Archivio blog

REGIONI ZOOGEOGRAFICHE E FITOGEOGRAFICHE

I fattori che determinano la distribuzione spaziale degli organismi viventi (flora, fauna), della biodiversità, nelle diverse aree della Terra sono, in linea di massima, in relazione con le loro capacità d’adattamento alle variazioni climatiche (in questo, più la flora che la fauna), alla conformazione fisica delle aree che li ospitano in terra (senza o con barriere geografiche, per esempio, insularità, barriere montuose etc.) o in mare (in superficie, in profondità, in zone costiere, in mare aperto etc.) o nei sistemi dulciacquicoli (laghi, fiumi etc.) o aerei, e agli ecosistemi che clima e luogo determinano negli areali (intesi come sistemi integrati e dinamici in cui frazioni dello spazio geografico sono definiti dalle interazioni mutualistiche con le specie stesse), cioè come possibilità/impossibilità di distribuzione colonizzatrice per le comunità di questi organismi; e si parlerà di fitogeografia nel caso che questi fattori investano la flora, di zoogeografia nel caso della fauna (e, se si tratta dell’uomo, d’antropogeografia) e, in generale, di biogeografia; e va da sé che la citata distribuzione spaziale della biodiversità la si può analizzare anche secondo l’asse del tempo, cioè in una dimensione filogenetica o, volendo, come l’evoluzione dei gruppi sistematici animali e vegetali in rapporto a una processualità causa/effetto legata al tempo e allo spazio (su cui indaga la paleobiogeografia). A livello biogeografico, si possono in ogni caso distinguere diverse regioni fitogeografiche e zoogeografiche (dette anche ecozone); quelle fitogeografiche (o floristiche) caratterizzabili ognuna per la flora relativamente omogenea; quelle zoogeografiche (o faunistiche) dall’affinità in ognuna di vari gruppi zoologici (valorizzando particolarmente gli areali dei Mammiferi); tanto che, anche se si possono avere due suddivisioni in regioni della Terra, una zoogeografica e l’altra fitografica, queste sono fra loro almeno in gran parte sovrapponibili e, in linea generale, coincidono con le attuali masse emerse; in ogni caso, vediamone la specificità partendo dalla figura seguente che mostra la regionalizzazione faunistica (laddove è presente una zona di transizione biogeografica, la zona è poi indicata da un’area in grigio scuro; la zona di transizione s’ha dove c’è una sovrapposizione di specie con loro progressiva rarefazione, speculare o meno, dalla periferia al centro della zona; per intenderci, valga il seguente esempio della zona di transizione tra la Regione Orientale e la Regione Australasiatica dove al centro troviamo a contatto Mammiferi Placentati e Mammiferi Marsupiali, v. infra, mentre procedendo dal centro alla periferia, da Ovest verso Est, i Mammiferi Placentati decrescono e i Mammiferi Marsupiali crescono):


Figura n.  . Fonte: Zunino e Zullini, 2004, p. 70.

Da ricordare che la zona di transizione tra la Regione Neartica (v. infra) e Neotropicale è detta Messicana; che le due zone di transizione sopra la Regione Antartica sono dette Antartiche; che la zona di transizione tra la Regione Paleoartica (v. infra) e Afrotropicale è detta Saharo-Sindica; che quella tra Regione Paleoartica e Orientale è detta Cinese (cui s’aggiunga anche la parte orientale della zona Saharo-Sindica), mentre quella tra la Regione Orientale e quella Austroasiatica è detta Austro-Malese (o Wallacea). Vediamo ora più in dettaglio queste regioni zoogeografiche partendo dalla Regione Oloartica (o Olartica), che presenta un’estensione di ca. 46 milioni di Km2 e che comprende la maggior parte dell’Emisfero Boreale e ch’è costituita dal complesso delle Sottoregioni Neartica e Paleartica; la Paleartica, include l’Europa, l’Africa settentrionale, l’Asia a Nord dell’Himalaya e della Cina dove lo Chang Jiang, il Lungo fiume (una volta detto Fiume azzurro, Yangtze Kiang), fa da frontiera meridionale e fino al Giappone, dove si presenta la zona di transizione cinese con la Regione Orientale, mentre la zona di transizione con la Regione Afrotropicale è data dal deserto del Sahara (che va dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso) e dai deserti che dalla Penisola arabica arrivano al Pakistan (complessivamente la zona è poi detta, come già accennato, Saharo-Sindica); la Sottoregione Neartica comprende la Groenlandia e l’America Settentrionale sino al Messico Centrosettentrionale, là dove una linea che ne attraversa l’altopiano e il golfo la separa dalla Regione Neotropicale; fa poi da zona di transizione tra le due Regioni la parte restante del Messico e degli Stati dell’America centrale fino a quello di Panamá compreso, cui s’aggiunga la Florida; in questa Regione, fra i Mammiferi, abbiamo gli Artiodattili (Artiodactyla), o grandi Ungulati (Ungulata, v. infra), come i Bisonti (Bison), i Cèrvidi (Cervidae), il Muflòne (si tratta d’una pecora selvatica, Ovis musimon in Europa, Ovis canadensis, o Bighorn, in America), e le specie affini, gli Èquidi (Equidae), cioè i Cavalli (attuali ed estinti); caratteristici, tra i roditori, sono i Castori (Castor) e sono per lo più a gravitazione olartica anche gli Ùrsidi (Ursidae), cioè gli Orsi, i Mustèlidi (Mustelidae), divisi in diverse sottofamiglie quali la Lontra, il Tasso, la Martora, la Faina e la Puzzola e, infine, della famiglia dei Cànidi (Canidae), i Lupi; fra gli Uccelli si comprendono i Cucùli (della famiglia dei Cucùlidi, Cuculidae), le Allodole (della famiglia degli Alàudidi, Alaudidae), le Rondini (della famiglia Irundinidi, Hirundinidae) e alcuni Rapaci notturni; particolarmente significativi sono alcuni Anfibi Urodeli (o caudati) come i Pletodòntidi (Plethodontidae) e i Salamàndridi (Salamandridae, per esempio, le Salamandre e i Tritoni). Da sottolineare, ma la cosa sarà in seguito ripresa, che la fauna olartica deve in gran parte la sua omogeneità al ponte di terra emerso tra l’Alaska e la Siberia nel Cenozoico, detto Beringia (v. infra), che ha permesso interscambi biotici in entrata e in uscita tra l’Eurasia e l’America (volendo, tra la Regione Paleartica e quella Neartica) e, di qui, ad altre Regioni; per esempio, nel Neartico si sono originati i Cricetidi che, arrivati in Sud America (nella Regione Neotropicale) hanno subito una radiazione evolutiva formando bel 45 generi o i Formichieri (v. infra) che, dal Sud America, sono migrati in Eurasia; ancora, nella Regione Olartica hanno avuto origine i Sùidi (Suidae), i Canidi e i Fèlidi (Felidae), che ben presto si sono diffusi in Africa (nella Regione Afrotropicale) o i Proboscidati (Proboscidea) che, arrivati dall’Africa, giungono e si diffondono in America Settentrionale etc., e per non parlare poi delle migrazioni della specie Homo (v. infra). A seguire abbiamo la Regione Neotropicale, ch’inizia là dove finisce la sopra detta zona di transizione messicana e che presenta un’estensione di ca. 18,2 milioni di Km2; è formata da gran parte dell’America Centrale, dalle Antille (nel Mar dei Caraibi), dalle isole Galàpagos e dall’Arcipelago Juan Fernandez (nell’Oceano Pacifico) e dall’America Meridionale con l’esclusione di una porzione meridionale del Cile e di una parte della Patagonia argentina (ma i limiti meridionali di questa Regione sono incerti, da un lato per l’affinità con la fauna australiana e neozelandese dovuta ai legami tettonici che la Patagonia ha intessuto con la Nuova Zelanda e l’Australia durante la frammentazione del Gondwana, v. infra, dall’altro per le massicce estinzioni causate dall’estendersi dei ghiacciai della Regione Antartica), una regione, lo si noterà, che di fatto, copre tutte le latitudini dell’Emisfero Australe, quindi che presenta anche molti climi; la fauna della Regione Neotropicale è molto varia, e in questa ricca biodiversità (un esempio per tutti, la quantità endemica d’Insetti  dell’ordine dei Lepidòtteri, Lepidoptera, cioè le farfalle) colpisce la mancanza dei grandi erbivori autoctoni, con l’eccezione di Camèlidi (Camelidae) e Tapiri (della famiglia dei Tapìridi, Tapiridae), che comunque presentano taglie modeste rispetto agli esemplari eurasiatici; si rinvengono poi, tra i Mammiferi, i Pècari (affini ai Suini, della famiglia dei Taiassùidi, Tayassuidae), i grossi roditori Capibara (o Capivara, del genere Idrochèro, Hydrochoerus) e gli altri roditori della famiglia dei Càvidi (Caviidae) e affini; s’aggiungano i Bràdipi, mammiferi arboricoli (della famiglia dei Bradipòdidi, Bradypodidae), i Formichieri, mammiferi insettivori (della famiglia dei Mirmecofàgidi, Myrmecophagidae), le Scimmie Platirrine (denominazione ch’indica le Scimmie del Nuovo Mondo, riunite nelle famiglie Callitrìcidi, Callithricidae, e Cèbidi, Cebidae), e diversi Chirotteri (tra cui i Pipistrelli); ancora, sono poi d’interesse gli Armadilli (della famiglia Dasipòdidi, Dasypodidae; Bradipi, Formichieri e Armadilli appartengono poi all’ordine degli Sdentati o Xenartri, v. infra) e, tra i Marsupiali, ci sono i piccoli Opossum (della famiglia dei Didelfidi, Didelphyidae); fra i più noti endemismi fra gli Uccelli, si trovano i Ñandù o Rèidi (Rheidae, una famiglia d’uccelli dell’ordine Struzionifórmi, Struthioniformes, che comprende gli Struzzi), i Colibrì e i Tinàmidi (Tinamidae); e sono pure endemiche ca. 1 500 specie di Sàuri (Sauria, rettili squamati, detti anche Lacertilii, quali la Lucertola, il Ramarro, il Geco etc.) e Ofidii (o Serpenti), e che gli Iguànidi (Iguanidae), che al di fuori della Regione tropicale, sono presenti solo in pochi arcipelaghi dell’Oceano Pacifico; fra gl’invertebrati si ricordano gli Onicòfori (Onychophora, vermiformi) e, tra i pesci d’acqua dolce, Callictidi (Callictthydae), Loricàridi (Loricariidae), Cìclidi (Cichlidae) e Osteoglòssidi (Osteoglossidae). Da sottolineare, ma la questione sarà poi in seguito ripresa, che prima del Cretacico la Regione Neotropicale era unita alla Regione Afrotropicale, con omogeneità di faune e di flore e che, almeno fino a 3 milioni d’anni fa, l’America settentrionale e meridionale non erano unite da un’emersione di terre (che prenderà il nome d’Istmo di Panamá), e quindi che tra queste due regioni non c’erano interscambi biotici, bensì uno sviluppo autonomo di fauna e di flora (tanto che ca. il 93% delle specie della Regione Neotropicale sono endemiche). La Regione Afrotropicale (o Etiopica), con un’estensione di ca. 21 milioni di Km2, comprende l’Africa a Sud del Sahara, dove il confine con la sottoregione Paleartica non è ben netto (v. zona di transizione, supra) e comprende anche il Madagascar e le isole adiacenti nell’Oceano Indiano occidentale (Madagascar, Seychelles, Comore e Mascarene sono isole che costituiscono la Sottoregione Malgascia, dove malgascio sta per relativo al Madagascar) nonché la parte meridionale della Penisola arabica; in ogni caso, la Regione è caratterizzata, fra i Primati, da Gorilla, Scimpanzé e Cercopitècidi (o Scimmie cinocefale; la famiglia dei Cercopitecidi Cercopithecidae, comprende, oltre ai Babbuini, scimmie che vivono, oltre che in Africa, anche in Asia); sono inoltre presenti numerosi Mammiferi erbivori, l’Elefante africano (Loxodonta africana), Zebre, Giràffidi (Giraffidae, cioè Giraffe e Okapi; a quest’ultima appartiene una sola specie, Okapia johnstoni) e Ippopotami; e poi i grandi Carnivori che li predano (Ghepardi, Licaoni; il Licaone, Lycaon pictus, è un carnivoro ch’appartiene alla famiglia dei Canidi); Iene e Leoni, pur abbondanti, sono presenti anche in India (così come altri gruppi che condividono anch’essi distribuzioni di tipo Indoafricano); almeno 5 famiglie di Mammiferi e 6 d’Uccelli sono esclusivi delle Regione Afrotropicale; fra i Rettili, sono caratteristici i velenosi Mamba (Dendroaspis polylepis) e i numerosi Pesci d’acqua dolce, Poliptèridi (Polypteridae), Mormìridi (Mormyridae) e il genere Protòttero (Protopterus), pesci endemici di questa Regione; da ricordare che la tipica fauna di questa regione si forma a seguito della separazione tra la Placca africana e la Placca arabica a partire dall’Oligocene e con la formazione nel Pliocene del Mar Rosso (attualmente nella fase iniziale, o poco più, di formazione d’un oceano, v. infra) e che nel Pliocene e nel Pleistocene numerosi Mammiferi, tra cui Homo, sono migrati in Eurasia (come dire che la regione d’origine del genere Homo è l’Africa, v. infra); infine, per quanto riguarda il Madagascar (della Sottoregione Malgascia), è da sottolineare che quest’isola ha iniziato a separarsi da Gondwana ca. 150 milioni d’anni fa, nel Giurassico, quando inizia la separazione del Gondwana occidentale (con l’Africa unita al Sud America) e del Gondwana orientale, in cui il Madagascar (unito all’India, all’Australia e all’Antartide) si separa dall’Africa; in seguito, ca. 95 milioni d’anni fa, quando nel Cretacico si forma l’Oceano Atlantico Meridionale, il Madagascar si separa dall’India ed ha grosso modo la posizione odierna nel periodo al limite tra il Cretacico e il Terziario, ca 65 milioni d’anni fa, come mostrano le figure seguenti (che saranno poi, a seguire, riprese):

