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LA DOMESTICAZIONE DEL CANE E DEL GATTO


 Per quanto riguarda il processo di domesticazione del cane e del gatto, qui lo s’affronta data la loro importanza nell’ambiente antropico delle società stanziali, e valgano a questo proposito le note seguenti. La domesticazione del cane è la prima domesticazione d’una specie diversa dall’uomo, ma non si sa dove, né si sa quando sia avvenuta con precisione; riguardo al dove, le ipotesi avanzano come areali il Medio Oriente, cioè la Mezzaluna Fertile (risultati ottenuti con il ricorso al DNA nucleare e l’analisi dei polimorfismi a singolo nucleotide,  o Single-Nucleotide Polymorphism, SNP, grosso modo analizzando le piccole differenze nella sequenza di una singola base del DNA), l’Europa (risultati ottenuti con il ricorso al mtDNA, v. supra), la Siberia e, infine, la Cina meridionale (risultati ottenuti sempre con il ricorso al mtDNA); riguardo al quando, alcuni  datano la domesticazione a 135 000 – 76 000 anni fa, in presenza essenzialmente di Homo neanderthalensis (con una datazione basata sul DNAmt; per inciso, questa tipologia di datazione è molto criticata in quanto è ritenuta non attendibile per eventi filogenetici che si sviluppano in tempi geologici brevi); altri, in presenza di Homo sapiens, la datano tra 40 000 e 12 000 anni fa, altri a 16 300 anni fa e altri ancora, non essendoci evidenze fossili di cani vissuti prima di 12 000 anni fa, mettono in forse la domesticazione prima dell’avvento del Neolitico. L’evidenza fossile di cui si parla è databile tra 12 000 e 10 000 anni fa, ed è la tomba d’un Natufiano (v. supra) dove un umano posa una mano sullo scheletro d’un cucciolo di cane, tra i primi esempi d’inumazione in cui un uomo giace sepolto con specie diverse, cui s’aggiunga il fatto che prima di 10 000 anni fa non esistono, nell’arte parietale rupestre, documenti figurativi che rappresentino il cane quali li si può ritrovare, per esempio, nelle scene di caccia presenti a Alpera, in Spagna orientale, nella Cueva de la Vieja o nelle scene dell’arte sahariana di Tadrart Acacus, nella Libia occidentale. In ogni caso, la domesticazione s’è avuta a partire da un Lupo ancestrale (ascendenza che poi si traduce nella differenza di specie e nicchie tra il Canis lupus e il Canis familiaris, v. infra, differenza genetica che non supera l’1,8%), là dove la divergenza con questo Lupo ancestrale, e con il Canis lupus, si nota con il fatto che la domesticazione (v. supra) ne ha ridotto la taglia, ne ha reso le fauci ridotte e con denti meno grossi e robusti (per esempio, i denti carnassiali, v. infra), e ne ha prodotto la faccia più grossa, il muso più corto e il cervello più piccolo del 15% ca., a pari peso, e si sospetta fortemente che la domesticazione si sia inizialmente presentata come autodomesticazione in due tappe del Canis lupus derivato dal Lupo ancestrale. E si dice autodomesticazione perché il Canis lupus, sia pur un cucciolo che non ha ancora aperto gli occhi (v. infra), non si riesce mai a domesticarlo, e se si può dare il caso d’un Canis lupus domato, questi, a differenza del cane, non trasmette geneticamente questo tratto alla prole, quindi sarebbe necessario ripetere il processo d’addestramento di nuovo da capo, come dire che il Canis lupus può essere addomesticato, ma non domesticato (v. supra). La prima autodomesticazione consiste in una larvale coesistenza, fortemente competitiva dato che gli ecosistemi che occupano il Canis lupus e le bande dei cacciatori-raccoglitori sono spesso sovrapposti in quanto prediligono le stesse prede e le stesse parti della preda altamente proteiche (cioè gli organi interni quali cuore, fegato e polmoni e, a seguire, reni, milza e muscoli). Cui s’aggiunga che nella predazione, per entrambe le specie, è presente il cacciare organizzato, cioè sociale; prede che, in presenza di una diminuzione delle risorse (quale si presenta a partire da 13 000 anni fa, alla fine del Mesolitico, cioè durante il periodo glaciale chiamato Primo Dryas, nel quale si manifesta uno stress ambientale, cioè la detta diminuzione in quantità e qualità delle risorse trofiche), e se il Canis lupus è impossibilitato a reperire prede, ma solo se è impossibilitato, che, altrimenti, questa pratica non è da questa specie dismessa, si traduce nel suo comportamento di consumare gli avanzi abbandonati nei pressi degli insediamenti temporanei dei cacciatori-raccoglitori (anche se alcuni sostengono che questa pratica opportunistica sia documentabile già a partire da ca. 30 000 anni fa). Si tenga in ogni caso conto, per valutare il comportamento opportunistico o meno del Canis lupus, che questi può arrivare a consumare fino a 5 kg di carne al giorno per una complessione fisica che mediamente va dai 45 a 35 kg, e che, per tutti i carnivori dell’era glaciale, la morte per fame è stata la normalità e che pertanto la competizione s’è presentata, conseguentemente, molto alta. In seguito, nel Neolitico, a partire grosso modo da 11 000 anni fa (quando s’afferma il clima post-Dryas, cioè quando aumentano temperature e precipitazioni) grazie alla presenza e a una certa regolarità dell’accumulo di rifiuti organici nei pressi d’una popolazione di Homo sapiens che si sta facendo stanziale (una nuova nicchia), con la presenza di un Canis lupus opportunista, cioè adattabile a una prossimità con gli umani, vale a dire con una minore distanza di fuga rispetto ad altri componenti della sua specie, e dove la distanza di fuga (o flight distance, che, alla lettera, si traduce come distanza di volo), che si può misurare controllando quanto l’animale si lascia avvicinare dall’uomo, o da qualsiasi altro animale, mentre mangia prima di fuggire. La distanza di fuga è dunque quella a cui un animale, qui un Canis lupus, può lasciare avvicinare un predatore, qui l’uomo quale agente stressante (o stressor), senza essere indotto alla fuga; ancora, per qualsiasi specie e in qualunque situazione data la distanza di fuga ottimale si situa tra un valore minimo, in cui l’animale troppo reattivo non riesce a mangiare (distanza breve) e un valore massimo in cui l’animale riesce a controllare la sua reattività mentre continua a mangiare (distanza lunga) e la selezione naturale agisce sulla distanza di fuga proprio su questo continuum tra il minimo e il massimo, spingendola verso l’uno o l’altro estremo secondo quanto cambiano le condizioni dell’ambiente in un tempo evolutivo. E se una fonte abbondante di cibo si presenta, per esempio un accumulo di rifiuti organici nei pressi d’un villaggio, essa tenderà a rendere breve la distanza ottimale, e questo comportamento è probabilmente indotto, data la nuova nicchia, da una diversa recettività agli stimoli dell’ambiente esterno dovuti ad una casualità genetica che, in alcuni Canis lupus, si traduce in una riduzione della concentrazione di corticosteroidi e alla produzione della serotonina che permette d’accorciare la distanza lunga. A questo proposito è necessario, infatti, sapere che tra i corticosteroidi, che sono ormoni secreti dalla corteccia surrenale che hanno il compito di regolare lo stress, c’è anche il cortisolo, un ormone legato alla produzione d’adrenalina che, a sua volta, è un neurormone che stimola la risposta fight or flight, cioè combatti o fuggi, vale a dire le risposte psicofisiche in caso di stress, e più alto è il livello di cortisolo e più l’adrenalina incentiva l’ampiezza, ossia l’attivazione, della distanza di fuga rispetto allo stressor; contemporaneamente, più bassi livelli di cortisolo e minore produzione d’adrenalina attivano una maggiore produzione della serotonina, un neurotrasmettitore ch’è legato, tra altri stati dell’organismo, a quello del rilassamento, cioè ad una inibizione del comportamento di fuga, ossia l’esatto opposto della risposta fight or flight. Come dire che, in alcuni di questi Canis lupus e grazie alla nuova nicchia si presenta, quindi, l’opportunità di manifestare un comportamento adattativo alla distanza di fuga che, in un isolamento sessuale dal Canis lupus territoriale che continua a riprodursi all’interno del branco (v. infra), permette poi in modo incipiente la speciazione (cioè la metamorfosi nel tempo in Canis familiaris) e d’allevare una prole più numerosa e geneticamente differenziata grazie all’aumento delle risorse alimentari e senza che possa sussistere un’esposizione troppo ravvicinata con gli umani il cui unico ruolo, alla fin fine, è quello di fornire loro la detta nuova nicchia che con la stanzialità antropica è in grado di fornire una regolare discarica di rifiuti. Si ricorda che, in linea di massima, il Canis lupus è un carnivoro che, essendo un predatore generalista, cioè non legato a un tipo di preda in particolare, può predare animali di dimensioni molto variabili, cioè di grandi o di piccole, piccolissime dimensioni; oltre alla citata carnivoria, presenta però anche abitudini alimentari opportuniste che gli permettono di cibarsi di frutta, di vegetali, di carcasse d’animali morti, comprese quelle della propria specie, e di carni in decomposizione, cui s’aggiunga che, oltre a quest’ultimo tratto saprofago, presenta anche quello coprofago, cioè quello d’alimentarsi con le deiezioni alvine umane, cioè con le feci. Dunque è qui, in questa nicchia, che si ritrova la prima forma di simbiosi tra il Canis lupus docile (questo solo perché la riduzione evolutiva della flight distance per selezione naturale si traduce in un comportamento che noi per nostri scopi definiamo di docilità), chiamiamolo protocane, e Homo sapiens; per il resto, i comportamenti del protocane legati alla ricerca di cibo, alla riproduzione etc. sono simili a quelli delle specie selvatiche, ma adattate alla sopravvivenza d’una nicchia dovuta al passaggio storico dalle società itineranti di caccia-raccolta alle società agricole stanziali, società dove la docilità potrebbe presentarsi come vantaggiosa per gli uni e per gli altri, per esempio, con cibo dato al protocane in cambio della caccia opportunista agli animali parassiti che saccheggiano le coltivazioni. Prole di protocane che, nel giro di poche generazioni (si parla di un periodo tra i 50 e i 100 anni, tanto che, a partire da ca. 10 000 anni fa è documentata la diffusione del cane in Eurasia, Africa, America del Nord  e Australia) ha continuato ad evolversi e a proclamarsi in una nuova specie, Canis familiaris e, lo si ripete, per selezione naturale in un segmento della popolazione di Canis lupus del tratto della flight distance, ossia dell’abilità di riuscire a mangiare in prossimità degli umani senza abbandonare la risorsa trofica, dunque non per una selezione artificiale da parte dell’uomo. Ragione per cui il Canis lupus e il Canis familiaris, che hanno un progenitore ancestrale in comune, evolvono in due specie distinte, diverse, da cui deriva la varianza dei loro tratti fenotipici, con la clausola che è la diversa nicchia ecologica che li ha poi fatti evolvere in due specie (altri, a partire dal 1982, invece che Canis familiaris usano il trinomio Canis lupus familiaris, e usandolo sottintendono che il processo di differenziazione di specie che s’è cercato di descrivere non sia avvenuto, dunque pensando che non esista un Lupo ancestrale, o che, s’esiste, si sia evoluto nel Canis lupus attuale, e che il cane sia non una specie a sé, ma solo una sottospecie del Canis lupus, nomenclatura trinomiale che, date le premesse, qui non s’adotta). Questa specie, dunque, non