche o artiche.
Infatti, le loro radici, il fusto, le foglie si sono dimostrati estremamente
adattabili, tanto che si sono trasformate in modo da render idoneo il cormo a
una pluralità d’ambienti terrestri. In origine queste piante presentano ovuli
racchiusi e protetti dalle foglie carpellari, e a seguire semi racchiusi nei
frutti e, per spiegare la cosa, è necessario sapere che la foglia carpellare
rimanda al carpello (parola che deriva dal greco καρπός, frutto) e che nel
fiore, che caratterizza questa specie, è una foglia trasformata che produce gli
ovuli che, se nelle Gimnosperme si presenta aperta e spianata, nelle
Angiosperme è invece ripiegata su se stessa e suturata in modo tale da potere
formare un apparato chiuso, rigonfio alla sua base, detto ovario, sormontato da
una parte più sottile, o stilo, che generalmente si riallarga un poco nella
parte superiore, o stimma, per consentire l’entrata dei granuli di polline (due
o più carpelli costituiscono poi il pistillo del fiore). Grazie anche a questo
le Angiosperme rappresentano il più alto livello evolutivo raggiunto dalle
piante e con le loro infiorescenze e infruttescenze, come detto, via via si
diffondono in tutti gli ecosistemi (con una rapida radiazione adattativa) a
svantaggio d’altre piante (v. infra)
conquistando così il predominio sulle terre emerse, prima le Dicotilèdoni (Dicotyledoneae), poi, a seguire e per
evoluzione da una Dicotiledone primitiva, le Monocotiledoni (Monocotyledoneae). Il cotilèdone, nelle
Angiosperme, è un organo embrionale che serve per il nutrimento della pianta
nelle fasi che seguono la germinazione del seme; il nutrimento può avvenire o
attraverso il rilascio delle sostanze nutritive in esso immagazzinate o con lo
svolgimento della fotosintesi; può essere, dunque, di forma diversa secondo la
funzione che svolge; infatti, può funzionare da organo di riserva quando
assorbe il materiale di nutrimento dell’albume (cioè sostanze come proteine e
carboidrati, ad alto valore energetico) per indirizzarlo nella pianta
germinante, o può fungere da organo fotosintetico nel caso di presenti come
foglia normale; i cotiledoni si presentano in numero di due nelle Dicotiledoni
(inseriti lateralmente sull’embrione), d’uno nelle Monocotiledoni, le piante
fino ad oggi più evolute. Tra le Dicotiledoni, che attualmente non è ritenuto
un gruppo monofiletico (come invece le Monocotiledoni), s’annoverano le piante
appartenenti alla classe delle Magnoliòspide (Magnoliopsida) che presentano dei
fiori, da grandi a molto grandi, formati da numerosi petali ben separati; la
disposizione degli organi riproduttivi maschili e femminili (nell’ordine, stami
e carpelli) e delle altre parti (sèpali, cioè i costituenti del calice dei
fiori, e petali), in quanto disposti a spirale, conferiscono ai fiori una
simmetria di tipo radiale. Tutte le Angiosperme, come detto, sono
caratterizzate dalla presenza nel fiore d’un ovario chiuso entro il quale si
trovano gli ovuli (in contrapposizione alle Gimnosperme, che hanno gli ovuli
allo scoperto); e il fiore è l’organo che assicura la loro riproduzione
sessuale. In dettaglio, affinché si sviluppi un’altra pianta, simile alla
precedente, il fiore produce due tipi di cellule sessuali, quelle maschili
formano il polline, e quelli femminili gli ovuli. Ora, la fecondazione di
queste piante, come quella di tutte le Spermatofite, è affidata
all’impollinazione e cioè al trasporto del polline da una pianta all’altra e il
fiore, dopo che il polline raggiunge l’ovulo, è fecondato e si trasforma nel
frutto in cui si svilupperanno i semi che garantiscono lo sviluppo di una nuova
pianta (e con frutto qui s’intende l’ovario delle Angiosperme, più o meno
modificato e accresciuto, che contiene i semi maturi derivati dagli ovuli). Di
conseguenza, la diffusione nei vari ecosistemi delle Angiosperme è
affidata tanto ai semi quanto ai fiori;
ai semi perché la loro disseminazione, cioè il loro trasporto e la dispersione,
fa sì che il seme si sviluppi nei più differenti areali; e qui, nei nuovi
areali, i semi utilizzano le risorse dei cotiledoni per avviare lo sviluppo
delle radici, del fusto e delle foglie e, non appena le condizioni ambientali
sono favorevoli, si dedicano alla riproduzione; riproduzione che avviene i
grazie ai fiori che, in virtù del loro colore e profumo, attirano insetti e
altri animali, e utilizzano questi organismi per trasportare il polline da una
pianta a un’altra, fecondare il fiore e trasformarlo in frutto. Dunque, se con
impollinazione s’intende il trasporto del polline, prodotto dagli organi
riproduttivi maschili, sugli organi riproduttivi femminili al fine di
fecondarle, e con disseminazione l’allontanamento dei semi (prodotti dal fiore
fecondato) dalla pianta madre e la loro dispersione nell’ambiente, ecco che nel
Cretacico avviene un fenomeno parzialmente inedito che muterà gli ecosistemi e
le biocenosi dell’intero pianeta. Infatti, dato che gli agenti esterni che
possono permettere la disseminazione di
semi, frutti, spore etc. (detti
dissemìnuli) capaci di riprodurre la pianta dalla quale si sono staccati, sono
l’acqua (disseminazione idrocora), il vento (disseminazione anemocora), la
forza di gravitazione o gli animali, ecco che s’impianta la strategia della
disseminazione nei più vasti areali con gli animali, o zoocoria, specificamente
con uccelli e mammiferi (come visto, di recente evoluzione) e con insetti, che
allargano la loro catena alimentare in quanto capaci di nutrirsi di polline e
di frutti (intendendo qui anche la polpa), tanto che si sviluppano relazioni di
mutua interdipendenza e coevoluzione tra piante e animali che favoriscono il
successo riproduttivo ed evolutivo d’entrambi, a tutto svantaggio, per quanto
riguarda le piante, delle Conifere e delle Ginkgoate che si vedono sorpassate
dal successo nella colonizzazione da parte delle Angiosperme Dicotiledoni e, a
seguire, confinate definitivamente nelle regioni con un clima meno caldo. Si
ricorda che in quest’epoca sono poi presenti, tra gli insetti, i Coleotteri, Coleoptera, che, dotati di mandibole e
d’apparato masticatore adatto, iniziano a cibarsi di stami, pistilli e polline,
giacché la comparsa d’insetti con un apparato boccale in grado di suggere il
nettare, quali Lepidotteri e Imenotteri, è posteriore (il fatto poi che le
gimnosperme siano quasi tutte impollinate dal vento e non dagli insetti, è
probabilmente dovuto al fatto che gli insetti che facilitano l’impollinazione
possono anche mangiare gli ovuli; di qui
lo sviluppo strategico del carpello intorno all’ovulo, un adattamento volto a
proteggere ovuli e semi in via di sviluppo dagli insetti predatori). Forse,
qui, merita ora un inciso la questione della strategia di dispersione zoocorica
delle Angiosperme, che tanta parte avrà nella domesticazione delle piante da
parte di Homo sapiens (infatti, molte
d’esse, tra cui le Graminacee e le Leguminose,
o Poaceae e Fabaceae, rivestono una notevole importanza come fonte di
nutrimento per l’uomo e per il bestiame, v. infra),
che può sostanzialmente darsi o grazie al transito nel tratto digestivo degli
animali di semi, inghiottiti insieme alla polpa dei frutti e poi
disseminati tramite l’espulsione delle
feci (endocoria), giacché, di per sé, i tegumenti dei semi sono più o meno
protetti dai succhi gastrici di chi li mangia, o perché i semi, attaccatisi
ingegnosamente con sostanze vischiose, uncini o altro, al pelo degli animali,
sono dispersi nell’ambiente quando, per le cause più varie, si staccano e
cadono al suolo (epicoria). Ancora, alla fine del
Cretacico sono già diffusi, con forme ben poco differenti dalle attuali, i
pioppi (Populus), i salici (Salix), i faggi (Fageus), i platani (Platanus),
gli olmi (Ulmus), le querce (Quercus), i lauri (Laurus), le sassifraghe (Saxifraga),
i fichi (Ficus) e le viti (Vitis), tutte piante con fiori e frutti.
Nella
fauna marina sono ancora presenti Belemniti e Ammoniti; queste ultime
scompaiono però con l’ascesa, verso la fine del periodo, delle Rudiste (Rudistae), grandi Bivalvi (dell’ordine
di centimetri, ma anche di decimetri e d’un metro per quelle ch’arrivano a
pesare 20-25 kg) fisse al substrato con l’estremità d’una valva conica e
ricoperte da un’altra valva che ha aspetto e funzione di protezione, detta
opercolo; sono inoltre presenti alcune nuove famiglie di Coralli coloniali. Tra
i vertebrati dominano i Teleostei (Teleostei,
Osteitti cui appartiene, oggi, la grandissima maggioranza dei pesci sia marini
sia d’acqua dolce), e i Rettili; tra questi compaiono i Cheloni (Chelonia, già presenti in forme
primitive nel Triassico), chiamati testuggini se d’habitat terrestre e a dieta prevalentemente erbivora, e tartarughe
se d’habitat d’acqua dolce, cioè presenti
nelle aree palustri, lacustri [?] e fluviali, con dieta da predatori o
onnivora, cui s’aggiunge un piccolo gruppo di tartarughe marine legate alle
temperature dei mari caldi; inoltre, sempre tra i Rettili, sono presenti i
primi Ofidii, o serpenti derivati dai Rettili, ma squamati e tutti deprivati
degli arti anteriori e posteriori (il loro movimento, strisciante, è dato dalle
contrazioni muscolari di tutto il corpo); gli Uccelli presentano poi un’intensa
evoluzione (con una struttura anatomica ormai simile alle forme attuali,
seppure con le mascelle ancora provviste di denti), mentre tra i Mammiferi, di
piccole dimensioni e presenti in numero esiguo, compaiono i primi Placentati (o
Eutèri, Eutheria, cioè gli organismi
dotati di placenta, v. supra)
differenziatisi, a partire da un antenato ancestrale esistito prima della
frammentazione del Gondwana, dai Marsupiali (Marsupialia, o Metateri, Metatheria),
pure presenti nel Cretacico e sopravvissuti agli Euteri, che li soppiantano in
altre regioni, dopo che il blocco dell’Australia si separa dall’Asia. Anche i
Marsupiali appartengono all’ordine dei Mammiferi, e si differenziano dai Placentati
perché sono dotati d’una placenta non ben sviluppata, provvisoria, che obbliga
i nati, partoriti a uno stadio estremamente precoce a causa della breve
gestazione (con una durata che varia dai13 ai 35 giorni), in un marsupio, ossia
in una tasca cutanea (che può aprirsi, nelle varie specie, in avanti o
indietro, in alto o in basso) posta nella regione ventrale della femmina, in
cui sono presenti le ghiandole mammarie, e in cui i nati completano il loro sviluppo
dopo il parto (cioè fino al termine dell’allattamento); nei Placentati, al
contrario, la gestazione è molto lunga (dai 45 ai 650 giorni) e i nati, dopo
questo stadio di sviluppo avanzato intrauterino, nascono non immaturi come i
Marsupiali, ma relativamente maturi. Da ricordare che i Mammiferi più primitivi
sono classificati come Prototeri (Prototheria,
o monotremi, cioè organismi aplacentati, se pure con ghiandole mammarie) e che
quelli più evoluti sono classificati come Euteri, e che la posizione intermedia
tra i due ordini è occupata dai Metateri, giusto quella fra i Mammiferi o senza
placenta (e ovipari) o con la placenta completamente formata. Data la
frammentazione in fase d’evoluzione della Pangea, si può poi affermare, sulla
base delle associazioni faunistiche, che si possono distinguere due aree
biogeografiche, una boreale e l’altra australe, legate a fenomeni d’isolamento geografico che, in
alcuni casi, manifestano il cosiddetto nanismo insulare, cioè la comparsa
d’organismi con riduzione di taglia (per esempio, tra i Dinosauri, il Telmatosaurus, che appartenente a una famiglia
d’Ornitischi di cospicue dimensioni, misura appena 6 metri di lunghezza). Ora,
il Cretacico, al cui limite con il Terziario (limite K/T) sta un’estinzione di
massa selettiva che sarà analizzata in seguito (qui s’anticipa che l’estinzione
riguarda numerosi gruppi animali tra i Vertebrati, quali Dinosauri, Ittiosauri,
Pterosauri, e tra gli Invertebrati, Ammonoidi, Belemnoidi, Rudiste; v. infra), introduce a un periodo, il
Cenozoico (o Terziario, da 66,5 a 1,6 milioni d’anni fa), che presenta un
panorama floristico e faunistico notevolmente cambiato, e che si fa sempre più
simile all’attuale (come del resto mostra l’etimologia, essendo ceno-, come
sopra ricordato, derivato dal greco καινός,
nuovo, recente; volendo, un periodo che mostra un complesso d’organismi ch’è
comune all’attuale). Per quanto riguarda le epoche il cui si struttura il
Cenozoico, esse sono il Paleogene, ch’è suddiviso in Paleocene (66,5-54 milioni
d’anni fa), Eocene (54-36 milioni d’anni fa) e Oligocene (36-25,2 milioni
d’anni fa), e il Neogene, suddiviso in Miocene (25,2-5,2 milioni d’anni fa) e
Pliocene (5,2-1,6 milioni d’anni fa). Nel Cenozoico la distribuzione delle
terre emerse inizia ad assumere una configurazione assai simile a quella
attuale; infatti, l’America meridionale continua nel suo posizionarsi verso
Ovest ampliando, in questo modo, i fondali l’Atlantico meridionale; mentre
l’India prosegue nel suo spostamento verso Nord, ciò che la porterà a saldarsi,
come detto, con il blocco euroasiatico e a favorire l’orogenesi
alpino-himalayana, il tutto quando, nello stesso tempo, l’Australia tende a
separarsi dall’Antartide e il Nord America dal continente Euroasiatico.
