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LA LETTURA DELLE ROCCE

La lettura delle rocce, meglio, delle formazioni sedimentarie si basa sulle facies (faccia; il plurale latino è invariato) ch’esse presentano, cioè sull’insieme di quei caratteri tipici (struttura, minerali contenuti, presenza e natura di fossili etc.) che rimandano alla loro modalità di formazione in un dato ambiente di sedimentazione, per esempio, una formazione con facies palustre si riconosce per la presenza di resti carboniosi (vegetali), mentre una facies marina è indicata dalla presenza di resti organogeni, quali fossili o microfossili, che possono indicarne la profondità, per cui avremo una facies profonda e di mare aperto (o batiale o pelagica), oppure una poco profonda e vicina alla costa (o neritica) etc., o che un’arenaria può avere una facies fluviale o costiera e via classificando. Fatto dunque salvo il fatto che una formazione è un’unità stratigrafica definita dal complesso di rocce caratterizzate da un’uniformità litologica, e per questo distinta dalle unità tra cui risulta compresa, per le formazioni sedimentarie (e salvo le eccezioni) valgono i principi esplicativi d’orizzontalità iniziale, di sovrapposizione, di continuità laterale e d’intersezione. Con l’orizzontalità iniziale ci si riferisce a sedimenti indisturbati, che non hanno cioè subito dislocazioni o alterazioni dovute a movimenti tettonici, che grazie alla forza di gravitazione si sono depositati su superfici grosso modo orizzontali, o tutt’al più con un’inclinazione molto bassa, là dove la loro trasformazione in rocce (il processo di litificazione) non ha comportato modificazioni della formazione originaria e dove pertanto l’ordine delle successioni si mantiene nel corso del tempo; la figura seguente raffigura questo principio (qui, depositi di sedimentazione marini):

Figura n.  . Fonte: van Andel, 1988, p. 26.

Con la sovrapposizione, sempre nelle serie sedimentarie indisturbate, si rimanda alla meccanica di deposizione contigua nello spazio e nel tempo degli strati, grazie alla quale risulta che gli strati bassi sono i primi ad essersi sedimentati, e perciò sono i più antichi, e che man mano che questi s’elevano lo strato che segue è sempre più recente di quella che la precede; la figura seguente raffigura questo principio (qui, depositi di sedimentazione continentali):

Figura n.  . Fonte: van Andel, 1988, p. 26.

Con la continuità laterale s’afferma che inizialmente i sedimenti formano degli strati continui e che le loro facies cambiano soltanto quando cambia l’ambiente di deposizione; se però, per esempio, troviamo che uno degli strati, su un lato, termina bruscamente, si deve ipotizzare che, dopo la sua formazione, si sia verificato un evento perturbante, quale la dislocazione d’una faglia (v. infra), oppure un’erosione in corrispondenza d’una costa o d’una valle fluviale, tanto che questo principio permette di ricostituire strati che in precedenza erano di fatto continui, come mostrano le figure seguenti ch’illustrano la ricostituzione della continuità in una valle (la seconda è fluviale e preceduta da copertura vegetale):

Figura n.  . Fonte: van Andel, 1988, p. 26.


Figura n.  . Fonte: van Andel, 1988, p. 28.

Con il principio d’intersezione s’afferma ch’ogni elemento che taglia, cioè attraversa trasversalmente, una stratificazione di rocce sedimentarie che presenta un’inclinazione diversa è fenomeno più recente delle rocce attraversate, più antiche; la figura seguente mostra questi rapporti di taglio trasversale ricorrendo a un filone, cioè alla posizione di giacitura della roccia eruttiva, dunque a un’intrusione magmatica che sfocia in superficie in un vulcano (nella figura, a), o una faglia (nella figura, d), tanto che il camino (a) è più giovane del primo strato (in figura, b), e gli strati più antichi (in figura, e) lo sono rispetto al camino (a), al primo strato (b) e alla faglia (d), ch’è poi a sua volta più antica della discordanza stratigrafica (la linea ondulata in grassetto, in figura, c; v. infra):


Figura n.  . Fonte: van Andel, 1988, p. 26.

Sempre a livello di principi costitutivi si può poi affermare che procedendo lungo una sequenza di strati orizzontali si possono rilevare dei cambiamenti di facies, come mostra la figura seguente:


Figura n.  . Fonte: van Andel, 1988, p. 28.

Mentre, se gli strati sono inclinati, procedendo in una direzione ci spostiamo in avanti nel tempo, mentre procedendo nella direzione opposta ci muoviamo all’indietro, come mostra la figura seguente:


Figura n.  . Fonte: van Andel, 1988, p. 28.

Ora, sia la stratificazione di rocce sedimentarie data dalla figura seguente:


Figura n.  . Fonte: van Andel, 1988, p. 23.

La lettura delle rocce qui rappresentate, tutte sedimentarie, s’inizia dal basso, dove sono presenti strati di calcare dovuto a deposizione chimica, privi o quasi di fossili marini e senza detriti d’ambienti di costa e fluviali, ciò che suggerisce, nell’ordine, la facies marina, la lontananza dalla terraferma e l’assenza di sbocchi fluviali sulle coste (cioè un clima asciutto); lo strato successivo contiene fossili marini (ostriche, resti fossili dei Molluschi bivalvi del genere Ostrea) e, prima di transitare verso l’altro strato mostra, e più abbondanti, argille e sabbie (cioè sedimentazioni clastiche, coerenti le prime in quanto costituite da minuscoli detriti che si sono accumulati per decantazione in acque marine, incoerenti le seconde perché derivate da processi caotici di degradazione di rocce preesistenti), ciò che nell’ordine, indica l’innalzamento del fondo del mare (giacché le ostriche non vivono né in acque profonde né in mare aperto, ma in ambienti non profondi oltre i 30 m) e la vicinanza a una costa; gli strati successivi presentano arenarie e argilliti (rocce clastiche litificate, le prime, costituite da granuli di sabbia a prevalente composizione non carbonatica, di cui alcune a stratificazioni incrociate, cioè con strati inclinati rispetto allo strato principale; rocce formatesi dal consolidamento di depositi marini d’argilla, le seconde), ciò ch’indica una facies costiera con la presenza occasionale di spiagge sabbiose; quelli successivi presentano argilliti con strati carboniosi (derivate dal consolidamento di depositi lacustri), indice d’una pianura costiera paludosa; gli strati successivi di ghiaia e arenaria presentano una superficie erosa seguita, senza fasi di transizione da stratificazioni di calcare marino, ciò ch’indica una discordanza stratigrafica (mostrata, in figura, dalla linea ondulata in grassetto), cioè una discontinuità nella successione cronologica (detta iato) a causa di un’interruzione nei processi di formazione, indice dunque d’una sequenza d’eventi non documentabile, anche se il tutto delle facies sopra elencate, in ogni caso, è poi leggibile come documentazione di regressioni e trasgressioni marine. Il problema ora si sposta alla domanda se questa variazione del livello marino è stata un fenomeno solo locale o se fa parte d’una fenomenologia più estesa, cioè se le successioni rocciose deposte in uno stesso bacino di sedimentazione si ritrovano anche in bacini adiacenti o in bacini geograficamente distanti tra loro, cioè se sono correlate, e un metodo per risolvere in generale il problema della correlazione è dato, come visto sopra, dalla stratigrafia basata sui fossili e sulle loro associazioni, o biostratigrafia (basata sul principio dell’irreversibilità dei processi evolutivi grazie alla quale un’associazione fossile può essere tipica solo d’un dato periodo e non d’un altro). Per quanto riguarda la valutazione cronologica del passato geologico prendendo in carico le rocce fino ad ora escluse, cioè quelle ignee e metamorfiche, valgano poi le informazioni a seguire.

MISURE CRONOGEOLOGICHE (riscrittura)

La Terra è una macchina termica in cui, al calore presente a partire dalla sua formazione iniziale, si somma quello prodotto dalla radioattività. Come vedremo meglio a seguire, il nucleo d’un atomo è costituito da protoni e neutroni, e il numero dei protoni determina il suo comportamento chimico, che rimane identico anche se, negli isotopi, il numero dei neutroni aumenta; per esempio l’ossigeno ha 8 protoni, ma può presentare 8, 9 o 10 neutroni, dando origine a tre isotopi (v. infra), con 8 protoni e otto neutroni, o 16O,  con 8 protoni e nove neutroni, o 17O e, infine, con 8 protoni e 10 neuroni, o 18O; ora, molti isotopi sono stabili, ma altri no, per cui può capitare che alcuni siano instabili, ossia decadano in altri elementi, per esempio il carbonio ha tre isotopi, due stabili, 12C e 13C, e uno instabile, il 14C, che decade in azoto etc.; gli isotopi che decadono emettono poi delle radiazioni dal nucleo, i raggi α,  β (β-, β+), γ, e sono per questo detti radioattivi, e poiché ogni elemento che si presenta ha degli isotopi, affinché un isotopo presenti un nucleo instabile il suo peso atomico (v. infra) deve essere superiore ad 83. La figura seguente mostra le tre radiazioni; l’isotopo che decade è poi detto madre e quello che ne risulta è detto figlia (qui non s’analizzano le differenze tra le radiazioni):


Figura n.  . Fonte (adattata): van Andel, 1988, p. 41.