è più legata al comportamento sociale, gregario e territoriale dei Lupi, abituati a convivere, in un habitat circoscritto, in famiglie nucleari, date dalla coppia monogama e dai loro cuccioli (al massimo in un branco che contiene 2-3 famiglie nucleari, dove una famiglia nucleare comprende i genitori e i cuccioli degli ultimi tre anni  o solo quelli nati nell’ultimo parto, in media 5 o 6, ma questa pratica non è da generalizzare per tutti i Lupi), né alla socialità del protocane opportunista, spazzino, che non s’è relazionato con l’uomo pur vivendo con lui in simbiosi (socialità competitiva, da non confondere con quella territoriale del branco propria al Canis lupus, in quanto il protocane, escluso il momento della riproduzione, è costretto a vivere isolato o, al massimo, a formare piccoli gruppi familiari con una durata ch’è limitata per il maschio al momento della nascita dei cuccioli, questo vista la competizione  tollerante, non aggressiva, dei protocani nei confronti l’uno dell’altro per l’accesso alle risorse),  ma è una specie in cui a un’evoluzione della competenza sociale che si manifesta nella sua evoluzione storica come allontanamento prima dal branco e poi dalla socialità competitiva. A seguire l’evoluzione continua, questa volta però come effetto d’una selezione artificiale, anche se non necessariamente voluta, per il tramite di quella che si chiama selezione postzigotica (che, semplicemente, significa che l’umano elimina tra i cuccioli quello che non gli piace e si prende cura di quello che gli piace, lasciando all’ambiente antropico durante una finestra di socializzazione, v. infra, la cura della crescita cognitiva del cucciolo), selezione che potrebbe essere stata data, per esempio, da un cucciolo di protocane, opportunista e geneticamente docile ch’è adottato da un umano che se ne prende cura. Se questo percorso storico dalla selezione naturale a quella artificiale è vero, ciò porta, per effetto del fondatore (v. supra), alla definitiva transizione verso il Canis familiaris attuale, vale a dire a una specie funzionale, cioè addestrabile a un lavoro, ossia a cani da difesa e da attacco contro gli animali infestanti i raccolti, a cani da conduzione delle greggi transumanti etc., insomma a cani da lavoro, il tutto grazie all’imprinting (v. supra) dei cuccioli durante il periodo critico della socializzazione. Ciò che comporta, se esemplifichiamo ricorrendo a un cane da conduzione, a una soggezione attiva e emotiva del cane nei confronti del gregge da condurre, cioè a un legame interspecifico tra cane e pecora (o cane e uomo, o cane e altro ancora) che fa sì che il cane adulto esibisca i normali comportamenti intraspecifici innati, ossia quelli che caratterizzano il rapporto del cane con un altro cane, e che fanno sì che un carnivoro (il cane) diventi di fatto il conduttore di una specie che avrebbe il ruolo di preda (qui la pecora). Il tutto, dunque, grazie all’ambiente evolutivo antropico che si sostituisce a quello che sarebbe primigenio per il cane (originariamente, quello del protocane con il modulo comportamentale della docilità in prossimità d’un villaggio), vale a dire spostando la collocazione del cane dai margini della comunità umana al suo centro, da un luogo dove il protocane non è addestrabile a un luogo dove l’addestramento, dapprima inconsapevole e poi con tassi sempre più alti d’intromissione umana, si dimostra funzionale agli interessi dell’uomo (e questa è la seconda forma di simbiosi, quella che permette il passaggio dal commensalismo al mutualismo). A questo punto, è da sottolineare che nello sviluppo dell’organismo (o ontogenesi) dei cani, il periodo critico della socializzazione si presenta all’incirca tra la quarta e la sedicesima settimana di vita; in questo periodo il cucciolo, che nasce senza funzione visiva e uditiva, è portato per un lungo periodo alla dipendenza dalle cure parentali, cui s’aggiunga il fatto critico che l’apertura degli occhi, cioè la funzione visiva, sommata a tutte le altre percezioni sensorie diventate attive, quali il tatto, l’udito, l’olfatto e il gusto presenti a partire dalla terza settimana, mettono in moto in modo irreversibile uno sviluppo neurosensorio che si traduce nella capacità di formare relazioni sociali intraspecifiche (normalmente con chi gestisce le cure parentali, cui l’uomo si può sostituire). Dopo 6-8 settimane, cioè dopo lo svezzamento, s’attiva poi geneticamente lo schema (pattern) motorio della paura nei confronti di ciò che può essere pericoloso, cioè non conosciuto e al di fuori del vissuto dell’area di socializzazione, vale a dire l’insorgenza d’una reazione limite alla tolleranza d’un umano (che qui rappresenta uno stressor, nel caso che l’uomo non si sostituisca alla madre) oltre la quale s’attiva la paura, in altre parole il tratto geneticamente codificato della distanza di fuga. Come dire che il periodo in cui il cane può riconoscere nel suo ambiente evolutivo un tratto eterospecifico ritenuto positivo (l’uomo, per esempio) e, successivamente, di discriminarlo rispetto a quelli che ne sono estranei, è quindi limitato; infatti, dopo 16 settimane questa finestra di socializzazione si riduce poi fortemente o si chiude definitivamente, vale a dire si disattiva la finestra temporale in cui l’ambiente evolutivo contribuisce a informare, a livello cerebrale, ciò che darà poi origine al repertorio epigenetico delle strutture differenziate nel comportamento, quali gerarchie di dominanza, sottomissione, richieste di cibo e altro ancora. E si dice repertorio epigenetico (dove il prefisso epi-, dal greco ἐπί, sta a significare dopo) perché lo sviluppo genetico è legato a un processo dinamico dove, oltre che alla risposta dei segnali che provengono dall’ambiente interno dell’organismo, anche la risposta ai segnali che arrivano dall’ambiente esterno ha una funzione regolatrice, come a dire che lo sviluppo e la differenziazione dell’organismo sono dovute a uno scambio bidirezionale, d’interdipendenza, tra i due ambienti (l’interno e l’esterno). Detto altrimenti, l’ambiente esterno produce una modificazione nell’attività di un gene regolatore senza, per questo, cambiare le istruzioni contenute nel DNA, ciò che arriva a costituire un fenotipo, dove, con fenotipo, s’intende il complesso delle caratteristiche morfologiche e funzionali di un organismo in quanto prodotto dall’interazione dei geni tra loro e con l’ambiente (v. infra). Durata della finestra temporale d’interscambio interno/eterno che, nel caso della nicchia ecologica data dall’ambiente antropico, coincide di fatto con la tipologia dell’addestramento  (e se interessa, nel Canis lupus gli occhi si aprono verso il decimo giorno e questa finestra s’apre dopo 13 giorni e al diciannovesimo si chiude, ciò che rende praticamente impraticabile la sua domesticazione), ma con la clausola che questo addestramento del cane deve tenere anche conto dei limiti genetici entro i quali l’ambiente può modificarne la struttura, nel senso che ogni razza di cane ha strutture comportamentali specie-specifiche (cioè un repertorio d’origine filogenetica che permette ai pattern motori già pronti di mettersi in moto quando l’ambiente li attiva come necessari per la specie e che si può modificare in funzione della citata finestra temporale e della contingenza ambientale). Ed è questo ciò che li predispone a essere in grado d’imparare la propria mansione e a eseguirla meglio d’ogni altra razza. Per riprendere l’esempio sopra utilizzato, tutti i cani, nella finestra temporale detta, possono essere addestrati a condurre le pecore, ma il cane da conduzione che ha la struttura adatta appartiene a una sola razza, ed è quel cane che presenta una struttura fisica, cioè la taglia e la forma, che si traduce nel giusto comportamento richiesto, che è poi quella che s’addestra tenendo conto dei limiti della programmazione genetica che informa strutturazione fisica e collegamenti fra le cellule cerebrali e che opera in modo bidirezionale, epigenetico, con l’ambiente evolutivo stesso; complesso dato da struttura fisica/cervello/ambiente evolutivo che differenzia di fatto, nelle manifestazioni comportamentali della forma fisica, una razza antropicamente utile dall’altra. Tanto, per essere chiari, che un cane da conduzione presenta il pattern motorio d’inseguire, ma non quello di mordere l’inseguito né per afferrarlo né per ucciderlo; un cane da riporto presenta i pattern motori per inseguire e per mordere afferrando ciò che deve riportare, ma non quello di mordere per uccidere, mentre un segugio presenta i pattern motori per inseguire, e per mordere afferrando e uccidendo la preda; dunque, se gli schemi motori di predazione nel cane (ma anche nel Lupo) presentano la sequenza ‘individuare > fissare > avvicinarsi furtivamente > inseguire > mordere per afferrare > mordere per uccidere > sezionare > consumare’, ecco che tra questi, che s’attivano dopo lo svezzamento, sono presenti anche quelli che l’uomo può utilizzare o sfruttare per i suoi scopi e che questo utilizzo, come per tutti gli altri pattern motori che s’attivano e incrementano nella sequenza, è per sempre, e l’uomo li può attivare o disattivare (regolando le risposte ritenute positive o negative, dato l’ambiente di sviluppo che si ritiene ottimale per l’emissione dei moduli comportamentali, v. infra, il fenomeno della potatura), facilitato in questo anche dal fatto che questi tratti non sono strettamente collegati fra loro (come capita ai Felini, che per predare devono compiere per intero la loro sequenza motoria di predazione). Tanto che il via alla sequenza motoria, che dopo l’addestramento diventa stereotipata, può cominciare nel Canis da qualsiasi punto (ciò che spiega, tra l’altro, il perché i Lupi abbiano potuto con opportunismo presentare da solo il pattern di consumare i resti abbandonati dagli umani), ciò che farà, infine, che il cane sia domesticato, da lavoro o altro, diventi cioè un animale sinantropico, ossia un animale che, al pari del gatto, vive normalmente in compagnia dell’uomo. La figura seguente, che mostra la crescita del cervello del cane nell’arco temporale d’un anno, evidenzia che la maggior parte della sua crescita, quella in cui si formano e stabilizzano le connessioni cerebrali che lo conformeranno alla nicchia, coincide con il periodo sensibile alla socializzazione, oltre il quale non saranno mai soddisfacenti nuovi addestramenti ad altre abilità sociali (infatti, durante il periodo critico i circuiti neurali sono sensibili solo alla persistenza dei segnali di nicchia, segnali che sono così in grado di provocare un’attività neurale che si stabilizza in un preciso schema di connessioni tra le cellule nervose, segnali che sono così selezionati per fare parte del cervello dopo le 16 settimane, mentre altri schemi, pur presenti, ma non adeguatamente stimolati, sono definitivamente persi con la crescita, fenomeno detto di potatura, o pruning; per riprendere l’esempio del cane da conduzione, se i cuccioli mostrano lo schema motorio dell’inseguimento delle pecore, o quello del mordere per afferrarle, è sufficiente allontanarli per un dato tempo dal gregge, cioè dalle pecore quale stimolo scatenante, ed ecco che in breve il comportamento scompare, per delezione, dal repertorio senza che ne rimanga traccia mnestica, come dire che il pattern è potato dalla memoria; in figura, la crescita è data in cm3 e il periodo critico in mesi):


Figura n.   . Fonte: Coppinger e Coppinger, 2012, p. 130.