Specificamente, e rifacendosi alle sopra citate suddivisioni del Cenozoico, nel
Paleocene ha luogo la fase ultima dello smembramento e della disseminazione
della Pangea. È, infatti, in quest’arco temporale che la dinamica della
tettonica delle zolle finisce con il separare l’Australia dall’Antartide e che,
nell’Emisfero boreale, l’espansione del fondo oceanico inizia ad aumentare la
distanza fra il Nord America e la Groenlandia. Nell’Eocene prosegue poi
l’allargamento dei fondali lungo la sezione settentrionale della Dorsale
medio-atlantica, la Groenlandia va alla deriva verso Ovest, allontanandosi in
questo modo dal blocco europeo; il tutto nel mentre inizia la formazione di
Trappi, per esempio in Islanda e nella Groenlandia, cioè dell’eruzione effusiva
di flussi basaltici d’origine ipogea che, in esteso allargamento sulla
terraferma, solidificano e danno origine a territori ignei (v. infra); fenomeno che si verifica anche
nei Trappi del Deccan, quanto enormi volumi di basalto si riversano in vaste
zone dell’India nordorientale, proprio quando questo subcontinente di recente
formazione (staccatosi, si ricorda, dall’Africa nel corso del Cretacico) si
salda al continente asiatico; nel mentre gli sconvolgimenti orogenetici
generati dalle collisioni continentali (iniziate alla fine del Mesozoico)
producono il già citato sollevamento del sistema montuoso alpino-himalayano che
prosegue anche nel Miocene e nel Pliocene. Ed è poi nell’Eocene che
nell’Emisfero australe Antartide e Australia (unite a partire dal loro distacco
da Gondwana, nel Mesozoico), vanno alla deriva dopo la loro separazione.
Nell’Oligocene l’Africa collide con l’Eurasia e, in questo modo, chiude il mare
che la separa dall’Eurasia, la Tetide, che dopo 200 milioni d’anni si suddivide
lasciandone come resto da una parte il mare Mediterraneo isolato dall’Oceano
Indiano e quale tributario dell’Oceano Atlantico, dall’altra un vasto bacino
d’acqua salata, detto Paratètide che, nel tempo, si trasforma da mare interno
in una serie di bacini salmastri oggi riconducibili al lago Balaton (in
Ungheria), al Mar Nero (tra l’Europa sudorientale e la Turchia, che smette
d’essere lago ca. 10 000 anni fa quando il canale del Bosforo, attraverso il
Mar di Marmara e lo stretto dei Dardanelli, lo mette in comunicazione con il
Mar Egeo, la parte orientale del Mar Mediterraneo), al Mar d’Azov (situato a
Nord del mar Nero e a questo collegato), al Mar Caspio (nell’Asia
sudoccidentale, oggi il più vasto bacino lacustre d’acqua salata della Terra) e
al lago d’Aral (in Asia Centrale, lago salato in via d’essicamento per cause
antropiche), giusto quando è presente l’orogenesi alpina e si stanno formando
la catena dell’Atlante in Africa del Nord, i Pirenei in Spagna e Francia, gli
Appennini in Italia, le Dinaridi (o Alpi Dinariche) nella Penisola Balcanica, i
Carpazi in Europa centrorientale e il Caucaso tra l’Europa e l’Asia. La figura
seguente mostra la localizzazione delle catene montuose di genesi alpina
nell’area del Mediterraneo:
Figura
n. . Fonte: Polticelli, 2003, p. 116.
La genesi alpina è grossomodo
contemporanea a quando la placca nordamericana incomincia a sovrapporsi alla
zolla dell’Oceano Pacifico ch’inizia così a subdurre (v. supra), tanto che nel Miocene e nel Pliocene si manifesta anche
l’estesa orogenesi d’un sistema di cordigliere che, partita da quella delle
Ande nel Cretacico, continua e attraversa l’America centrale, il Messico, gli Stati
Uniti occidentali, la Columbia Britannica e l’Alaska, cordigliere che corrono
parallelamente alla costa del Pacifico. Da valorizzare un evento che coinvolge
il mare Mediterraneo, e questo per il ruolo che questo avrà nella storia che
porta a Homo Sapiens, che alla fine
del Miocene, ca. 6 milioni d’anni fa, a causa di movimenti tettonici legati a
un sollevamento dell’area estremo occidentale tra Marocco e Spagna (nella zona di confine dove la placca
africana subduce sotto quella euroasiatica) e ad una regressione marina
dell’Atlantico dovuta all’incipiente glaciazione (formazione della calotta
artica), porta ad una chiusura dei corridoi marini di comunicazione con
l’Oceano Atlantico stesso, ciò che provoca più cicli di disseccamento che fanno
del Mediterraneo un’immensa salina naturale (giacché è presente un deficit nel bilancio idrico in quanto
l’evaporazione dell’acqua marina risulta essere ciclicamente superiore
all’apporto d’acqua dolce da parte delle coeve vie fluviali tributarie, quali il Rodano e il Nilo, e
delle precipitazioni o delle altre modalità d’approvvigionamento idrico, quali
un collegamento saltuario con la Paratetide); salina che complessivamente porta
ad un volume di rocce sedimentarie, dette evaporitiche, prodotte cioè dalla
sovrasaturazione delle acque che fanno precipitare i sali (carbonati, solfati
di calcio, salgemma), che va oltre 1 milione di km3 e che presenta
un’altezza che mediamente supera i 1 500 m
e può arrivare a 3 000 m (reperibile sotto le centinaia di metri dei
sedimenti marini attuali); questa situazione si smette quando nel Pliocene, ca.
5,3 milioni d’anni fa, cede la faglia di confine che separa la Spagna dal
Marocco e, con l’afflusso delle acque continentali permesso dal neoformato
stretto di Gibilterra (sotto forma d’inondazione catastrofica), si stima che in
ca. 100 anni la situazione si ripresenti con un Mediterraneo riportato a
regime, come lo conosciamo. Questo fenomeno è poi complessivamente detto crisi
di salinità del Messiniano, dove Messiniano rimanda alla classificazione
geologica italiana del periodo che va da 6 a 5 milioni d’anni fa. La figura
seguente mostra la paleogeografia delle terre emerse all’altezza di 14 milioni
d’anni fa (14 Ma), nel Miocene:
[?]
Per
quanto riguarda il clima, legato alla dinamica della tettonica delle zolle, nel
Cenozoico presenta complessivamente grandi fluttuazioni (per esempio, quando si
forma la catena montuosa dell’Himalaya, s’altera il meccanismo della
circolazione atmosferica, ciò che dà inizio al regime monsonico, v. supra). In dettaglio, nell’Eocene il
clima è subtropicale e umido alle medie latitudini e temperato e umido alle
alte latitudini; nell’Oligocene, pur rimanendo secondo le latitudini
subtropicale e umido o temperato e umido, manifesta l’inizio d’un raffreddamento
graduale a lungo termine che culminerà nella glaciazione del Pleistocene (nel
Quaternario), tanto che nel Miocene il clima è generalmente più rigido. È in
questo periodo poi che i fenomeni orogenetici danno origine a climi
differenziati e che un sistema di correnti transoceaniche e tra loro collegate
s’afferma nell’Emisfero australe dando origine ad una cintura dove l’Antartide
risulta esclusa dalle correnti calde presenti nella circolazione termica
complessiva delle correnti (v. infra),
ed è quest’evento che permette a seguire la formazione d’una calotta glaciale
antartica. Nel Pliocene, con l’avvicinarsi dei cicli glaciali pleistocenici, il
regime climatico tende verso un generale raffreddamento e risulta, infine,
essere più secco. Nel Cenozoico le piante, legate nelle dinamiche del loro
ecosistema al clima, presentano una notevole differenziazione ed evoluzione che
va da una progressiva riduzione delle Gimnosperme alla diffusione globale delle
Angiosperme. Nell’Eocene il clima, generalmente subtropicale e umido è, come
detto, temperato e umido a Nord dell’Emisfero boreale, tanto che permette,
perfino in Groenlandia, Alaska e Siberia, la predominanza, tra le Angiosperme,
di foreste d’alberi decidui quali faggi e castagni,
cioè di piante dove, in contrapposizione alle piante sempreverdi, cadono le
foglie al sopravvenire d’un clima sfavorevole (sono dette anche piante
caducifoglie), tanto che la
pianta sopravvive utilizzando le sostanze precedentemente immagazzinate negli
organi di riserva e riducendo l’attività metabolica (conseguentemente, un
metabolismo non ridotto che permetta il rinnovo delle foglie si manifesta
quando il clima è favorevole). Questa tendenza d’un cambiamento climatico
orientato verso una più marcata stagionalità caldo/freddo e umido/secco, si
rafforza poi nell’Oligocene e, per esempio, aceri, querce, betulle, cioè piante
caducifoglie, arrivano poi nel Miocene a diffondersi enormemente in aree in
precedenza ricoperte dalle palme, come dire che il sopravanzare d’un regime
climatico freddo fa migrare le piante verso il Sud. Per esempio, e sempre nel
Miocene, all’avanzare d’un clima complessivamente più freddo, le zone che in
precedenza erano state ricoperte da foreste temperate nelle alte latitudini
dell’Emisfero boreale, ora formano la tundra, la taiga e le praterie (v. infra); queste ultime sono poi dominate
da Angiosperme erbacee, soprattutto Graminacee, che danno origine alle dette
estensioni prative che velocemente ricoprono le distese continentali, grazie al
quale fenomeno queste zone si popolano a seguire di mandrie di Mammiferi
erbivori. Per quanto riguarda la fauna, nel Cenozoico, dopo la scomparsa dei
grandi Rettili, si presenta la rapida radiazione adattativa dei Mammiferi che,
apparsi nel Cretacico, s’affermano solo ora come gruppo dominante dei
Vertebrati sulle terre emerse; infatti, i Mammiferi occupano le varie nicchie
ecologiche lasciate libere dai Rettili e questo consente loro di moltiplicarsi
e differenziarsi in una pluralità d’ordini; alcuni dei quali scompaiono con la
fine del Paleogene (tra l’Oligocene e il Miocene), ma dai restanti s’originano
le 4 600 specie dei Mammiferi attuali. E lo stesso, o quasi, si può dire degli
Uccelli che, precedentemente rarefatti, presentano con la scomparsa degli
Pterosauri, una notevole diffusione e raggiungono l’organizzazione quasi
perfetta delle forme attuali tanto che nell’Eocene arrivano ad essere dominanti
nei cieli (presentano poi anche una supremazia sui Chirotteri, Chiroptera, o pipistrelli, mammiferi
meno ben adattati al volo, pur se capaci di volo meglio modulato e prolungato,
specializzato). La figura seguente mostra la filogenesi delle varie classi di
Vertebrati, valorizzando il fatto che gli Uccelli derivano dai Rettili come i
Mammiferi, che i rettili derivano dagli Anfibi, che derivano dai pesci, come
dire che v’è un legame filetico tra Pesci e Mammiferi (il segno sopra i
Placodermi indica che sono estinti e le linee che li indicano ne mostrano le
abbondanze relative, in crescita, in calo, che dipendono dalla loro
distribuzione temporale):
Figura
n. . Fonte: Padoa, 1971, p. 132.
Enorme
è anche la diffusione degli Insetti che, grazie al successo delle Angiosperme a
cui la loro evoluzione è legata, arrivano a contare bel 6 000 specie, tra cui
le mosche (Musca), che appartengono
all’ordine dei Ditteri (Diptera), le farfalle, dell’ordine dei
Lepidòtteri (Lepidoptera) e le
formiche, della famiglia dei Formìcidi (Formicidae).