Come dire che i minerali presenti in certe rocce della litosfera convertono la loro massa in energia  in modo estremamente efficace, e una percentuale del calore della Terra in quanto macchina termica, per esempio, può essere attribuito proprio al decadimento spontaneo dei minerali presenti in queste rocce, cioè al rilascio d’energia termica (con l’emissione di radiazioni) dovuto al citato fatto che una parte della massa, quella dell’isotopo che decade, si trasforma in energia; ancora, gli elementi radioattivi quando decadono, sempre spontaneamente, subiscono una modificazione nella struttura dei loro nuclei atomici instabili (ch’è data dalla somma di protoni e di neutroni che s’altera), come detto un decadimento radioattivo che permette loro di trasformarsi in un nucleo diverso, proprio a un altro elemento o a un isotopo dello stesso elemento; alcuni decadono poi in un solo passaggio (per esempio, 14C), altri, invece, decadono attraversano una serie di passaggi, o catena, e il processo di decadimento continua finché il nucleo alla fine non diventa stabile; perché il processo sia poi classificato come spontaneo questo decadimento si deve verificare in un tempo che non può superare i 1010 anni, altrimenti il nucleo atomico è ritenuto stabile o il decadimento indotto; il materiale radioattivo inoltre, e quale che sia, per decadere della metà impiega sempre lo stesso tempo (o tempo di dimezzamento o emivita, t1/2), e questo suo valore, ch’indica il numero degli atomi instabili che decade in un cert’arco di tempo, rimanda a un dato statistico, medio, ossia alla metà della sua vita media, con la clausola che, dopo la prima emivita, la seconda è metà della metà della quantità iniziale, cioè un quarto, e via via scalando, come dire che la velocità di decadimento può essere usata come un indicatore temporale (infatti, poiché la quantità d’un elemento radioattivo che si trova in un minerale decade con un tasso costante, è poi possibile ricostruire la durata del tempo intercorso a partire dalla formazione del minerale stesso misurando la quantità dell’isotopo prodotto dal decadimento stesso), come dire, ancora, che conoscendo la quantità di radioattività presente in un materiale e la sua emivita, se ne può calcolare l’età indipendentemente dai fattori propri all’habitat che lo ospita (quali le condizioni di pressione, temperatura, magnetismo o d’ambiente chimico, cioè le facies di cui sopra). L’emivita può poi presentarsi con valori che vanno dall’ordine del microsecondo a quello paragonabile all’età della Terra, per cui per il tramite dello studio delle rocce, della loro struttura e composizione, è possibile definire i tempi dell’evoluzione della Terra e mettere tra loro in correlazione configurazioni geologiche di rocce ignee, metamorfiche e sedimentarie avvenute in zone fra loro anche molto lontane dal punto di vista geografico. Per esempio, presenti in molti minerali della litosfera si trovano isotopi radioattivi come quelli dell’uranio 238 (238U), che hanno un’emivita dell’ordine di 4,510 miliardi d’anni (t1/2=4,510x109), e sono utilizzati per le datazioni geologiche di materiale inorganico (ossia, rocce), mentre sono utilizzati per la datazione di materiali organici, quali conchiglie, ossa, legni fossili, semi o manufatti con età compresa tra 1 000 e 70 000 anni etc., e risalenti a non più di 50-70 mila anni fa, gli isotopi radioattivi del carbonio 14 (14C), che presentano un’emivita di 5730 ±40 anni  in quanto, dopo 8 emivite, rimane solo lo 0,39% del carbonio radioattivo originale, cioè una quantità irrisoria per consentire misurazioni attendibili. Da sottolineare che questo livello di 14C presente in un organismo vivente, flora o fauna che sia, s’è formato e si forma nell’alta atmosfera dove i raggi cosmici, composti per la maggior parte di nuclei d’atomi d’idrogeno, producono, grazie alla collisione/trasformazione continua dell’azoto colpito dai raggi, il carbonio 14, 14C; questo, in combinazione con l’ossigeno, dà luogo a diossido di carbonio radioattivo, 14CO2 (presente in modo costante nell’atmosfera grazie all’equilibrio di 14C che decade e 14C che, come detto, si forma in continuazione), ch’è stata assimilata dagli organismi viventi, autotrofi e eterotrofi (v. infra) grazie ai cicli della loro attività metabolica, vuoi d’origine fotosintetica (infatti, la fotosintesi clorofilliana, v. infra, utilizza il diossido di carbonio atmosferico per costruire le sostanze organiche, le quali contengono 14C non radioattivo nella stessa proporzione con cui lo contiene il 14CO2 utilizzato), vuoi attraverso la catena alimentare (per esempio, la stessa proporzione citata di 14C, presente nel 14CO2 utilizzato dalle piante sulla terraferma, è presente negli erbivori che si nutrono delle piante e nei carnivori che si cibano di erbivori, lo stesso vale negli oceani etc.); vale a dire che il livello di 14C è uguale a quello presente nell’ambiente, o serbatoio di scambio, in cui l’organismo (flora, fauna) ha vissuto; dopo la sua morte, mentre il carbonio 12, 12C, in quanto stabile rimane costante, il carbonio 14, 14C, comincia a decadere con un tasso pari a quello sopra citato trasformandosi in azoto e senza che il carbonio dell’ecosistema in cui l’organismo ha vissuto possa essere reintegrato nel processo della sua evoluzione necrotica, tanto che la sua radioattività rivela qual è il tempo trascorso dalla sua morte (questo in linea di massima, cioè salvo contaminazioni dei campioni usati). Con questo metodo si scoprono così in modo assoluto (cioè con una datazione fondata su procedure fisico-chimiche) le varie età della Terra sopra delineate (le rocce) e gli accidenti ch’essa ha ovviamente presentato (le biocenosi e le tanatocenosi). E, per continuare e precisare l’esempio sopra iniziato, valgano per la datazione delle rocce il decadimento del samario 147, 147 Sm, in neodimio 143, 143Nd, con un’emivita di 106 000 milioni d’anni; quello del rubidio 87, 87Rb, in stronzio 87, 87Sr, con un’emivita di 47 000 milioni d’anni (usato per la datazione dei graniti); quello del torio 232, 232Th, in piombo 208, 208Pb, con un’emivita di 13 900 milioni d’anni; dell’uranio 238, 238U, in piombo 206, 206Pb, con un’emivita di 4 510 milioni d’anni (molto utilizzato); del potassio 40, 40K, in argon, 40Ar, che ha un’emivita di 1 300 milioni d’anni (usato per la datazione dei basalti, questo fatto salvo che la roccia che lo contiene non sia stata esposta a temperature superiori a 125 °C, perché in questo caso la fuga d’argon lascia determinare soltanto l’ultimo episodio di riscaldamento ch’essa ha subito); dell’uranio 235, 235U, in piombo 207, 207Pb, con un’emivita di 713 milioni d’anni o dell’uranio 238, 238U, nel torio 230, 230Th, con un’emivita di 80 000 anni, usato per datare i sedimenti marini, questo perché il 238U presente nei mari decade in  230Th e precipita nei sedimenti dei fondali permettendo, con la sua concentrazione, di ricostruirne l’età, e altri decadimenti ancora. Questi valori ci danno poi la datazione assoluta (differenti dai valori delle datazioni relative che si basano sul solo studio degli strati delle rocce sedimentarie, organogene o meno, e sul reperimento negli strati di fossili guida, nel qual caso questi valori non sono numerici in quanto permettono soltanto d’affermare la consequenzialità cronologica degli strati, e sempre