Al cane è dunque data la possibilità di manifestare un’intelligenza sociale che, nella nicchia antropica, s’esplica come interazione condivisa con gli umani (qualità non data nei Lupi, ma potenziale nei Lupi opportunisti, i protocani, che si rivelano essere così gli antenati di fatto dei cani); qualità che li ha resi capaci di leggere le intenzioni altrui, cioè capirne la gestualità, gli sguardi orientati e soprattutto la deissi, cioè il gesto d’indicare (pointing), che solo cuccioli di cane e d’uomo sanno da subito interpretare (non la sanno interpretare neppure gli Scimpanzé e i Bonobo, come visto più vicini filogeneticamente all’uomo), il tutto selezionando gesti, sguardi, indicazioni in funzione di ciò a cui gli umani prestano attenzione, cioè manifestando attraverso l’intenzionalità condivisa gli stessi processi mentali di un bambino sotto cura parentale. E questo vuol dire che c’è stata un’evoluzione nelle capacità cognitive dei cani, capacità cognitiva che si presenta innata (ossia come un sottoprodotto casuale della domesticazione), come se solo tra cucciolo di cane e cucciolo d’uomo ci fosse stata un’evoluzione convergente, nonostante la differenza di specie, verso un comportamento che solleciti le cure parentali d’un adulto di Homo sapiens (ossia con alcuni tipi d’interazioni sociale e comunicativa tipici fra il cucciolo d’uomo e sua madre) e che nell’arco di nove settimane può definirsi completamente manifestata (v. supra). Capacità, dunque, che non necessita d’un apprendimento, cioè non è dovuta all’influenza dell’addestramento, anche se è vero che a seguire la lunga esposizione all’uomo e la selezione artificiale portano poi, come detto, a una specializzazione delle capacità cognitive; tanto che si può affermare che quest’intelligenza sociale ha permesso ai cuccioli in grado di manipolare e interpretare il comportamento umano d’avere più probabilità di sopravvivenza rispetto ai cuccioli di Canis lupus (che questa capacità innata non l’hanno), dunque d’avere più probabilità di riprodursi e di trasmettere i propri geni alla generazione a venire. Come dire che, con il cambiamento della nicchia ecologica e l’adattamento evolutivo (genetico ed epigenetico) ad essa, cioè con il mutualismo e l’evoluzione convergente, s’è assestata la detta capacità di saper rispondere simbioticamente al comportamento umano e, soprattutto, a saper cooperare con l’uomo. Per quanto riguarda l’atteggiamento simbiotico cane/uomo è poi necessario prendere in considerazione anche il ruolo svolto dall’ossitocina (o oxitocina, abbreviata in OXT), un ormone di natura proteica prodotto dall’ipotalamo e secreto dal lobo posteriore dell’ipofisi; infatti, è stato dimostrato che la produzione dell’ossitocina aumenta sia nella madre che nel neonato se questi si guardano negli occhi, aumento di produzione ormonale che si traduce nella fiducia del neonato di ricoprire il ruolo d’oggetto di cura e che crea, in pari tempo, un’empatia che nella madre si traduce come impegno ad assumere il ruolo di soggetto di cura, come dire che l’ossitocina produce una comunicazione madre/neonato che funziona anche in assenza d’una comunicazione verbale; ora, è questo lo stesso dispositivo preverbale che s’implementa se un uomo e un cane si guardano negli occhi, ed è probabilmente questa meccanica di cura offerta dall’ossitocina che mette in moto un ciclo di feedback positivo tra oggetto e soggetto di cura che ha permesso la sopra citata coevoluzione fra i due di un legame tanto affettivo quanto cognitivo e sociale, legame che emerge anche perché l’ossitocina può agire sulle strutture corticali limbiche e prefrontali, aumentando la trasmissione dell’acido γ-aminobutirrico (o Gamma-AminoButyric Acid, GABA), che è uno dei principali neurotrasmettitori inibitori, il che è dire che quest’acido induce l’abbassamento di freni inibitori sociali, quali la paura, l’ansia e lo stress, e apre alla disponibilità di fiducia e empatia a fronte della necessità di comportamenti collaborativi (per inciso, si sottolinea che l’azione di guardarsi negli occhi sarebbe interpreta dal Canis lupus nel modo opposto, ossia come forte segno d’ostilità, e che  è per questo che i Lupi rifuggono il contatto visivo). Per quanto riguarda invece la cooperazione uomo/cane, questa s’è sviluppata, come visto, anche in funzione gregaria all’uomo e in modo utilitaristico per l’uomo; con la cooperazione, dunque, s’assiste a un’autodomesticazione del protocane legata al commensalismo che si traduce in un mutualismo (tramite un processo d’adozione e d’addestramento in una data e determinata finestra temporale); autodomesticazione che, probabilmente, s’è verificata più volte e in luoghi diversi (secondo un’ipotesi multiregionalistica che si basa su risultati genetici, biogeografici e archeologici) e che, oltre alla taglia e alle funzioni cerebrali che governano i tratti comportamentali, ne ha modificato la riproduzione anticipandola e raddoppiando nelle femmine la manifestazione dell’ovulazione annuale (estro che nel Canis lupus si manifesta annualmente e grossomodo a partire dal secondo anno d’età) e, con la dieta diventata onnivora, ne modifica anche il metabolismo, per esempio, quello degli amidi con l’amilasi (v. infra; quest’ultimo è dunque un fenomeno presente data la dieta con carboidrati, possibile nelle società agricole; e a questo proposito c’è chi sostiene che, probabilmente a causa delle pressioni di selezione comuni tra cane e uomo, ci sia stata, oltre che la convergenza evolutiva sopra citata, anche un’evoluzione parallela nei geni preposti al metabolismo, ai processi digestivi e neurologici e al cancro). Riguardo al rapporto mutualistico tra cane e uomo, si deve poi aggiungere che il cane, cambiando geneticamente sia struttura sia comportamento, rimane intrappolato nella sua nuova strutturazione, mentre l’uomo no, tanto che il cane domestico non sarebbe in grado, da solo, di sopravvivere nella sua forma attuale in quanto, a livello cognitivo, s’aspetta sempre un aiuto da parte dell’uomo. Quello tra cane e uomo non è, dunque, un mutualismo pienamente simbiotico, quello in cui le specie coinvolte si modificano in coevoluzione l’una con l’altra dando origine a due simbionti (v. supra), perché qui, tra l’uomo e il cane, solo il cane è pienamente un simbionte, mentre l’ospite lo è a suo gradimento, tanto che qualcuno parla, a proposito del destino sociale di alcuni cani, di dulosi (dove il termine dulosi rimanda al greco δούλωσις, derivato di δοῦλος, schiavo). Per quanto riguarda l’aspetto delle aspettative del cane nei confronti dell’uomo, si parla di neotenia (v. supra), cioè della permanenza nell’adulto di un tratto comportamentale del cucciolo, qui la richiesta di cure parentali. Per quanto riguarda poi l’intelligenza sociale del cane, cioè l’aspetto sociocognitivo, si sospetta fortemente che la diminuita distanza di fuga prodotta dall’iniziale autodomesticazione abbia portato questa intelligenza a manifestarsi come un sottoprodotto non previsto di questo comportamento sociale, cioè come un fenomeno di pleiotropismo capace di produrre effetti multipli sul fenotipo (laddove il termine pleiotropìa rimanda alla capacità d’un singolo gene di potere influenzare, a livello fenotipico, l’espressione di più d’un carattere, ossia d’intervenire su più caratteristiche dell’individuo). Il che è dire che la mutazione della flight distance ha dato origine a un comportamento sociale specializzato e innato (cioè indipendente dall’esposizione all’uomo e dal rinforzo) capace tanto di leggere il comportamento umano quanto di produrre e d’indirizzare, ben prima della cooperazione richiesta al cane da lavoro, segnali di comunicazione specifici all’uomo. O, detto altrimenti, non ha richiesto una selezione diretta per migliorare questa abilità sociale cognitiva di base, giacché, di là da questo azzeramento dalla paura dell’uomo in seguito a un’evoluzione del corredo filogenetico che si traduce nell’interagire con gli umani come se fossero cani (cioè spostando l’abilità d’interpretare il comportamento degli altri cani all’uomo, ossia passando dall’abilità intraspecie a quella interspecie), l’intelligenza del cane è un fenomeno interamente epigenetico, vale a dire un adattamento all’ambiente nel quale il cane sta crescendo. Come dire, ancora, che la seguente e conseguente struttura comportamentale del cane dopo il citato azzeramento, non è genetica nel senso che i geni fissano o predeterminano i tratti e i comportamenti adulti, ma che ogni singola caratteristica è solo un adattamento ontogenetico all’ambiente. Quindi, generalizzando, è probabile che l’innata socialità con l’uomo abbia avvantaggiato il Canis familiaris in quei contesti dove, anziché procurarsi le risorse trofiche da sé, questo deve farsi alimentare dall’uomo, tanto da costringersi a rispondere in modo attivo e pertinente al comportamento umano (e questo può spiegare il perché della riduzione del cervello nel passaggio dal Canis lupus a Canis familiaris poiché le dimensioni e le caratteristiche del cervello sono sempre strettamente vincolate all’ecosistema, in particolare alla dieta possibile in una certa nicchia). Per finire, si sottolinea che la grande diversificazione in razze del Canis familiaris risale solo a ca. 200 anni fa, ed è stata ottenuta con l’incrocio di razze diverse (cioè per il tramite d’un processo in cui s’introducono nel pool genico di un cane dei geni appartenenti a un altro cane che possiede un corredo cromosomico diverso, fenomeno detto d’ibridazione, o crossbreeding) e manipolando il momento d’inizio e d’interruzione della crescita e, fatti salvi i limiti della crescita allometrica, ossia della restrizione evolutiva nei confronti della forma che un cane può arrivare ad assumere, tra una razza e l’altra non si notano differenze genetiche apprezzabili. Come dire che nelle varie razze c’è pochissima variazione genetica, tanto che si può affermare che, se i geni sono gli stessi, eseguono però la metamorfosi dal cucciolo alla forma adattiva adulta in tempi diversi (si parla, a questo proposito, di differenze eterocroniche nella progressione temporale dello sviluppo).
Per quanto riguarda la domesticazione del gatto selvatico, la sua presenza accanto agli umani data con certezza a partire da 9 500-9 200 anni fa (si tratta di resti fossili di un gatto selvatico africano, cioè di Felis silvestris lybica, introdotti nell’isola di Cipro in seguito a un’ondata migratoria e colonizzatrice, e ritrovati in una sepoltura intenzionale assieme ai resti d’un corpo umano nello scavo del sito preceramico di Shillourokambos), ma la sua domesticazione certa (da Felis silvestris a Felis silvestris catus, laddove il Felis silvestris si separa dalle altre specie ca. 2 milioni d’anni fa), data a partire da 5 300 anni fa (da un ritrovamento in Cina), domesticazione che ha favorito l’emergere di comportamenti legati all’apprendimento del rapporto fra stimolo (caccia da agguato) e ricompensa (cibo umano, giacché i gatti cacciano anche in assenza di fame), cioè un mutamento delle funzioni cerebrali in rapporto a una riduzione dell’aggressività e all’emergere del tratto della docilità. Di fatto un’autodomesticazione che è legata, come in parte è avvenuto per il cane, all’affermarsi della stanzialità e delle società agricole, cioè a un aumento delle disponibilità alimentari carnee (la dieta del gatto, infatti, è composta per il 70% e oltre da carne, e lo mostrano i loro canini e i loro denti carnassiali, cioè l’ultimo premolare superiore e il primo molare inferiore, allineati in modo tale da funzionare come strumenti trancianti per tagliare via la carne dalle ossa, carne che non è poi generalmente masticata, ma ingoiata intera). Nello specifico questa disponibilità riguarda le popolazioni infestanti di roditori (topi e ratti) e uccelli attirate negli insediamenti umani dove sono presenti semi e immagazzinati degli accumuli di prodotti agricoli, ciò che è di reciproco vantaggio e per i gatti predatori e, soprattutto, per gli umani stanziali che sono dipendenti da questa pressione predatoria. Sede della domesticazione sono probabilmente stati i villaggi agricoli cinesi, dove è accertata la presenza di magazzini di stoccaggio dei cereali e un ciclo che lega i roditori al miglio e i gatti ai roditori e agli uomini (come è avvenuto nel 5 300 nel villaggio agricolo di Quanhucun, nella regione del Shaanxi, Cina Nordoccidentale), cui s’aggiungano quelli delle regioni della Mezzaluna fertile (v. supra). Oltre a questo aspetto mutualistico, in seguito si presenta, com’è avvenuto per il cane, un mutamento di nicchia ecologica (commensalismo) che porta a un diverso regime alimentare in cui il gatto domesticato è direttamente alimentato da mano umana, con conseguenti modificazioni del comportamento, per esempio, con la regressione ad alcuni tratti infantili nell’individuo adulto, una specie di neotenia (v. supra), o la modificazione della fisiologia dovuta all’allungamento dell’intestino. Quest’ultimo tratto, per inciso, è probabilmente una conseguenza adattativa a una dieta mista, meno carnivora, che per l’estrazione e l’assimilazione dei principi nutritivi da alimenti alimentari richiede viscere più lunghe, e n’è esempio il miglio che i gatti di Quanhucun si sono abituati a mangiare, come è documentato, quale controparte degli agricoltori alla loro attività di caccia della popolazione murina e aviaria. Bisogna poi sottolineare che il gatto, per le sue abitudini riproduttive e alimentari, non può mai ritenersi completamente domesticato in quanto, a differenza degli organismi domesticati, non s’evolve nella dipendenza totale dall’uomo poiché mantiene delle caratteristiche adattative specie-specifiche che gli permettono il riadattamento ad un ambiente poco o parzialmente o per niente antropizzato. Come dire che il gatto manca di quel tratto della coevoluzione sociale con l’uomo, cioè la pratica gregaria d’accettazione completa e non relativa a una gerarchizzazione sociale utilitaristica, che lo renderebbe di fatto pari alle altre specie domesticate che sono sociali allo stato brado; mancanza di cui è indizio anche il fatto che, mentre i corrispettivi  selvatici di tutte le altre specie domesticate sono ormai estinti o sull’orlo dell’estinzione (come, per esempio, il Canis lupus) il Felis silvestris oggi prospera accanto al Felis silvestris catus. E per finire, un inciso. S’è già usato, e più volte, il termine mutualismo, e si sottolinea che s’intende parlare con questo termine dell’associazione tra specie animali differenti (qui cane/uomo o gatto/uomo) che comporta un vantaggio per entrambe le specie, e senza che tale rapporto (almeno nella fase iniziale) sia obbligato in quanto le due specie possono vivere anche indipendentemente l’una dall’altra, mentre con commensalismo s’intende invece parlare dell’associazione tra due specie che produce benefici trofici per una sola specie (qui il cane e il gatto, nella loro fase premutualistica). Ed è bene ricordare, tra le altre cose, che mutualismo vuol anche dire che ci si può anche nutrire del cane o del gatto (e, in linea generale, dell’animale che s’alleva), mentre commensalismo vuol dire che, anche se non si dà direttamente da mangiare all’animale (qui il cane) come si fa con gli animali di compagnia, questo può però nutrirsi con i rifiuti prodotti dall’uomo grazie al tratto della flight distance, presente anche in altre specie (per esempio, gabbiani, piccioni, ratti e scarafaggi), perché ciò che varia, infine, è solo il tipo di nicchia.