 

Figura n.   . Fonte: Altschuler, 2005, p. 111.


Figura n.   . Fonte: Altschuler, 2005, p. 111.

Il Madagascar, nel suo isolamento oceanico, non ha dunque subito l’attività competitrice/predatrice presente in Africa, ragione per cui costituisce, di fatto, l’area della Terra più ricca d’endemismi; presenta, infatti, il successo evolutivo, tra i Primati, di proscimmie quali  i Lemùridi (6 generi e almeno 14 specie) e l’aye-aye (Daubentonia madagascariensis), di mammiferi dell’ordine degli Insettivori come i Tenrècidi (Tenrecidae), di Rettili con numerose specie (un centinaio di Rettili Sauri della famiglia Camaleontidi); tra i pesci d’acqua dolce ci sono due famiglie endemiche (Bedotiidae e Anchariidae) e, tra gli Uccelli, i Brachipteraciidi (Brachypteraciidae, 5 specie) e i Filepittini (Philepittidae, 4 specie), più altre ancora; in ogni caso, tolto il Madagascar, è poi da evidenziare che i pur numerosi endemismi Afrotropicali sopra citati non sono così elevati come quelli della Regione Neotropicale e che degli antichi legami biotici del Precretacico tra le due citate Regioni rimangono oggi delle affinità gondwaniane tra diversi gruppi d’Insetti, Molluschi e Anfibi. La Regione Orientale, con un’estensione di 9,6 Km2, comprende parte del Pakistan, il subcontinente indiano (tranne i territori d’alta quota dell’Himalaya), l’Indocina, le Filippine, l’Arcipelago Malese e l’Arcipelago Indonesiano sino alla linea di Wallace (questa linea ideale separa in due parti l’Oceano Pacifico per ragioni di discontinuità biologica e diventa poi una zona di transizione definita come Wallacea); la regione, pertanto, è difficilmente caratterizzabile perché come visto i limiti terrestri coincidono, più o meno ampiamente e in massima parte con complesse zone di transizione, come quella Cinese (v. supra) e la citata Wallacea, cui s’aggiunga anche l’area Saharo-Sindica; in ogni caso, sono esclusivi della regione l’Elefante indiano (o asiatico, Elephas maximus, che ha orecchie più piccole e zanne meno sviluppate rispetto al corrispettivo africano), 3 specie di Rinoceronti, il Gaur (è il nome indigeno di una specie di Bovide delle Indie orientali, o Bos gaurus), Antilopi (quale il Nilgau, Boselaphus tragocamelus) e, fra i Primati, i Macachi (Macaca, genere di Cercopitecidi), l’Orangutan (o orango, Primate antropomorfo della famiglia Pongidi, Pongo pygmaeus, v. infra), la Nasica (Nasalis, della famiglia Colobidi) e diversi Carnivori; per i Rettili, sono peculiari, fra molti altri, i Gavialidi (Gavialidae, un Coccodrillo) e, fra gli Uccelli, sono endemici gli Uccelli passeriformi Iride (della famiglia Irenidae); da sottolineare che il subcontinente indiano s’è staccato dall’Africa in un arco temporale che copre gli anni che vanno da 135 a 65 milioni d’anni fa e ha raggiunto l’Asia ca. 57 milioni d’anni fa, nel Paleocene, dove, dopo la sutura, s’è estinta gran parte della fauna d’origine africana (e senza dimenticare l’estinzione della fauna gondwaniana originaria che s’è avuta in precedenza, tra 65 e 60 milioni d’anni fa, a causa dei Trappi del Deccan, Deccan Traps, v. infra); ed è da ricordare che, se la Regione Orientale è ricca d’animali, è però povera d’endemismi (probabilmente per le citate estinzioni) e si presenta come un amalgama d’elementi asiatici, africani e australiani. La Regione Australasiatica, con un’estensione di ca. 8,9 milioni di km2, include, oltre ad Australia, Tasmania e Nuova Zelanda, le isole dell’Oceania, Hawaii, Nuova Caledonia, Salomone etc.; e per inciso, il popolamento faunistico di queste isole è talmente complesso da renderne difficile l’attribuzione precisa a una determinata regione biogeografica (anche s’è vero che Australia e Nuova Guinea, in quanto un tempo molto più a Sud rispetto alla parte restante della Regione, hanno avuto rapporti biogeografici con il Sud America e che la vicinanza biogeografica con il Sud-Est asiatico risale al Pliocene); in questa Regione, in ogni caso, sono presenti Monotrèmi (Monotremata, mammiferi aplacentali cui appartengono, per esempio, l’Echidna e l’Ornitorinco, e che rappresentano i Mammiferi più primitivi in quanto dotati d’una cloaca (quest’orifizio, che nei Mammiferi si forma nell’embrione, permane però nei Monotremi, e rappresenta la parte terminale dell’intestino in cui sboccano l’ano e i condotti del sistema urinario e del sistema genitali), d’una riproduzione ovipara e dall’assenza delle mammelle pur in produzione di latte per i piccoli, Mammiferi che sono esclusivi, appunto, dell’Australia, della Tasmania e della Nuova Guinea) e Marsupiali (Marsupialia, v. infra), caratterizzati, questi ultimi, da imponenti fenomeni di radiazione adattativa (v. infra) a partire da poche specie ancestrali; in Nuova Guinea, in particolare, si trovano però anche Mammiferi Placentati autoctoni (quale la famiglia dei roditori Mùridi, Muridae, del genere Mus, cioè dei Topi); tra gli Uccelli, che presentano il 35% di specie endemiche, si trovano i Cacatùa (Cacatua, genere di Pappagalli), gli Uccelli Passeriformi Menùridi (Menuridae, con il solo genere Menura; sono detti anche Uccelli Lira) e Paradisèa (Paradisaea, detti anche Uccelli del Paradiso), gli Emù e i Casuari (questi Uccelli, alti e inetti al volo, con ali ridotte e sterno non carenato, sono elementi gondwaniani); sono poi numerosi i Rettili (Coccodrilli, Lucertole e molte specie di Serpenti velenosi) e, tra i pesci delle acque interne (fiumi), si segnala il Neoceràtodo (Neoceratodus); da sottolineare, infine, che mancano i grandi carnivori (l’unico carnivoro degno di nota, il Dingo, Canis dingo, appartiene famiglia dei Canidi) e, ancora, che l’Australia esemplifica l’importanza faunistica dell’isolamento geografico che, complessivamente, è durato ca. 50 milioni d’anni e ha fatto sì che l’89% delle specie presenti nella Regione australasiatica risultino endemiche, come mostra la già citata storia dei Mammiferi australiani, rappresentati originariamente dai soli Monotremi e Marsupiali (quali il Canguro, l’Opossum e il Koala), giacché l’Australia, per motivi tettonici, è rimasta isolata dagli altri continenti prima che si rendesse manifesta la grande diffusione dei Mammiferi Placentati che, essendo competitivamente avvantaggiati, soppiantano i Marsupiali nel resto del mondo, tranne che in Australia, appunto, e in America Meridionale; anch’essa, come accennato, per lungo tempo è rimasta isolata, e questo fino alla formazione dell’Istmo di Panamá;  inoltre, il Sud America è più vicino ad Australia e Antartide, e precisamente in epoche in cui il clima antartico era diverso da quello attuale, cioè caldo e umido, tanto che nel Mesozoico l’Antartide funzionava da corridoio biotico di interscambio per i continenti meridionali, specificamente un corridoio tra l’America del Sud e l’Australia e uno tra l’America del Sud e la Nuova Zelanda (per inciso la Nuova Zelanda s’è poi staccata dall’Antartide alla fine del Cretacico). La Regione antartica (classificata un tempo come Archinotis) presenta un’estensione di ca. 14,3 milioni di Km2 e, come visto, s’è separata come continente dall’Australia ca. 50 milioni d’anni fa (v. infra) e, a differenza d’un tempo, è ricoperta per il 98% del suo territorio dai ghiacci (con spessori che possono arrivare a più di 4 Km) e può presentare temperature ch’arrivano a -90 °C e oltre, e questo comporta il fatto ch’è faunisticamente spopolata, tanto che non è riconosciuta da vari zoogeografi; in ogni caso, sono presenti tra i Mammiferi molte specie di Foche e, tra gli Uccelli, sono da distinguere gli Uccelli che occupano per la riproduzione o per la sosta le isole del continente antartico, ca. 35 specie la cui quasi totalità appartiene agli ordini dei Procellariformi (Procellariiformes) e Caradriformi (Charadriiformes), e quelli del continente, cioè le molte specie di Pinguini (o Sfeniscidi, Spheniscidae, inetti al volo), che sono esclusivi, lo stesso che un Passeriforme, la Pispola antartica, Anthus antarcticus, che vive su un arcipelago al largo della Penisola antartica (Penisola, per inciso, che si protende verso la punta dell’America del Sud, la Terra del Fuoco, ciò ch’individua lo Stretto di Drake che mette in comunicazione l’Oceano Atlantico con il Pacifico). Per quanto riguarda la distribuzione geografica della fauna marina nella Regione Oceanica (non segnata in figura) è da valorizzare il fatto ch’essa è caratterizzata da maggiore uniformità rispetto a quella delle terre emerse, se pure è presente una marcata diversità tra le varie zone estese tanto a livello orizzontale che verticale; semplificando di molto, si possono reperire una zona litorale, una pelagica e una abissale, che qui si descrivono per sommi capi (ma v. infra); la zona litorale comprende l’area che dalla costa arriva alla profondità di ca. 180 m e vi si ritrova una fauna ch’è legata a condizioni ambientali particolari, dipendenti dalla profondità delle acque, dalla natura litologica del substrato, dalla configurazione delle coste etc., e vi si ritrovano Molluschi, Crostacei (Crustacea), Echinodermi (cioè invertebrati) etc. e molte specie di pesci; sono poi molto sviluppate nella fascia tropicale, le formazioni madreporiche, cioè banchi e isole coralline (la Madrepora, Madrepora, è poi un genere di Antozòi, Anthozoa, o coralli, per i quali v. infra) con la fauna che quest’ecosistema permette; l’area che si presenta di là dal margine esterno della zona litorale e che non supera la profondità di 500-1 000 m, riguarda la zona pelagica, cioè la zona in alto mare delle acque di superfice dove si ritrovano forme faunistiche indipendenti dai fondali e dai litorali, legate alle onde, alle correnti e a tutti i fattori fisico-chimici presenti in queste acque (quali luce, temperatura, salinità, etc.), cioè o specie galleggianti (come le Meduse, Medusa, e i Pesci provvisti di vescica natatoria, v. infra), o natanti (come i Cefalopodi, Cephalopoda, e i Cetacei, Cetacea); la zona abissale è quella che si presenta sotto i 2-3 000 m, e qui abbiamo Radiolarii (Radiolaria), Foraminiferi etc., ivi comprese anche alcune famiglie di pesci, che possono vivere fino ai 6 000 m di profondità; a profondità maggiori di 6 000 m, vive, ma distinta dalla abissale, una fauna ch’è detta hadale (o adale, dal greco 'Αίδης, cioè l’Ade); da ricordare, inoltre, anche le comunità che vivono sui fondali intorno agli sbocchi idrotermali (v. infra). Dopo la zoogeografia riprendiamo con la fitogeografia, la cui regionalizzazione floristica è mostrata dalla seguente figura:


Figura n.  . Fonte: Zunino e Zullini, 2004, p. 83.


Più in dettaglio, la Regione Oloartica comprende le zone temperate e fredde dell’Emisfero Boreale, cioè, come visto, quelle del Nord America fino al Messico centrale, dell’Eurasia fino all’Himalaya e dell’Africa settentrionale sino al Sahara (compreso); sono presenti Ranuncolàcee (Ranunculaceae; piante erbacee annuali o perenni, raramente arbusti, che comprendono ca. 2 000 specie, suddivise in una cinquantina di generi, distribuite soprattutto nelle regioni temperate e fredde), Crocifere (Cruciferae; comprendente ca. 4 000 specie, tra piante erbacee e suffrùtici, o piante perenni legnose; è così chiamata per i 4 petali disposti a forma di croce), Cariofillacee (Caryophyllaceae; queste sono piante erbacee annue o perenni conosciute in ca. 2 000 specie, in prevalenza delle regioni temperate e temperato-calde), Sassifragacee (Saxifragaceae; si tratta di ca. 550 specie di piante erbacee o più di rado legnose, per lo più perenni, ampiamente distribuite nelle regioni temperate e fredde), Rosacee (Rosaceae; si tratta d’alberi, erbe o arbusti spesso spinosi con un centinaio di generi e ca. 3 000 specie, distribuite soprattutto nelle regioni subtemperate e tropicali dell’Emisfero Boreale), Papilionacee (o Papiglionacee, Papilionaceae; rimandano a una famiglia di leguminose, soprattutto nelle regioni extratropicali, comprendente specie per lo più erbacee), Ombrellifere (Umbelliferae; si tratta d’un centinaio di generi di piante con ca. 3 000 specie comprendente varietà tipicamente erbacee, annuali, biennali o perenni, aromatiche e spesso velenose, distribuite in maggioranza nelle regioni temperate); ancora, la Regione Olartica è caratterizzata, nelle aree meridionali a clima temperato, dalla prevalenza di latifoglie sempreverdi; nelle aree a clima oceanico o meno caldo da una fascia discontinua di latifoglie decidue (per inciso, le latifoglie sono piante arbustive o arboree con foglie a lamina più o meno ampia e si dicono decidue, o caducifoglie, le piante le cui foglie cadono insieme annualmente, salvo ripresentarsi l’anno successivo, e queste sono la maggioranza, e sempreverdi quelle che non presentano questa ciclicità); nelle aree a climi più freddi è caratteristica una fascia piuttosto estesa di foreste ad aghifoglie (cioè con foglie lunghe e sottili, a forma d’ago; queste piante sono dette anche conifere; mentre le latifoglie rimandano alle Angiosperme, le aghifoglie rimandano poi alle Gimnosperme, v. infra); oltre il limite delle foreste sono poi presenti le tundre artiche (dove con tundra s’intente un’area caratterizzata dall’assenza di copertura vegetale arborea, v. infra; questo limite oltre il quale le foreste finiscono è poi detto timberline, v. infra); va da sé, ancora, che nella Regione Oloartica ha avuto un rilievo non indifferente l’andamento storico ondivago delle glaciazioni/deglaciazioni del Quaternario (v. infra). La Regione Paleotropicale comprende l’Africa tropicale (dal limite inferiore del Sahara al deserto del Kalahari nell’Africa meridionale), l’Arabia, l’India, l’Indonesia e le isole del Pacifico (a differenza della regionalizzazione zoogeografica, qui sono unite la Regione Afrotropicale e Orientale); vi si riconoscono Palme (Palmae; queste piante, ampiamente diffuse in tutte le regioni tropicali, comprendono ca. 200 generi con qualche migliaio di specie, da 2 500 a 3 000), Urticacee (od Orticacee, Urticaceae; piante erbacee, di rado legnose, con ca. 600, altri dice 900, con specie diffuse nelle zone intertropicali e temperate), Araliacee (Araliaceae; queste piante, in gran parte tropicali, comprendono alberi o arbusti, spesso rampicanti), Mirtacee (Myrtaceae; con ca. 3 000 specie legnose distribuite nelle regioni temperato-calde e tropicali) etc.; nella Regione Paleotropicale sono poi presenti foreste pluviali (che nei luoghi più elevati trapassano a foreste d’altro tipo, con epìfite rappresentate in prevalenza da muschi e felci, e con l’inciso che il termine epifita indica una pianta che cresce sopra un’altra pianta di cui si serve solo come supporto, e dalla quale non ricava il nutrimento come fanno le piante parassite in quanto l’epifita è in grado di sintetizzare i composti organici essenziali di cui abbisogna a partire da composti inorganici, cioè è una pianta autotrofa), savane e boscaglie xerofile di tipo diverso a seconda della quantità delle precipitazioni (e dove xerofilo sta per organismo vegetale, ma anche animale, che predilige gli ambienti aridi); nel piano cacuminale (cioè sulla cima) delle montagne vi sono poi praterie e vegetazioni pioniere che ricordano, in parte, quelle delle regioni temperate. La Regione Neotropicale comprende il continente americano dal Messico a tutto il Sud America, Caraibi compresi e esclusi il Cile e la Patagonia (cioè fin verso i 40° di latitudine meridionale); è caratterizzata dalla presenza di Bromeliacee (Bromeliaceae; si tratta specie erbacee o arbustive di tipo xerofita, con una sessantina di generi e ca. 1 000, altre dice 2 000 specie; una pianta xerofita, che è anche xerofila, è poi un tipo di pianta in grado di sopravvivere, grazie ad adattamenti specifici, in climi aridi), Pontederiacee (Pontederiaceae; sono piante annuali o perenni, proprie alle regioni tropicali o subtropicali, distribuite in ambienti acquatici o paludosi, liberamente fluttuanti o fissate al fondo con le radici), Cannacee (Cannaceae; si tratta d’erbe con foglie spiralate di cui è noto il solo genere Canna, comprendente una cinquantina di specie diffuse in ambiente tropicale), Passifloracee (Passifloraceae; si tratta o di piante erbacee o di liane rampicanti per mezzo di viticci ascellari d’appoggio che derivano da infiorescenze o loro parti modificate o, ma meno frequenti, d’arbusti eretti e specie arboree; complessivamente si tratta da ca. 600 specie diffuse prevalentemente in ambiente tropicale), Cactacee (Cactaceae; sono piante xerofite, tipiche dei deserti e di luoghi molto aridi, generalmente con fusti ricchi all'interno di tessuti acquiferi, o succulenti) etc.; nella Regione Neotropicale sono presenti, come nella Regione Paleotropicale, ambienti caldi con vari gradi d’umidità, si va, infatti, dalle foreste tropicali pluviali, alle savane, alle boscaglie spinose fino alle zone aride, ma in questi ambienti, come visto, sono presenti altri generi e specie; cioè questa Regione si presenta, rispetto al Regno Paleotropicale, meno arida della parte africana, meno boscosa della regione malese e più varia d’entrambi; come dire che nella parte settentrionale predominano le xerofite tropicali, con Cactacee, Bromeliacee etc.; in quella centrale le foreste pluviali (Amazzonia etc.); in altre regioni, meno estese delle due appena citate, si hanno flore e vegetazioni differenti, così come nella regione andina e nella regione delle pampas, ossia nelle pianure prive di boschi dell’Argentina, che s’estendono dalle Ande fino all’oceano Atlantico, caratterizzate da una copertura formata quasi esclusivamente di graminacee, spesso perenni e molto alte, con arbusti e piante xerofile; laddove poi dove il clima sia più arido, il suolo delle pampas si presenta denudato (per inciso, il termine pampa e una voce d’origine quechua, e Quechua è il nome della popolazione discendente dagli Incas). La Regione Capense (così detta dal nome del promontorio dell’Africa meridionale, il Capo di Buona Speranza), non presente nella regionalizzazione zoogeografica, s’estende all’estremità Sudoccidentale del continente africano fino alla foce del fiume Oliphant sulla costa Ovest e alla catena del Karroo nell’interno, e vi si distinguono quattro distretti, uno forestale, uno di boscaglie xerofile, uno d’alti pascoli di Poacee (Poaceae; è il nome d’una famiglia di piante note con il nome di graminacee) e uno di steppe desertiche; è la regione di gran lunga meno estesa, ma tra le più ricche d’endèmiti (cioè d’organismi che vivono solo in un unico specifico areale), ca. l’80% della flora è, infatti, costituita di specie endemiche, come quelle del genere Erica (500 endemismi; le piante ericacee sono poi suffrutici, arbusti o piccoli alberi), questo grazie al fatto ch’è, come visto, biogeograficamente isolata a Nord dai deserti e a Sud dall’Oceano Atlantico. La Regione Australiana, comprendente la sola Australia e la Tasmania (ma alcuni biogeografi v’aggiungono la Nuova Zelanda, sottraendola così alla Regione Antartica), presenta una conformazione diversa rispetto alla regionalizzazione zoogeografica e mostra una flora con caratteri arcaici, con alcuni gruppi isolati, tipo l’Eucalipto (Eucalyptus; ca. 460 specie sempreverdi, con numerose specie arboree di grandi dimensioni), e i generi Xanthorrhoea (Xanthorrhoeaceae; una pianta perenne) e Casuarina (Casuarina; con alberi o arbusti a rami filiformi) etc. La Regione Antartica, anch’essa con una conformazione diversa rispetto alla regionalizzazione zoogeografica, comprende le terre al di sotto del 45° latitudine Sud e quindi non solo l’Australia e le Isole Falkland, le Isole Kerguélen, la Nuova Zelanda etc., ma anche l’estremità meridionale dell’America fino a 40° latitudine Sud; vi si ritrovano boschi pluviali, sempre umidi e con clima freddo o temperato-freddo, con presenza del Nothofagus (o Faggio australe) e con abbondanti muschi e licheni; le isole minori, invece, sono prive di boschi e presentano varie piante sempreverdi a cespugli bassi e molto fitti, a cuscino, come l’Azorella (Azorella); mancano poi le Fanerogame (v. infra; presenti nel passato), esclusa la Deschampsia antarctica (una pianta della famiglia delle citate Poacee, capace di sopravvivere alle più basse temperature, anche fino a -30 °C). Infine, abbiamo la Regione Oceanica (non segnata in cartina) dove la vegetazione consta essenzialmente d’Alghe; l’Alga (Algae) è una pianta, unicellulare o pluricellulare, priva di apparato vascolare e strutturalmente molto semplice, che ha un habitat acqueo e presenta conformazioni che vanno da quelle macroscopiche, come le estensioni d’Alghe brune (Feofite, Phaeophyta, che possono arrivare fino a qualche decina di metri) a quelle microscopiche del fitoplancton (come i Coccolitofòridi Coccolithophoridae, Alghe unicellulari flagellate, che si misurano a partire da 4 μm; il termine flagellato indica poi che questi organismi sono dotati di uno o più flagelli, cioè organi per potere esercitare il movimento autonomo in mezzi liquidi al fine d’avvicinarsi/allontanarsi alla luce, mentre il plancton è dato dall’insieme degli organismi, di dimensioni minute o microscopiche, che diffusi negli ambienti d’acqua; e sono detti fitoplancton se sono vegetali o zooplancton se sono animali); cui s’aggiungano, senza pretesa d’esaustività, le Alghe giallo-verdi (Xantofite, Xanthophyta), le Alghe rosse (Rodofite, Rhodophyta), le Alghe dorate (Crisoficee, Chrysophyceae), le Alghe silicee (Diatomee, Diatomeae) e le Alghe verdi (Clorofite, Chlorophyta); si ricorda che le Alghe azzurre (Cianofite, Cyanophyta), in quanto organismi fotosintetici procarioti, sono classificati come Cianobatteri e non più classificati tra le Alghe (infatti, le Alghe sono organismi eucarioti, v. infra). Da non dimenticare, per ultimo, che quelle sono qui definite come Regioni fitogeografiche sono normalmente designate come Regni floristici.
PREMESSA