che non siano intervenuti fenomeni tettonici di disturbo della sequenza stratigrafica, cioè che uno strato, o un fossile guida ch’è qui contenuto, sia o più antico o più recente nei confronti d’un altro che lo precede o lo segue), datazione che oggi si classifica come datazione radiometrica, e l’attendibilità di questi valori e legata a un margine d’oscillazione (range) in anni dovuto al fatto che la misura è statistica, detto margine d’errore, che presenta valori in più o in meno rispetto al valore dato ), e lo standard d’accettabilità di questo errore dipende dall’età del reperto, per esempio, nel caso di rocce del Cenozoico il margine è  100 000 anni, mentre è già d’alcuni milioni d’anni nel Mesozoico e via via che ci s’allontana per arrivare al Precambriano il margine d’errore si dilata ulteriormente, anche se s’accetta che alcune rocce reperite in Groenlandia risalgano a 3 700 milioni di anni fa, mentre per altre rocce, presenti nella parte Nordorientale della baia di Hudson, in Canada, manca l’accordo sull’età, che varia così da 3 800 a 4 400 milioni d’anni fa. Si sottolinea a questo punto che se è relativamente facile situare le rocce sedimentarie al loro posto nella geocronologia utilizzandone le formazioni e le biozone, s’incontrano invece notevoli difficoltà con le rocce ignee e metamorfiche che non possono contenere fossili, e che pertanto la datazione con isotopi, pur nei suoi limiti, è quasi esclusivamente l’unica possibile per dare loro un’età e collocarle all’interno della storia della Terra. Oltre al reperimento degli isotopi instabili per datare le rocce, si usa quello degli isotopi non instabili dell’Ossigeno (18O:16O) per reperire la storia degli oceani e dell’atmosfera; per esempio, le variazioni delle temperature dell’aria e della superficie degli oceani, l’estensione nello spazio e nel tempo delle ere glaciali, i vari livelli in percentuale dell’ossigeno presente nell’atmosfera e nei mari, sono possibili grazie agli isotopi stabili dell’ossigeno 16, 16O, e dell’ossigeno 18, 18O (ossia al rapporto ch’esiste tra un isotopo stabile dell’ossigeno, 18O, e l’ossigeno ordinario, 16O, ch’è all’incirca di 1 a 500), che s’accumulano a differenti velocità secondo di quanto ossigeno o diossido di carbonio sono presenti nell’atmosfera o nei mari e che, messi a confronto nei loro diversi tassi di deposito nelle rocce calcaree prodotte dalla sedimentazione dei gusci degli organismi presenti sul fondo degli oceani, o planctonici, permettono ai geochimici di decifrare i citati accidenti del passato e molto altro ancora (gusci, questi, costruiti dagli organismi con il carbonato di calcio, CaCO3, ottenuto combinando l’ossigeno estratto dall’atmosfera con il carbonio). Il rapporto isotopico 18O:16O s’usa, infatti, perché quando l’acqua evapora dagli oceani, evapora più facilmente l’isotopo meno pesante, 16O, rispetto a quella dell’isotopo più pesante, 18O, e l’acqua che resta negli oceani contiene pertanto, secondo le variazioni apportate o meno dal ciclo idrologico, più o meno 18O secondo la temperatura presente, ed è possibile così misurare la concentrazione di quest’isotopo del passato (v., infra, δ18O) perché lo si ritrova incorporato nei carbonati dei gusci dei Foraminìferi (v. infra)  i cui resti, vissuti in acque calde o fredde, si sono sedimentati, con il tempo, in rocce; rocce calcaree di cui si può calcolare poi l’età utilizzando, ma solo per un dato periodo, il citato metodo delle decadenza radioattiva di 14C. Oltre a questi, esiste un altro metodo di reperimento di valori assoluti, la magnetostratigrafia, metodo basato sull’analisi dei minerali ferromagnetici (cioè capaci di magnetizzazioni) presenti non solo nelle rocce sedimentarie, ma anche in quelle ignee (v. infra), e qui l’analisi, utile per dedurre i movimenti tettonici della Terra, investe lo studio della successione delle inversioni di polarità, cioè d’orientamento delle linee di forza del campo magnetico terrestre, o campo geomagnetico, che le rocce stesse manifestano come magnetismo residuo e ch’esse conservano nella direzione d’allineamento al campo geomagnetico (v. infra); direzione che si mostra o nella deposizione e compattazione (litificazione) delle rocce sedimentarie (detta magnetizzazione residua detritica) o nel raffreddamento e solidificazione al di sotto d’una data temperatura delle rocce ignee (detta magnetizzazione termoresidua; si ricorda che oltre una certa soglia di calore un materiale magnetico perde questa sua proprietà, detta punto di Curie, ch’è, per esempio, di 578 °C per la magnetite), questo grosso modo a partire dal Triassico e dal Giurassico (cioè a partire da 245 milioni d’anni fa, quando la Pangea si frammenta e, in Gondwana, l’America meridionale inizia a separarsi dall’Africa e inizia la formazione dell’Oceano Atlantico, v. infra), cui consegue un loro riordino cronologico in epoche ed eventi magnetici. Infatti, i minerali ferromagnetici (per esempio, la magnetite, Fe3O4), presentano una magnetizzazione acquisita ch’è proporzionale all’aumento d’intensità del campo geomagnetico tanto che, quando raggiunge un valore massimo, o di saturazione, ne conserva la memoria stabile anche se si rimuove il campo magnetico che l’ha prodotta (e quest’ereditarietà si definisce, se investe le rocce a partire dal Triassico, direzione fossile di magnetizzazione); campo magnetico terrestre che poi ha subito (e subisce tuttora) variazioni che riguardano il senso della direzione delle linee di forza del campo magnetico, e per convenzione la polarità di questo campo si dice normale quando presenta inclinazione positiva nell’Emisfero boreale (definendo positiva la direzione di magnetizzazione verso il basso, cioè verso il Polo Nord magnetico attuale) e inversa quando nello stesso Emisfero l’inclinazione si presenta negativa (dove negativa è detta la direzione di magnetizzazione inclinata verso l’alto e verso il Polo Sud magnetico attuale, tenendo poi presente che questi Poli non coincidono con quelli geografici, ma sono loro prossimi) e la scala cronologica di queste inversioni del campo magnetico che suddividono il tempo geologico in intervalli costanti di tempo con polarità magnetica normale o inversa ci dà, appunto, la sequenza ordinata delle unità di polarità magnetostratigrafica (o magnetozone). La figura seguente mostra a destra la sequenza delle inversioni di polarità dal Triassico al Cretacico (245-66,5 milioni d’anni fa) e quella a sinistra la sequenza dal Pliocene al Pleistocene (5,2-00,1 milioni d’anni fa; il nome qui attribuito alla epoche magnetiche, Gilbert, Gauss, Matuyama e Brunhes, deriva dai nomi dei primi studiosi del paleomagnetismo; all’interno di ciascuna di queste epoche sono poi stati rilevati dei periodi di magnetizzazione opposta a quella dell’epoca di appartenenza, con una durata che va dai 10 000 ai 100 000 anni, detti eventi, in figura non nominati, per esempio, il già citato Olduvai, un evento magnetico normale all’interno dell’epoca magnetica inversa di Matuyama e, sempre in Matuyama, un evento magnetico normale collocabile tra i 940 000 e gli 880 000 anni fa, detto Jaramillo; Olduvai e Jaramillo sono poi nomi di località nella Great Rift Valley, in Africa orientale, sede di fenomeni di ritrovamenti fossiliferi della linea che porta a Homo sapiens, v. infra; la sigla Ma sta poi per milioni d’anni):