UOMO E AUTOMESTICAZIONE

L’ipotesi di un’autodomesticazione dell’uomo non è sperimentalmente dimostrabile, ma alcuni fatti documentati la rendono plausibile, nell’ordine, la domesticazione della Volpe argentata, la domesticazione del Cane (di cui s’è detto sopra) e la fenomenologia comportamentale degli Scimpanzé pigmei, o Bonobo (Pan paniscus), tutti casi dove i cambiamenti anatomici e fisiologici osservati sono il risultato d’una selezione (artificiale nel caso delle Volpi, naturale nelle altre due specie) ch’è avvenuta sulla sola base del coinvolgimento di tratti comportamentali, tutti casi dove  la selezione per la docilità, cioè la pressione selettiva, ha prodotto dei cambiamenti ormonali e neurochimici che traducono, a livello biologico, una domesticazione interspecie  (cioè con l’uomo) nelle Volpi e nei Cani e intraspecie tra i Bonobo. Tutti effetti che si possono ipotizzare come marcatori generali della domesticazione giacché diverse specie (per esempio, Maiali, Pecore, Capre e altre, v. supra) hanno risposto, se sottoposti alla stessa tipologia di pressione selettiva, in modo simile, e questo perché i Mammiferi condividono, nonostante le specie, meccanismi simili di regolazione degli ormoni e della neurochimica dell’organismo. Partiamo dalla Volpe, che al pari del Lupo, del Cane, dello Sciacallo, del Coyote e altri, appartiene alla famiglia dei Mammiferi carnivori dei Canidi (v. supra), specificamente dalla Volpe argentata (una variante di colore nero della Volpe fulva, Vulpes vulpes, il cui manto di colore scuro presenta in superfice un colore bianco) che, allo scopo di studiare le modalità di domesticazione  del cane, è stata domesticata a partire dal 1959 in una struttura di ricerca di Novosibirsk, in Siberia, attraverso una selezione artificiale di Volpi già in cattività e virtualmente selvatiche. Selezione, questa, che s’è basata non sulla selezione di tratti morfologici, bensì su tratti comportamentali quali il grado manifesto di docilità di alcune di queste Volpi (generalmente molto aggressive) verso gli umani, cioè attraverso l’accoppiamento degli esemplari ritenuti più mansueti. Il test standard di scelta dei cuccioli prodotti da questo accoppiamento consiste, a partire dall’età di un mese fino ai 7-8 mesi (quando presentano la maturità sessuale), nell’offrire loro del cibo e in pari tempo accarezzarli e coccolarli e, in base alla risposta comportamentale ottenuta, suddividerli in  tre classi, come da tabella:

CLASSI
COMPORTAMENTO MANIFESTATO
% DELLA POPOLAZIONE TOTALE
III
RIFUGGONO LE CAREZZE O MORDONO CHI LI ACCAREZZA
90
II
SI LASCIANO TOCCARE, MA IN ASSENZA DI MANIFESTAZIONI AMICHEVOLI NEI CONFRONTI DELL’UOMO
I
SI LASCIANO TOCCARE E PRESENTANO REAZIONI AMICHEVOLI NEI CONFRONTI DELL’UOMO (SI AVVICINANO)
10

Tabella n.   . Fonte (adattata): Trut, 1999, p. 163.

Quelli scelti sono i cuccioli della Classe I che, arrivati in eta riproduttiva, sono fatti accoppiare. Se inizialmente i cuccioli di Volpe in grado di rispondere ai criteri di amicalità stabiliti per rapportarsi agli umani sono poche, dopo solo 6 generazioni d’allevamento selettivo orientato alla docilità le Volpi si sono modificate al punto che viene istituita una nuova classe (l’élite domesticata, IE) e si modificano le scelte, come da tabella:

CLASSI
COMPORTAMENTO MANIFESTATO
SCELTA DEGLI SPERIMENTATORI SULLA POPOLAZIONE ORIGINARIA
III
RIFUGGONO LE CAREZZE O MORDONO CHI LI ACCAREZZA
SONO SCELTI PER CREARE IL GRUPPO DI CONTROLLO (CON IL TRATTO DELL’AGGRESSITÀ [1])
II
SI LASCIANO TOCCARE, MA IN ASSENZA DI REAZIONI POSITIVE NEI CONFRONTI DELL’UOMO
I
SI LASCIANO TOCCARE E PRESENTANO REAZIONI POSITIVE NEI CONFRONTI DELL’UOMO (SI AVVICINANO)
SONO QUELLI INIZIALMENTE SCELTI; MA, A PARTIRE DALLA SETTIMA GENERAZIONE, SI SCELGONO QUELLI CHE CONFLUISCONO NEL GRUPPO IE
IE
SONO ANSIOSI DI STABILIRE CONTATTI CON L’UOMO, CERCANO LA SUA ATTENZIONE, LO FIUTANO E LO LECCANO GIÀ ALLA FINE DEL PRIMO MESE (COMPORTAMENTO DOG-LIKE [2])
SONO QUELLI SCELTI DEFINITIVAMENTE, MA SOLO A PARTIRE DALLA SETTIMA GENERAZIONE DELLA CLASSE I (GRUPPO SPERIMENTALE)
[1] Il gruppo di controllo permette di misurare ogni cambiamento indotto dalla selezione
    sperimentale. Da sottolineare che entrambi i gruppi non sono stati allevati a contatto
    con l’uomo, esclusi il test iniziale e il momento della nutrizione.
[2] Cioè con un comportamento come quello del Cane.