Per le durate geologiche i tempi del processo d’ominazione e gli ultimi 13 000 anni, soprattutto, non sono nulla o quasi, ma è in quest’intervallo di tempo che data a partire dai 7 e i 5 milioni d’anni fa che si presentano le discordanze genetiche con i Pòngidi che sono di premessa ai processi evolutivi che hanno condotto e alla preistoria e alla storia di Homo sapiens, e, per quanto presuntuosa sia l’affermazione, per quanto irriguardosa delle fatiche effettive e dell’acribìa del lavoro dello storico, fare ricerche di storia senza valutare ciò che precede la preistoria, e trattare di preistoria senza valutare la pervasività e l’irriducibilità della storia della natura, credo sia interessarsi a una processualità cumulativa ch’investe solo le cause prossime e non la materialità di quelle remote che ne sono, di fatto, il motore. Ed è qui convinzione che, per quanto pertiene a questa materialità, uno dei fattori più importanti da prendere in carico quando s’affronta un percorso storico sia quello che riguarda che cosa nell’esserci dell’esistenza permette (e come il tutto sia poi permesso) a una popolazione di Homo sapiens d’avere una qualsivoglia strutturazione economica e sociale, con tutto quello che fatalmente ne consegue a livello del sentire e del credere. Fattore da reperire (purtroppo in modo assiomatico) nel fatto che tutti gli organismi, uomo compreso, competono pena la morte per l’accesso alle risorse (cioè all’energia) partecipando alla catena alimentare quale interfaccia plurima della geosfera, come dire che l’ambiente (e, con esso, l’evoluzione) è il fattore primario da prendere in considerazione. Una comunità d’organismi viventi, umana, per esempio, oltre che ad essere multicodificata dal punto di vista eusociale e stanziata su un territorio, dipende quindi, volta per volta, e sempre per esempio, dalle situazioni climatiche, dalla tipologia geografica dell’habitat, dalle specifiche risorse alimentari, o trofiche, che l’ecosistema rende possibili nei diversi contesti storici, dalla tecnologia storicamente data, dalla densità abitativa, dall’equilibrio tra le risorse energetiche e lo sfruttamento antropico, e che, ancora, sono molteplici e variabili, e sempre secondo il periodo storico, le possibilità date di competizione fra gl’individui, cioè le possibilità d’accesso e di sfruttamento di queste risorse etc. Senza questa presa in carico la storia, infatti, sarebbe avulsa dai sistemi di costrizione che la rendono, a livello d’epifenomeno, tale (e si dice qui che la storia del processo d’ominazione e dei 13 000 anni dell’Anthropocene è un epifenomeno perché essa non è altro ch’un fenomeno accessorio, o secondario, la presenza o l’assenza del quale non incide sulla spiegazione dei fenomeni indispensabili, cioè primari, che la permettono e che si potrebbero, nella logica dell’epitome, tralasciare). L’accesso alla catena alimentare storicamente data dall’ambiente a tutti gli organismi, cioè possibile e in coerenza con gli ecosistemi eusocialmente organizzati, decide dunque primariamente sulla qualità e sulle speranze di vita; e, valorizzando la questione solo per Homo sapiens, è diversificata dalle possibilità contestualmente offerte, cioè biologiche, economiche e sociali, d’accedere e sfruttare le potenzialità offerte dal cibo, e che, sino all’altezza del XIX secolo, nella media, dunque al di fuori delle differenziazioni sociali ch’entrano nella qualità della vita, è di ca. 30 anni. Bisogna poi sottolineare, sempre a questo proposito, che entrano in gioco nel bilancio storico altri elementi e il primo tra questi è il ruolo, disequilibrante o equilibrante (resiliente), giocato dalla biologia in una formazione economico-sociale, cioè dalle risorse genetiche e energetiche d’un individuo e d’una popolazione, vale a dire dalle possibilità individuali e collettive di potersi riprodurre e dall’esistenza (data una memoria immunitaria) di malattie individuali e collettive, epidemiche o pandemiche che siano, esiziali o meno (e che, tranne rari casi, non dipendono dai geni, ma dall’influenza ambientale, e, in molti altri, non dipendono neanche dall’alimentazione, per esempio, come si vedrà, la peste o il vaiuolo), e senza dimenticare le derive casuali. Dire catena alimentare vuol poi dire analizzare prima come la geosfera e la biosfera, compreso Homo sapiens, siano arrivati a essere quello che sono[1] e come si siano evoluti l’ecosistema e il suo sfruttamento energetico di tipo antropico, vale a dire il sistema di caccia e raccolta e, a seguire, quello dell’agricoltura (prima estensivo e pluviale, poi irriguo, poi intensivo etc.) e dell’allevamento (prima brado e transumante e poi stabulare, ossia praticato entro un recinto o in una stalla), e cereali, legumi e carne si siano situati, tra altre possibilità alimentari (tuberi, verdura, frutta, pesci, cacciagione etc.), alla base delle potenzialità alimentari date storicamente agli uomini[2]. E per un periodo prima plurimillenario, poi plurisecolare e poi secolare[3], almeno per l’Eurasia, che data fino all’altezza del XIX secolo. Alimentazione, riproduzione e malattie, nell’ottica del determinismo climatico e biogeografico, sono dunque i mattoni che stanno alla base, in questo percorso d’indagine su Homo sapiens, d’ogni ulteriore indagine sulle modalità produttive e di ciò che ne consegue a livello economico e sociale. Per questo, a seguire, saranno offerte nel corso dell’argomentazione informazioni di base sulla fisica e sulla chimica, sulla Terra e sull’evoluzione della vita, sull’evoluzione di Homo sapiens e sugli ecosistemi che quest’evoluzione l’hanno permessa, ossia ciò ch’è complessivamente e materialmente in gioco con la catena alimentare (alimentazione umana compresa), con la sua offerta, e con le speranze di vita determinate geneticamente e, in pari tempo, legate alla storicità dell’ambiente stesso e dell’evoluzione economica, sociale e culturale che quest’ambiente permette. Il tutto, fondamentalmente, con un’investigazione che data inizialmente come paleostorica (dove pàleo-, dal greco παλαιός, antico, fa riferimento a uno stadio originario), sarà poi da storicizzare nel prosieguo dell’analisi, cioè da legare alle modalità di riproduzione economica e sociale degli individui e delle collettività. Ossia i principali fattori di costrizione che stanno alla base dell’incremento e del decremento d’una popolazione e d’una formazione economico-sociale storicamente situata e in perpetua trasformazione, e qui compresa tra il Vicino Oriente e l’Europa centroccidentale, grosso modo tra l’Olocene e il 1850, quando sta per finire la Piccola era glaciale
(per inciso, con Anthropocene si rimanda a un termine che non è accolto né in sede storiografica, né nella Scala cronostratigrafica internazionale del tempo geologico, quella dettata dall’International Commission of Stratigraphy, ICS; il termine però si trova, almeno in certi testi, come riferito all’attività antropica presente a partire dalla Prima Rivoluzione Industriale, del XVIII secolo, cioè da quando è iniziato l’ultimo consistente aumento nell’atmosfera delle concentrazioni di diossido di carbonio, CO2, e metano, CH4, grazie al motore a vapore alimentato a carbone; in altri testi, invece, il termine è riferito alla prima detonazione d’una bomba atomica avvenuta nel test effettuato in un deserto del New Mexico nel 1945, quando questa deflagrazione, la prima d’una lunga serie, ha diffuso nell’atmosfera della Terra, quali marcatori isotopici radioattivi, il cesio 137, 137Cs e il plutonio 239 e 240, 339Pu, 240Pu; o, più genericamente, lo si trova riferito, a partire dagli anni Cinquanta del Novecento quando, dopo la Seconda guerra mondiale, la pervasività della chimica industriale si presenta incistata nel sistema produttivo, volendo, con i polimeri sintetici, cioè con la plastica, oppure nel sistema agroalimentare, per esempio, con i concimi minerali di sintesi, ossia con i fertilizzanti artificiali, e con tutto il ventaglio dei pesticidi che l’accompagnano etc.; in altri testi, ancora, lo si trova poi legato alla transizione dall’economia di caccia e raccolta all’agricoltura, seguita dall’inizio dell’agricoltura su vasta scala, all’incirca 10 000 anni fa; fatto salvo tutto questo, qui arbitrariamente si pone la sua data d’inizio convenzionale nell’overkill antropico della Megafauna, evento situabile a partire da 13 000 anni fa, v. infra; quest’arco temporale si presenta pertanto qui sovrapponibile, in certi contesti, al periodo geologico dell’Olocene, scientificamente accettato e, a tutt’oggi, non sostituibile).
Ma andiamo con ordine, e partendo da molto, molto lontano (e pure con una tecnica espositiva decisamente ondivaga che richiederà molta pazienza da parte del lettore, e troverà solo a lettura ultimata, o almeno si spera, la sua giustificazione).