Figura n.   . Fonte: Polticelli, 2003, p. 33.


Va da sé che i metodi di datazione sopra indicati sono solo una parte d’una più vasta modalità d’indagine cronologica, qui non illustrata, che va dalla datazione del materiale interstellare a quella dei manufatti preistorici (tra cui si trovano la spettrometria di massa ultrasensibile, la racemizzazione degli aminoacidi, la termoluminescenza, la metodologia dell’Electron Spin Resonance, ESR etc.). 
TIPOLOGIA DELLE ROCCE

Valga la seguente casistica delle rocce (di cui, a seguire, si riprenderanno e approfondiranno alcuni aspetti). In genere, le rocce sono composte o da un solo minerale (rocce omogenee, per esempio, i calcari costituiti dal solo carbonato di calcio, o calcite, CaCO3) o da più minerali (rocce eterogenee, la maggioranza); per classificarle s’usa solitamente il criterio delle modalità con cui si sono formate o assemblate (litogenesi, o petrogenesi). Alcune rocce, infatti, cristallizzano a partire da una massa di minerali fusi che proviene dall’interno della Terra (oltre ai gas, la natura della miscela è prevalentemente silicatica, cioè contenente silicio e ossigeno associati ad altri elementi, quali alluminio, ferro, manganese, magnesio, calcio etc.) e sono dette ignee; se i minerali fusi si fermano prima di risalire in superfice prendono il nome di magma, e si parla di litogenesi magmatica; se invece fuoriescono in superficie prendono il nome di lava, e si parla di litogenesi lavica); nel primo caso il magma si raffredda tra le rocce incassanti che l’accolgono nelle profondità della Terra e le rocce ignee sono dette intrusive (o plutoniche) e, poiché il raffreddamento è lento, sono composte di cristalli a grana grossa, di dimensioni apprezzabili, per esempio, il granito, il tipo più comune, presente nelle croste continentali (v. infra) è una roccia ignea intrusiva, come le dioriti, i gabbri e le peridotiti; nel secondo caso, quando le rocce fuse fuoriescono invece alla superficie, in modo eruttivo o non eruttivo, e perdono le componenti gassose a causa della diminuzione della pressione, cioè si presentano sotto forma di lava con un’uscita detta a giorno, sia subaerea, ossia sulla crosta terrestre, o subacquea, sui fondali marini (con una temperatura tra gli 800 e i 1200 °C), il raffreddamento è più rapido e le rocce ignee sono a grana fine (addirittura, causa l’alta viscosità, allo stato vetroso) e sono dette vulcaniche (modalità eruttiva) o effusive (modalità non eruttiva), per esempio, l’ossidiana o il basalto, il tipo più conosciuto, presente nei fondali oceanici e che solidifica in prossimità delle dorsali (v. infra), ma anche le rioliti e le andesiti sono rocce ignee effusive (e la pómice, affine al basalto, è poi l’unica roccia in grado di galleggiare sull’acqua). Altre rocce sono dette sedimentarie (queste ricoprono la litosfera per ca. l’80%, ma il loro volume non supera 1/20 di quello della crosta nel suo insieme), questo se si sono invece formate grazie all’accumulo per sedimentazione e alla compattazione e cementazione dei detriti, o diàgenesi dati dalla disgregazione esogena di rocce preesistenti (detriti, o clasti, che potranno rimanere in loco o essere trasportati e disseminati), per esempio, le areniti (cioè le sabbie d’origine fluviale) e le argille sono rocce sedimentarie clastiche; oppure i frammenti derivano dalla sedimentazione di gusci o scheletri d’organismi, vegetali o animali, una volta viventi, e queste rocce sedimentarie sono dette organogene, e ne sono esempio calcari, diatomiti, ligniti, asfalti, bitumi e petrolio. Per inciso, con diagenesi s’intende l’insieme dei processi di trasformazione fisico-chimica (costipazione, cementazione, dissoluzione e ricristallizzazione) che i sedimenti subiscono in un decorso temporale, sia da parte dell’agente di sedimentazione, generalmente l’acqua, sia per azione di carico da parte dei sedimenti sovrastanti, oppure per scambi chimici in profondità legati alla presenza di acque interstiziali, ciò che permette di passare da un iniziale stato incoerente a una compattezza simile a pietra, o litoide; per esempio, è così che dalle sabbie si formano le arenarie, dalle ghiaie i conglomerati, dall’argilla l’argillite o dalle ceneri e dai lapilli vulcanici i tufi. Altre rocce derivano da un processo di precipitazione per via chimica di una sostanza inorganica da un’altra (che si trova in soluzione salina o colloidale e le cui acque si sono saturate di quello che sarà il precipitato finale della sostanza), quali, per esempio, dolomie, travertini, selci, salgemma, lateriti, e queste sono rocce sedimentarie chimiche (esistono però anche precipitati d’origine organica sui fondali marini la cui formazione è dovuta a meccanismi biochimici implementati da microrganismi); altre rocce, se provenienti dalla disgregazione di rocce eruttive, come le pozzolane e i tufi, sono invece dette rocce sedimentarie piroclastiche; tutte queste rocce sedimentarie presentano poi il fenomeno della successione per sovrapposizione orizzontale di strati di spessore variabile pressoché paralleli, o stratificazione, che ne registra uno spaccato che mostra l’evolversi del regime di sedimentazione, della composizione materiale e della formazione diacronica (ed è qui, in queste stratificazioni, che è poi possibile reperire i fossili), Infine, se le rocce preesistenti (ignee, sedimentarie o già metamorfiche che siano) sono prodotte dall’innalzamento della temperatura e/o della pressione cui sono state sottoposte in seguito a intrusioni magmatiche o a dislocazioni sotterranee della crosta terrestre (per esempio, ai margini delle placche), cioè presentano trasformazioni nella loro struttura e composizione mineralogica (però senza arrivare alla fusione, ciò che distingue le rocce ignee rispetto a quelle metamorfiche), queste sono classificate come rocce metamorfiche e la loro tipologia dipende dal tipo di roccia metamorfizzata e dai gradienti di pressione e temperatura che danno origine al processo. Le rocce ignee, sedimentarie e metamorfiche, che possono tra loro convivere, si trasformano poi incessantemente l’una nell’altra, per esempio una porzione di roccia metamorfica sottoposta a temperature ancora più alte di quella che l’hanno formata, può fondere e ritornare allo stato di magma che, raffreddato, può diventare roccia ignea effusiva; questa, a sua volta sottoposta ad agenti erosivi e trasportata e depositata in altro luogo può compattarsi e cementarsi con altri clasti dando luogo a strati di rocce sedimentarie, rocce che a causa d’un evento catastrofico possono poi sprofondare ed essere sottoposte ad alte pressioni e temperature e trasformarsi in rocce metamorfiche etc.; e va da sé che le trasformazioni continue delle rocce, o per fattori esogeni (atmosferici) o endogeni (tellurici, orogenetici, eruttivi) o fisici (pressione, temperatura) o chimici (per esempio, con la sostituzione degli ioni presenti nella soluzione acquosa che s’infiltra con gli ioni del minerale, con la conseguente ricristallizazione), richiedono tempi di riciclo dei materiali che sono geologici, tanto che, più che di tipologia delle rocce, bisognerebbe parlare di veri e propri cicli litogenetici; la figura seguente mostra i possibili percorsi di questo ciclo:


Figura n. , Fonte: Cavalli Sforza e Cavalli Sforza, 2010b, p. 76.

La tabella seguente riassume la tipologia delle rocce sopra presentata:

TIPOLOGIA DELLE ROCCE
LITOGENESI
ESEMPLIFICAZIONE DI MASSIMA
IGNEE
MAGMATICA (SOLIDIFICAZIONE NELLA PROFONDITÀ DELLA TERRA; INTRUSIVA)
GRANITO
LAVICA (SOLIDIFICAZIONE SULLA SUPERFICIE DELLA TERRA O DEI FONDALI MARINI; EFFUSIVA)
OSSIDIANA, BASALTO
SEDIMENTARIE
CLASTICA
ARENARIA, ARGILLITE
CHIMICA
SALGEMMA
ORGANOGENA
CALCARE, CARBONE FOSSILE [1]
PIROCLASTICA
TUFI
METAMORFICHE
TERMICA/PRESSORIA [2]
[1] Il carbone fossile presenta però la commistione tra una fase organogena e una chimica.
[2] Qualsiasi tipo di roccia può trasformarsi in roccia metamorfica.

Tabella n.  .

Si ricorda che le rocce presenti sulla superficie terrestre, dal punto di vista chimico, sono principalmente composte da ossidi (poco più del 99%), mentre la percentuale restante è formata da cloruri, solfuri e fluoruri; la tabella seguente riporta gli ossidi presenti nella crosta terrestre:

OSSIDI
% IN PESO
FORMULA CHIMICA
DIOSSIDO DI SILICIO
59,71
SiO2
TRIOSSIDO D’ALLUMINIO
15,41
Al2O3
OSSIDO DI CALCIO
  4,90
CaO
OSSIDO DI MAGNESIO
  4,36
MgO
OSSIDO DI SODIO
  3,55
Na2O
OSSIDO DI FERRO
  3,52
FeO
OSSIDO DI POTASSIO
  2,80
K2O
TRIOSSIDO DI FERRO
  2,63
Fe2O3
DIOSSIDO D’IDROGENO (ACQUA)
  1,52
H2O
DIOSSIDO DI TITANIO
  0,60
TiO2
PENTOSSIDO DI FOSFORO
  0,22
P2O5
TOTALE
99,22


Tabella n.  . Fonte: Balzani, Venturi, 2014, p. 79.

IL PALEOCLIMA (riscrittura)

Sopra se n’è accennato, ma s’osservi ora la figura seguente che mostra in dettaglio come s’è manifestato il clima, per ere e periodi, dall’origine della Terra a oggi:


Figura. n. . Fonte: Behringer, 2013, p. 38.