Nei mari, estinte le Ammoniti, si trovano Gasteropodi e Lamellibranchi (v. supra), che diventano le classi più
diffuse, mentre tra i Molluschi, in generale, si verifica una notevole
riduzione delle specie dotate d’una conchiglia di grandi dimensioni; nella
microfauna si trovano le Nummuliti (Nummulites),
un gruppo di Foraminiferi perforati a guscio appiattito, notevolmente
concamerato e di forma discoidale che, in alcune specie, può superare i 10 cm
di diametro (forme relativamente gigantesche, trattandosi d’un organismo
unicellulare), presente però nel solo Paleogene, periodo dove conoscono una
grande diffusione anche le Alveoline (Alveolina),
comparse nel Cretaceo superiore, poi estinte nel Neogene, sempre appartenenti
ai Foraminiferi e con un guscio calcareo a forma di fuso o di sfera; si
presentano, inoltre, le Orbitoidi (Orbitoides),
macroforaminiferi con guscio calcareo perforato a forma di lente o di disco.
Tra i pesci, s’affermano i Teleostei, che sostituiscono completamente o quasi,
le forme più arcaiche dei Condrostei e Olostei, e assumono una posizione di
dominio sui pesci cartilaginei, realizzando così l’equilibrio faunistico che
persiste ancora oggi. Specificamente, nel Paleocene, si diffondono Marsupiali,
Insettivori (Insectivora), Lèmuri (Lemur) e Creódonti (Creodontia). Gli Insettivori sono Mammiferi relativamente
primitivi, molto voraci e quasi sempre notturni, di dimensioni variabili da 3-4
cm a ca. 50 cm, di vario aspetto, generalmente con arti brevi, capo allungato
in un muso appuntito, spesso in forma di proboscide, che si nutrono
principalmente d’insetti; i Lemuri, un genere di Proscimmie (Prosimiae, v. infra) prevalentemente arboricolo, frugivoro e fitofago (cioè che
si nutre, nell’ordine, con i frutti e con le piante), presentano un muso
appuntito, arti anteriori più corti dei posteriori e una coda non prensile più
lunga del corpo, mentre i Creodonti, per esempio lo Ienodonte (Hyaenodon), sono carnivori primitivi,
presenti in Eurasia, Africa e America Settentrionale, caratterizzati da una
dentatura adattata alle abitudini alimentari, corpo massiccio di varia taglia
con arti poco agili, andatura semiplantigrada o digitigrada e con artigli non
retrattili; costituiscono poi il ceppo comune che darà origine a Cànidi (Canidae) e Fèlidi (Felidae). Se l’andatura plantigrada è poi quella dei Mammiferi,
come i Primati, che durante la locomozione sul terreno poggiano a terra tutta
la pianta del piede (v. infra),
quella semiplantigrada è intermedia fra quella plantigrada e quella
digitigrada, mentre quella digitigrada è poi data dal fatto che, camminando,
l’animale appoggia sul suolo le dita, anziché tutta la pianta del piede (sono
poi digitigradi Canidi e Felidi). Nell’Eocene, il clima subtropicale è
favorevole al proliferare di Rettili, quali Coccodrilli (Crocodilia), dell’ordine dei Loricati (Loricata); Alligatori (Alligator),
simili per forma, dimensioni e modo di vita ai Coccodrilli, dai quali si
differenziano per la forma del muso largo, piatto e arrotondato (e non lungo e
affilato) e per alcune caratteristiche della dentatura; serpenti Boa (Boa), e di numerose famiglie di pesci.
Da sottolineare è poi il fatto che, nell’ultima parte dell’Eocene, si verifica
il primo adattamento di mammiferi alla vita acquatica, giacché nei mari sono
presenti anche organismi, con forme simili a Balene (Balaena), probabilmente derivate da un Ungulato (Ungulata, v. infra) primitivo, che superano la lunghezza di 15 m. e che possono
probabilmente nuotare grazie a un movimento ondulatorio della colonna
vertebrale. In Eurasia e in America del Nord, compaiono poi simultaneamente
Mammiferi erbivori con le forme ancestrali degli Èquidi (Equidae), dei Rinoceròtidi (Rhinocerotidae)
e dei Camelidi (Camelidae). Gli
Equidi sono caratterizzati da un corpo con arti specializzati per la corsa, in
cui solo il terzo dito è fortemente sviluppato e protetto all’estremità da
un’unghia molto spessa e molto robusta, foggiata a zoccolo e da dentatura
completa; i Rinocerontidi sono animali con scarse capacità visive, ma udito e
olfatto acuti, e presentano forme tozze e pesanti che possono raggiungere
grandi dimensioni, una coda corta, una testa allungata e labbra grandi e
prensili e uno o due corni impiantati nella regione nasale; si nutrono d’erbe e
foglie e sono legati agli ambienti ricchi d’acqua; i Camelidi sono caratterizzati
da statura grande o media, pelame lungo e lanoso, piede con le due dita riunite
fra loro e in alcune specie sono dotati di una o due gobbe. Mentre Equidi e
Rinocerontidi sono Perissodàttili (Perissodactyla),
cioè caratterizzati da dita in numero dispari (o imparidigitati, nell’ordine
uno e tre), i Camelidi sono Artiodattili (Artiodactyla),
cioè con le dita sempre in numero pari (o paridigitati, due o quattro); da
sottolineare, in generale, che questi Ungulati, cioè mammiferi erbivori in cui
le falangi, o l’unica falange, si presentano distalmente rivestite da zoccoli
anziché da unghie, sono sorprendentemente piccoli in confronto alle specie
moderne, per esempio, il sopra citato Iracoterio, ritenuto all’origine della
linea evolutiva che porta ai cavalli (Equus),
è mediamente lungo 60 cm e alto appena 20 cm al garrese (il garrese è poi una
regione del tronco che corrisponde alle prime vertebre dorsali); ancora, il
Moeriterio (Moeritherium), un Ungulato Perissodattilo simile a un tapiro, è
relativamente piccolo e forse è un antenato degli attuali Proboscidati (Proboscidea; v. infra). Oltre a questi erbivori, sono poi presenti altri gruppi di
Mammiferi, come i citati Chirotteri e i Primati (Primates, v. infra).
Nell’Oligocene scompaiono, nei mari le Nummuliti, sostituite da altri
macroforaminiferi, mentre tra gli organismi biocostruttori si diffondono i
Litotàmni (Lithothamnion), Alghe
calcaree rosse a forma incrostante o globosa; sono poi presenti i Cetacei (Cetacea), un ordine di Mammiferi
acquatici di grossa mole il cui ciclo vitale si compie tutto in acqua, cui
s’affiancano i Sireni (Sirenia),
Mammiferi erbivori anguilliformi presenti negli estuari e nelle acque marine
poco profonde dove si nutrono di vegetazione sommersa, che presentano un corpo
massiccio e cilindrico, arti anteriori brevi conformati a pinna, arti
posteriori assenti e coda trasformata in una larga pinna caudale. Sulla
terraferma i Mammiferi costituiscono ormai le forme dominanti della fauna
terrestre; per esempio, il Cavallo popola le praterie nordamericane e
l’Eurasia, e lo stesso fanno vari gruppi di Rinoceronti; uno d’essi privo di
corno, destinato a estinguersi, comprende il Baluchitherium dell’Asia centrale (Mongolia), che con i suoi 5,5 m
d’altezza al garrese, 7-8 m di lunghezza e 10 t probabili di peso, è il più
grande Mammifero terrestre mai esistito. La figura seguente mostra la
ricostruzione del Baluchitherium, un
Rinocerontide dell’Oligocene (si noti il collo allungato che gli permette
d’arrivare a brucare le foglie degli alberi fino a una decina di metri
d’altezza):
Figura
n. . Fonte: Padoa, 1971, p. 288.
I
Cammelli, che hanno pressappoco le dimensioni d’una pecora, s’estinguono nel
Nord America, sebbene alcuni esemplari superstiti riescano a migrare verso il
Sud America, mentre altri migrano in Eurasia. I citati Creodonti si
differenziano definitivamente in due gruppi, precursori, rispettivamente di
Canidi, di media taglia, con zampe adatte alla corsa, piedi ben sviluppati e
muniti d’artigli non affilati, e con olfatto e udito molto sviluppati; e
Felidi, di taglia variabile, grande o media, con un corpo robusto e agile,
vista acuta e artigli retrattili; questi ultimi comprendono a loro volta due
gruppi, e da uno d’essi s’evolvono i Macairodònti (Machairodontinae), caratterizzati da un abnorme sviluppo dei denti
canini superiori, che sporgono parecchi centimetri all’esterno quando la bocca
è chiusa (sono detti tigri dai denti a sciabola, e n’è esemplare famoso lo
Smilodonte, Smilodon, diffuso nel Pleistocene). I Roditori (Rodentia), Mammiferi di taglia piccola e
media caratterizzati dalla presenza d’un paio d’incisivi superiori e un paio
d’incisivi inferiori conformati a scalpello e a crescita continua, sono
ampiamente diffusi, e così pure Primati come i Lemuri. Forme semiacquatiche
prive di zanne e proboscide danno poi origine, in Africa, ai Mastodònti (Mastodontidae), Mammiferi con proboscide
flessibile, denti incisivi a crescita continua, o zanne, molto variabili nella
forma e nelle dimensioni e simili agli attuali elefanti (Elephas), che all’epoca non superano di molto l’1,5 m d’altezza.
Infine, compaiono le prime Scimmie, nome comune che s’attribuisce alla maggior
parte dei mammiferi appartenenti all’ordine dei Primati, escluse le Proscimmie
e l’uomo. Nel Miocene i mari, oltre al successo delle Alghe calcaree, vedono altri
generi di macroforaminiferi che sostituiscono le Nummuliti estintesi
nell’Oligocene, quali la Lepidocyclina
che ha avuto una diffusione cosmopolita; inoltre, sia tra i Molluschi che tra
gli Echinidi si verifica un rinnovamento con nuovi generi, come l’Echinide Clypeaster cottreaui; mentre nelle acque
basse costiere prospera il Mollusco predatore Conus mercatii. La fauna, grazie all’elevata di disponibilità di
cibo che permette un allargamento della catena alimentare, presenta altri
Mammiferi erbivori della famiglia dei Cèrvidi (Cervidae), originari dell’Asia, caratterizzati dalla presenza di
ramificazioni piene di tessuto osseo (dette corna a palchi o palchi),
soprattutto nei maschi, quali i Caprioli; dei Bòvidi (Bovidae), Mammiferi
ruminanti (v. infra) di taglia
variabile e con corna cave non ramificate a crescita continua e generalmente
presenti in entrambi i sessi, quali le Gazzelle (Gazella), e delle Giràffidi (Giraffidae),
sempre Mammiferi ruminanti, dal collo particolarmente lungo, come le zampe, di cui
quelle anteriori sono però più lunghe di quelle posteriori, e brevi corna non
caduche rivestite di cute presenti in entrambi i sessi, quali le Giraffe. Tra i
Proboscidati, Mammiferi erbivori di grossa mole, plantigradi, con testa
voluminosa, collo breve, tronco massiccio, arti colonnari diritti, digitigradi
(con 5 dita munite di zoccoli), proboscide e ossi intermascellari allungati in
rapporto con lo sviluppo dei denti incisivi superiori (le zanne) molto poderosi
nei maschi e a crescita continua, è presente il Deinoterio (Deinotherium), che
mostra zanne incurvate verso il basso, mentre il Platibelodonte (Platybelodon),
che ha zanne appiattite utili per estirpare le erbe acquatiche, fa la sua
comparsa tra la fine del Miocene e l’inizio del Pliocene, arco di tempo nel
quale si sviluppa anche il Trilofdonte (Trilophodon). È nel corso di quest’arco
temporale che grandi Scimmie, imparentate con l’Orango (v. infra), vivono in Asia e nella parte meridionale dell’Europa e
queste, a loro volta, sono le parenti più prossime delle Scimmie antropomorfe
che faranno la loro comparsa nel Pliocene; Scimmie antropomorfe è poi il nome
comune che si dà ai primati appartenenti alle famiglie dei Pongidi (v. infra) e degli Ilobatidi (v. infra) che, per il volume cerebrale, la
taglia corporea e l’assenza di coda, risultano essere vicini agli Ominidi (v. infra). Nel Pliocene, infine, i
Mammiferi sono ormai da tempo la forma di vita dominante sulla terraferma e la
rapida evoluzione d’un loro sottogruppo, quello dei Primati, produce poi specie
considerate le progenitrici della specie umana, Homo sapiens. I Primati sono poi un ordine di Mammiferi Euteri (v. supra) cui appartengono le Proscimmie
(da non
intendersi come antenate delle Scimmie, ma come un ramo parallelo, cioè un
sottordine primitivo comprendente animali prevalentemente arboricoli e, oggi,
di piccole dimensioni), le Scimmie e l’uomo. Ai fini della comprensione
dell’attuale distribuzione della fauna, è poi importante sottolineare che nel
Cenozoico, dato l’isolamento di alcune aree continentali o di transitorie
comunicazioni tra le altre, imponenti migrazioni come quelle dei Proboscidati
dall’Africa all’Europa e all’Asia, dei Bovidi e dei Proboscidati dall’Asia
all’America e degli Equidi, Rinocerontidi e Camelidi dall’America all’Eurasia,
hanno fortemente complicato il quadro evolutivo; ed è da sottolineare, a questo
proposito, che è proprio l’esistenza d’alcuni ponti continentali tra province
biogeografiche differenti che ha permesso le ampie migrazioni faunistiche di
Mammiferi, in entrambe le direzioni tra l’America settentrionale e l’Eurasia
sopra citate. Uno di questi ponti è la Beringia, ch’era situata dove esiste
l’attuale Stretto di Bering (il tratto di mare che separa la penisola della
Kamčatka, o Camciatca, in Russia, dalla penisola di Seward, in Alaska, e che
lega l’estremità Nordorientale dell’Eurasia all’estremità Nordoccidentale
dell’America settentrionale); questo braccio di mare, infatti, profondo
mediamente tra i 30 e i 50 m, con un massimo di profondità di 70 m, in certi
periodi, grazie al clima e alle regressioni marine, si presenta con un tratto
di terre emerse a tundra e steppe (v. infra),
larghe fino al massimo di 1600 km, noto appunto come Beringia, come dire un
ponte naturale situato in prossimità del Circolo polare artico che, dotato d’un
preciso ecosistema, permette con la flora anche una catena alimentare della
fauna (una biocenosi, come mostrano i depositi nel permafrost, v. infra), e
che tanta parte ha avuto, oltre che nelle migrazioni di fauna e flora, anche
nelle ondate emigratorie d’Homo sapiens (v.
