FOSSILIZZAZIONI
Le categorie
tassonomiche che classificano gli organismi in vita (come detto, specie,
genere, famiglia, ordine, classe, phylum
e regno) sono le stesse, s’è visto, che classificano gli organismi fossili. Un
fossile è il resto conservato d’un organismo, animale o vegetale, unicellulare
o pluricellulare che sia, vissuto in tempi geologici, conservazione ch’è solitamente
presente a partire dalle parti più resistenti, quali tessuti fibrosi nella
flora, e nella fauna gusci calcarei o silicei, ossa, denti, scheletri (o, in
condizioni eccezionali, le parti a corpo molle) e presente negli strati della litosfera,
cioè nella crosta terrestre e purché gli strati siano dovuti, in linea
generale, a fenomeni di sedimentazione (v. infra);
si considerano fossili, inoltre, anche le tracce di resti d’attività in vita
(dette ichniti), quali impronte lasciate all’epoca in sedimenti non ancora
consolidati, oggi pietrificati, lo stesso che i segni rimasti a seguito
d’attività di predazione o di residui dell’alimentazione, come gli escrementi fossili,
o coproliti (e la disciplina che studia questi ichnofossili si chiama paleoicnologia).
Lo studio dei fossili permette poi la conoscenza degli organismi scomparsi, la
possibilità d’identificare legami di parentela evolutiva (cioè di ricostruire la
filogenesi dei singoli gruppi), le loro associazioni al fine di ricostruire gli
ecosistemi che li permettono e in che areali, nonché l’evoluzione degli
ambienti stessi in un arco temporale. Va da sé che le informazioni fornite dai fossili,
in quanto riguardano soltanto le tipologie d’organismi dotati di parti resistenti,
sono inevitabilmente parziali (secondo una stima, il rapporto esistente tra
fossili ritrovati e organismi esistiti è di 1 specie su 120 000), e anche se i più antichi
fossili conosciuti risalgono a oltre 3,5 miliardi di anni fa (si tratta delle
Alghe unicellulari che formano le Stromatoliti, v. infra, e di batteri di forma allungata del genere Eobacterium), una documentazione fossile consistente
s’ha solo a partire dal Paleozoico (541-245 milioni di anni fa), quando s’affermarono
i primi organismi non più dotati di solo corpo molle, ma anche di parti
resistenti, e inizialmente propri a organismi marini invertebrati e a Alghe,
successivamente a Vertebrati e a Piante e, eccezionalmente, come detto, a Fossili
con parti molli (e
capaci di mostrare la configurazione d’organi interni o dell’involucro
esterno). Trattandosi in ogni caso di resti reperiti in successioni di strati
sedimentari (o serie stratigrafiche), si valorizzano tra questi specialmente quelli
che mostrano una breve distribuzione verticale e una larga diffusione spaziale (detto
altrimenti, si tratta d’organismi scelti perché presentano un taxon a rapida evoluzione, un notevole
grado d’adattamento ecologico che ne ha permesso una diffusione geografica
estesa, se pure breve in quanto la loro linea filetica legata alla rapida
estinzione è ristretta a un tempo geologico limitato), questo giacché permettono
di meglio definire la successione degli strati e la sincronizzazione fra areali
variamente dislocati sulla superficie della terra, ed è per questo si chiamano
fossili guida (o markers; la
biostratigrafia è poi quella disciplina che ne studia la stratificazione,
laddove un intervallo stratigrafico che porta un contenuto fossilifero che ne permette
la distinzione fra altri è detto biozona); per esempio, sono fossili guida del
Paleozoico le Trilobiti e le Graptoliti (v. infra),
del Mesozoico (245-66,5 milioni d’anni fa) le Ammoniti (v. infra) e per il Cenozoico le Nummuliti (v. infra). Se poi è presente in un bacino sedimentario l’associazione di
resti fossili d’una biocenosi, ossia di fossili e della fauna e della flora
d’epoca (autoctona, cioè propria all’ecosistema originario, e non alloctona,
vale a dire data da organismi che s’aggiungono dopo morti giunti da altri
luoghi, da altre biocenosi, e qui trasportati in qualsivoglia modo), si può come
detto analizzare quest’associazione, detta tanatocenosi, per ricavarne
informazioni sull’ecosistema d’origine, sulla sua diffusione sincronica in
areali geograficamente distanti e sulla sua evoluzione diacronica. Ancora, va