Guardando ai picchi di freddo, si noterà che di questi ne sono avvenuti parecchi, per esempio, come sopra accennato, nel Precambriano si riconoscono più epoche, la prima, detta Huroniana, avvenuta tra 2700 e 1800 milioni di anni fa e, a seguire, la Gnejsö, presenta ca. 910 milioni di anni fa (altri dice 950 milioni d’anni fa); la Sturziana, presente 770 milioni di anni fa e, infine, la glaciazione Varanger, datata 615 milioni di anni fa (altri dice 650 milioni d’anni fa); del Precambriano si ricorda la particolare gravità della glaciazione Varanger che ha portato la Terra a essere una vera e propria palla di neve (o Snowball Earth) a causa di un calo dell’irradiazione solare (diminuita, rispetto a oggi, del 6%), fenomeno che ha portato a una rapida glaciazione rinforzata anche dall’effetto albedo dei ghiacci (v. infra) che ha portato le temperature a -50 °C e a ricoprire la Terra di uno spessore di ghiaccio di ca. 1 km (tanto che si parla, per quest’arco temporale, di Criogeniano, o Cryogenian, dal greco κρύος, freddo, gelo), periodo che corrisponde all’estinzione parziale dei Batteri nei mari (si presume che le specie batteriche sopravvissute si siano adattate ad ambienti situati in prossimità di fonti di calore e d’energia, per esempio le bocche idrotermali nei fondali dell’Oceano); spessore ch’è poi retrocesso secondo ragioni che non si comprendono appieno, salvo ipotizzare ch’enormi volumi di diossido di carbonio emessi nell’atmosfera dalle eruzioni vulcaniche non abbiano generato un effetto serra sufficiente a impedire l’effetto albedo, cioè a riscaldare l’atmosfera e sciogliere i ghiacci (ciò che coincide, in ogni caso, con l’evolversi estremamente rapido della biodiversità, v. infra); dopo 570 milioni d’anni fa, nel Cambriano, tra il 570 e i 225 milioni d’anni fa (nell’era Paleozoica), sono presenti altri due picchi, nell’Ordoviciano ca. 430 milioni d’anni fa e nel Permo-Carbonifero, tra 330-250 milioni di anni fa, ch’è meglio conosciuta perché ha lasciato estesi depositi di tilliti in tutta la Pangea, in particolare nel Gondwana meridionale (precisamente in Sud Africa e Brasile; le tilliti sono conglomerati rocciosi dalla struttura caotica, cioè eterogenea per dimensioni e struttura chimica, che si ritrovano immersi in una matrice d’argilla e limo e non sono altro che depositi sedimentari accumulati dai ghiacciai alla fine del loro percorso e possono raggiungere i 1000 m e passa d’altezza), finché, tra i 250 e 25,2 milioni d’anni fa, nell’era Mesozoica, questi picchi glaciali sono assenti, salvo, infine, a presentarsi nel Cenozoico, ca. 55 milioni d’anni fa, un’instabilità climatica che porta ad un raffreddamento globale, che investe anche le acque fredde dei fondali (fenomeno che si manifesta per la prima volta, con una diminuzione della temperatura di 10 °C), e che si mostra ancora più rigido a partire da 35 milioni d’anni fa, probabilmente quando, a causa della diminuzione del diossido di carbonio, CO2, nell’atmosfera al di sotto della soglia critica di 400 ppm, la forzatura (o forcing) astronomica innesca i cicli glaciali (v. infra); specificamente, si va a formare l’attuale calotta glaciale antartica a partire dal Miocene, 25,2-5,2 milioni d’anni fa, mentre nel Pliocene, 5,2-1,6 milioni d’anni fa, si sviluppa invece la calotta glaciale artica). La figura seguente mostra il rapporto tra il decorso temporale e l’andamento delle temperature in relazione alla formazione delle calotte glaciali ai Poli; i valori delle temperature sono dati come legati ad un calcolo basato sulle parti per mille, ‰, del rapporto fra gli isotopi stabili 18O:16O (o δ18O, dove δ sta per differenza di concentrazione in relazione a un valore standard noto), che s’analizzano nei campioni di gusci di carbonato di calcio dei Foraminiferi planctonici, CaCO3, organismi che usano l’ossigeno presente nell’acqua per costruire i loro gusci, recuperati con trivellazioni dei sedimenti oceanici (o carotaggi, che possono effettuarsi anche nei ghiacci, questo prelevando in profondità campioni di ghiaccio, detti carote, o long cores); valori positivi di δ18O indicano poi che il campione contiene più 18O rispetto allo standard di riferimento, mentre valori negativi significano il contrario, e questi valori di δ18O sono poi usati come sostituti delle temperature presenti nelle acque profonde; questo perché, essendo le molecole d’acqua contenenti ossigeno leggero, H2O16, e rispetto a quelle contenenti ossigeno pesante H2O18, tendenti ad evaporare più facilmente, dunque a entrare nel ciclo idrologico (v. infra) e quindi a ritornare nel mare arrivando così ad equilibrare il rapporto 18O:16O, cosa che non capita se l’isotopo leggero 16O evapora, ma è bloccato e trattenuto dal ghiaccio di superficie o dalle calotte glaciali, nel qual caso non entra nel ciclo idrologico per cui le acque profonde sono più ricche dell’isotopo pesante 18O, cioè le temperature dei fondali sono più basse rispetto alla normalità dell’equilibrio; è stato poi calcolato che i due fattori che producono un maggiore indice nel rapporto 18O:16O, cioè temperature più basse delle acque dei fondali e volumi di ghiaccio maggiori, presentano un’influenza di ca. il 60% per quanto riguarda le temperature delle acque e del 40% per quanto pertiene al volume dei ghiacci (e per inciso, si sottolinea che l’isotopo 16O è il più abbondante sulla Terra, pari al 99,76% degli isotopi stabili dell’ossigeno, che sono tre, 16O, 17O e 18O, quest’ultimo presente per lo 0,2%); nella figura si noterà che questi valori positivi di δ18O, pari a una diminuzione delle temperature, tendono nel corso del tempo ad aumentare ed equivalgono alla formazione delle calotte glaciali:


Figura n.   . Fonte: Sardella, 2011, p. 19.

Prima dell’inizio del Quaternario, all’altezza di 2,75 milioni d’anni fa (nel Pliocene), le fasi di raffreddamento s’intensificano e, a partire da allora, il clima presenta una ciclicità tra fasi fredde e fasi calde, come mostrano le oscillazioni dei valori di δ18O nella seguente figura, relative agli ultimi 5 milioni d’anni (e legate a cicli di Milancović, v. infra) di 23 000 anni, 41 000 anni e 100 000 anni: 

Figura n.   . Fonte: Sardella, 2011, p. 20.

Questa figura, invece, mostra la dinamica dei cicli glaciali e interglaciali in dettaglio e relativamente agli ultimi 850 000 anni (da ricordare che cicli glaciali e interglaciali costituiscono, sommati tra di loro, un’era glaciale o Eiszeit):


Figura. n. . Fonte: Behringer, 2013, p. 49.

Questi picchi, sommati cronologicamente tra loro, mostrano che le epoche di ghiaccio permanente ai Poli e sulle montagne più alte, cioè le ere glaciali, globalmente, rappresentano solo il ca. 5% della storia della Terra, giacché i periodi detti interglaciali, ossia quelli che sono tra una glaciazione e l’altra, mostrano un clima ch’è molto, ma molto più caldo di quello di oggi, e che questa è la normalità per la Terra, ossia il 95% della sua storia. La figura seguente mostra, legati alla dinamica delle placche e delle terre emerse, i periodi con presenza/assenza d’eventi glaciali nella storia della Terra (il punto interrogativo segnala ipotesi non sufficientemente documentate):


Figura n.   . Fonte: Sardella, 2011, p. 16.