infra); per esempio, per riprendere
le migrazioni sopra riferite, dall’Alaska mammiferi appartenenti alla famiglia
degli Equidi e dei Leporidi giungono a colonizzare le distese della Siberia o a
diffondersi in Europa, come Anthracotherium
magnum, un Ungulato artiodattilo a metà tra il Maiale e l’Ippopotamo, dopo
la migrazione arriva a colonizzare i terrene acquitrinosi europei; mentre,
seguendo la rotta inversa sullo Stretto di Bering i primi Proboscidati,
arrivati dall’Africa, giungono in America Settentrionale. Così come in
Beringia, sono poi esistiti altri ponti continentali, per esempio, durante
l’Eocene i collegamenti ch’iniziano a instaurarsi tra l’Eurasia e l’India
quando si prepara la fase di collisione; o, durante la crisi di salinità,
quando la parte occidentale chiusa del mare Mediterraneo (v. supra) fa da ponte all’Africa e
all’Eurasia; o quello che si viene a creare, nel Pliocene, tra l’America
Settentrionale e l’America Meridionale (isolata a partire dal Cenozoico) quando
si crea un sollevamento, che poi diventerà l’istmo di Panama, che produce un
interscambio biotico che mette in competizione ecologica la fauna da tempo
isolata del Sud con quella migrante del Nord, e dove in ingresso troviamo, per
esempio, Macairodonti, Canidi, Mastodonti ed Equidi e, in uscita, Scimmie e,
dell’ordine degli Xenartri (Xenarthra;
sono Mammiferi con denti privi di smalto e ridotti ai soli molari e per questo
detti Sdentati), forme giganti degli Armadilli (Dasypus) e dei Bràdipi (Bradypus),
con i primi che presentano un corpo rivestito di placche ossee d’origine
dermica, arti brevi muniti di lunghe e robuste unghie scavatrici, onnivori, e
con i secondi, arboricoli e con movimenti molto lenti, caratterizzati da un
corpo peloso, da lunghe zampe con unghie ricurve e sviluppate. Ponti, insomma,
che hanno permesso multiple ondate migratorie di fauna e anche di flora, per
esempio, grazie alla dispersione dei semi che conquistano nuovi areali. Oltre
che alla tettonica, è da ricordare che anche clima e flora influenzano, in
quanto ecosistemi, l’evoluzione delle conformazioni nella fauna, e ne sia
esempio il cavallo (che tanto posto avrà durante la Preistoria, v. infra); dato l’Iracoterio (Hyracotherium) nell’Eocene (v. supra), di piccola taglia e con dita
munite di zoccoli, tre nelle zampe posteriori e quattro in quelle anteriori,
che vive tanto nei sottoboschi dell’Eurasia e dell’America settentrionale dove
mangia le foglie degli arbusti utilizzando denti poco sviluppati in altezza e
con una superficie masticatoria munita d’alcuni tubercoli, si sviluppa tra
Eocene e Oligocene, ma solo nelle foreste americane a causa dell’estinzione in
Eurasia nell’Eocene dell’Iracoterio, un cavallo con un aumento di dimensioni
(per esempio, l’altezza delle zampe e del cranio) che porta a Mesohippus prima, che ha tre dita per
ogni zampa e con il dito mediano più grande (è cioè stabilmente imparidigitato
e più adattato alla corsa), modificazioni nella dentatura ed è frugivoro e
fitofago e, tra l’Oligocene e il
Miocene, al più grande Miohippus,
sempre tridattilo, con una superficie masticatoria più ampia, che si ciba tanto
di foglie che d’erbe, ed è cioè stanziato o nelle foreste o nelle praterie che
prendono, come detto, il posto delle foreste a causa d’un mutamento climatico,
tanto che nel Miocene gli Equidi s’irradiano secondo diverse linee evolutive
che sono l’interfaccia di ecosistemi modificati dal clima, tanto che, oltre a
queste forme di foresta, parallelamente iniziano ad evolversi nelle praterie, a
partire da Merychippus, Equidi
erbivori di stazza più grande, con denti dalla corona alta, molari più ampi e
con masticature più complesse adatte a triturare le erbe delle praterie, ricche
il silice e pertanto più coriacee (e con un processo digestivo diverso da
quello dei ruminanti, v. infra). Come
dire che linee evolutive si differenziano poi nel tempo tra gli Equidi
erbivori, più grandi, ma sempre tridattili come l’Ippario (Hipparion; se pure con il dito centrale, con zoccolo robusto, più
sviluppato di quelli laterali che non raggiungono il suolo) o come monodattili
nella linea che da Pliohippus (legato
alla steppa) porta agli Equidi attuali (Equus).
Attraverso la Beringia, Hipparion e Equus migrano in Eurasia e, mentre i
cavalli s’estinguono in Nord America, nel Pliocene l’Hipparion s’estingue e rimane in Eurasia il solo Equus ch’impone la monodattilìa. La
figura seguente mostra la filogenesi degli Equidi (il termine bunodònte indica
che l’organismo presenta molari con tubercoli arrotondati nella corona, molari
che sono propri agli artiodattili non ruminanti, che hanno regime alimentare
onnivoro, mentre il termine lofiodonte, o lofodonte, indica un tipo di dentatura
in cui i molari presentano cuspidi concresciute e riunite a formare delle
creste, caratteristica propria dei mammiferi perissodattili):
Figura
n. . Fonte: Padoa, 1971, p. 284.
L’esempio
dell’evoluzione del cavallo porta a sottolineare, a questo punto, che nel
pensare a quest’evoluzione, e fatti salvi tutti i meccanismi della radiazione
adattativa (cioè dell’evoluzione per divergenza) o convergente, non si deve
pensare ad un gradualismo filetico, ma ad equilibri intermittenti, o
punteggiati, ossia non si deve pensare a un’evoluzione che, per esempio, vede Equus o
Homo sapiens come se fossero
derivati e prodotti da un percorso graduale e lineare che parte da un’unica specie
arcaica e arriva alla forma evoluta, ma ad un processo che, partendo da
un’unica specie arcaica non si presenta come graduale continuità biologica tra
forme più arcaiche e forme moderne perché, partendo dal livello della specie in
su, la comparsa di nuovi rami filetici segue modalità differenti da quelle
ch’avvengono all’interno delle specie prese in sé e per sé. Come dire che le
forme di vita tendono a presentare una stasi evolutiva (un equilibrio) per
moltissimo tempo e poi a causa di fenomeni d’isolamento geografico di piccole
popolazioni (sottopopolazioni) che favoriscono un isolamento riproduttivo
(isolamenti permessi, come visto, dai movimenti della tettonica a placche e
legati alle modificazioni climatiche o orogenetiche che questi impongono), evolvono
in modo accelerato dando origine a una nuova specie nel corso d’un breve
periodo (geologicamente parlando), cioè formando e stabilizzando da un
ristretto pool genico una nuova
configurazione genetica senza forme
transizionali (detta speciazione allopatrica), o, s’è il caso, a nuove specie,
sempre che il meccanismo dell’isolamento riproduttivo si ripeta, e che questo
vale sia per gli umani che per tutte le forme viventi. Come dire, ancora, che
l’andamento dell’evoluzione è casualmente discontinuo e che le specie non
confluiscono l’una nell’altra come vuole il gradualismo filetico, ma presentano
equilibri che si spezzano e si presentano punteggiati dall’apparizione di nuove
specie (equilibri punteggiati, appunto). Il che è dire, ancora, che diversità interspecie
possono convivere fra loro, per lunghi o per brevi periodi di tempo, in areali
geografici fra loro distinti (come capita nell’esempio offerto dalle migrazioni
dalla Beringia) o sovrapposti in parte e non, come può apparire
complessivamente dallo stile descrittivo che precede, succedendosi per
sostituzione l’una all’altra. Al Cenozoico segue il Neozoico o Quaternario (1,6
milioni d’anni fa a oggi), ch’è suddiviso in due epoche, il Pleistocene
(1,6-0,0117 milioni di anni fa) e l’Olocene (0,0117 milioni di anni fa, cioè 11
700 anni fa, 9 700 a.C., ad oggi); il periodo ch’è caratterizzato dalla linea
evolutiva che ha portato allo sviluppo dell’uomo moderno (la comparsa dei primi
antenati diretti dell’uomo s’ha ca. 1,6 milioni di anni s’ha) e dalle glaciazioni
(di cui s’è diffusamente parlato sopra, v. Paleoclima). Nel Pleistocene si
presenta la fase finale (rispetto ad oggi) del modellamento morfologico della
Terra, con piccole variazioni nella distribuzione delle terre e dei mari e
un’intensa attività vulcanica in molti luoghi della Terra, per esempio in
Islanda in cui le eruzioni si sono manifestate durante tutta il periodo e i
materiali eruttivi talora s’alternano ai depositi glaciali, ma soprattutto in
regioni di sollevamento recente come l’Italia, dove si sono manifestati
fenomeni di deformazioni e dislocazione della superficie terrestre
(neotettonici) e vulcanici, in Sardegna, Toscana, Lazio e Campania, Lipari,
Sicilia, oltre che in altre regioni del Mediterraneo, per esempio nell’Egeo;
fenomeni che si sono poi manifestati anche nella stretta fascia altamente
sismica e vulcanica, detta Cintura di fuoco, che contorna il Pacifico per ca.