[1] Di questo si prende carico il primo volume, titolato La paleostoria.
[2] Di questo si prende carico il secondo volume, titolato L’Anthropocene, 1 (La preistoria).
[3] Di questo si prende carico il terzo volume, titolato L’Anthropocene, 2 (La storia). 
LA CATENA ALIMENTARE


Sopra s’è accennato alla latitudine e su come essa influenza il clima, ma è da ricordare che la latitudine e il clima non sono solo una possibilità di localizzazione geografico-climatica, ma anche qualcosa d’altro. Prendiamo, quale esempio, due aree agricole localizzate una nella fascia tropicale (latitudini ±23°27’, cioè tra il Tropico del Cancro e il Tropico del Capricorno, ed escludendo i climi aridi a cavallo dei Tropici), l’altra nella fascia temperata dell’Emisfero boreale (latitudini comprese tra 23°27’ e 66°33’, tra il Tropico del Cancro e il Circolo Polare Artico, ed escludendo i climi subtropicali caldi e quelli subartici); ora, nella fascia temperata, le temperature medie annue sono moderate, la stagione invernale è ben definita, le piogge sono ben distribuite nell’anno e in quantità variabile (con prevalenza nelle stagioni fredde) e, salendo verso le più alte latitudini, la crescita dei prodotti agricoli dura dai 6 mesi a qualche settimana, e il rendimento seme/prodotto è alto perché i suoli sono profondi e fertili, e questo fenomeno è dovuto in gran parte ai fenomeni ripetuti nel tempo, di cui parleremo a seguire, di glaciazioni e deglaciazioni che hanno spostato in avanti e poi fatto arretrare i ghiacciai che, frantumando ripetutamente le rocce hanno lasciato depositi detritici, cioè creato e stratificato suoli profondi (o suoli morenici), cui s’aggiunga il fatto che le sostanze organiche che si depositano sui suoli richiedono tempi lunghi di decomposizione, per cui, non essendo trasportati rapidamente dalle piogge, rilasciano nutrienti in profondità che rendono fertili i suoli, cui ancora si somma un basso tasso di riproduzione degli organismi patogeni (insetti, muffe etc.) che non infestano e danneggiano i raccolti; al contrario, nella fascia tropicale l’insolazione è abbondante, la temperatura è calda (con una media di circa 20 °C) e la stagione invernale è inesistente, il regime pluviale è copioso e la possibilità di crescita dei prodotti agricoli dura tutto l’anno, solo che il rendimento seme/prodotto è basso perché i suoli sono poco profondi e poco fertili giacché i materiali organici che si depositano ai suoli si decompongono rapidamente a causa d’un costante clima torrido e non permangono nei suoli perché l’abbondante piovosità li dilava e li rende legati e soggetti all’accelerazione del ciclo idrologico, cui si somma un alto tasso di riproduzione degli organismi patogeni che, a differenza delle regioni temperate, non sono bloccati a livello riproduttivo dagli inverni (per cui il loro ciclo deve ripartire ogni volta da capo) e pertanto infestano e danneggiano gravemente i raccolti, e senza dimenticare che questi organismi patogeni sono numerosi anche per la maggiore biodiversità permessa dal clima e dalla copertura vegetale, ciò ch’induce, grazie allo sviluppo e alla riproduzione continua degli agenti trasmettitori del contagio, anche un’elevata mortalità e morbilità tra gli uomini. Come dire che la latitudine è anche un primo indicatore, a livello di società umane, dello stato di salute delle collettività, questo perché è un dato di fatto incontrovertibile che la posizione geografica d’una formazione economico-sociale influisce in modo primario (oltre, va da sé, ad altri fattori presentati nel prosieguo dell’indagine) sulle modalità d’accesso da parte della popolazione alla catena alimentare; quest’argomento sarà in seguito ripreso e convenientemente sviluppato, per cui valga, per il momento, la schematicità di quanto precede.
LOCALIZZAZIONI GEOGRAFICHE

Come vedremo, la posizione della Terra nello spazio è il risultato d’una composizione di moti che presentano caratteristiche e periodicità fra loro differenti, tra questi qui c’interessa il moto di rotazione della Terra intorno al proprio asse, asse ch’interseca la superficie terrestre in due punti, detti per convenzione Polo Nord e Polo Sud. Ora, supposta la Terra come una sfera, la linea immaginaria che traccia una circonferenza sulla superficie della Terra equidistante dai citati Poli e produce un piano perpendicolare all’asse di rotazione, la si definisce Equatore, e grazie ad essa vediamo che il piano equatoriale divide la Terra in due Emisferi, uno che fa capo al Polo Nord e l’altro al Polo Sud, l’uno detto Emisfero settentrionale, o Boreale, l’altro detto Emisfero meridionale, o Australe (e dove Borea e Austro, che stanno alla base delle denominazione degli Emisferi, sono l’uno il vento che spira dal Nord e l’altro quello che spira dal Sud). Dato il piano dell’Equatore, i paralleli sono le circonferenze ideali reperite su piani ch’intersecano la Terra, di raggio via via minore, piani che sono poi paralleli al piano dell’Equatore e come questo perpendicolari all’asse di rotazione della Terra, come mostra la figura seguente (dove N e S identificano il Nord e il Sud):


Figura n.   . Fonte: Lupia Palmieri, Parotto, 2009, p. 74.

Di questi paralleli, dall’Equatore ad un Polo, ne sono reperibili 90 misurati in gradi sessagesimali (questi gradi, indicati con il simbolo °, sono dati a partire da un angolo di 1°, pari alla novantesima parte di un angolo retto; ogni grado è diviso in 60 primi sessagesimali, con simbolo ‘, ciascuno dei quali è a sua volta diviso in 60 secondi sessagesimali, con simbolo ‘‘; volendo, un grado sessagesimale è l’ampiezza dell’angolo che sottende un arco di lunghezza pari a 1/360 dell’angolo giro di 360° d’una circonferenza), di modo che l’Equatore sia a 0° e il Polo sia a 90° e si definisce latitudine il reperimento di un punto su un parallelo (e va da sé che tutti i punti reperiti su uno stesso parallelo presentano la stessa latitudine); i 90 paralleli dell’Emisfero boreale sono poi, per convenzione, positivi (da 0° a 90°, latitudine Nord), mentre quelli dell’Emisfero australe sono negativi (da 0° a -90°, latitudine Sud); per esempio, i Tropici sono situati a 23°27’ di latitudine Nord (Tropico del Cancro) e di latitudine Sud (Tropico del Capricorno, o -23°27’); il Circolo Polare artico ha latitudine Nord di 66°33’ e quello antartico ha latitudine Sud di 66°33’ (o -66°33’). Il meridiano e l’antimeridiano sono invece dati una linea immaginaria che traccia una circonferenza su di un piano ch’attraversa la Terra e che passa per il Polo Nord e il Polo Sud ed è perciò perpendicolare al piano dell’Equatore e ai suoi paralleli; data questa circonferenza, il meridiano ne identifica la prima metà, cioè la semicirconferenza, che ha inizio e fine tra i due Poli, mentre l’antimeridiano è l’altra metà della semicirconferenza che ha inizio e fine sempre tra i due Poli, ma dalla parte opposta del globo terrestre, come mostra la figura seguente (dove il meridiano B passa per Monte Mario, a Roma, adottato nell’Ottocento dalla cartografia del Regno d’Italia, cioè prima della scelta del meridiano 0° odierno, oggi situato rispetto a questo a una longitudine Est di 12°27’08’’):


Figura n.   . Fonte: Lupia Palmieri, Parotto, 2009, p. 74.