In sé e per sé, un ciclo glaciale è dato da un inizio, detto anaglaciale, da un seguito di fasi oscillanti di glaciazione che presentano poi un acme e da una fase finale di ritiro dei ghiacciai, detta cataglaciale, mentre la transizione da un periodo glaciale a uno interglaciale è detta terminazione (l’evolversi delle fasi glaciali è poi lento, distribuito cioè su un lungo arco temporale, mentre, al contrario, la deglaciazione è relativamente veloce, probabilmente per il ruolo di rinforzo svolto dai gas serra presenti nell’atmosfera). Ora, nel solo Quaternario si sono presentati 17 cicli glaciali e il grafico seguente (da leggersi da destra a sinistra), mostra la durata, che s’è presentata nel Pleistocene, dell’ultimo ciclo tra i citati 17; nello specifico, situa la fine dell’ultimo interglaciale di quest’ultima grande glaciazione ca. 125 000 anni fa (A); dopo questo picco di caldo, si presenta una fase di freddo, con strati di ghiaccio che spesso raggiungono i 2 km, il cui massimo si ha ca. 60 000 anni fa (B; quando compare in Europa Homo neanderthalensis), cui segue ancora un periodo tendente verso il caldo (C, ed è passato il massimo picco da una ventina di migliaia di anni quando compare in Europa, ca. 30-35 000 anni fa, in un clima freddo, ma secco, Homo sapiens); si ha poi una fase di freddo che presenta il suo picco massimo attorno a ca. 18 000 anni fa (D, detta Würm IV) e ci si avvia, nel corso di poche migliaia di anni, verso un rapido aumento delle temperature (E). Siamo nell’Olocene (12 000 anni fa), all’instaurarsi del clima mite nel quale tutt’oggi viviamo (E; v. infra):


Figura. n. . Fonte: Vittori, 2007, p. 24.

Per quanto riguarda la causa delle glaciazioni, essa è in prima istanza legata alla posizione della Terra nello spazio, posizione ch’è il risultato d’una composizione di moti complessa che presenta caratteristiche e periodicità fra loro differenti, vale a dire al moto orbitale eccentrico, o rivoluzione, intorno al Sole, che si presenta prima come ellittico, poi quasi circolare e, infine, nuovamente ellittico, questo grazie all’attrazione gravitazionale dovuto a Giove e Saturno. Intervengono anche il moto di rotazione intorno al proprio asse della Terra, ch’avviene al contrario del moto apparente del Sole (cioè da Occidente a Oriente), il fatto che l’asse terrestre presenta poi variazioni dell’inclinazione rispetto alla perpendicolare del piano dell’orbita e, sempre legati all’inclinazione dell’asse terrestre, i moti di spostamento (o precessione) e le nutazioni, legati questi ultimi all’attrazione gravitazionale del Sole e della Luna (v. infra); per finire, la Terra è legata al moto del sistema solare (e al moto di recessione della galassia cui appartiene il sistema solare, la Via Lattea). Ora, prima di parlare della periodicità di questi moti, sono necessarie alcune precisazioni di alcuni termini usati in astronomia al fine di capire cosa c’è in gioco. Abbiamo visto che l’Equatore è una linea immaginaria che traccia una circonferenza sulla superficie della Terra che, in quanto equidistante dai Poli, la divide in un Emisfero boreale e Emisfero australe; il piano dell’Equatore è poi questo cerchio che presenta il diametro maggiore che passa per il centro della Terra ed è perpendicolare all’asse di rotazione della Terra. Se con sfera celeste s’intende una sfera immaginaria al cui centro è situata la Terra, l’Equatore celeste diventa il cerchio massimo determinato dall’intersezione del piano dell’Equatore terrestre con la detta sfera celeste; in questa sfera il cammino circolare (apparente) descritto dal Sole nel suo moto relativo intorno alla Terra è detto eclittica, e il piano di quest’eclittica ch’interseca l’equatore celeste arriva a formare con il piano equatoriale un angolo pari a ca. 23° 27’ 8’’ (e il tutto è detto obliquità dell’eclittica); la retta che passa poi per il centro dell’eclittica ed è a essa perpendicolare, è detta asse dell’eclittica e le intersezioni dell’asse dell’eclittica con la sfera celeste sono dette poli dell’eclittica (asse attualmente orientato verso la Stella Polare, o Polo celeste). La figura seguente mostra l’equatore celeste e l’eclittica (là dove il Sole passa poi davanti alle 12 costellazioni dello Zodiaco):


Figura n.   . Fonte: Herrmann, 1975, p. 30.

La figura seguente, invece, semplifica quanto detto con la sola indicazione del grado d’obliquità dell’eclittica:


Figura n.    . Fonte: Astori et alii, 2010, p. 198.

I punti in cui quest’eclittica interseca l’equatore celeste sono due e sono detti equinozi (e linea equinoziale quella che li unisce), e il primo si presenta quando il Sole, nel suo moto ascendente di trapasso dall’Emisfero boreale a quello Australe, forma un’intersezione detta equinozio di primavera (o vernale o punto γ, ch’è usato come punto di riferimento); il secondo s’ha quando nel suo moto discendente trapassa dall’Emisfero australe a quello Boreale e forma un’intersezione ch’è detta equinozio d’autunno (per inciso, i punti dell’eclittica più lontani dall’equatore celeste, che si trovano all’incirca a metà del percorso tra i due equinozi, sono detti solstizi, rispettivamente d’estate e d’inverno). In quest’insieme, l’asse di rotazione terrestre subisce uno spostamento e compie nel corso del tempo un movimento rotatorio intorno al polo dell’eclittica ch’è definito come precessione (e che, se si riuniscono tutti i movimenti dell’asse terrestre, presenta una doppia forma conica, con centro nell’equatore e con a base un cerchio a Nord e un altro cerchio a Sud pari allo spostamento dei Poli); questa precessione è causata dall’azione gravitazionale variabile del Sole e della Luna sul rigonfiamento equatoriale terrestre; infatti, come detto, la Terra è un geoide, cioè la sua massa non è uniformemente distribuita in quanto la Terra è leggermente schiacciata ai Poli, mentre le regioni equatoriali presentano una maggiore espansione e la differenza tra il raggio equatoriale e il raggio polare è di 21 km e questo è sufficiente a causare il detto movimento di precessione. Se la Terra non ruotasse, l’azione gravitazionale della Luna e del Sole sul rigonfiamento equatoriale porterebbe l’asse di rotazione a coincidere con la perpendicolare al piano dell’orbita e quindi a far coincidere l’equatore con l’eclittica; ma poiché la Terra ruota, l’asse descrive un cerchio di precessione intorno alla verticale del piano dell’eclittica, e in ogni Emisfero, mentre la sua inclinazione nel mentre ruota rimane immutata (per immaginare la precessione si pensi alla rotazione dell’asse inclinato d’una trottola in movimento su una superficie che, fin che ruota, presenta la stessa inclinazione dell’asse rispetto alla superficie e ch’arriva dunque a presentare, riunendo tutti i movimenti dell’asse, una forma conica con base a forma circolare, cioè un moto giroscopico, laddove un giroscopio è un corpo dotato di simmetria di rotazione intorno ad un asse). Nell’ambito di questo moto giroscopico di precessione si presenta poi anche una variazione periodica dell’angolo compreso tra l’asse fisso di precessione e l’asse di rotazione del corpo in moto, tanto che si forma una nutazione, cioè una distorsione oscillatoria di tipo ellittico variabile nel tempo (con l’ellissi che si completa nell’arco di 18,6 anni), distorsione che dipende dall’azione non sempre costante della Luna; la nutazione associata alla precessione fa sì che, alla fin fine, l’asse di rotazione esegua poi sul cerchio prima citato un moto ondulatorio. La figura seguente mostra la il fenomeno della precessione nel solo Emisfero boreale (qui i 23,5° sono indicati come 23°½) e la sovrapposizione della nutazione sulla precessione (nella figura il moto di nutazione è pero fortemente ingrandito), con il risultato ondulatorio che s’è detto:


Figura n.   . Fonte: Herrmann, 1975, p. 52.