38 000 km, con lave e depositi piroclastici, tanto che si può dire che molti
vulcani attivi ancor oggi, sono stati attivi anche nel Neozoico e che una parte
rilevante degli edifici vulcanici tuttora esistenti si devono alle eruzioni
avvenute in questo periodo. Da sottolineare, in ogni caso, è che la deriva
complessiva dei continenti nel Neozoico è più o meno pari ai 100 km. Per quanto
investe il modellamento morfologico, in Eurasia, sul versante dell’Oceano
Pacifico, si distaccano dal continente un gruppo di isole dalla Siberia (Isole
della Nuova Siberia), quasi in continuità con il distacco dell’arcipelago del
Giappone, mentre tra il Pacifico e l’Oceano Indiano si stacca il vasto
arcipelago malese; sul versante dell’Oceano Atlantico si distacca dal
continente la Gran Bretagna, mentre la parte settentrionale della Penisola
Scandinava si unisce alla Svezia meridionale (che per lungo tempo era rimasta
separata); sul versante del Mare Mediterraneo si distaccano dalle Baleari e
dalla Provenza la Corsica e la Sardegna, l’isola d’Elba si stacca dalla Toscana
e la Sicilia, che con Malta si lega all’Africa, si stacca in seguito alla
formazione del canale che attualmente la separa dalla Tunisia e dallo stretto
di Messina (a seguire Malta si distacca poi dalla Sicilia), mentre il Mar Nero
si mette in comunicazione con il Mediterraneo. La formazione del Mar Rosso
mette poi in comunicazione il Mediterraneo con l’Oceano Indiano, tanto che
l’Africa risulta staccata dall’Asia, cui è però riunita quando emerge l’istmo
di Suez che separa il Mar Mediterraneo dall’Oceano Indiano. Sempre in questo
periodo i ghiacci continentali raggiungono la loro estensione massima che
arriva a coprire poco meno del 30% dell’intera Terra e più d’un quarto delle
terre emerse (e in altezza questi ghiacci possono raggiungere e superare i 2
000 m); oltre alla grande massa dei ghiacci che, nelle regioni polari, copre
estese aree territoriali (o inlandsis)
in Antartide e Groenlandia, altri ghiacciai ricoprono fino al 40º parallelo le
terre emerse con un sistema glaciale centrato sulla Scandinavia che giunge, in
più ondate successive, a espandersi su
intere regioni, cioè sulle regioni circumbaltiche quali l’Inghilterra (Irlanda
e Scozia) la Germania del Nord e gran parte della Russia occidentale, cui
s’aggiunga l’Islanda, mentre calotte minori si presentano in alcune zone della
Siberia (di cui una parte, infatti, rimane libera dai ghiacci probabilmente a
causa della scarsità delle precipitazioni, lo stesso che in Alaska); mentre un
altro sistema ricopre l’America del Nord in un’area che coinvolge la parte
occidentale dell’Alaska, il Canada e la fascia settentrionale degli Stati
Uniti. La figura seguente mostra, in grigio scuro, l’estendersi della
glaciazione sopra descritta (e si noti l’estensione facendo attenzione ai
paralleli che, in ogni Emisfero, qui quello Boreale, sono segnati in gradi
sessagesimali a partire dallo 0°, che identifica l’Equatore, fino al 90° che
segna il Polo, qui quello Artico):
Figura n. . Fonte: McGuire, 2003, p. 66.
Altre
calotte minori si trovano nel Sud dell’Argentina sopra l’Antartide, cioè in
Patagonia (dove sono ghiacciate anche le Ande), e sulle aree montuose (per
esempio le Alpi, il Kilimanjaro e l’Himalaya), mentre nelle acque, fino al 60º
parallelo e oltre i ghiacci marini immobilizzano i bacini dell’Emisfero
boreale. Si presentano inoltre fenomeni di glacialismo, cioè di trasformazioni
del territorio attraverso l’azione vuoi d’erosione, trasporto, sedimentazione o
modellamento etc. causati dalle
coltri glaciali; per esempio, le variazioni del livello marino
(regressione/trasgressione) legate alle glaciazioni/deglaciazioni (v. supra) che causano con ritmi
decelerati/accelerati l’attività d’avanzamento o retrocessione delle coste, cui
sono pari fenomeni ora blandi ora veloci d’erosione/sedimentazione delle coste
stesse e delle foci dei bacini fluviali o della creazione di baie, cioè insenature
non molto estese nella costa marina che si prolungano per lunghi tratti
nell’interno (e complessivamente si dice eustatica ogni variazione relativa di
livello tra le masse oceaniche e continentali che consegue a variazioni del
livello medio marino e produce modificazioni di vario genere sulle coste
marittime, quali la formazione di successioni di linee di costa, di terrazzi
marini o fluviali etc.), di bacini
lacustri (cioè mari epicontinentali), d’accumuli di detriti rocciosi e terrosi,
quali massi, ghiaie, argille o sabbie trasportati o depositati dai ghiacciai
(detti morene, mobili o deposte secondo il caso; morena frontale si chiama poi
la morena deposta dal fronte più avanzato dei ghiacciai ch’emerge con la
confluenza dei materiali morenici mobili, spesso di grandi dimensioni e di
forma arcuata, come una mezzaluna, che sono appunto testimonianza del limite
massimo d’estensione dei ghiacciai stessi), di piane da dilavamento glaciale
(in cui le acque di disgelo depositano i sedimenti) e di ponti di terra (v. supra); oppure, dati i modi
d’avanzamento/retrocessione dei ghiacciai, con la creazione di laghi d’acqua
dolce (quali, nell’ultimo ciclo glaciale, i cinque Grandi Laghi, Great Lakes, nella parte centrorientale
del Nord America, tra Canada e Stati
Uniti) e la modificazione dei bacini fluviali o con l’erosione (sulle vaste
aree continentali situate ai margine dei grandi ghiacciai) di materiali che si
depositano e arrivano a ricoprire il tutto di materiali detritici che, nelle
zone i cui suoli hanno massimamente avuto la presenza di regimi climatici con
alternanza di fasi di gelo e disgelo (dette aree periglaciali), permettono o la
formazione del permafrost, cioè
l’alterazione d’un suolo ch’è costretto a diventare perennemente ghiacciato
(sciolto in superficie nei mesi caldi, ma che rigela nei mesi freddi, non
potendo infiltrarsi, a causa del ghiaccio perenne sottostante, l’acqua di
scioglimento estivo) o di cospicui depositi di löss (o loess), ossia di
depositi eolici (creati dal vento) di rocce sedimentarie porose e tenere
(costituite da frammenti finissimi di quarzo, calcite, idrossidi di ferro e
sostanze argillose) che si sono formate per l’asporto da parte del vento dei
materiali detritici leggeri, come avviene, per esempio, nel Nord America, nelle
pianure a Nord del fiume Missouri, o nel corridoio ch’attraversa obliquamente
l’Europa centrale (löss che creerà,
dopo il 10 000 a.C., la premessa per suoli con colture agricole ad alta
produttività); oppure, ancora, nelle aree che durante il Pleistocene sono
ricoperte dalle maggiori calotte glaciali, dove si manifestano notevoli
movimenti d’innalzamento o sprofondamento della superficie terrestre (detti
spostamenti isostatici), quali, in Scandinavia, le parti centrali che
sprofondano di oltre 500 m sotto il peso della calotta glaciale mentre, a
seguire durante la fusione dei ghiacci, presentano un processo d’innalzamento
(qui tuttora in corso) etc. Da sottolineare,
in linea generale e per quanto riguarda
il rapporto causale tra glaciazioni, fenomeni orogenetici e migrazioni di faune
e flore, che l’orientamento trasversale al continente delle catene montuose
dell’Eurasia impedisce gli spostamenti di piante e d’animali e gli interscambi
biotici fra regioni diverse giacché, di fronte a queste barriere fisiche e
all’espansione dei ghiacciai, le migrazioni e gli scambi sono direzionati verso
Sud, laddove si presenta poi una migrazione in senso inverso nelle fasi di
deglaciazione; al contrario, flora e fauna nelle Americhe, dato l’orientamento
parallelo all’Oceano Atlantico, longitudinale, delle catene montuose (il
sistema delle cordigliere, v. supra),
e dopo la creazione dell’istmo di Panama, possono migrare e favorire gli scambi
liberamente da Nord a Sud e viceversa, il tutto, ovviamente, in relazione
all’instabilità climatica che domina il periodo. Delle glaciazioni e dei
periodi interglaciali durante il Neozoico, cioè delle ampie oscillazioni del
clima instabile e delle collegate fasi di regressione e trasgressione del
livello marino, s’è già detto sopra analizzando il Paleoclima, qui soltanto si
ripete che, per esempio, si modifica la temperatura superficiale delle acque
dei mari soggette a glaciazione che, se oggi è di ca. 14 °C, all’epoca dei
massimi glaciali si presenta sui 9-10 °C, con conseguente modificazione della
circolazione termoalina (v. supra)
che si riverbera sui climi continentali e sulle biocenosi, marine o terrestri
che siano; oppure con la modificazione della circolazione atmosferica causata
dall’aria fredda proveniente dai ghiacciai che crea venti forti e persistenti
nelle aree periglaciali (e sono questi i venti che creano il sopra citato löss) e abbassa la temperatura in molte
aree della Terra (o, forse, su scala globale); oppure modificando il regime
delle precipitazioni, giacché la diminuzione dell’evaporazione nelle acque
degli Oceani ghiacciati crea piogge meno abbondati (come in Alaska, Siberia, v.
supra, e in altri parti dell’Emisfero
Boreale), ciò che favorisce anche fenomeni di desertificazione o, nei deserti
già esistenti, l’allargamento dell’area d’aridità, mentre, al contrario, le
glaciazioni favoriscono precipitazioni più abbondanti nelle fasce delle basse
latitudini dell’Emisfero Australe (in quanto favorite da maggiori processi
d’evaporazione nelle acque più calde), tanto che in certe aree dell’Africa
settentrionale e orientale dell’Africa, per esempio, nel Sahara e nel Sahel (la
zona sottostante il Sahara), flora e fauna (Homo
ergaster compreso, v. infra) si
diffondono, poiché queste regioni, prima
desertiche, ora sono diventate verdi; tutti fattori, insomma, che influenzano
ancor di più i biomi, le biocenosi e la catena alimentare, con migrazioni di
flore e faune ch’alterano la distribuzione geografica d’ogni qualsivoglia
organismo; e quale esempio, ch’anticipa quanto si dirà in seguito, si prendano
le migrazioni di massa ch’investono numerose specie di Molluschi, il cui habitat è quello tipico dei mari
nordici, nelle acque relativamente calde del settore occidentale del bacino del
Mediterraneo, Molluschi a uno stadio planctonico (cioè trasportate passivamente
dalle correnti) le cui larve, nella fase di sviluppo e in sole tre settimane,
possono entrare nella fase adulta a una distanza di ca. 1 700 km (dati ricavati
dalle attuali specie nordatlantiche); e tra le specie che si spostano nei mari
più caldi, e dette ospiti freddi, si trova, per esempio, l’Arctica islandica, un Bivalve ancora esistente sulle coste
dell’Islanda. La figura seguente mostra le vie di diffusione degli ospiti
freddi dai mari nordici nel Mar Mediterraneo durante le glaciazioni del
Pleistocene:
Figura
n. . Fonte: Polticelli, 2003, p. 139.
A
riassunto, il dato emergente è la persistenza durante tutto il Pleistocene
d’una forte instabilità climatica complessivamente legata ai cicli di
glaciazione/deglaciazione (che, si ripete, sono stati 17 negli ultimi 1,6
milioni di anni) che, come visto, creano regimi termici e pluviali (cioè di
precipitazioni) assai variabili nel loro ventaglio di possibilità (quale
esempio d’instabilità climatica si cita il clima molto più caldo dell’attuale
dell’ultima fase interglaciale, che porta questa volta organismi il cui habitat è quello dei mari caldi, gli
ospiti caldi, quali il Gasteropode Strombus
bubonius, attualmente presente sulle coste atlantiche del Senegal, a
trovare refrigerio nelle acque meno calde del Mediterraneo). Da sottolineare
che tanto la flora che la fauna dell’epoca, va da sé diffuse nelle regioni
libere dai ghiacci, sono grossomodo le stesse del periodo precedente, il
Pliocene. La flora del Neozoico nel suo insieme è assai simile alla flora
attuale e ciascuna delle famiglie di piante presenti nel Neozoico è già
segnalata anche per il periodo che precede (come dire che non s’hanno grossi
cambiamenti nella filogenesi delle piante, anche se un impoverimento
generalizzato è da segnalare, almeno per le essenze tropicali europee; e dove
con il termine essenza s’intendono poi le specie, arboree o arbustive che
siano). Quello che cambia è però la biogeografia della loro distribuzione a
seguito dell’obbligo, pena la sopravvivenza, d’un comportamento migrante della
flora di clima temperato o caldo (o termofila) verso Sud o di ritorno al Nord a
fronte della detta discontinuità climatica (clima rigido/mite pari alla
glaciazione/deglaciazione). Questo nel senso che il fronte d’avanzamento dei
ghiacciai lentamente spopola i territori imponendo alle piante un arretramento,
cioè uno spostamento di latitudine alla frontiera degli alberi, o timberline, ch’è poi pari alla
diffusione verso latitudini molto più basse della flora artica e subartica
dalla loro locazione originaria (per esempio, la Linnaea borealis, originaria dell’Artico, che raggiunge in Italia,
nei boschi di conifere, i suoi limiti più meridionali); questa flora artica e
subartica è poi in prevalenza flora erbacea propria a biomi (v. infra) di tundra o di steppa, ed è
caratterizzata, per esempio, da Salix
polaris, da Betula nana e da Dryas
octopetala, questa ultima essenza prevalente sul tutto. Va da sé che
l’arretramento della flora artica e subartica, seguita dall’arretramento della timberline provoca, conseguentemente, un
ulteriore arretramento delle piante termofile; o, nel caso contrario della
deglaciazione, mostra un lento ripopolamento laddove la flora artica e
subartica prima in fase d’avanzamento, ora è o in parte ricacciata negli habitat originari o trova distribuzione
sulle catene montuose a precisi limiti altimetrici (quale la citata Dryas octopetala che si trova al di
sopra dei 2000 m), mentre la flora di clima temperato o temperato-caldo, sposta
in avanti la timberline, per esempio
con pini (Pinus), betulle (Betula), olmi e salici; e se riconquista
le sue originarie posizioni, lo fa però solo in parte (per esempio, tra altre
essenze, mancano all’appello le sequoie, Sequoia).