Tabella n.   . Fonte (adattata): Trut, 1999, pp. 160-169.

Ora, verso la decima generazione il 18% delle Volpi sottoposte ad esperimento appartiene alla classe IE, è cioè domesticato, dato che sale al 35% dopo 20 generazioni e al 70-80% dopo 35-40 generazioni; il tutto con effetti collaterali plurimi e apparentemente non connessi prodotti dalla pleiotropia (v. supra), cioè con il fatto che nel corso delle generazioni muta la morfologia in quanto le orecchie diventavano flosce e pendenti, la coda più corta o arricciata all’insù, il colore ritenuto standard del manto muta in marrone o in manti pezzati, i crani si modificano anche rispetto al dimorfismo sessuale e il muso diventa più corto (ma la taglia non si modifica); oltre a questo, si manifesta la ritenzione di caratteristiche infantili (neotenia), la maturità sessuale si manifesta prima, l’estro in un anno raddoppia e la fisiologia si modifica con una riduzione della concentrazione del cortisolo (nella popolazione sperimentale di quattro volte inferiore a quella di controllo), e cui è pari un aumento della serotonina (v. supra). Infine, il comportamento, a partire da quello che si potrebbe definire abbaio, diventa in tutto e per tutto come quello del cane (dog-like) e, ciò che più importa, s’emancipa anche l’evoluzione cognitiva verso i segnali comunicativi umani (questo dopo 18 generazioni e con un comportamento della Volpe domesticata che, a un mese dalla nascita, si dimostra simile a quello d’un analogo cucciolo di cane), ciò che legittima l’ipotesi processuale di domesticazione del Cane come una successione senza soluzione di continuità tra la selezione naturale (che è dominante nei primi stadi della domesticazione) e la soluzione artificiale (che è presente a seguire). Un processo che porta Cani e Volpi domesticate a spostare in modo innato l’abilità a interpretare i comportamenti intraspecie verso quelli interspecie, qui l’uomo. Detto della volpe, per affrontare ora la questione dei Bonobo e dell’ipotesi della loro autodomesticazione, è necessario parlare anche degli Scimpanzé (Pan troglodytes), e della rete sociale che è propria a entrambi questi Pongidi (v. supra). Gli Scimpanzé vivono in bande che, risorse permettendo, possono arrivare fino a 150 individui e coprono un vasto territorio che percorrono alla ricerca di cibo (la dieta è principalmente a base di frutta, ma è compresa anche la carnivoria) e, escluso il rapporto madre/figlio, non esistono fra questi individui dei legami stabili e la femmina, se le è possibile, s’accoppia con vari partner (o poliandria, dal greco πολύανδρος, che ha molti uomini). Tolto questo, i componenti della banda, comprese le femmine, cooperano però fra di loro nella caccia (salvo manifestare interazioni aggressive nel momento della spartizione della carne; la loro preda preferita è poi il piccolo di una scimmia arboricola, il Colobo rosso, o Piliocobius badius, che adulta ha un peso di 5-10 kg), così come collaborano nel presidiare il loro territorio e manifestano ostilità verso gli estranei (o xenofobia) e una forte aggressività nei confronti delle bande confinanti i cui membri possono essere uccisi (a partire dai maschi e dai piccoli, soggetti questi a cannibalismo, però risparmiando, solitamente, le femmine) per occupare il loro spazio vitale, cioè per ridurre la pressione sulle risorse disponibili, tanto che la prima causa di mortalità tra gli Scimpanzé maschi allo stato brado consiste proprio nel tasso d’aggressione mortale dovuto a questa guerra fra bande. Quest’aggressività si manifesta poi anche all’interno delle bande, suddivise per gruppi dai confini incerti, variabili e perennemente in fase di ristrutturazione (secondo un modello detto di fusione/fissione, dove la fusione è data di notte nel dormire tutti assieme e la fissione nella separazione durante il giorno per risolvere le esigenze alimentari) e può esercitarsi con violenza, quali morsi e percosse, nei confronti della femmina in estro appartenente a un maschio di rango del gruppo (e con infanticidi per affermare il controllo spermatico sulla femmina) e, fatte salve le intimidazioni solo esibite, può essere mortale tra i maschi al fine di conquistare la posizione dominante che permette, all’interno d’un gruppo, il controllo gerarchico, la preminenza nel momento della spartizione della carne e il controllo sessuale delle femmine nel periodo dell’estro (che coincide poi con il massimo periodo dell’attività sessuale fra gli Scimpanzé). Come dire che quella dello Scimpanzé è una rete sociale che privilegia il ruolo del maschio dominante e che sottomette tutto a questa logica dominanti vs. dominati (o androcrazìa, dove andro- è dal greco ἀνήρ ἀνδρός, uomo). Per quanto riguarda la specie Pan paniscus (detti anche Scimpanzé pigmei, il che non deve far pensare che siano molto più piccoli del Pan troglodytes, miniaturizzati, giacché si tratta solo d’una leggera riduzione di taglia che porta a una corporatura più esile, a una struttura più slanciata, ad arti in proporzione più lunghi), e fatto salvo che nuovi studi potrebbero rendere la descrizione a seguire idilliaca, negli studi fino ad ora presenti s’afferma che presso i Bonobo la rete sociale privilegia all’interno della comunità il ruolo dominante delle femmine, comunità ch’è poi formata, sempre stando alle risorse disponibili, da un massimo di 80 individui. Le femmine, infatti, intessono fra loro legami d’amicizia secondo un modello ginecocratico (dal greco γυναικοκρατία, composto di γυνή γυναικός, donna e -κρατία, potere), per cui il maschio non può usare l’aggressività per sottomettere le femmine e, in questa rete estesa sul territorio, il Bonobo non è xenofobo, non presidia i confini né esercita scontri territoriali, anzi quando gruppi confinanti s’incontrano si creano alleanze e non stagioni di conflitti territoriali. Il cemento sociale tra i Bonobo non rientra in quella dinamica processuale ch’instaura il rapporto dominante/dominati, ma è dato da un’eccitazione genitale costante (dunque non solo nel periodo dell’estro delle femmine, come per gli Scimpanzé) che si dispiega nella bisessualità e nella pansessualità, cioè in tutte le forme possibili dell’interazione sessuale non riproduttiva e strumentale, sia etero che omosessuale, sia con adulti che con immaturi, inclusi nel repertorio la manipolazione dei genitali propri e altrui, il baciarsi con la bocca e, sporadicamente, la pratica del sesso orale e la copula ventro-ventrale, cioè faccia a faccia, che si credeva propria solo agli umani (questa copula, dove i Bonobo manifestano un assiduo contatto oculare, è poi permessa dall’orientamento frontale dei genitali della femmina, cioè dal fatto che questi non sono orientati verso l’ano come in altri primati). Quest’interazione, promossa e mantenuta dalle femmine, è anche data dal fatto che le femmine dei Bonobo praticano poi, in funzione d’integrazione sociale fra ranghi diversi, il tribadismo, cioè lo sfregamento della clitoride, spesso faccia a faccia (detto sfregamento genito-genitale, o sfregamento GG), là dove la rivalità maschile è poi risolta spesso con rapporti omoerotici tipo il frottage, cioè lo sfregamento, in posizione faccia a faccia, dei genitali eretti o con lo sfregamento natiche a natiche delle voluminose sacche scrotali, anche se queste tipologie si praticano meno spesso rispetto agli sfregamenti delle femmine tribadi. Sempre riguardo alla sessualità, mentre tra gli Scimpanzé è la femmina ch’esibisce ai maschi il rigonfiamento genitale mensile (l’estro), tanto che all’avvicinarsi dell’ovulazione con il suo corredo olfattivo si scatena l’aggressività dei maschi per il predominio nella copula (che, a differenza dei Bonobo, è ventro-dorsale), questo fenomeno non avviene con le femmine dei Bonobo. Infatti queste, nascondendo l’ovulazione (ossia non facendo coincidere la fase del gonfiore sessuale con l’effettiva ovulazione), impediscono di fatto ai maschi di riconoscere il preciso momento procreativo della copula, ciò che può disincentivare di per sé la competizione. Detto questo, sarebbe però eccessivo definire i Bonobo come non violenti, visto che anche i Bonobo praticano la carnivoria e possono predare scimmie giovani (tra queste, il Cercocebo dal ciuffo, Lophocebus aterrimus), questo senza però mai raggiungere i tassi predatori degli Scimpanzé, e che le femmine, per esempio, per difendersi da un maschio aggressivo, si coalizzano fra di loro e feriscono il detto maschio, anche gravemente (seppure mai in un modo che sia per questi mortale, come capita tra gli Scimpanzé), così come sarebbe eccessivo definire questa società come democratica perché le disparità esistono, come mostra l’ascesa di status d’un bonobo maschio ch’è determinata dal potere gestito dalla madre nel gruppo (o nepotismo), ciò che di fatto facilita l’accesso al cibo. O, ancora, che l’ansia non esista in questa società poiché, per esempio, nei maschi di status sono presenti alti livelli di cortisolo correlati allo stress di ruolo in caso di copula con una femmina in estro, dovuti al fatto che questi maschi devono essere dominanti per controllare la controparte maschile antagonista e devono non esserlo per potersi accoppiare con la controparte femminile appetita. In pari tempo bisogna stemperare, senza nulla togliere alla dominante androcrazia della rete sociale degli Scimpanzé, le affermazioni perentorie che riguardano la loro competitività in quanto tra questi le interazioni pacifiche sono di gran lunga più frequenti di quelle aggressive, la gestualità blandamente minacciosa risulta più frequente di quella apertamente violenta, così come le minacce si verificano più spesso dei veri combattimenti cruenti. Detto tutto questo, l’antenato ancestrale di questi Pongidi è lo stesso, e sul piano genetico gli Scimpanzé e i Bonobo sono quasi identici (la differenza tra i due genomi è dello 0,4% e la divergenza fra i due è poi avvenuta per speciazione allopatrica a causa delle barriere fluviali del Congo che ha resi isolati i loro areali tra 1,5 - 1,3 milioni d’anni fa, altri dice meno di un milione d’anni fa, v. infra), eppure gli uni sono aggressivi come il Canis lupus (anche tra i Lupi, per inciso, una delle maggiori cause della mortalità è nell’aggressività maschile intraspecie fra branchi confinanti o fra individui per il controllo delle femmine in calore) e gli altri paiono domesticati come il protocane e il Canis familiaris (che, sempre per inciso, non ricorrono all’aggressività diretta, non cacciano, hanno una maggiore attività sessuale e sono promiscui). C’è dunque un qualcosa che ha reso i Bonobo meno aggressivi degli Scimpanzé, come se fossero Scimpanzé autodomesticati. Ora, analizzando le differenze anatomiche tra Scimpanzé e Bonobo, s’è notato che i canini sono meno sviluppati e che il cranio dei Bonobo può essere più piccolo anche del 15% rispetto a quello degli Scimpanzé, inoltre il dimorfismo sessuale è poco accentuato e sono poi presenti tratti neotenici come la testa che ha una forma arrotondata e la faccia ch’è meno sporgente, oltre a una riduzione del pigmento nelle labbra che diventano rosa, fenomeni, come visto, che si possono riscontrare anche in un’intera categoria d’animali domesticati, ciò che ha portato all’ipotesi dell’autodomesticazione dei Bonobo. Quest’ipotesi è stata testata poi analizzandone anche le differenze comportamentali e una serie d’alterazioni, specificamente quella dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (o Hypothalamic-Pituitary-Adrenal axis, HPA; per inciso, questo asse regola la risposta individuale di stress a una situazione potenzialmente pericolosa che potrebbe sfociare nella logica fight or flight) e quella del sistema serotoninergico. Per spiegare quest’ipotesi dell’autodomesticazione dei Bonobo partiamo dal fatto che la selezione naturale privilegia chi si riproduce di più, tanto che la nozione della sopravvivenza del più adatto non va necessariamente coniugata con la forza e l’aggressività a svantaggio del più debole perché, come visto per il Canis lupus e la Vulpes vulpes, è proprio la riduzione dell’aggressività che ha favorito e incentivato la riproduzione (e, nel caso del Canis lupus, con una riduzione evolutiva della distanza di fuga ne ha favorito, in una nuova nicchia, la sopravvivenza), per cui si può ipotizzare che una specie selvatica possa, in una nicchia dove è più facile l’accesso alle risorse trofiche, autodomesticarsi. E a questo proposito bisogna sottolineare che l’areale dello Scimpanzé (nella foresta tropicale che degrada a savana) s’estende dalla Sierra Leone fino ai laghi Vittoria e Tanganica, là dove le risorse, in caso di scarsità e pur con diete relativamente diverse, sono contese con il Gorilla (i primi sono frugivori, cioè s’alimentano principalmente di frutta, i secondi sono folivori, ossia hanno un’alimentazione a base di foglie), mentre l’areale del Bonobo, nella foresta pluviale, di suo più ricca in tutte le stagioni di risorse alimentari, è nella Repubblica democratica del Congo (ex Zaire), specificamente nella parte orientale del bacino del fiume Congo (Zaire), e a Sud del fiume Congo non ci sono Gorilla con cui competere per il cibo. L’assenza dei Gorilla in questo areale è poi spiegata dal fatto che questo habitat è pianeggiante, senza rilievi montuosi, giacché i rilievi montuosi sono solo presenti a partire dalla riva destra del fiume Congo, per esempio, i Monti Virunga, ed è questo dato che ha cambiato il destino dei Gorilla sulle due rive; infatti, la topografia ha permesso al Gorilla della riva destra, a partire dalla siccità impostasi con il cambiamento climatico di 3-2,5 milioni d’anni fa, ripresentatosi ca. 1 milione d’anni fa, di potere sopravvivere trovando in una nuova nicchia le risorse alimentari della sua dieta folivora, ora mancanti in pianura, solo a quote più alte, sui 2 000-4 000 m; ciò che però ha al contempo impedito ai Gorilla presenti nella riva sinistra di trovare nuove nicchie, dunque la possibilità di potere sopravvivere; questo a differenza degli Scimpanzé e dei Bonobo che possono sopravvivere con una dieta frugivora nelle foreste sul piano, sulle due rive del fiume. Ora, il fatto dell’assenza del Gorilla, vale a dire il non dover competere per l’accesso alle risorse (e laddove un Gorilla adulto, che consuma in media più di 30 kg quotidiani di risorse, potrebbe essere un forte competitore), sommato al fatto che la dieta dei Bonobo è diversa da quella degli Scimpanzé, questo visto che aggiunge, al cibo di cui entrambe le specie si cibano, alimenti ricchi di fibre quali foglie giovani e steli d’erba (come mostra anche l’apparato masticatorio ch’indica che sono e frugivori e folivori), dà origine a una meccanica che può modificare i rapporti intraspecie e potrebbe disincentivare il vantaggio evolutivo dei maschi aggressivi che lottano per le risorse. Questo facendo emergere, in un ecosistema isolato quale è la fitta foresta tropicale, là dove non esistono transizioni verso zone meno fitte (come nella parte sulla riva destra del Congo), dove le risorse trofiche sono abbondanti tanto da rendere inutile la competizione per l’accesso alle risorse, il tratto della docilità come fattore vincente di successo riproduttivo, e solitamente le femmine dei Bonobo mostrano una predilezione per i maschi mansueti. Come dire che in questo ecosistema isolato l’aggressività maschile verso le femmine e gli altri maschi modifica, ma in negativo, la capacità riproduttiva e di sopravvivenza (o fitness) tanto che i maschi meno aggressivi, soprattutto se alleati con le madri, possono mostrare, al contrario, un incremento della fitness. Tutto questo fatto salvo il fatto che, s’è assai azzardato il comparare le risorse odierne con quelle del passato (ossia affermare che i Bonobo hanno avuto nel loro habitat, la ricca foresta tropicale a sinistra del fiume Congo, varietà e quantitativi di frutta superiori a quelli dell’habitat degli Scimpanzé a destra del fiume Congo, ch’è relativamente più spoglio e più secco, quindi meno produttivo), non lo è dire che i Bonobo non sono stati costretti come gli Scimpanzé a contendere con altri Pongidi per le risorse (né, come gli Scimpanzé, sono stati costretti a inventare e utilizzare strumenti per aumentare la disponibilità trofica), il che è dire che è in ogni caso un surplus trofico ciò che farebbe la differenza tra il manifestarsi dell’aggressività e della docilità. La figura seguente mostra la localizzazione e l’estensione degli areali sopra citati:

Figura n.   . Fonte: Wrangham e Peterson, 1996, p. 222.


Detto questo, analizzando il comportamento verso il cibo di Scimpanzé e Bonobo, s’è poi potuto anche dimostrare che, conseguentemente, il primo è competitivo e il secondo collaborativo; infatti, in un esperimento per testare l’ipotesi della domesticazione dei Bonobo sono stati fatti entrare a turno, in una a stanza con del cibo in un piatto unico, prima una coppia adulta di Scimpanzé e poi una coppia adulta di Bonobo, e gli Scimpanzé si sono mostrati competitivi poiché uno dei due cercava d’accaparrarsi tutto mentre, al contrario, i Bonobo si sono mostrati collaborativi in quanto condividevano sempre il cibo, per di più giocando nel contempo tra di loro. Prelevando poi loro campioni di saliva al fine d’analizzare la fisiologia del comportamento di queste coppie, gli Scimpanzé mostravano un aumento di testosterone e i Bonobo un aumento di cortisolo; ora, il testosterone è un ormone secreto dai testicoli e rappresenta, nei mammiferi, il principale ormone sessuale maschile (è un ormone androgeno) e, tra altre funzioni, entra anche in gioco nei comportamenti di dominanza, cioè nei ruoli competitivi e antisociali, dove può essere correlato ad un aumento dell’aggressività, come è stato mostrato nell’assunzione d’un ruolo chiuso al diverso da sé proprio agli Scimpanzé nel momento della spartizione del cibo (e se, allo stato brado, il gruppo è misto, e indipendentemente da chi ha trovato il cibo, è sempre un maschio che se ne impossessa). Nei Bonobo, al contrario, sono invece aumentati i livelli di cortisolo (v. supra), ciò che indica non un ruolo competitivo e antisociale, bensì un momento d’interazione sociale di tolleranza che produce uno stress che si cerca di controllare per il tramite d’una attività ludica che previene la competitività e favorisce la cooperazione, cioè l’assunzione d’un ruolo aperto alla condivisione sociale del cibo, come dire che la selezione autodomesticante del tratto della docilità potrebbe in parte spiegare la variabilità nella capacità di cooperazione tra le specie che si può qui analizzare data la diversa fisiologia dei Bonobo e degli Scimpanzé. Ma non solo la fisiologia è in grado di convalidare l’ipotesi dell’autodomesticazione giacché altre sperimentazioni hanno mostrato che i Bonobo sono attratti dagli estranei, capaci di flessibilità cooperativa e d’intelligenza sociale (anche con l’uomo; infatti, è più probabile che un Bonobo, e non uno Scimpanzé, guardi nella direzione d’un uomo) e questo significa che i Bonobo sono più sensibili all’informazione sociale e per questo dotati di abilità impensabili per uno Scimpanzé. Ed è alla fin fine più che probabile che queste differenze anatomiche, fisiologiche, comportamentali e cognitive tra i Bonobo e gli Scimpanzé siano probabilmente tali a causa dei cambiamenti evolutivi manifestatisi come un prodotto secondario dell’autodomesticazione, alla stessa stregua di ciò che è capitato nelle Volpi domesticate e nei Cani. Ora, assodato che l’aggressività può fortemente ostacolare il potenziale cognitivo per potere risolvere dei problemi sociali e che la selezione sulla reattività emozionale (cioè il passaggio alla docilità), al contrario, influenza positivamente la capacità cognitiva di risolvere i problemi sociali, la domanda è se la sindrome dell’autodomesticazione può spiegare anche l’evoluzione cognitiva del genere umano (il cui fondamento si trova nel bambino che, nel primo anno di vita, sviluppa delle competenze sociali che gli consentono di comunicare e d’apprendere dagli adulti che lo curano e che, già a 14 mesi, manifesta una forte motivazione a cooperare, là dove la comunicazione e la cooperazione sono poi il cemento di qualsiasi società). E la risposta è sì se solo si suppone che il tratto della docilità (che si traduce come tolleranza verso il diverso da sé) abbia preceduto l’evoluzione di forme cognitive complesse che, di fatto, sono inutili alla sopravvivenza della specie se per caso i componenti d’una società non la supportano con la cooperazione fra di loro. Questo perché è sempre estremamente dispendioso per il metabolismo d’un individuo mantenere un cervello capace di complesse abilità cognitive, cervello che per altro sarebbe già stato eliminato dalla selezione naturale se il cooperare fra gli individui non fosse stato un tratto pervasivo e incentivante della specie. Oltre a questo, si sa anche che la cooperazione, senza la tolleranza verso l’altro, è di fatto un evento sociale impossibile a realizzarsi, e questo presuppone che, per permetterla, sia avvenuta a monte l’individuazione, l’estromissione o l’eliminazione degli elementi perturbanti, cioè intolleranti (come fanno le femmine dei Bonobo con i maschi aggressivi). Si può poi presupporre, ancora, che dopo questa prima ondata di selezione, ne sia avvenuta un’altra ch’è intervenuta direttamente sulle differenze individuali a livello di cognizione sociale, ed è a partire da questa seconda ondata che in isolamento sessuale dagli individui aggressivi continua a riprodursi all’interno del gruppo sociale il tratto della tolleranza e della cooperazione che permette d’accudire una prole più numerosa e geneticamente differenziata grazie all’aumento delle capacità comunicative e delle risorse alimentari dovute all’attività cooperativa ch’è in grado di controllare il farsi d’una nicchia via via più estesa (e si dice questo sulla falsariga delle tappe dell’evoluzione da Lupo a protocane, che sarebbe qui la prima ondata, e da protocane a Cane da lavoro, identificata come seconda ondata, là dove i Cani da lavoro collaborano in modo flessibile con l’uomo a differenza dei protocani che sono meno evoluti cognitivamente, e sempre avendo come riferimento l’uomo). Detto questo, quando poi sia accaduta questa selezione evolutiva sulle dinamiche emotive, come quelle che controllano la paura e l’aggressività e quando e come si sia manifestata l’emarginazione degli elementi perturbanti la cooperazione sociale e la conseguente pressione selettiva sulla docilità che ha permesso, alla fin fine, che la cooperazione si manifestasse come una strategia consolidata nell’evoluzione della nostra specie, tutto questo non si sa perché molto dipende dal corredo genetico dell’ultimo antenato avuto in comune con Bonobo e Scimpanzé. In ogni caso, l’uomo moderno, rispetto ai reperti fossili di 200 000 anni fa, mostra ossa più sottili, denti più piccoli e più ravvicinati, un viso più corto (che spiega il mento) e un cranio più piccolo, tutti indizi morfologici che sono compatibili con la sindrome della domesticazione. Altri dati affermano poi che a partire da 50 000 anni fa, quando Homo sapiens ha già iniziato il suo percorso di colonizzazione, il cervello umano s’è ridotto del 10-30%, giusto quando Homo sapiens è in possesso del linguaggio e produce manufatti complessi che presuppongono una persistente cooperazione sociale. E se è vero che le sopravvissute società di caccia e raccolta sono società che non hanno un leader o un individuo dominante decisore per tutti e cooperano fra di loro anche per ostracizzare, ripudiare ed eventualmente uccidere chiunque tenti d’imporsi con la forza per dominarli, allora è più che probabile che il tratto della tolleranza ci abbia permesso l’evoluzione cognitiva come effetto a lato dell’autodomesticazione, questo visto che le società di caccia e raccolta hanno accompagnato quasi per intero l’evoluzione della specie Homo sapiens, tranne che negli ultimi 12 000 anni, quelli che partono dalla nascita dell’agricoltura e delle società stanziali. Che poi in questi ultimi 12 000 anni, nelle società che si fanno storiche, la cooperazione abbia permesso anche un’evoluzione cognitiva raffinata capace di tradurre operativamente, a vantaggio dei pochi, la cooperazione dei molti come un tratto imposto o con la coercizione o con l’abilità manipolatoria delle emozioni intrecciate con le strutture cognitive, questa è poi tutta un’altra storia. 