Gli equinozi, come detto i punti in cui quest’eclittica interseca il piano dell’equatore celeste, non si presentano poi come punti d’intersezione fissi, ma si muovono rispetto alla sfera celeste a causa dei fenomeni di precessione e nutazione, come dire che il Sole a causa della precessione (alla lettera, infatti, precessione vuol dire che precede), ritorna nel punto γ dell’equinozio prima d’avere completato l’intera rivoluzione sull’eclittica, così che, prima di ritornare alla stessa posizione ch’aveva in precedenza sulla sfera celeste (il detto punto γ) il Sole s’è già presentato nel nuovo punto dell’equinozio, per cui s’evidenzia uno scarto tra il vecchio punto γ e quello nuovo che lo precede. Definiti grosso modo i termini, presentiamo i dati. La misura dell’eccentricità dell’orbita terrestre, cioè della deviazione dell’orbita da un cerchio che ha eccentricità uguale a zero, è mediamente pari a 0,028; nel caso d’eccentricità bassa, con un’orbita quasi circolare è 0,005, mentre nel caso d’alta eccentricità, con un’orbita decisamente ellittica, è di 0,058, e quest’eccentricità varia secondo un ciclo di 100 000 anni, come mostra la figura seguente:









Figura n.  . Fonte: McGuire, 2003, p. 64

Va da sé che gli spostamenti dei due fuochi dell’ellissi fanno sì che, all’aumentare/diminuire della loro distanza, aumenti/diminuisca l’eccentricità dell’ellissi, ciò ch’implica il mutamento della velocità della Terra attorno al Sole ch’è in uno dei due fuochi, velocità ch’è accelerata quando la Terra è vicina al Sole (147 milioni di km), cioè al perielio, e rallentata nel caso contrario, dunque n’è più lontana, cioè all’afelio (e all’afelio, la distanza tra la Terra e il Sole è di ca. 5 milioni di km maggiore che al perielio, 152 milioni di km; e si chiama linea degli absidi la linea che unisce perielio e afelio); fatto che, sommato all’inclinazione di 23° 5’ sul piano dell’orbita della Terra attorno al Sole, dà origine a un’evidente ricaduta sulla direzione d’incidenza delle radiazioni solari, cioè sulle variazioni stagionali dovute al fatto che la citata direzione muta continuamente (è dove un alto grado d’eccentricità coincide grossomodo con le glaciazioni). La misura dell’inclinazione dell’asse terrestre rispetto alla perpendicolare del piano dell’orbita presenta oscillazioni dell’ampiezza di 2,6° (da 21,8° a 24,4°) e il ciclo di queste oscillazioni è approssimativamente di 41 000 anni e in grado, in caso di inverni tiepidi e estati fresche (v. infra), d’innescare la fase iniziale d’una glaciazione (infatti, dipende anche dalle temperature, cioè dall’intensità della radiazione, il fatto che neve e ghiacci persistano in modo più o meno accentuato e qui l’incidenza, a differenza della precessione, è più importante ai Poli che all’Equatore); la figura seguente mostra quest’oscillazione (dove la radiazione segnalata, o accennata con freccia, è quella del Sole e dove le oscillazioni dell’angolo d’incidenza della radiazione presentano valori diversi da quelli sopra detti):


Figura n.   . Fonte: McGuire, 2003, p. 64

A questo proposito, se s’osserva la figura, e se si guarda alla diminuzione dell’ampiezza dell’inclinazione dell’asse terrestre rispetto alla perpendicolare del piano dell’orbita, si nota che l’insolazione (cioè il rapporto tra il numero delle ore d’incidenza delle radiazioni in un luogo e il numero delle ore in cui il Sole si trova sopra l’orizzonte del luogo, in senso astronomico), arriva a investire le variazioni stagionali tanto che, nella fascia tra i Tropici e i Poli le stagioni estive si presentano più fresche, e le stagioni invernali meno fredde, mentre alle alte latitudini, nelle regioni polari, l’insolazione diminuisce e tra i Tropici e l’Equatore, alle basse latitudini, aumenta; ora, e valorizzando proprio la variabilità stagionale, la causa delle glaciazioni non va ricercata nel graduale aumento d’inverni molto rigidi, bensì nell’aumento delle estati fredde determinate dall’inferiore quantità della radiazione solare dovuta al mutamento d’inclinazione dell’asse terrestre nel ciclo dei 41 000 anni; infatti, se le estati sono troppo fredde, la neve che cade un’area data non si scioglie e aumenta l’effetto albedo, cioè l’aumento della quantità di radiazione solare riflessa da quell’area innevata (ca. l’85%), ciò ch’amplifica l’effetto di raffreddamento e la caduta d’ulteriore neve che, allargando l’areale innevato, innesca un processo autoalimentantesi (d’autocatalisi) che produce un accumulo di ghiacci (come dire che a causare la formazione degli strati di ghiaccio non è necessariamente la quantità di neve caduta, ma il fatto determinante ch’essa non si sciolga), e una volta che il ghiaccio è aumentato, esso inizia a spostarsi in modo inarrestabile; e se ci si domanda, ora, come una variazione di pochi gradi della temperatura media possa essere sufficiente per provocare una glaciazione, si tenga conto che una piccola variazione nei sistemi complessi, qual è la Terra, non provoca necessariamente piccole conseguenze, ma, dato che si tratta d’una complessa catena causale, una piccola variazione in un punto può ripercuotersi sugli eventi successive e tutte queste piccole differenze, sommandosi assieme, possono produrre come esito un grande cambiamento. Per quanto riguarda la precessione degli equinozi (o precessione assiale), un ciclo completo del movimento conico doppio in grado di produrre lo spostamento circolare dei Poli intorno all’asse dell’eclittica si compie approssimativamente in 23 000 anni portando, alla fin fine, al fenomeno delle stagioni; infatti, per esempio, se nell’Emisfero boreale l’orbita della Terra è più vicina al Sole, al perielio, ed è inverno, ciò vuol dire che l’asse terrestre si presenta con un’inclinazione più lontana dal Sole al Nord e più vicina al Sud (dove nell’Emisfero australe è estate); se invece nell’Emisfero boreale è estate, questo vuol dire che la Terra è distante dal Sole, all’afelio, ma con un’inclinazione più vicina al Sole a Nord e più lontana al Sud (dove nell’Emisfero australe è inverno). La figura seguente mostra il movimento rotatorio dell’asse terrestre intorno all’asse dell’eclittica (qui tratteggiata e non nominata):

Figura n.   . Fonte: McGuire, 2003, p. 64

Riassumendo, alcuni di questi moti variano ognuno con periodicità plurimillenaria secondo cicli di 100 000 (eccentricità), 41 000 (inclinazione) e 23 000 anni (precessione), detti cicli di Milancović, e determinano, volta per volta, cambiamenti dell’angolo d’orientamento della Terra rispetto al Sole, cambiamenti che influenzano i contrasti stagionali, come detto, per il tramite della durata, dell’intensità e della dislocazione incidente della radiazione solare sulla Terra, o forzatura (forcing) solare, fenomeno importante soprattutto alle latitudini elevate, e dunque innescano la sua periodicità glaciale, ossia promuovono gli avanzamenti e le ritirate dei ghiacciai (secondo la coincidenza o meno d’un certo numero di cicli, che possono amplificare o neutralizzare la presenza delle glaciazioni). La figura seguente mostra un esempio della curva di Milancović, che si basa sui succitati cicli, estrapolata fino a due milioni d’anni fa e riguardante le Alpi dove s’evidenzia che una glaciazione non è prodotta da un’unica oscillazione termica, ma da fasi tra loro diverse d’avanzata e ritiro dei ghiacci (i nomi delle fasi glaciali, Würm, Riss, Mindel, Günz e Donau rimandano al nome del fiume nella cui valle sono molto abbondanti i depositi alluvionali, cioè le emergenze geologiche che si sono formate  in seguito alla glaciazione stessa; Donau è poi il nome tedesco del Danubio, mentre gli altri nomi designano altrettanti suoi affluenti o affluenti dei suoi affluenti; la fase interglaciale prende poi il nome dalle due fasi glaciali che la delimitano):


Figura n.   . Fonte: Polticelli, 2003, p. 137.