Essendo poi sottinteso, in questa dinamica di dislocazioni, il fatto che le
lente migrazioni della flora sono legate alle relative strategie adattative che
il clima (un esempio tra tutti, la riduzione della taglia) e le barriere
orogenetiche impongono. A proposito di queste ultime, infatti, nelle nuove
biogeografie di distribuzione le specie di clima temperato o caldo possono migrare verso Sud senza barriere
orogenetiche nelle Americhe (v., supra),
questo grazie al sistema delle cordigliere americane che presenta un andamento
meridiano con prevalente direzione Nord/Sud e con le catene montuose suddivise
da vaste pianure, lo stesso che in Asia (almeno fino alla catena
dell’Himalaya), mentre in Europa, al contrario, le catene montuose mostrano uno
sviluppo che segue prevalentemente i paralleli in direzione Est/Ovest, per
esempio i Pirenei (che nell’Europa sudoccidentale seguono, dalle coste
sull’Atlantico a quelle sul Mediterraneo, i confini tra la Spagna e la Francia), le Alpi (nell’Europa
centromeridionale, che si sviluppano ad arco dalla Liguria alla Croazia) e i
Carpazi (nell’Europa centrorientale, che si sviluppano a semicerchio dalla
Slovacchia alla Romania), sviluppo ch’è barriera, o impedimento, alle
migrazioni e che provoca la lenta sparizione o inibizione di molte essenze
arboree tropicali, e impone essenze ch’indicano una barriera divergente tra habitat dalle condizioni climatiche
antitetiche. Come dire che nel Pleistocene s’esaurisce definitivamente quella
continuità di flore presenti durante il Cenozoico nella fascia che dall’Estremo
oriente arrivava alla costa occidentale dell’America del Nord e s’impongono
come dominanti le disgiunzioni degli areali e, tra altri, i fenomeni
d’isolamento geografico delle specie con nuove speciazioni. È poi nel Neozoico
che le faune hanno assunto, nelle loro grandi linee, grossomodo l’aspetto attuale;
infatti, le famiglie di animali vissuti in questo periodo e non presenti nella
fauna attuale sono assai poche e la maggioranza di generi neozoici ora assenti
sono scomparsi in epoca recente, anche per cause antropiche. È però in ogni
modo vero che le faune hanno subito diversi mutamenti, com’è vero che la fauna
è, molto più della flora, fortemente influenzata dai cicli dell’instabilità
climatica (glaciazioni/deglaciazioni). Partiamo, quale esempio per illustrare
la fauna che sarà neozoica, dall’Europa meridionale tra la parte finale del
Pliocene e quella iniziale del Pleistocene, quando, parallelamente
all’estendersi delle praterie erbose in Eurasia e della savana in Africa (v. infra), si presenta un clima caldo dove
l’ambiente di savana s’allarga alle aree costiere orientali del Mar
Mediterraneo, ciò che fa sì che molte specie di mammiferi trovino condizioni
ambientali favorevoli anche al di fuori della loro originario areale e
l’allarghino di fatto all’Europa meridionale permettendo, così, la dispersione
agli animali propri al bioma savana, come Bovidi quali Antilopi (Antilope) e Gazzelle, Rinocerotidi (Rhynoceros thychorinus), Elefanti (Elephas antiquus, con zanne diritte fino
a 4 m e con 5 m d’altezza al garrese). La figura seguente illustra la ricostruzione
di Elephas antiquus:
Figura
n. . Fonte: Polticelli, 2003, p. 141.
Sempre
in questo bioma, oltre a quelli già citati, si trovano Ippopotàmidi (Hippopotamidae; Mammiferi ungulati
artiodattili con abitudini acquatiche, tra cui Hippopotamus amphibius che, per esempio, si spinge fino in Inghilterra),
Sùidi (Mammiferi artiodattili di media statura, con corporatura massiccia, arti
brevi, testa grande e muso allungato, o grugno, con denti canini a crescita
continua, talora trasformati in grosse zanne sporgenti fuori della bocca) e gli
ultimi Mastodonti (Anancus arvernensis),
periodo che vede poi la comparsa di predatori carnivori, quali il Megantereon (simile al già citato
Smilodonte, sebbene di taglia più ridotta) e gli Ienidi (Hyaenidae), tra cui Pachycrocuta
(o iena gigante, un carnivoro di grossa taglia di 110 kg, con forme tozze, collo
lungo e grosso, testa con muso ottuso e tronco breve inclinato dall’avanti
all’indietro, cioè con arti
anteriori più alti dei posteriori e con premolari adatti a rompere le ossa
delle prede). Ora, quando si presentano ripetute e marcate oscillazioni
termiche spostate verso la temperatura polare, tutte queste faune si spostano
da habitat diventati inabitabili
verso quelli abitabili; infatti, e per rimanere sempre in ambito mediterraneo,
nei mari del Pleistocene inferiore le forme boreali dei Molluschi migrano tanto
che, come sopra detto, compaiono nell’area mediterranea gli ospiti freddi che
qui si stabilizzano (fatto salvo che scompaiono nella fase interglaciale del
Pleistocene medio e ricompaiono con notevole frequenza nelle fasi glaciali del
Pleistocene superiore), come la citata Arctica
(o Cyprina) islandica, e la Panopaea
norvegica, reperibili nel Mar Baltico. O al contrario, quando si presenta
l’ultima fase interglaciale con un clima molto più caldo dell’attuale, nel
Mediterraneo a più bassa temperatura fanno la loro comparsa le faune calde
senegalesi o delle Canarie, insomma dei mari tropicali, ospiti caldi come Brachidontes senegalensis e Strombus bubonius (il loro
rappresentante classico) etc.;
così anche nelle microfaune marine, dove
fra le Alghe unicellulari assume importanza la comparsa di Gephyrocapsa oceanica, un
Coccolitofòride (Coccolithophoridae)
rivestito da un inviluppo sferico di corpuscoli di forma discoidale, un ospite
freddo rinvenuto nel bacino del Mediterraneo, mentre tra i Foraminiferi
planctonici diventano abbondanti le forme d’acqua fredda (e la meccanica di
dislocazione che vale per i mari del Nord e il Mediterraneo, si ripete in forma
più o meno accentuata anche negli altri mari). Le stesse dislocazioni e
dispersioni legate alle dinamiche climatiche che hanno manifestato le faune
marine, valgono poi anche per le faune continentali in biomi modificati che,
come detto, sono la risposta funzionale ai mutamenti climatici stessi. Per
esempio, l’alternanza di fasi fredde e fasi calde del Pleistocene medio e
superiore ch’investe le mammalofaune calde/fredde (dove con mammalofauna
s’intende l’insieme dei mammiferi d’una data regione), la si nota
specificamente guardando alla distribuzione delle specie migranti da habitat ormai inabitabili in biomi abitabili durante le fasi fredde e
alla distribuzione delle specie migranti di ritorno negli habitat originari ridiventati abitabili durante le fasi calde,
fatta eccezione per l’ultima fase glaciale del Pleistocene superiore, dove
compaiono le prime forme adattate al freddo intenso e alle modificazioni
ambientali, quali, in linea generale, il Rinoceronte lanoso (Coelodonta antiquitatis, dotato di due
corni cheratinosi, di cui uno molto lungo e anche lui ricoperto da una fitta
peluria lanuginosa, ma a doppio strato, cioè con sottopelo e pelo), i Bovidi
lanosi (il Bue muschiato, Ovibos
muschatus, con muso peloso, coda rudimentale, corna larghe e lunghe,
rivestito da un folto pelo scuro che arriva fino a terra o quasi, e dove
muschiato sta per il fatto che le ghiandole sotto il manto secernono sostanze
con odore di muschio e la cui femmina presenta soltanto due capezzoli), la
Renna (Rangifer tarandus, un Cervide
con palchi presenti in entrambi i sessi, sebbene più grandi e resistenti nel
maschio, e con zoccoli divaricabili al fine di favorire gli spostamenti sulla
neve) e, su tutti, domina il Mammuth lanoso (Mammuthus primigenius, derivato dal Mammuthus trogontherii, il Mammuth originario delle steppe, che
presenta 3 m d’altezza al garrese, lunghe zanne piegate a spirale, un corpo con
pelle spessa che ricopre uno stato di grasso, il tutto a sua volta ricoperto da
una fitta e lunga peluria lanuginosa, e orecchie e coda ridotte al fine di
contrastare la dispersione del calore corporeo, così come il grasso e i peli a
mantenerla). La figura seguente mostra la ricostruzione di Mammuthus primigenius:
Figura
n. . Fonte: Polticelli, 2003, p. 141.
La
figura seguente mostra invece la ricostruzione di Coelodonta antiquitatis:
Figura
n. . Fonte: Polticelli, 2003, p. 141.
Guardando
alle aree continentali, in Europa sono all’epoca diffusi il Mammuth lanoso, il Rinoceronte lanoso,
l’Orso delle caverne o Orso spelèo (Ursus
spelaeus, di grandi dimensioni poiché il suo corpo massiccio e tozzo
raggiunge i 3 m di lunghezza e i 500 kg di peso, con evidente dimorfismo sessuale
in quanto il maschio ha una taglia all’incirca doppia della femmina; è inoltre,
dato l’areale disponibile, in fase d’adattamento onnivoro, cioè con una
dentizione carnivora che tende a farsi vegetariana), il Bisonte delle steppe (Bison priscus, un Bovide di grosse
dimensioni con lunghe corna e la porzione anteriore del tronco molto più pelosa
e più sviluppata della posteriore, migrato attraverso la Beringia nell’America
del Nord), e, tra i Cervidi, l’Alce (Alces
alces, un ruminante con statura grande, collo e tronco brevi, testa e arti
lunghi, coda molto corta; il maschio presenta corna palmate che possono
arrivare ai 2 m e che cadono e si riformano ogni anno) e il Megalocèro o
Megacero (Megaloceros; un ruminante
alto 2 m al garrese e in cui il maschio è l’unico a essere provvisto di palchi
che possono raggiungere anche i 5 m d’ampiezza), che la figura seguente
illustra:
Figura
n. . Fonte: Padoa, 1971, p. 324.
E
altri ancora che si spingono fino all’Italia e alla Spagna e che si diffondono
anche nell’Asia centrale e settentrionale, mentre durante le fasi interglaciali
s’hanno, sempre in Europa, faune di clima relativamente caldo, come
l’Ippopotamo, associate a specie vegetali della flora pontica e caucasica, e
dove pontico si riferisce alla regione floristica al margine settentrionale del
Mar Nero, così detta perché rimanda al nome classico del Mar Nero, Ponto
(Pontus); mentre nell’America del Nord
permangono (in ogni caso più a lungo che in Europa), forme arcaiche di
Proboscidati come il Mastodon americanus
e di Carnivori come lo Smilodon o,
attraverso la Beringia, di Mammuth (Mammuthus imperator, alto quasi 5 m e
con zanne che s’incurvano e arrivano a incrociarsi). Da sottolineare è poi il
fatto che la fauna dell’America Meridionale è contraddistinta (e in modo
particolare nelle specie autoctone dei mammiferi appartenenti specialmente a
Tardigradi), dall’assunzione di forme gigantesche, così come da altre derivate
da forme ancestrali migrate attraverso l’istmo di Panama. Numerosi generi di
questa fauna appena citata scompaiono però rapidamente, tra cui Xenartri (o
Sdentati), tra cui il Megaterio (Megatherium,
un Bradipo terricolo gigante) e il Gliptodonte (Glyptodon, un Mammifero
gigante lungo 3 m che ricorda gli Armadilli), che la figura seguente illustra:
Figura
n. . Fonte: Padoa, 1971, p. 249.
Scompaiono
inoltre, tra i Lipoptèrni (Lipopterna),
la Macrauchenia (un grande Mammifero
fitofago con dentatura poco differenziata, collo e arti allungati che possono
presentarsi con un solo dito funzionale e, probabilmente, con una piccola
proboscide), probabilmente in seguito all’invasione di grandi carnivori
provenienti dal Nordamerica, come lo Smilodon.