Poiché un meridiano/antimeridiano ha una circonferenza con un raggio uguale a quello di tutti gli altri (a differenza dei paralleli dove il raggio diminuisce andando verso i Poli), e le semicirconferenze sono nel numero di 180 (così come i gradi vanno da 0 a 180) andando verso Est, e 180 andando verso Ovest, e oggi si sceglie come grado zero, 0°, per convenzione, il meridiano di Greenwich, e a partire da questo meridiano si annotano i gradi, da  0° a 180° verso Est (segnati come positivi) e da 0° a 180° verso Ovest (segnati come negativi), fatto salvo che i 180° Est coincidono con i 180° Ovest (semicirconferenze che coincidono, a loro volta, con l’antimeridiano di Greenwich, nell’Oceano Pacifico, che segna la linea del cambiamento di data); un punto collocato su un meridiano/antimeridiano ha poi una sua longitudine (e va da sé, ancora, che tutti i punti reperiti su uno stesso meridiano/antimeridiano presentano la stessa longitudine); per esempio, l’Emisfero occidentale, che comprende le Americhe, è compreso tra il 20° meridiano Ovest e il 160° meridiano Est, e l’Emisfero orientale, che comprende l’Eurasia, l’Africa e l’Australia, è compreso tra il 160° meridiano Est e il 20° meridiano Ovest; detto questo, un punto s’identifica geograficamente sul reticolo disegnato da paralleli e longitudini in gradi sessagesimali (o reticolo, o reticolato, geografico), cui, se è il caso, s’aggiungono le frazione di grado, che si reperiscono all’incrocio tra un parallelo (da identificare in gradi Nord o in gradi Sud) e un meridiano (da identificare in gradi Est, o gradi Ovest), oppure con il meno, -, per la latitudine Sud e la longitudine Ovest. Data la figura seguente:


Figura n.   . Fonte: Lupia Palmieri, Parotto, 2009, p. 75.

e detto come si deve, la latitudine è la distanza angolare φ tra un punto, P, e un punto dell’Equatore misurata lungo il meridiano che passa per quel punto P (in figura, il meridiano di P) e corrisponde all’arco di meridiano dato dall’angolo compreso tra P e un punto dell’Equatore, angolo φ che parte dal centro della Terra; la longitudine è la distanza angolare λ di un punto dal meridiano di Greenwich (in figura, meridiano di riferimento), misurata sull’arco di parallelo che passa per il punto P e corrisponde all’angolo compreso tra il meridiano del punto P e il meridiano di Greenwich. Un’altra coordinata geografica, oltre alla latitudine e alla longitudine, è data dall’altitudine, cioè dall’altezza (la distanza misurata lungo la verticale) di un punto rispetto allo zero altimetrico, normalmente il mare al suo livello medio (misurata in metri sul livello del mare, in sigla m s.l.m.), detta altezza assoluta. Oltre al reticolo geografico e all’altitudine, utile può essere il ricorso all’altitudine per la rappresentazione d’un rilievo sulla superficie della Terra, questo attraverso le isòipse, o curve di livello, che rappresentano l’andamento altimetrico del terreno rispetto al livello medio del mare, questo unendo in una linea curva ideale tutti i punti del terreno che hanno la stessa altezza rispetto allo zero altimetrico, e proiettando la curva di livello così ottenuta sul piano di rappresentazione che riporta poi l’altimetria (o quota) reperita, come mostra la figura seguente, là dove ci s’immagina d’intersecare il rilievo con tanti piani, orizzontali e equidistanti (in figura, l’equidistanza è di 100 metri), e proiettando poi tutti i punti d’intersezione con uguale altura, ottenuti sul rilievo dai vari piani intersecanti, su un piano che li rappresenta tutti:


Figura n.   . Fonte: Lupia Palmieri, Parotto, 2009, p. 157.


Questo procedimento si può utilizzare anche per rappresentare i rilievi delle profondità marine o d’acqua dolce, nel qual caso la curva di livello è costruita per punti di uguale profondità rispetto alla superficie dell’acqua e, in questo caso, si parla di isòbate (mentre il termine isoipsa è composto di iso-, uguale, e del greco ὕψος, altezza, il termine isobata, al posto di hýpsos, riporta il greco βάϑος, che sta per profondità). E parlando di profondità, ossia della distanza, misurata sempre lungo la verticale, tra il fondo di una cavità naturale e la sua estremità superiore, per esempio, tra i fondali d’un bacino oceanico e il livello del mare stesso, la disciplina che s’occupa della rappresentazione cartografica delle profondità e della morfologia dei fondali si chiama poi batometrìa (o batimetria, una branca dell’oceanografìa). 
IL DISPOSITIVO CLIMATICO

Semplificando quanto si dirà in modo dettagliato a seguire (v., infra, la meteorologia), alle alte latitudini i raggi del Sole colpiscono la Terra con bassa inclinazione e ne riscaldano la superficie in modo inferiore che non alle basse latitudini, per esempio nelle zone attorno all’Equatore; ed è all’Equatore che si pensa quando si parla di circolazione planetaria dell’atmosfera, là dove si fa incominciare il tutto con la presenza d’un’aria calda che, in quanto più leggera, sale verso l’alto e inizia a fluire, a tappe, verso le alte latitudini, cioè verso i Poli, e contemporaneamente redistribuisce il calore del Sole accumulato all’Equatore su tutta la superficie della Terra (nella misura di ca. l’80%, essendo la restante parte redistribuita dalle correnti oceaniche); quest’aria calda ascendendo ad alta quota e distribuendo calore gradualmente si raffredda e perde la capacità di trattenere il vapor d’acqua, tanto che si sviluppa una cintura equatoriale delle piogge; quando quest’aria giunge all’altezza delle latitudini subtropicali (25-35°) una parte ridiscende e spostandosi lungo la superficie (venti Alisei) ritorna all’Equatore e nel mentre discende dà origine, in quanto si comprime, a una zona d’alta pressione subtropicale (e in pari tempo, la compressione impedisce la cessione di vapor d’acqua, per cui l’aria è secca); il resto dell’aria d’alta quota non ridiscesa, giunge a latitudini medie (35-60°) presso un sistema di basse pressioni e di piogge, e prosegue poi verso i Poli continuando il suo raffreddamento là dove, giunta nelle regioni polari, ritorna come aria fredda di superficie (venti Polari) verso le regioni equatoriali, là dove ricominciano le già citate tappe. La figura seguente mostra quanto s’è cercato di descrivere:


Figura n.  . Fonte: van Andel, 1988, p. 59.


Questo quadro è poi complicato dai fenomeni di stagionalità che rendono disuniforme il riscaldamento nelle regioni a clima temperato e polare, dalla forza di Coriolis (v. infra) che influisce sulla direzione d’ogni corrente (sia atmosferica che oceanica), dalla presenza dei continenti e dei bacini oceanici che modificano ulteriormente il flusso delle correnti atmosferiche, dall’estensione o meno dei ghiacciai e delle superfici innevate (effetto albedo, v. infra), dall’evaporazione degli oceani caldi che determinano una copertura di nubi fitta ed estesa (che, con la loro azione di filtro delle radiazioni solari, hanno un effetto di retroazione negativa, cioè di raffreddamento dell’acqua, ciò che riduce la coltre di nubi sino alla ripresa del ciclo), insomma s’alterano le modalità di trasferimento del calore e tutta la complessa casistica che rende il tempo meteorologico estremamente variabile. Ora, dire clima e dire tempo meteorologico è dire due cose diverse, giacché il clima si distingue dal tempo meteorologico in quanto quest’ultimo è, come sopra s’è cercato d’esemplificare, solo un’episodica congiuntura di condizioni d’irraggiamento solare, di temperatura, di precipitazioni, di pressione, d’umidità etc., e rappresenta un’instabilità ch’è sempre a breve termine; mentre il clima, al contrario, elimina con le sue medie queste instabilità episodiche e rimanda a delle serie periodiche che possono essere più o meno cicliche (per esempio, una stagione umida per precipitazioni eccessive non è significativa in quanto episodica, ma una serie prolungata di stagioni umide possono segnalare un cambiamento di clima), giacché con clima s’intende il complesso delle condizioni meteorologiche, che caratterizzano un’area più o meno estesa e relativamente a lunghi periodi di tempo. Il clima, infatti, è la descrizione statistica, in termini di valori medi validi per ampi areali, della variabilità dei tratti distintivi atmosferici (i regimi dei venti, la pressione atmosferica, gli schemi d’irraggiamento solare, l’umidità o meno dell’aria, i gradienti delle precipitazioni etc.) in un periodo di tempo che può andare da una scala umana, cioè di pochi decenni, a quella delle ere geologiche di milioni d’anni e più, come dire che queste serie statistiche sono poi delimitate da fattori quali la latitudine, l’altitudine, la distanza dal mare, l’orientamento delle masse continentali e dei sistemi orogenetici, l’andamento delle correnti oceaniche, la variabilità della morfologia areale, il periodo cronologico preso in esame (in quanto il clima, in una stessa area, può essere soggetto a variazioni dovute, per esempio, alla deriva continentale, ai movimenti tettonici, all’apertura/chiusura di bacini oceanici, alla variazione dell’inclinazione dei raggi solari etc.), ossia da un insieme di fattori tutti tra loro determinati e che determinano, a loro volta, il regime ecologico, cioè floristico e faunistico, degli areali presi in considerazione, e con questi le modalità d’esistenza della catena alimentare e, se in periodo protostorico o storico, la tipologia dell’azione antropica possibile etc.; come dire, ancora, che il clima, nel suo complesso, è un dispositivo ch’assembla in modo statisticamente variabile la terraferma, gli oceani, l’atmosfera, gli organismi e li coordina come insieme strutturato con l’irradiazione del Sole, cioè con l’irradiazione che riscalda il terreno, l’acqua e l’aria e fa vivere gli organismi producendo così effetti di retroazione a catena riconducibili, alla fin fine, a dei modelli seriali macroclimatici. Ed è a questo dispositivo, sia pure opportunamente articolato, che ci si riferirà nel prosieguo della descrizione.
LA LETTURA DELLE ROCCE

La lettura delle rocce, meglio, delle formazioni sedimentarie si basa sulle facies (faccia; il plurale latino è invariato) ch’esse presentano, cioè sull’insieme di quei caratteri tipici (struttura, minerali contenuti, presenza e natura di fossili etc.) che rimandano alla loro modalità di formazione in un dato ambiente di sedimentazione, per esempio, una formazione con facies palustre si riconosce per la presenza di resti carboniosi (vegetali), mentre una facies marina è indicata dalla presenza di resti organogeni, quali fossili o microfossili, che possono indicarne la profondità, per cui avremo una facies profonda e di mare aperto (o batiale o pelagica), oppure una poco profonda e vicina alla costa (o neritica) etc., o che un’arenaria può avere una facies fluviale o costiera e via classificando. Fatto dunque salvo il fatto che una formazione è un’unità stratigrafica definita dal complesso di rocce caratterizzate da un’uniformità litologica, e per questo distinta dalle unità tra cui risulta compresa, per le formazioni sedimentarie (e salvo le eccezioni) valgono i principi esplicativi d’orizzontalità iniziale, di sovrapposizione, di continuità laterale e d’intersezione. Con l’orizzontalità iniziale ci si riferisce a sedimenti indisturbati, che non hanno cioè subito dislocazioni o alterazioni dovute a movimenti tettonici, che grazie alla forza di gravitazione si sono depositati su superfici grosso modo orizzontali, o tutt’al più con un’inclinazione molto bassa, là dove la loro trasformazione in rocce (il processo di litificazione) non ha comportato modificazioni della formazione originaria e dove pertanto l’ordine delle successioni si mantiene nel corso del tempo; la figura seguente raffigura questo principio (qui, depositi di sedimentazione marini):

Figura n.  . Fonte: van Andel, 1988, p. 26.

Con la sovrapposizione, sempre nelle serie sedimentarie indisturbate, si rimanda alla meccanica di deposizione contigua nello spazio e nel tempo degli strati, grazie alla quale risulta che gli strati bassi sono i primi ad essersi sedimentati, e perciò sono i più antichi, e che man mano che questi s’elevano lo strato che segue è sempre più recente di quella che la precede; la figura seguente raffigura questo principio (qui, depositi di sedimentazione continentali):

Figura n.  . Fonte: van Andel, 1988, p. 26.