da sé che i processi che portano a questi resti richiedono una precisa
modificazione dell’organismo morto, animale o vegetale che sia, in una
stabilizzazione fossile che si struttura in modo dato nel tempo coinvolgendo
con meccaniche varie le trasformazione biologiche, chimiche e fisiche che
l’organismo è costretto a subire, cioè a un processo di fossilizzazione, e la
prima condizione di questo processo è che l’organismo sia sottratto in modo
repentino all’azione degli agenti biologici e atmosferici (cioè alla
decomposizione biologica, o necrolisi, giacché altrimenti le trasformazioni post-mortem ne prevedrebbero la decomposizione
biologica, cioè la sua completa disgregazione e riutilizzazione), dunque
ricoperto da sedimenti in modo tale che i processi ch’intervengono a seguire
portino l’organismo ad acquisire una stabilità compatibile con il mezzo che l’ingloba
a sé, cioè la possibilità chimico-fisica di poterlo conservare (ed è per questo
che le probabilità ch’un organismo
divenga fossile sono generalmente molto basse e facilitate se questi presenta parti
già parzialmente mineralizzate come i già citati gusci etc. o se il bacino sedimentario che l’accoglie è, per esempio,
marino, nel qual caso la velocità di deposizione dei sedimenti, generalmente
fini e compatti, può superare quella della sua degradazione, ed è anche per
questo che la somma dei fossili marini
supera abbondantemente quella dei fossili terrestri). Una volta che l’organismo
sia poi fossilizzato, si devono in seguito analizzare i processi di
trasformazione fisica e chimica che i sedimenti subiscono nel corso del tempo
(o diagenesi, per esempio, l’azione meccanica di compattazione dei sedimenti, la
solubilizzazione di alcune specie mineralogiche e la ricristallizzazione
d’altre etc.), e la disciplina che
studia l’evolversi delle tappe che portano al fossile, dalla morte
dell’organismo alle trasformazioni diagenetiche dello strato sedimentario che
l’accoglie, si chiama tafonomia. La fossilizzazione, infine, può essere
data da processi di mineralizzazione, in cui le sostanze organiche di cui è
composto l’organismo sono via via sostituite da sostanze inorganiche, generalmente
grazie all’acqua che, filtrando attraverso i sedimenti, lascia all’organismo i
sali che porta disciolti in soluzione (silice, carbonati di calcio, fosfato di
calcio) e che per processi chimici di sostituzione dell’organico in inorganico
risultano così essere mineralizzate (come dire che, a livello molecolare, i
sali si sostituiscono di fatto alle sostanze organiche di cui è costituito
l’organismo modificandone però la composizione chimica); da processi d’incrostazione
dovuti all’acqua che, ricca in bicarbonato di calcio, deposita sugli organismi
cristalli di calcite che formano un calco che ne riproduce la morfologia
esterna; da processi d’inglobamento che isolano l’organismo prima che si
manifesti la necrolisi mantenendone l’integrità, per esempio, se si tratta
d’insetti, pollini etc., la conservazione
nella resina in fase fluida prodotta dagli alberi, cioè nel loro prodotto
fossile, l’ambra delle piante; da processi di riempimento, in cui la
degradazione delle sostanze organiche molli può essere sostituita da materiale
più o meno fine o grossolano, ciò che offre come detto la possibilità di avere
restituita la conformazione interna dell’organismo; da processi di crioconservazione,
in cui l’organismo è inglobato e isolato nel ghiaccio, com’è il caso dei mammuth nel permafrost della tundra siberiana (v. infra); da processi di mummificazione, dovuti alla perdita dei
liquidi (o essiccamento) e alla seguente azione da parte di microrganismi che
portano all’indurimento dei tessuti molli, processo di fossilizzazione, questo,
proprio agli ambienti secchi, caldi e ventilati, quali i deserti; da processi
di carbonizzazione, dove negli organismi vegetali i composti volatili e liquidi
(costituiti da idrogeno, ossigeno e azoto), grazie all’azione fermentante di
microrganismi che operano in carenza di circolazione d’ossigeno, in ambiente
riducente, sono eliminati fino a lasciare un residuo composto principalmente da
carbonio (v. infra).
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