Per quanto riguarda gli Uccelli, nel Pleistocene sono presenti anche forme
grandi, quali il Moa (Dinornis maximus;
che raggiunge i 3 m d’altezza, con ali molto ridotte che lo rendono incapace di
volare e arti posteriori massicci che gli permettono di camminare a terra)
della Nuova Zelanda e l’Aepyornis del
Madagascar (detto uccello elefante a causa della sua taglia, infatti pesa 450
kg ed è alto 2,5 m, anche lui terricolo ed estinto per cause antropiche, cioè
quando il Madagascar è stato colonizzato dall’uomo, ca. 2 000 anni ha). S’è
detto, sopra, che l’instabilità climatica porta a ciclici movimenti eustatici
nel livello dei mari (abbassamenti/innalzamenti, cioè
regressioni/trasgressioni); infatti, in quest’arco temporale il livello medio
dei mari regredisce di ca. 100 m a causa delle quantità d’acqua sottratte agli
Oceani che arrivano a formare le calotte glaciali, mentre durante le fasi
interglaciali, diciamo in modo equivalente e inverso rispetto alle regressioni,
si presenta una trasgressione a seguito della fusione dei ghiacci. E, sempre
sopra, s’è anche detto che, nel caso di regressione, compaiono ponti di terra
fra i continenti (la citata Beringia) o ponti ch’inglobano distretti insulari e
si legano ad aree della piattaforma continentale, conformazioni territoriali in
sé transitorie, ma che favoriscono la migrazione degli animali. Infatti, è
grazie a queste regressioni marine/conformazioni territoriali che si manifesta
la diffusione, in Europa, di Mammiferi tipici del continente asiatico (tra cui
il Mammuth e il Cavallo). Questa
fauna, con il ripristinarsi durante la trasgressione dei mari delle originarie
condizioni d’insularità, dà poi origine a specie distinte da quelle
progenitrici, con forme d’endemismo insulare assai consistenti come, ad
esempio, quello della riduzione di taglia (nanismo) che colpisce numerose forme
d’erbivori, come Elefanti, Cervi e Ippopotami, oppure, al contrario, produce
forme di gigantismo a carico di micromammiferi (e dove, con endemismo s’intende
la presenza
circoscritta in un areale di specie o generi caratteristici e a questo
limitati, qui un’isola, dove le barriere geografiche, l’assenza di predatori e
il ridotto scambio genetico all’interno di queste popolazioni isolate danno
origine a forti modificazione di taglia, nanismo o gigantismo, appunto). Esempi
d’endemismi insulari s’hanno nel bacino mediterraneo a Cipro con Elephas cypriotes (1 m d’altezza per 200
kg, con una riduzione del peso rispetto a Elephas
antiquus tra il 90-100%) e l’ippopotamo Phanourios
minor (75 cm d’altezza e 120 cm di lunghezza); a Creta con Elephas creticus e Hippopotamus creutzburgi (con riduzione di taglia del 45% ca.); in
Sicilia e a Malta con Elephas
mnaidriensis (con riduzione di taglia del 50% ca.), Elephas falconeri (con un’altezza di 90 cm e una riduzione di taglia
del 70% ca.), Hippopotamus pentlandi
(con
riduzione di taglia del 25% ca.) e i Cervidi Notomegaceros carburangelensis e Cervus elaphus siciliae; in Sardegna con il Bovide Nesogoral melonii e il Cervide Praemegaceros cazioti e nelle Baleari
con il Bovide Myotragus balearicus
che, oltre alla piccola taglia, presenta occhi che non sono laterali come nei
Mammiferi erbivori, ma frontali, dunque con una visione binoculare (cioè con la
percezione del rilievo d’un oggetto e delle distanze, o visione stereoscopica)
e sviluppa incisivi a crescita continua come quelli dei Roditori. E come nel
Mediterraneo, il nanismo insulare si presenta anche in molte altre isole, per
esempio nelle Filippine, nel Giappone meridionale e nei Caraibi.
Complessivamente si può dunque dire che la fauna a Mammiferi, con l’inizio del
Pleistocene, presenta un rinnovamento grazie allo sviluppo e alla diffusione di
molte nuove forme; che nel Pleistocene medio, tra le faune a Mammiferi, molte
s’estinguono e molte ne compaiono di nuove; che, con la fine del Pleistocene
medio e nel Pleistocene superiore, nuove forme s’adattano al clima temperato e
freddo, così come s’assiste ad una migrazione di forme sia nel senso della
latitudine che dell’altitudine (cioè sulle catene montuose). Ancora, si può generalizzare
affermando che questo turnover di
faune si presenta perché si formano nuovi habitat
come risposta funzionale al mutamento del clima, tanto che s’assiste anche un turnover negli ecosistemi che diventano
(o ridiventano) abitabili, ciò ch’implica adattamenti nella fauna migrante al
di fuori dell’areale originario che, in questo modo, il tutto può evolvere o
verso nuove associazioni faunistiche (ciò che crea eventi di dispersione, come
è già capitato nell’Europa meridionale a savana) o verso nuove specie. Da non
dimenticare, infine, che verso la fine del Pleistocene e in tutti o quasi i
continenti, si presenta poi un’estinzione di massa dei grandi Mammiferi, tanto
che s’estinguono gli animali dal peso superiore a 100 kg; fanno eccezione
l’Asia meridionale e l’Africa (forse perché qui la linea evolutiva del genere Homo e della Megafauna corre parallela
creando nella coevoluzione un equilibrio preda/predatore, cioè un equilibrio
trofico), continenti che però registrano in ogni caso una riduzione della
biodiversità e la perdita della maggior parte dei generi di Proboscidati,
Ippopotami e Rinoceronti, oltre a moltissimi grandi predatori. Tra le specie
scomparse sono così da annoverare i Mammuth,
i Mastodonti e in generale la maggioranza dei Proboscidati, l’Orso delle
caverne, il Megaterio, il Gliptodonte, lo Smilodon
e il Megacero, e la scomparsa di questa Megafauna (qualcosa come 100 generi) si
deve probabilmente in gran parte anche a meccaniche antropiche (v. infra). Il limite dell’Olocene, 10.000
anni fa, si colloca come sopra detto fra il massimo freddo dell’ultima
glaciazione pleistocenica, quando si verificò il ritiro della calotta glaciale
che ricopre la Scandinavia e il Nord America a 0,0117 milioni di anni fa, cioè
a 11 700 anni. Durante l’Olocene, dopo la regressione del livello marino dai
ca. 120 m al di sotto del livello attuale legata alla massima espansione
glaciale del Würm (31 000-18 000 anni fa), si presenta, con la deglaciazione,
la trasgressione che raggiunge il suo picco tra 15 000-11 000 anni fa e che
regredisce raggiungendo i valori simili agli attuali tra 6 000-5 000 anni fa; i
continenti continuano il loro moto di deriva per qualche centinaio di metri
(non a noi percepibili, data la brevità temporale della deriva), mentre
continua l’innalzamento delle catene montuose di recente formazione
(geologicamente parlando), quali le Alpi e l’Himalaya; il vulcanismo, infine,
non è particolarmente intenso e
distribuito principalmente nella già citata Cintura di fuoco. In termini
climatici, l’Olocene è di solito considerato una fase interglaciale nell’ambito
dell’era glaciale Neozoica (o Quaternaria), vale a dire una fase relativamente
calda compresa tra due periodi glaciali, e con la fase di riscaldamento che
determina la scomparsa dei ghiacciai il clima ritorna grosso modo normale, così
come la distribuzione delle regioni climatiche è poco diversa da quanto si può
osservare ora. Specificamente, l’Olocene, che segue il Pleistocene e che per
convenzione data il suo inizio a 12 000 anni fa (10 000 anni a.C.), inizia
dunque una fase interglaciale, cioè inizia a presentare una fase di
riscaldamento. Da sottolineare però che ca. 11 000 anni fa (9 000 a.C.), dopo
l’iniziale riscaldamento globale del tardo glaciale-interstadiale, detto Bølling-Allerød (13 000-11 000 anni fa,
nella cui fase finale si sviluppa, nel Vicino Oriente il Natufiano, v. infra), si presenta un periodo di mille
anni ca. d’abbassamento delle temperature, detto Dryàs recente (Younger Dryas,
o Dryas III, dal nome di un genere di
piante artiche, Dryas, che sono fra
le prime a ricolonizzare le terre dopo la ritirata dei ghiacciai), che vede, ad
esempio, il ritorno nell’Europa centrosettentrionale del clima subartico con
abbassamenti, a Nord, anche di 10 °C; probabilmente quest’avviene perché è
alterata la circolazione termoalina grazie all’enorme afflusso dell’acqua dolce
del disgelo che riduce la salinità, e quindi la densità, dell’Oceano Atlantico
e, di conseguenza, devia verso Sud la Corrente del Golfo, tanto che le regioni
alle latitudini settentrionali, private del calore della Corrente del Golfo, si
ritrovano in un clima rigido; altri ipotizza la svuotamento catastrofico delle
acque fredde e dolci d’un lago d’origine glaciale dell’America Settentrionale,
il lago Agassiz, nelle acque del fiume San Lorenzo e, conseguentemente,
nell’Oceano Atlantico, ciò che avrebbe interrotto le correnti calde con gli
effetti già descritti; in ogni caso, una causa delle glaciazioni/deglaciazioni
pare ritrovarsi sempre nell’alterazione delle correnti del Nord Atlantico (v. supra). La figura seguente mostra il
rapporto tra la corrente fredda dell’Artico (diretta a Sud) e quella calda dei
Tropici (diretta a Nord) nel Nord Atlantico:
Figura n. . Fonte: McGuire, 2003, p. 74;
Alla
fine del Dryas recente, attorno all’8
000 a.C., la temperatura annuale media aumenta in pochi decenni tra i 4° e i
7°-8° C (forse per effetto di un aumento dell’attività solare, anche se non
s’ha idea del perché in pochi anni s’altera tanto velocemente la temperatura
della Terra) e aumentano le precipitazioni, ciò che comporta l’alterazione
della normale piovosità e l’espandersi della vegetazione sia alle latitudini
settentrionali sia a quelle meridionali, con il corredo della fauna che la
segue; il clima caldo e umido, da allora, si stabilizza e nasce così quel tipo
di ambiente che oggi noi percepiamo come naturale. Valga, a illustrazione di
quanto affermato, la figura seguente (e dove la percentuale di isotopi
dell’ossigeno, 18O, tanto più alta quanto più fa freddo e viceversa,
mostra gli sbalzi di temperatura; per la simbolizzazione, 18O, v. supra):
Figura.
n. . Fonte: Behringer, 2013, p. 66.
S’è
detto che il clima si stabilizza, però con oscillazione; infatti, sempre
rispetto a oggi, si hanno temperature più alte (di 2,5-3 °C) e maggiori
precipitazioni nell’optimum climatico
postglaciale, o massimo termico, che si situa ca. 7 000 anni fa (5 000 a.C.) e,
a partire da questo optimum, la
temperatura media cala progressivamente, mostrando però delle fluttuazioni
verso il caldo o il freddo su scala temporale millenaria o plurisecolare che
influiscono sul destino delle formazioni economico-sociali protostoriche e
storiche. Si presentano, infatti, una fase calda che va dal 4000 al 2000 a.C. (con un aumento delle
precipitazioni); una
fase caldo-arida tra il 1200 e il 900 a.C.; una fase fredda dal 900 al 300 a.C. (che, in Europa, vede uno
spostamento verso le basse latitudini della fascia climatica e una differente
distribuzione della vegetazione, per esempio con la diffusione in Italia delle
foreste), seguita da una fase calda fra il 300 e il 200 a.C.; dopo una fase di
freddo tra il 400 e l’800 d.C., segue una fase di caldo tra l’800 e il 1 200
d.C. (detta intervallo caldo medievale o interglaciale medievale, che in Europa
registra temperature medie superiori di quasi 2 °C a quelle attuali, inferiori
in ogni caso a quelle ipotizzate per l’optimum postglaciale, con la
colonizzazione d’alcune zone della Groenlandia e dell’Islanda da parte dei
Vichinghi, o Normanni, e la coltivazione di piante termofile in climi
altrimenti freddi e umidi, per esempio la coltivazione della vite in
Inghilterra); una fase di freddo tra il 1200 e il 1350 e tra il 1590 e il 1860 (detta Piccola era glaciale, o Piccola
glaciazione, in quanto presenta le punte massime delle avanzate glaciali
oloceniche, tanto nell’Europa settentrionale che nell’America del Nord, con la
media delle temperature invernali inferiori di ca. 1 °C, dovuta probabilmente
alla concomitanza d’una ridotta emissione solare e d’una elevata attività
vulcanica, compresa l’eruzione sopra citata del Tambora nel 1815, che prelude
al 1816 come anno senza estate);
una fase calda tra il 1850 e il 1962; una fase fredda tra il 1962 e il 1985 e
una fase calda dal 1985 a oggi. Vedi, a
proposito delle oscillazioni climatiche dell’Olocene, la figura seguente:
Figura
n. . Fonte: Polticelli, 2003, p. 158.
O la seguente, dove i
dettagli sono meglio individuabili:
Figura.
n. . Fonte (adattata): Behringer, 2013, p. 12.