Con la continuità laterale s’afferma che inizialmente i sedimenti formano degli strati continui e che le loro facies cambiano soltanto quando cambia l’ambiente di deposizione; se però, per esempio, troviamo che uno degli strati, su un lato, termina bruscamente, si deve ipotizzare che, dopo la sua formazione, si sia verificato un evento perturbante, quale la dislocazione d’una faglia (v. infra), oppure un’erosione in corrispondenza d’una costa o d’una valle fluviale, tanto che questo principio permette di ricostituire strati che in precedenza erano di fatto continui, come mostrano le figure seguenti ch’illustrano la ricostituzione della continuità in una valle (la seconda è fluviale e preceduta da copertura vegetale):

Figura n.  . Fonte: van Andel, 1988, p. 26.


Figura n.  . Fonte: van Andel, 1988, p. 28.

Con il principio d’intersezione s’afferma ch’ogni elemento che taglia, cioè attraversa trasversalmente, una stratificazione di rocce sedimentarie che presenta un’inclinazione diversa è fenomeno più recente delle rocce attraversate, più antiche; la figura seguente mostra questi rapporti di taglio trasversale ricorrendo a un filone, cioè alla posizione di giacitura della roccia eruttiva, dunque a un’intrusione magmatica che sfocia in superficie in un vulcano (nella figura, a), o una faglia (nella figura, d), tanto che il camino (a) è più giovane del primo strato (in figura, b), e gli strati più antichi (in figura, e) lo sono rispetto al camino (a), al primo strato (b) e alla faglia (d), ch’è poi a sua volta più antica della discordanza stratigrafica (la linea ondulata in grassetto, in figura, c; v. infra):


Figura n.  . Fonte: van Andel, 1988, p. 26.

Sempre a livello di principi costitutivi si può poi affermare che procedendo lungo una sequenza di strati orizzontali si possono rilevare dei cambiamenti di facies, come mostra la figura seguente:


Figura n.  . Fonte: van Andel, 1988, p. 28.

Mentre, se gli strati sono inclinati, procedendo in una direzione ci spostiamo in avanti nel tempo, mentre procedendo nella direzione opposta ci muoviamo all’indietro, come mostra la figura seguente:


Figura n.  . Fonte: van Andel, 1988, p. 28.

Ora, sia la stratificazione di rocce sedimentarie data dalla figura seguente:


Figura n.  . Fonte: van Andel, 1988, p. 23.

La lettura delle rocce qui rappresentate, tutte sedimentarie, s’inizia dal basso, dove sono presenti strati di calcare dovuto a deposizione chimica, privi o quasi di fossili marini e senza detriti d’ambienti di costa e fluviali, ciò che suggerisce, nell’ordine, la facies marina, la lontananza dalla terraferma e l’assenza di sbocchi fluviali sulle coste (cioè un clima asciutto); lo strato successivo contiene fossili marini (ostriche, resti fossili dei Molluschi bivalvi del genere Ostrea) e, prima di transitare verso l’altro strato mostra, e più abbondanti, argille e sabbie (cioè sedimentazioni clastiche, coerenti le prime in quanto costituite da minuscoli detriti che si sono accumulati per decantazione in acque marine, incoerenti le seconde perché derivate da processi caotici di degradazione di rocce preesistenti), ciò che nell’ordine, indica l’innalzamento del fondo del mare (giacché le ostriche non vivono né in acque profonde né in mare aperto, ma in ambienti non profondi oltre i 30 m) e la vicinanza a una costa; gli strati successivi presentano arenarie e argilliti (rocce clastiche litificate, le prime, costituite da granuli di sabbia a prevalente composizione non carbonatica, di cui alcune a stratificazioni incrociate, cioè con strati inclinati rispetto allo strato principale; rocce formatesi dal consolidamento di depositi marini d’argilla, le seconde), ciò ch’indica una facies costiera con la presenza occasionale di spiagge sabbiose; quelli successivi presentano argilliti con strati carboniosi (derivate dal consolidamento di depositi lacustri), indice d’una pianura costiera paludosa; gli strati successivi di ghiaia e arenaria presentano una superficie erosa seguita, senza fasi di transizione da stratificazioni di calcare marino, ciò ch’indica una discordanza stratigrafica (mostrata, in figura, dalla linea ondulata in grassetto), cioè una discontinuità nella successione cronologica (detta iato) a causa di un’interruzione nei processi di formazione, indice dunque d’una sequenza d’eventi non documentabile, anche se il tutto delle facies sopra elencate, in ogni caso, è poi leggibile come documentazione di regressioni e trasgressioni marine. Il problema ora si sposta alla domanda se questa variazione del livello marino è stata un fenomeno solo locale o se fa parte d’una fenomenologia più estesa, cioè se le successioni rocciose deposte in uno stesso bacino di sedimentazione si ritrovano anche in bacini adiacenti o in bacini geograficamente distanti tra loro, cioè se sono correlate, e un metodo per risolvere in generale il problema della correlazione è dato, come visto sopra, dalla stratigrafia basata sui fossili e sulle loro associazioni, o biostratigrafia (basata sul principio dell’irreversibilità dei processi evolutivi grazie alla quale un’associazione fossile può essere tipica solo d’un dato periodo e non d’un altro). Per quanto riguarda la valutazione cronologica del passato geologico prendendo in carico le rocce fino ad ora escluse, cioè quelle ignee e metamorfiche, valgano poi le informazioni a seguire.

MISURE CRONOGEOLOGICHE (riscrittura)

La Terra è una macchina termica in cui, al calore presente a partire dalla sua formazione iniziale, si somma quello prodotto dalla radioattività. Come vedremo meglio a seguire, il nucleo d’un atomo è costituito da protoni e neutroni, e il numero dei protoni determina il suo comportamento chimico, che rimane identico anche se, negli isotopi, il numero dei neutroni aumenta; per esempio l’ossigeno ha 8 protoni, ma può presentare 8, 9 o 10 neutroni, dando origine a tre isotopi (v. infra), con 8 protoni e otto neutroni, o 16O,  con 8 protoni e nove neutroni, o 17O e, infine, con 8 protoni e 10 neuroni, o 18O; ora, molti isotopi sono stabili, ma altri no, per cui può capitare che alcuni siano instabili, ossia decadano in altri elementi, per esempio il carbonio ha tre isotopi, due stabili, 12C e 13C, e uno instabile, il 14C, che decade in azoto etc.; gli isotopi che decadono emettono poi delle radiazioni dal nucleo, i raggi α,  β (β-, β+), γ, e sono per questo detti radioattivi, e poiché ogni elemento che si presenta ha degli isotopi, affinché un isotopo presenti un nucleo instabile il suo peso atomico (v. infra) deve essere superiore ad 83. La figura seguente mostra le tre radiazioni; l’isotopo che decade è poi detto madre e quello che ne risulta è detto figlia (qui non s’analizzano le differenze tra le radiazioni):


Figura n.  . Fonte (adattata): van Andel, 1988, p. 41.