BIOCENOSI E BIOMI


Dato un biòtopo (cioè un ambiente fisico-chimico omogeneo, ossia dato il substrato suolo, la temperatura, l’umidità, la radiazione solare etc.), l’insieme delle specie animali ch’esso presenta è detto zoocenòsi; fitocenosi è invece detto l’insieme delle specie vegetati che sono sempre in un dato biotopo; laddove, supposto che il biotopo sia sempre lo stesso, è poi detta biocenosi l’associazione delle zoocenosi e fitocenosi presenti, tanto che le interazioni e le interdipendenze molteplici e dinamiche che s’instaurano nel biotopo fra le comunità presenti, fra loro (a livello biotico, e senza dimenticare Funghi e Batteri, cioè i decompositori, e tutti gli altri organismi che vivono negli strati superficiali del terreno, quello che si chiama èdafon, dal greco ἔδαϕος, suolo) e con il biotopo stesso (a livello abiotico), dà origine a un ecosistema, che presuppone a sua volta delle zone e delle comunità di transizione rispetto ad un ecosistema vicino, cioè un’area di tensione ch’è detta ecotòno; va da sé che il numero di specie che rientrano nella biocenosi, ch’è in equilibrio dinamico e relativamente stabile (cioè in una situazione di climax), è inevitabilmente soggetto alle alterazioni che si presentano nel corso del tempo, giacché uno stato stazionario, cioè un ecosistema chiuso, è destinato a non potere sussistere (da ricordare, inoltre, che non bisogna confondere il termine biotopo con habitat, poiché il biotopo è lo spazio fisico occupato da una biocenosi, mentre l’habitat è quello occupato da una specie; così come non bisogna confondere l’habitat con la nicchia ecologica essendo questa la somma delle risorse energetiche che permettono la sopravvivenza e la riproduzione d’una specie nel proprio habitat, cui s’aggiungano la funzione biologica e il ruolo ecologico che la specie ricopre all’interno della comunità rispetto alle altre specie che caratterizzano la biocenosi; ancora, che a volte il termine biocenosi è sostituito con il termine biota e che il termine cenosi, che ritorna nelle definizioni, deriva poi dal greco κοίνωσις e sta per unione, comunanza). Detto questo, il termine bioma riguarda la tipologia della biocenosi  che una regione (o fascia) climatica rende possibile e sottolineando ch’è a partire dalla vegetazione che s’è assestata nel tempo come dominante (vegetazione climax) che si classificano i biomi terrestri, giacché sono le piante la base della catena alimentare che su di esse s’impianta; e con questo valorizzando anche che ciò che conta è la relazione che il clima intrattiene con i suoli (o pedoclima, dove pedo- è dal greco πέδον, pianura, campo), poiché, dati i componenti d’un suolo, questo è dato anche dall’insieme delle condizioni che dipendono dall’insolazione, temperatura, dall’umidità etc. (ossia gli effetti del contatto con l’ambiente aereo) che ci danno lo stato fisico del terreno, cioè la sua capacità produttiva (detta fitomassa) e, alla fin fine, la superiorità d’una fitocenosi e la possibilità d’una biocenosi (la fitomassa e la zoomassa, insieme, ci danno poi la biomassa, cioè la massa totale di tutti gli organismi viventi che quel bioma supporta, espressa come peso secco in  tonnellate o chilogrammi per unità di superficie, per ettaro, t/ha, v. infra) ; la figura seguente illustra i possibili tipi di bioma (e dove c’è scritto prateria leggasi steppa) che la temperatura (in °C) e le precipitazioni possono determinare (le precipitazioni si misurano in mm; si ricorda che il volume d’acqua delle precipitazioni è espresso come profondità dell’acqua su una superficie piana; si ha piovosità di 1 mm quando su una superficie piana di un 1 m2 cade un litro d’acqua alto un millimetro, di 10 mm quando cadono 10 litri etc.):


Figura n.  . Fonte: Zunino e Zullini, 2014, p. 100.