Possiamo
ora dire che, grosso modo, quello dell’Olocene è dunque un clima (il nostro)
che rientra in un periodo interglaciale di cui, ancora, non si sa però la
durata, anche se il paragone tra le temperature dell’ultimo periodo
interglaciale con quelle dell’interglaciale attuale indicano che sarebbe già in
atto una tendenza naturale (cioè non corretta dal riscaldamento antropogenico)
verso il calo delle temperature, come mostra la figura seguente:
Figura n. . Fonte: McGuire, 2003, p. 76;
Infine,
si ricorda che le fasi calde del Pleistocene hanno una durata di poche migliaia
di anni ciascuna, 8 000 per la precisione, e questo dell’Olocene è anomalo in
quanto dura già da 10 millenni e forse l’emissione di CO2 iniziata
con i primi deforestamenti (si stima che da quando data l’agricoltura ad oggi,
ca. 1/3 delle foreste che hanno coperto la Terra sia scomparso), cui è seguita
l’emissione di CH4, o metano, con l’agricoltura irrigua e
l’allevamento, per non parlare della Rivoluzione industriale, cioè il
riscaldamento antropogenico (senza il quale la temperatura terrestre
diminuirebbe di 3 °C in 8 000 anni, entrando già nella fase iniziale d’una
glaciazione), è in parte causa del ritardo della prevista fase glaciale
dell’era glaciale in cui viviamo; fase, lo si ricorda, che ci sarà e che
potrebbe essere, dal punto di vista dei tempi geologici, estremamente rapida.
La citata instabilità climatica, cioè l’alternarsi di periodi freddi (e
pluviali) con altri caldi (e aridi), agisce sullo sviluppo della flora
introducendo, così come s’è già visto a proposito della fauna pleistocenica, un
rapido turnover che vede la riduzione
o la migrazioni di regioni floristiche e la formazione di nuove specie,
specialmente nelle aree europee e nordamericane legate da vicino vicine alle
glaciazioni/deglaciazione, dove ogni area presenta una risposta funzionale ai
cambiamenti climatici legate alla flora preesistente ed alla morfologia del
territorio. Per esempio, l’Europa nordoccidentale dalla tundra passa a foreste
a latifoglie, nel mentre la tundra migra a Nord e s’insedia oltre i 66° 33' di
latitudine Nord (cioè oltre il Circolo Polare Artico); conseguentemente le
sottostanti foreste di conifere migrano verso Nord (nella Scandinavia) e verso
Est (nella Russia settentrionale), giusto quando, nelle regioni costiere del
Mediteranno settentrionale s’insedia la macchia mediterranea (e sotto d’essa,
nella fascia tropicale che va dal Sahara alla Penisola Arabica, le praterie
sono sostituite dai deserti). E qui s’inserisce il fatto che l’area meridionale
che ha polo nel Mediterraneo incomincia anche a vedere, proprio nell’Olocene e
probabilmente grazie all’optimum
climatico, l’interazione degli effetti antropici della domesticazione delle
piante (e degli animali) con i fattori geografici, climatici e ambientali,
dunque con la persistenza, da un lato, della flora originaria (scomparsa invece
nelle regioni dell’Europa centrosettentrionale), e, dall’altro, con la varietà
delle essenze endemiche dovute all’isolamento delle popolazioni vegetali. E
quando si parla d’effetti antropici, s’intende parlare della nascita
dell’agricoltura ch’è dovuta e all’assestamento delle condizioni climatiche a
partire da 12 000 anni fa (clima più mite e maggiore piovosità nell’area
mediterranea e progressivo inaridimento nel Vicino Oriente) e all’adozione
della stanzialità legata alla raccolta intensiva di cibi anche vegetali, tra
cui semi di cereali e leguminose di natura spontanea e con la conseguente
riduzione nel ventaglio delle risorse alimentari d’origine vegetale e con le
modificazioni morfologiche delle piante che entrano nella pratica agricola (v. infra). È nel Pleistocene che, nella
fauna, compare il processo di speciazione che porterà all’evidenza di Homo sapiens; le prime forme di questa
linea, le Australopitecine, compaiono
nel Pliocene (Australopithecus afarensis
e Australopithecus africanus),
tuttavia, è nel Neozoico che si è verifica l’evoluzione del genere Homo che, a partire dalla specie
africana Homo habilis, giunge
attraverso Homo erectus all’attuale
forma Homo sapiens; specie,
quest’ultima (e come si vedrà a seguire), comparsa in Africa intorno a 200 000
anni fa e che ha cominciato a diffondersi nell’arco degli ultimi 70-75 000 anni
anche verso l’Asia e l’Australia, dove arriva intorno a 60-55 000 anni fa, in
Asia orientale, che raggiunge intorno ai 40-50 000 anni fa, in Europa dove giunge
intorno a 35 000 anni fa, in America del Nord, che raggiunge attraverso la
Beringia, 14 000 anni fa (v., infra,
il Paleohomo), ed è nell’Olocene ch’inizia, là dove arriva, e non appena arriva
Homo sapiens, una serie di eventi che
s’intreccia con le modificazioni delle biocenosi e degli ecosistemi. La prima
questione da segnalare riguarda Homo
sapiens nei rapporti con le estinzioni nella fauna, cioè la marcata
pressione predatoria o venatoria dei cacciatori che, iniziata 120 000 anni fa,
continua anche nell’Olocene quando nell’Emisfero boreale, ca. 8000 anni fa (in
presenza d’un clima più mite), si presenta l’estinzione della Megafauna (v. supra); a questo proposito è da
sottolineare che si parla d’overkill
come principale causa antropica dell’estinzione della Megafauna, e restando
sottinteso ch’essa coinvolge anche gli animali fino a 40-45 kg (quest’ipotesi è
però fortemente contestata perché non prende in considerazione lo stress ambientale, cioè la risposta
funzionale degli ecosistemi creata dall’instabilità climatica, con la
conseguente riorganizzazioni delle biocenosi, per esempio un clima
selettivamente svantaggioso per i grandi Mammiferi terrestri). La seconda
questione riguarda Homo sapiens e la
manipolazione della flora e della fauna, cioè il passaggio da un’economia di
caccia e raccolta a un’economia di tipo produttivo, basata sulla domesticazione
di piante e animali, che s’ha quando le comunità umane presenti nell’area
mediterranea, nel Vicino Oriente, nel subcontinente indiano e nella Cina del Nord
sviluppano tutte, se pure in tempi diversi, un sistema agricolo e tutte allo
stesso grado di latitudine, tra il 20°, il 30° e il 40° parallelo Nord (che è
poi dire che è la stabilità relativa del clima presente tra il 20° e il 40°
parallelo nel periodo olocenico, fuori cioè dagli estremi climatici dei Tropici
e delle regioni fredde a Nord e a Sud del pianeta, che ha determinato
l’evolversi di un sistema di costrizioni alimentari e culturali storicamente
dato, v. infra). La terza questione
riguarda il destino di Homo sapiens
nei suoi rapporti con l’ambiente, cioè investe le conseguenze della transizione
all’agricoltura e alla sedentarizzazione, cruciali nel rapporto con gli
ecosistemi, in primo luogo con l’aumento della densità demografica su scala
locale (e poi, a seguire globale) che, in secondo luogo, porta a modificazioni
funzionali degli ecosistemi dovuti alla conseguente nascita dei primi nuclei
urbani e dei problemi d’approvvigionamento alimentare da cui dipendono le
stratificazioni sociali, la diffusione delle malattie infettive, le modalità
d’accesso al cibo e le patologie legate alle diete carenti (cioè il sistema di
costrizioni di cui sopra) cui, in terzo luogo, è pari la legittimazione e la
diffusione del concetto di proprietà che genera asservimenti, disparità e
conflittualità sociali latenti o esplicite, prima locali e poi globali, cui
s’aggiunga, in quarto luogo, la progressiva rarefazione della biodiversità
legata alla manipolazione esponenziale (non sempre storicamente cosciente)
degli equilibri non necessariamente resilienti degli ecosistemi in gioco; tutte
questioni legate poi allo sviluppo della tecnologia in quanto estensione via
via più efficiente di Homo sapiens
(sull’impatto antropico nell’Olocene, v. anche infra). Dunque, riunendo le fila, è con i primi animali terrestri
che, assieme agli anfibi, si chiude la casistica dei Tetrapodi (o Tetrapoda, cioè il gruppo tassonomico
che comprende le quattro classi dei vertebrati terrestri, con un’origine
filogenetica ch’è comune, e così denominati in quanto provvisti di 4 arti
variamente modificati o, a seguire, scomparsi, cioè creature deambulanti quali gli
anfibi, i rettili, gli uccelli (derivati dai Diapsidi) e i mammiferi (derivati
dai Sinapsidi). La figura seguente illustra la filogenesi dei Tetrapodi (le
zone in grigio illustrano le abbondanze relative, in crescita, in calo, o
estinte, che dipendono dalla loro distribuzione temporale):
Figura
n. . Fonte: Polticelli, 2003, p. 115.
Da
allora, anche da quando le piante si sono inserite nel meccanismo della
fotosintesi clorofilliana (cioè attraverso quella reazione chimica che avviene
in presenza della luce catturata dalla clorofilla grazie a un atomo di magnesio
e che, attraverso la trasformazione di sostante inorganiche, quali il diossido
di carbonio e l’acqua, le organica in sostanze a più alto contenuto energetico,
i glucidi, v. infra, che vanno a
costituire, direttamente o indirettamente, i composti della materia dei
viventi, vegetale o animale che sia, e in pari tempo, nella fase iniziale del
processo, libera ossigeno nella troposfera), le specie si formano, s’alimentano
(con la fotosintesi clorofilliana è, infatti, possibile la catena alimentare,
v. infra), s’evolvono e, se non
s’estinguono, si diffondono ovunque sul pianeta nella colonizzazione di ogni
bioma e delle nicchie ecologiche che questi permettono (ivi compresa, come
visto, nel Neozoico, ca. 2 milioni d’anni fa, la speciazione che porterà a Homo sapiens, v. infra). Senza dimenticare ch’è sempre dal mare, e grazie alle
radiazioni solari (v. supra), che
inizia la catena trofica, questo per merito del plàncton; il quale plancton
(presente negli strati più superficiali del mare o fino a profondità che non
coinvolgono i fondi oceanici) è costituito in massima parte da fitoplancton (Alghe unicellulari) e zooplancton (Protozoi, Celenterati, Crostacei
e stadi larvali di vertebrati e altri invertebrati) e tra questi è poi il fitoplancton che sta alla base della
citata catena in quanto è autotrofo, ossia capace con la fotosintesi di sintetizzare,
come sopra detto, i composti organici essenziali a partire da composti
inorganici, vale a dire di trasformare l’energia della radiazione solare che
riesce a filtrare nelle acque in una materia organica utilizzabile dagli
organismi eterotrofi (cioè da quegli organismi non fotosintetici che devono
utilizzare le sostanze organiche elaborate dagli organismi autotrofi in quanto
biologicamente inadatti a ricostruire le sostanze organiche del proprio corpo);
questa del fitoplancton è dunque la
produzione primaria che sta alla base della catena trofica in quanto i suoi
nutrienti alimentano gli organismi eterotrofi, vale a dire lo zooplancton in prima istanza (e questa è
la produzione secondaria); a seguire, il plancton
(che nel suo insieme presenta un elevato tenore proteico) costituisce poi
l’alimento che permette il nutrimento di molti animali marini, invertebrati e
vertebrati; di qui la catena, prima propria solo agli ecosistemi marini,
prosegue poi sulla terraferma fino a formare una vera e propria rete trofica
che prevede anche lo sfruttamento antropico. Oltre a essere alla base della
catena trofica, il fitoplancton (o,
meglio, le Cianòfite o Alghe azzurre, e sempre attraverso i citati processi
fotosintetici) è inoltre responsabile, e per il 90%, della produzione di tutto
l’ossigeno circolante nella troposfera; ancora, alcune specie che formano il fitoplancton (assieme alle Alghe
bentoniche, presenti sui fondi marini) rilasciano un loro prodotto (un composto
dello zolfo) che, grazie all’azione di alcuni batteri, diventa prodotto di
scarto, il solfuro dimetile (DSM; si parla di ca. 200 milioni di tonnellate
all’anno), scarto che quando dagli oceani raggiunge la troposfera sotto forma
di gas presenta un’importante funzione d’aggregazione delle particelle di vapor
d’acqua presenti nell’aria (l’umidità), aggregazione che poi forma delle nuvole
sugli oceani che, riflettendo le radiazioni solari, contribuiscono a mantenere
la temperatura media della Terra più bassa di 5,6 ° C. Come si vede, senza il fitoplancton l’ossigeno della troposfera
sarebbe rarefatto, la temperatura media della Terra avrebbe valori altissimi
(la media di 15° C s’alzerebbe a 20,6 °C, e si sa che l’aumento di pochi gradi
porterebbe a ingestibili sconvolgimenti climatici, ad esempio si sa che sono
sufficienti 10° C in meno o in più per ricoprire o i liberare i continenti dai
ghiacci) e gli organismi eterotrofi, semplicemente, non esisterebbero più.