Come dire che i minerali presenti in certe rocce della litosfera convertono la loro massa in energia  in modo estremamente efficace, e una percentuale del calore della Terra in quanto macchina termica, per esempio, può essere attribuito proprio al decadimento spontaneo dei minerali presenti in queste rocce, cioè al rilascio d’energia termica (con l’emissione di radiazioni) dovuto al citato fatto che una parte della massa, quella dell’isotopo che decade, si trasforma in energia; ancora, gli elementi radioattivi quando decadono, sempre spontaneamente, subiscono una modificazione nella struttura dei loro nuclei atomici instabili (ch’è data dalla somma di protoni e di neutroni che s’altera), come detto un decadimento radioattivo che permette loro di trasformarsi in un nucleo diverso, proprio a un altro elemento o a un isotopo dello stesso elemento; alcuni decadono poi in un solo passaggio (per esempio, 14C), altri, invece, decadono attraversano una serie di passaggi, o catena, e il processo di decadimento continua finché il nucleo alla fine non diventa stabile; perché il processo sia poi classificato come spontaneo questo decadimento si deve verificare in un tempo che non può superare i 1010 anni, altrimenti il nucleo atomico è ritenuto stabile o il decadimento indotto; il materiale radioattivo inoltre, e quale che sia, per decadere della metà impiega sempre lo stesso tempo (o tempo di dimezzamento o emivita, t1/2), e questo suo valore, ch’indica il numero degli atomi instabili che decade in un cert’arco di tempo, rimanda a un dato statistico, medio, ossia alla metà della sua vita media, con la clausola che, dopo la prima emivita, la seconda è metà della metà della quantità iniziale, cioè un quarto, e via via scalando, come dire che la velocità di decadimento può essere usata come un indicatore temporale (infatti, poiché la quantità d’un elemento radioattivo che si trova in un minerale decade con un tasso costante, è poi possibile ricostruire la durata del tempo intercorso a partire dalla formazione del minerale stesso misurando la quantità dell’isotopo prodotto dal decadimento stesso), come dire, ancora, che conoscendo la quantità di radioattività presente in un materiale e la sua emivita, se ne può calcolare l’età indipendentemente dai fattori propri all’habitat che lo ospita (quali le condizioni di pressione, temperatura, magnetismo o d’ambiente chimico, cioè le facies di cui sopra). L’emivita può poi presentarsi con valori che vanno dall’ordine del microsecondo a quello paragonabile all’età della Terra, per cui per il tramite dello studio delle rocce, della loro struttura e composizione, è possibile definire i tempi dell’evoluzione della Terra e mettere tra loro in correlazione configurazioni geologiche di rocce ignee, metamorfiche e sedimentarie avvenute in zone fra loro anche molto lontane dal punto di vista geografico. Per esempio, presenti in molti minerali della litosfera si trovano isotopi radioattivi come quelli dell’uranio 238 (238U), che hanno un’emivita dell’ordine di 4,510 miliardi d’anni (t1/2=4,510x109), e sono utilizzati per le datazioni geologiche di materiale inorganico (ossia, rocce), mentre sono utilizzati per la datazione di materiali organici, quali conchiglie, ossa, legni fossili, semi o manufatti con età compresa tra 1 000 e 70 000 anni etc., e risalenti a non più di 50-70 mila anni fa, gli isotopi radioattivi del carbonio 14 (14C), che presentano un’emivita di 5730 ±40 anni  in quanto, dopo 8 emivite, rimane solo lo 0,39% del carbonio radioattivo originale, cioè una quantità irrisoria per consentire misurazioni attendibili. Da sottolineare che questo livello di 14C presente in un organismo vivente, flora o fauna che sia, s’è formato e si forma nell’alta atmosfera dove i raggi cosmici, composti per la maggior parte di nuclei d’atomi d’idrogeno, producono, grazie alla collisione/trasformazione continua dell’azoto colpito dai raggi, il carbonio 14, 14C; questo, in combinazione con l’ossigeno, dà luogo a diossido di carbonio radioattivo, 14CO2 (presente in modo costante nell’atmosfera grazie all’equilibrio di 14C che decade e 14C che, come detto, si forma in continuazione), ch’è stata assimilata dagli organismi viventi, autotrofi e eterotrofi (v. infra) grazie ai cicli della loro attività metabolica, vuoi d’origine fotosintetica (infatti, la fotosintesi clorofilliana, v. infra, utilizza il diossido di carbonio atmosferico per costruire le sostanze organiche, le quali contengono 14C non radioattivo nella stessa proporzione con cui lo contiene il 14CO2 utilizzato), vuoi attraverso la catena alimentare (per esempio, la stessa proporzione citata di 14C, presente nel 14CO2 utilizzato dalle piante sulla terraferma, è presente negli erbivori che si nutrono delle piante e nei carnivori che si cibano di erbivori, lo stesso vale negli oceani etc.); vale a dire che il livello di 14C è uguale a quello presente nell’ambiente, o serbatoio di scambio, in cui l’organismo (flora, fauna) ha vissuto; dopo la sua morte, mentre il carbonio 12, 12C, in quanto stabile rimane costante, il carbonio 14, 14C, comincia a decadere con un tasso pari a quello sopra citato trasformandosi in azoto e senza che il carbonio dell’ecosistema in cui l’organismo ha vissuto possa essere reintegrato nel processo della sua evoluzione necrotica, tanto che la sua radioattività rivela qual è il tempo trascorso dalla sua morte (questo in linea di massima, cioè salvo contaminazioni dei campioni usati). Con questo metodo si scoprono così in modo assoluto (cioè con una datazione fondata su procedure fisico-chimiche) le varie età della Terra sopra delineate (le rocce) e gli accidenti ch’essa ha ovviamente presentato (le biocenosi e le tanatocenosi). E, per continuare e precisare l’esempio sopra iniziato, valgano per la datazione delle rocce il decadimento del samario 147, 147 Sm, in neodimio 143, 143Nd, con un’emivita di 106 000 milioni d’anni; quello del rubidio 87, 87Rb, in stronzio 87, 87Sr, con un’emivita di 47 000 milioni d’anni (usato per la datazione dei graniti); quello del torio 232, 232Th, in piombo 208, 208Pb, con un’emivita di 13 900 milioni d’anni; dell’uranio 238, 238U, in piombo 206, 206Pb, con un’emivita di 4 510 milioni d’anni (molto utilizzato); del potassio 40, 40K, in argon, 40Ar, che ha un’emivita di 1 300 milioni d’anni (usato per la datazione dei basalti, questo fatto salvo che la roccia che lo contiene non sia stata esposta a temperature superiori a 125 °C, perché in questo caso la fuga d’argon lascia determinare soltanto l’ultimo episodio di riscaldamento ch’essa ha subito); dell’uranio 235, 235U, in piombo 207, 207Pb, con un’emivita di 713 milioni d’anni o dell’uranio 238, 238U, nel torio 230, 230Th, con un’emivita di 80 000 anni, usato per datare i sedimenti marini, questo perché il 238U presente nei mari decade in  230Th e precipita nei sedimenti dei fondali permettendo, con la sua concentrazione, di ricostruirne l’età, e altri decadimenti ancora. Questi valori ci danno poi la datazione assoluta (differenti dai valori delle datazioni relative che si basano sul solo studio degli strati delle rocce sedimentarie, organogene o meno, e sul reperimento negli strati di fossili guida, nel qual caso questi valori non sono numerici in quanto permettono soltanto d’affermare la consequenzialità cronologica degli strati, e sempre che non siano intervenuti fenomeni tettonici di disturbo della sequenza stratigrafica, cioè che uno strato, o un fossile guida ch’è qui contenuto, sia o più antico o più recente nei confronti d’un altro che lo precede o lo segue), datazione che oggi si classifica come datazione radiometrica, e l’attendibilità di questi valori e legata a un margine d’oscillazione (range) in anni dovuto al fatto che la misura è statistica, detto margine d’errore, che presenta valori in più o in meno rispetto al valore dato ), e lo standard d’accettabilità di questo errore dipende dall’età del reperto, per esempio, nel caso di rocce del Cenozoico il margine è  100 000 anni, mentre è già d’alcuni milioni d’anni nel Mesozoico e via via che ci s’allontana per arrivare al Precambriano il margine d’errore si dilata ulteriormente, anche se s’accetta che alcune rocce reperite in Groenlandia risalgano a 3 700 milioni di anni fa, mentre per altre rocce, presenti nella parte Nordorientale della baia di Hudson, in Canada, manca l’accordo sull’età, che varia così da 3 800 a 4 400 milioni d’anni fa. Si sottolinea a questo punto che se è relativamente facile situare le rocce sedimentarie al loro posto nella geocronologia utilizzandone le formazioni e le biozone, s’incontrano invece notevoli difficoltà con le rocce ignee e metamorfiche che non possono contenere fossili, e che pertanto la datazione con isotopi, pur nei suoi limiti, è quasi esclusivamente l’unica possibile per dare loro un’età e collocarle all’interno della storia della Terra. Oltre al reperimento degli isotopi instabili per datare le rocce, si usa quello degli isotopi non instabili dell’Ossigeno (18O:16O) per reperire la storia degli oceani e dell’atmosfera; per esempio, le variazioni delle temperature dell’aria e della superficie degli oceani, l’estensione nello spazio e nel tempo delle ere glaciali, i vari livelli in percentuale dell’ossigeno presente nell’atmosfera e nei mari, sono possibili grazie agli isotopi stabili dell’ossigeno 16, 16O, e dell’ossigeno 18, 18O (ossia al rapporto ch’esiste tra un isotopo stabile dell’ossigeno, 18O, e l’ossigeno ordinario, 16O, ch’è all’incirca di 1 a 500), che s’accumulano a differenti velocità secondo di quanto ossigeno o diossido di carbonio sono presenti nell’atmosfera o nei mari e che, messi a confronto nei loro diversi tassi di deposito nelle rocce calcaree prodotte dalla sedimentazione dei gusci degli organismi presenti sul fondo degli oceani, o planctonici, permettono ai geochimici di decifrare i citati accidenti del passato e molto altro ancora (gusci, questi, costruiti dagli organismi con il carbonato di calcio, CaCO3, ottenuto combinando l’ossigeno estratto dall’atmosfera con il carbonio). Il rapporto isotopico 18O:16O s’usa, infatti, perché quando l’acqua evapora dagli oceani, evapora più facilmente l’isotopo meno pesante, 16O, rispetto a quella dell’isotopo più pesante, 18O, e l’acqua che resta negli oceani contiene pertanto, secondo le variazioni apportate o meno dal ciclo idrologico, più o meno 18O secondo la temperatura presente, ed è possibile così misurare la concentrazione di quest’isotopo del passato (v., infra, δ18O) perché lo si ritrova incorporato nei carbonati dei gusci dei Foraminìferi (v. infra)  i cui resti, vissuti in acque calde o fredde, si sono sedimentati, con il tempo, in rocce; rocce calcaree di cui si può calcolare poi l’età utilizzando, ma solo per un dato periodo, il citato metodo delle decadenza radioattiva di 14C. Oltre a questi, esiste un altro metodo di reperimento di valori assoluti, la magnetostratigrafia, metodo basato sull’analisi dei minerali ferromagnetici (cioè capaci di magnetizzazioni) presenti non solo nelle rocce sedimentarie, ma anche in quelle ignee (v. infra), e qui l’analisi, utile per dedurre i movimenti tettonici della Terra, investe lo studio della successione delle inversioni di polarità, cioè d’orientamento delle linee di forza del campo magnetico terrestre, o campo geomagnetico, che le rocce stesse manifestano come magnetismo residuo e ch’esse conservano nella direzione d’allineamento al campo geomagnetico (v. infra); direzione che si mostra o nella deposizione e compattazione (litificazione) delle rocce sedimentarie (detta magnetizzazione residua detritica) o nel raffreddamento e solidificazione al di sotto d’una data temperatura delle rocce ignee (detta magnetizzazione termoresidua; si ricorda che oltre una certa soglia di calore un materiale magnetico perde questa sua proprietà, detta punto di Curie, ch’è, per esempio, di 578 °C per la magnetite), questo grosso modo a partire dal Triassico e dal Giurassico (cioè a partire da 245 milioni d’anni fa, quando la Pangea si frammenta e, in Gondwana, l’America meridionale inizia a separarsi dall’Africa e inizia la formazione dell’Oceano Atlantico, v. infra), cui consegue un loro riordino cronologico in epoche ed eventi magnetici. Infatti, i minerali ferromagnetici (per esempio, la magnetite, Fe3O4), presentano una magnetizzazione acquisita ch’è proporzionale all’aumento d’intensità del campo geomagnetico tanto che, quando raggiunge un valore massimo, o di saturazione, ne conserva la memoria stabile anche se si rimuove il campo magnetico che l’ha prodotta (e quest’ereditarietà si definisce, se investe le rocce a partire dal Triassico, direzione fossile di magnetizzazione); campo magnetico terrestre che poi ha subito (e subisce tuttora) variazioni che riguardano il senso della direzione delle linee di forza del campo magnetico, e per convenzione la polarità di questo campo si dice normale quando presenta inclinazione positiva nell’Emisfero boreale (definendo positiva la direzione di magnetizzazione verso il basso, cioè verso il Polo Nord magnetico attuale) e inversa quando nello stesso Emisfero l’inclinazione si presenta negativa (dove negativa è detta la direzione di magnetizzazione inclinata verso l’alto e verso il Polo Sud magnetico attuale, tenendo poi presente che questi Poli non coincidono con quelli geografici, ma sono loro prossimi) e la scala cronologica di queste inversioni del campo magnetico che suddividono il tempo geologico in intervalli costanti di tempo con polarità magnetica normale o inversa ci dà, appunto, la sequenza ordinata delle unità di polarità magnetostratigrafica (o magnetozone). La figura seguente mostra a destra la sequenza delle inversioni di polarità dal Triassico al Cretacico (245-66,5 milioni d’anni fa) e quella a sinistra la sequenza dal Pliocene al Pleistocene (5,2-00,1 milioni d’anni fa; il nome qui attribuito alla epoche magnetiche, Gilbert, Gauss, Matuyama e Brunhes, deriva dai nomi dei primi studiosi del paleomagnetismo; all’interno di ciascuna di queste epoche sono poi stati rilevati dei periodi di magnetizzazione opposta a quella dell’epoca di appartenenza, con una durata che va dai 10 000 ai 100 000 anni, detti eventi, in figura non nominati, per esempio, il già citato Olduvai, un evento magnetico normale all’interno dell’epoca magnetica inversa di Matuyama e, sempre in Matuyama, un evento magnetico normale collocabile tra i 940 000 e gli 880 000 anni fa, detto Jaramillo; Olduvai e Jaramillo sono poi nomi di località nella Great Rift Valley, in Africa orientale, sede di fenomeni di ritrovamenti fossiliferi della linea che porta a Homo sapiens, v. infra; la sigla Ma sta poi per milioni d’anni):


Figura n.   . Fonte: Polticelli, 2003, p. 33.


Va da sé che i metodi di datazione sopra indicati sono solo una parte d’una più vasta modalità d’indagine cronologica, qui non illustrata, che va dalla datazione del materiale interstellare a quella dei manufatti preistorici (tra cui si trovano la spettrometria di massa ultrasensibile, la racemizzazione degli aminoacidi, la termoluminescenza, la metodologia dell’Electron Spin Resonance, ESR etc.).