Ancora, a determinare le variazioni climatiche, con gradienti diversi, abbiamo le macchie solari che, se in diminuzione o assenti, sono concomitanti con una fase di raffreddamento e l’atmosfera terrestre con la sua presenza di gas, specialmente del diossido di carbonio, CO2, ch’è direttamente proporzionale al livello della temperatura, tanto che, se il CO2 cresce, cresce anche la temperatura e viceversa; e un abbassamento di CO2 si può presentare come conseguenza di fenomeni orogenetici che la sottraggono dall’atmosfera e la trasferiscono in tempi geologici negli oceani, dov’è fissata, per esempio, nei gusci di CaCO3 dei sopra citati Foraminiferi, questo grazie all’incremento dei fenomeni erosivi permessi dalle catene montuose di recente formazione le cui rocce, disgregate, sono portate sotto forma di sedimenti in soluzione acquosa in un ciclo che va dalle precipitazioni piovose alle acque ai mari, sedimenti rocciosi di composizione silicatica, CaSiO3, che reagiscono con il CO2 producendo silice, SiO2, e carbonati di calcio, CaCO3, che si presentano poi nei gusci degli organismi planctonici, dunque secondo una concatenazione di lunga durata che lega movimenti tettonici, orogenesi, erosioni, precipitazioni, sedimentazioni e formazioni di gusci sui fondali oceanici che, sottraendo CO2 all’atmosfera, partecipano al raffreddamento del clima. Ancora, determinano il clima le attività delle correnti marine e della direzione dei venti, determinanti lo stato degli oceani ch’è a sua volta determinato dalla deriva dei continenti prodotta dai movimenti di calore all’interno della Terra (cioè dai movimenti di porzioni della crosta terrestre, le placche o placche crostali studiate dalla tettonica, v. supra), deriva che introduce, tra l’altro, variazione geografiche, fenomeni d’orogenesi e attività vulcaniche, e cambiamenti del livello dei mari, fenomeni che a loro volta hanno una ricaduta sugli oceani, insomma sul clima. Ne sia esempio, di questo rapporto tra l’orogenesi, le correnti marine negli oceani e il clima la formazione della calotta glaciale antartica, legata all’attività tettonica che ha separato, in Gondwana, durante il Miocene (ca. 20 milioni d’anni fa), l’Antartide dall’America meridionale, ciò che ha creato, con la formazione d’un nuovo settore dell’Oceano Atlantico, l’esclusione dell’Antartide dal sistema di correnti transoceaniche che s’afferma nell’Emisfero australe, una cintura dove l’Antartide non è inclusa nelle correnti calde presenti nella circolazione termica complessiva delle correnti e risente dell’influsso delle correnti fredde circumpolari (v. infra), evento che permette a seguire la formazione d’una calotta glaciale antartica (dove gli spessori dei ghiacci arrivano fino a 4 000 m), con le conseguenze a ciò legate sul clima complessivo della Terra. A proposito poi del rapporto tra clima e cambiamenti del livello dei mari,  è da sottolineare che i mutamenti del clima verso i picchi di freddo provocano poi un’estensione dei ghiacciai, quindi un abbassamento, o regressione, del livello del mare, mentre la deglaciazione, al contrario, presentano invece un innalzamento, detto trasgressione, o ingressione, marina (che lascia ambienti di sedimentazione marini su terreni precedentemente esposti ad erosione subaerea) e le ritirate e le successive avanzate delle acque marine. Ciclo di trasgressioni/regressioni, questo, ch’è ininterrotto, e che spiega gran parte della storia della Terra; per esempio, a partire dalla cataglaciazione dell’ultimo picco pleistocenico (ca. 18 000 anni fa), il mare, dal suo massimo abbassamento, è risalito così di ca. 120 m (in media, un metro al secolo), fino a presentare il livello attuale e il rimodellamento grosso modo odierno delle coste; ancora, e sempre per quanto riguarda questa regressione/trasgressione, si deve ricordare che l’abbassamento e l’innalzamento dei livelli del mare non sono dovuti all’agghiacciamento delle acque (anche se per comodità descrittiva si chiamano in causa le variazioni del livello medio marino come se fossero provocate da una fase glaciale o dal successivo scioglimento dei ghiacci), bensì dall’alterazione dell’equilibrio tra acqua del mare ch’evapora (perdita) e acqua che al mare arriva (reintegro) dovuta all’aumento della quantità di neve che si accumula nei ghiacciai sulle terre emerse e che non si converte in acqua che ritorna in mare (quando cioè s’altera l’equilibrio del bilancio idrologico). Da sottolineare, infine, che in quanto alimentato dall’energia solare, il vapore acqueo si libera nell’atmosfera per evaporazione ed è ridistribuito sulla superficie terrestre mediante piogge e neve; qui una parte torna nell’atmosfera, v. supra, per evaporazione diretta e traspirazione delle piante, un’altra defluisce in mare attraverso la rete idrografica o alimentando le falde idriche; le fasi di questo ciclo idrologico, secondo le fasce climatiche, si traducono poi in gradienti diversi di precipitazioni, cioè come risorse idriche più o meno disponibili nelle terre emerse (v. infra). La figura che segue illustra poi l’andamento storico dei livelli del mare (lo zero rappresenta il livello attuale):


Figura. n. . Fonte: Vittori, 2007, p. 29.

Per esemplificare la questione della deglaciazione in rapporto al clima e rispetto ai tempi storici, è assai probabile l’ipotesi d’un innalzamento del Mare Egeo avvenuto prima del VII millennio a.C., quando l’Europa e l’Asia sono ancora congiunte sul Bosforo e il mare non sì è ancora innalzato a superare questo sbarramento, laddove il Mar Nero è un lago d’acqua dolce, detto, dai geologi, lago Neoeuxine, posto tra 100-150 metri sotto il livello del mare e profondo 2-3 metri; ora, con il ritiro dei ghiacciai del subcontinente nordamericano, la c.d. coltre laurenziana, aumenta il reintegro dell’acqua fredda e dolce nei mari che, per questo, si innalzano di 1,4 metri e, ca. nel 6400 a.C., il reintegro di acqua dolce nel Mare Mediterraneo provoca un innalzamento tale che, superata la soglia dello stretto del Bosforo e dato il dislivello con il Mar Nero, che, di suo, è alimentato solo dallo scaricarsi dei fiumi, provoca un’esondazione e un’inondazione catastrofica di acqua salmastra tale che tutte le forme, già neolitiche, di vita economica e sociale attorno a questo mare, e per migliaia di chilometri quadrati di terra antropizzata, spariscono; si stima una perdita di terreni tra i 75 e i 100 000 Km2 e l’evacuazione di ca. 145 000 persone, probabilmente verso l’Europa centro-occidentale dei cacciatori-raccoglitori. Da ricordare, in ultima istanza, che l’avanzamento e il ritiro dei ghiacci, producendo effetti sul clima, produce di conseguenza effetti sugli ambienti e sulle biocenosi, sull’evoluzione o la migrazione di flore e, conseguentemente, sull’evoluzione o la migrazione di faune (tra le quali l’uomo) legate troficamente all’ambiente e alle piante, dunque, in definitiva, modificando la strutturazione della catena alimentare; infatti, nelle fasi d’espansione glaciale si riducono spazialmente gli ecosistemi, resi per lo più inadatti a specie acclimatate ai climi miti, di fatto riducendoli ad habitat inospitali, ciò che provoca, pena l’estinzione, o la migrazione (v. infra) degli organismi tutti verso aree climatiche più adatte, e sempre ch’esistano e siano raggiungibili, per esempio come hanno fatto nell’ultima glaciazione gli ospiti freddi, originari dei mari nordici, che sono migrati nel Mediterraneo, ciò che ha loro permesso di mantenere sostanzialmente l’identità della specie; o a evolversi adattativamente in loco al nuovo regime climatico e ambientale (v. infra), per esempio come ha fatto il Mammuthus trogontherii, originario delle steppe, che s’è evoluto come Mammuth lanoso (Mammuthus primigenius); salvo poi, in fase di deglaciazione, ricolonizzare le aree abbandonate e a tratti geograficamente ridisegnate dalle trasgressioni marine, se pur ritornate a uno stadio di sostenibilità della catena alimentare. Come dire che le glaciazioni, sul lungo periodo, non sono eventi del tutto negativi giacché, un esempio su tutti, erodono le rocce che, lasciando dietro di sé nuovi suoli straordinariamente ricchi e scavando laghi d’acqua dolce, forniscono abbondanti nutrienti a una molteplicità di specie viventi, ciò che funziona da stimolo per le migrazioni e mantiene dinamica la Terra. E, per quanto riguarda la speciazione umana, l’alternanza delle fasi glaciali ha avuto enormi ripercussioni sul raffreddamento climatico in Africa sudorientale, ciò che ha portato ad alterazioni del regime delle precipitazioni nelle fasce tropicali ed equatoriali, cioè negli areali di diffusione delle specie che porteranno a Homo sapiens, producendo di conseguenza lunghi periodi d’aridità, a scapito delle aree forestali, con conseguente frammentazione degli habitat e la diffusione di nuovi ambienti, quali la savana, con conformi collassi demografici e resti frammentari del preesistente ridotti in piccoli gruppi residui (usciti dal collo di bottiglia, v. supra, e in crescita demografica) che hanno innescato processi evolutivi e diffusione di nuove specie che, per esempio, a seguito della regressione dei livelli dei mari che hanno creato ponti di terra, sono riuscite a disperdersi, a migrare e a diffondersi in altri areali più proficui e dinamici dal punto di vista delle risorse (v. infra), in cicli ininterrotti d’estinzioni, migrazioni e speciazioni.

Per ritornare all’Olocene, che sarà analizzato in dettaglio a seguire, esso presenta una suddivisione cronologica di tipo archeologico che assume i nomi di Mesolitico e Neolitico: il primo va dal tardo-glaciale del Pleistocene (ca. 12 000 anni a.C.) al 10 000 a.C., il secondo dal 10 000 a.C. agli inizi dell’epoca storica, questione che si riprenderà dopo aver presentato ciò che ha permesso il repertorio della speciazione umana che ha portato a Homo sapiens