Si può ora definire un bioma come un raggruppamento d’ecosistemi che s’estendono su scala continentale legati da fattori topografici (quali, per esempio, la latitudine, l’altitudine, le precipitazioni, le variazioni stagionali), pedoclimatici e storici (per esempio, un evento tettonico o una deglaciazione) e che s’apparentano in base alle caratteristiche del biotopo e delle biocenosi interrelati e interdipendenti fra di loro; o, detto in altro modo, i biomi rimandano a una zonazione delle fasce climatiche della biosfera che sono individuate in base all’areale di fitocenosi o zoocenosi differenti, che presentano convergenze verso forme biologiche equivalenti negli interi ecosistemi coinvolti e anche se le aree geografiche sono spazialmente lontane tra loro; e qui s’impone di spiegare qual è la differenza tra la cartografia delle regioni fitogeografiche viste in precedenza e quelle dei biomi, spiegazione che si ritrova nel fatto che nelle prime valgono i criteri genetici e tassonomici di somiglianza, mentre, nelle seconde, valgono le fitocenosi che hanno raggiunto un adattamento climax al biotopo che le ospita, per cui certe aree geografiche possono essere anche spazialmente distanziate (per esempio, l’area circummediterranea e la California) e la cosa non importa, perché quello ch’importa è che siano climaticamente simili, cioè che presentino lo stesso tipo di stadio climax della vegetazione con la dominanza d’una forma di crescita sulle altre; per esempio, e semplificando, nell’area circummediterranea e la California si forma il bioma che si chiama macchia perché in entrambe le aree gli arbusti sempreverdi dominano sulle forme erbacee e arbustive (dato un comune biota povero di nutrimenti e un clima arido, dovuto ad estati secche e inverni piovosi, si viene, infatti, a formare una convergenza nella vegetazione climax), così come, per altre aree, appartengono allo stesso bioma gli alberi che dominano sulle forme arbustive e sulle erbacee perché, anche se si tratta di ventagli floristici differenti da un’altra area geografica all’altra, entrambe rientrano nel bioma foresta perché il biota comune, date le precipitazioni, soddisfa l’enorme richiesta d’acqua delle piante; lo stesso se si tratta di altre forme, di forme erbacee che dominano su forme arbustive e su forme arboree, cioè il bioma  prateria etc.; ancora, rientrano nei biomi terrestri i biomi dell’idrosfera (v. infra), cioè d’acqua dolce, quali laghi, stagni, paludi e acquitrini, fiumi e corsi d’acqua etc. (v. infra) e i biomi di transizione dolce/salato, quali le foci, i laghi costieri e le lagune salmastre (come vedremo, i biomi marini sono poi generalmente distinti in base alle specie animali presenti nelle zonazioni in cui si articolano le acque marine); s’aggiunga ora che i principali biomi terrestri, che saranno illustrati a seguire e ripresi là dove una specificazione sarà necessaria, sono rappresentati, andando dal Polo Nord all’Equatore (Emisfero Boreale, ma lo stesso vale per l'Emisfero australe), dalla tundra (latitudine 90°-60°), dalla foresta boreale (latitudine 60°-50°), dalla foresta temperata (latitudine 50°-40°), dalla steppa e dalla macchia (latitudine 40°-30°), dal deserto (latitudine 30°-20°), dalla savana (latitudine 20°-10°) e dalla foresta pluviale (latitudine 10°-0°), e ricordando che non mancano per i biomi i nomi locali, quali puszta (prateria), pampa, veldt (o veld, prateria), chaparral (boscaglia), maquis (macchia), tàiga (foresta boreale), pàramo (tundra) etc.; partiremo dunque seguendo questo ordine, ma prima altre informazioni sui fattori che possono determinare la tipologia dei suoli (v. anche, infra, Pedosfera) determinante nella crescita d’un manto vegetale. Oltre alla luce (lunghezza d’onda, intensità, durata dell’insolazione, o fotoperiodo), alla temperatura (che gli organismi viventi tollerano nel ventaglio tra -10 °C e 45 °C), all’umidità e ai fattori climatici (piovosità e umidità, il pedoclima insomma), ai nutrienti (richiesti dalle piante e dagli animali come quantità massime o minime, ossia come macro e micronutrienti, presenti nell’humus e nella catena alimentare) definiscono i suoli anche i valori presenti di pH; il pH è poi la misura della concentrazione di ioni idrogeno in una soluzione, e presenta valori compresi tra 0 e 14 (si misura il logaritmo decimale dell’inverso della concentrazione degli ioni idrogeno in una soluzione acquosa, in formula pH = -log [H+]; essendo la scala logaritmica, v. infra, la variazione di un grado pH corrisponde a un aumento o a una diminuzione di dieci volte la concentrazione degli ioni H+, per esempio un pH 8, rispetto a un pH 9, presenta una concentrazione degli ioni H+ decuplicata); quando la concentrazione degli ioni idrogeno è compresa tra i valori  di pH 6,9  e 0 si parla d’un ambiente acido (e più il PH è basso, più la soluzione è acida), s’è compresa tra i valori pH 7,1 e 14 si parla d’ambiente basico (e più il PH è alto, più la soluzione è basica, o alcalina), se il pH è 7, l’ambiente è neutro (vale a dire che la concentrazione degli ioni idrogeno H+ è uguale a quella degli ioni idrossido, OH-); e tra le piante ci sono quelle adatte a crescere o su un suolo acido o su un suolo alcalino; per esempio, le piante che crescono nei suoli delle fasce climatiche umide li preferiscono acidi, e questi suoli sono acidi perché le precipitazioni piovose portano via con sé i sali basici e i materiali solubili (fenomeno detto di lisciviazione), e lo stesso i suoli sabbiosi che lasciano percolare l’acqua (dunque il pH è come minimo uguale o superiore a 7,1), mentre, al contrario, la vegetazione delle fasce climatiche aride o tendenzialmente aride vive in suoli alcalini, e questi sono tali perché i sali basici e i materiali solubili vi si concentrano, e lo stesso se i suoli sono argillosi (dunque il pH è come massimo uguale o inferiore a 6,9); e per quanto riguarda l’humus, presente nei suoli torbosi in percentuali superiori al 95%, in suoli umidi in percentuali che vanno dal 2 al 5% e in suoli aridi con una percentuale dello 0,5%, o inferiore, anch’esso contribuisce a strutturare i suoli perché ne aumenta la capacità di ritenzione idrica e ne riduce la conduzione di calore e qui il pH gioca un ruolo determinante anche per le piante perché i batteri azotofissatori  e nitrificanti, che determinano la possibilità per le piante d’assorbire i nutrienti, presentano le loro condizioni ottimali attorno ai valori di pH neutro (i batteri azotofissatori sono capaci di formare sostanze organiche azotate, mentre quelli nitrificanti trasformano per ossidazione i composti ammoniacali del terreno e delle acque, derivanti dalla decomposizione degli organismi animali e vegetali, i quali, legandosi al potassio e al calcio, formano nitrati, cioè il composto azotato meglio utilizzato dalle piante verdi); per ultimo, il colore del suolo, ch’è di colore bruno scuro s’è presente un elevato contenuto di materia organica, colore che, con l’aumentare della presenza di humus, passa a colorazioni progressivamente più scure fino a raggiungere la tonalità del nero, ch’è poi dovuto al processo di lenta decomposizione che subisce la materia organica (per esempio, sono bruni i suoli dei climi temperati medio-umidi, mentre quelli neri sono tali o per l’abbondanza di sostanza organica legata all’argilla, come nel caso dei černozëm della steppa russa, v. infra, o per la presenza di sostanza organica e d’ossido di manganese, MnO, com’è il caso d’alcuni suoli caratteristici di zone aride); di colore rosso, dovuto agli ossidi di ferro che si mescolano alle argille miste a silice della roccia madre decalcificata (per esempio, sono tali quelli formati su roccia madre calcarea in un clima di tipo mediterraneo, con umidità invernale e stagione estiva notevolmente arida; nel caso che gli ossidi di ferro abbiano reagito con l’acqua, siano cioè ossidi idrati, il colore diventa giallo); di colore grigio se c’è carenza di ferro e ossigeno, oppure s’è presente un eccesso di sali alcalini (per esempio, carbonato di calcio, CaCO3). Detto questo, riprendiamo l’elenco dei biomi; la tundra (ch’è voce d’origine lappone, diffusa attraverso il russo тундра, tundra, che significa terra brulla) è tipica delle regioni subpolari dell’Eurasia, della Groenlandia e dell’America del Nord  (come detto, con latitudine tra i 90° e i 60°), ed è caratterizzata da una pianura con venti che spirano verso l’alto a 50-100 km/h e con una vegetazione ch’è priva di formazioni arboree; il clima, rigido (-30 o -40 °C, con estremi di -50 °C, mentre la temperatura media del mese più caldo è sui 5-10 °C), presenta complessivamente precipitazioni molto scarse (dai 200 ai 300 mm l’anno), lo stesso che la radiazione solare poiché, durante i mesi invernali, il Sole è quasi sempre di là dalla linea dell’orizzonte, quindi domina il buio, mentre nei mesi estivi, il Sole non è alto nel cielo, ma sta sempre, o quasi, sopra la detta linea, con una radiazione obliqua che alza la temperatura fino al massimo dei 10 °C; il suolo è ghiacciato in modo permanente fino a 450 m, con punte fino a ca. 600 m (o permafrost, crasi di permanent frost, ossia gelo permanente; ed è questo permafrost ch’impedisce di fatto la radicazione degli alberi ad alto fusto che richiedono nella stagione vegetativa, che la temperatura a 10 cm sotto la superficie vari tra 5,4-7,8 °C), e si sgela in superficie, per pochi decimetri, solo d’estate creando un ambiente di, laghi, paludi, acquitrini e torbiere (quest’ultimo un ambiente umido caratterizzato dalla presenza di torba, v. infra), questo perché l’acqua sciolta s’accumula e ristagna in superficie dato che le basse temperature non ne permettono né l’evaporazione verso l’alto, né il drenaggio verso il basso; suolo ch’è poi povero di nutrienti, soprattutto a base d’azoto, perché la decomposizione dei resti organici è sempre rallentata dalle basse temperature (suolo detto mollisol, dove il latino mollis sta per non duro), e si ricorda che quando s’ha alternanza gelo/disgelo i suoli sono detti periglaciali; da sottolineare è poi il fatto ch’è proprio in questi 2-3 mesi estivi che grosso modo si presenta l’attività riproduttiva degli organismi (tanto per la flora che per la fauna; per fare un esempio, una femmina di Lemmo, v. infra, dopo soli 38 giorni di vita, è già in grado di partorire); la flora dominante vede piante igrofile come Muschi, Muschi delle torbiere (Sfagni, Sphagnum) e piante erbacee come le Ciperacee (Cyperaceae) nei luoghi umidi, Licheni (nei luoghi più secchi) e Ericacee (piccoli arbusti striscianti che solitamente non superano i 30 cm di altezza, e per questo detti arbusti nani), flora che nel complesso, a causa delle basse temperature, ha ritmi di crescita molto, ma molto lenti; per esempio, il lichene di cui si nutre la Renna, Cladonia rangiferina, cresce da 1 a 5 mm l’anno; nelle dorsali montuose si presenta poi la tundra d’altitudine (o d’altura), la cui flora è localmente molto varia e spesso costituita da una sola specie dominante (questo tipo di tundra è presenti per frammenti a quote elevate sulle Alpi, ossia oltre la linea d’alberi, sui 2 000 m, e su altre catene montuose eurasiatiche e Nord americane); la fauna della tundra (dove molti organismi sono, durante i mesi invernali, omocromi, ossia dello stesso colore dell'ambiente, e dove mancano i Vertebrati eterotermi) presenta degli Uccelli ch’appartengono, in linea di massima, a specie che soggiornano qui d’estate e migrano a Sud in inverno (dette estivanti), come il Girifalco (Falco rusticolus), e come molti degli Uccelli costieri, quali lo Stercorario (Stercorarius, che si nutre impadronendosi delle prede d’altri uccelli marini), il Piovanello (Calidris ferruginea, che preda di notte) e molti altri ancora; nei mesi estivi, nelle zone decongelate, sono presenti, oltre che a Molluschi, Insetti (v. infra), quali Zanzare, Mosche, Farfalle e Tàfani; tra i Mammiferi stanziali, oltre alla Volpe polare (Alopex vulpes), alla Lepre artica (Lepus arcticus), al Ghiottone (Gulo gulo) e l’Ermellino (Mustela erminea), abbondano quei Roditori che trascorrono la maggior parte dell’inverno sottoterra, quali i citati Lemmi (Lemmus lemmus; noto anche come Lemming) e le Arvicole terrestri (Arvicola terrestris), mentre si trovano specie non stanziali, mobili capaci di rapidi spostamenti verso zone più ricche di pascolo, per esempio, la Renna (Rangifer tarandus), il Bue muschiato (Ovibos muschatus, v. infra), il Caribù (una renna che vive nell’America del Nord, con forme più robuste di quella delle tundre asiatico-europee) e altri ancora; tra i predatori si segnalano il Lupo (Canis lupus), la Volpe polare, il Gufo delle nevi (Bubo scandiacus), il Ghiottone e l’Orso polare (Thalarctos maritimus); la tundra, che presenta un’estensione di ca. 10 milioni di km2 (localizzata soprattutto nelle citate zone circumpolari e con ristretti areali confinati ai margini dell’Antartide, specie nella Penisola antartica, e all’estremità meridionale dell’America del Sud; complessivamente ca. il 5% delle terre emerse) confina poi a Nord con i ghiacci perenni del Polo Nord e a Sud con la foresta di Conifere (o taiga), e l’ecotono (come detto, la zona di transizione tra un bioma e l’altro) è dato dalla linea degli alberi (timberline) a Sud; da ricordare che la zona polare è poi priva o quasi di vegetazione e che nella fauna si trovano Orsi bianchi (predatori), Foche e Trichechi (prede), mentre in Antartide sono poi presenti gli Elefanti marini e i Pinguini; la figura seguente mostra la localizzazione delle principali zone che presentano il bioma della tundra (la linea rappresenta l’Equatore):


Figura n.  . Fonte: Zunino e Zullini, 2014, p. 113.

A seguire abbiamo la foresta boreale, ma prima un inciso sul termine foresta (d’etimo incerto, forse dal latino tardo forestis, sottinteso silva, cioè legno di fuori), nel senso del quadro complessivo che, a seguire, sarà poi variamente segmentato; in questo quadro, si deve sottolineare che le foreste si presentano grosso modo a tutte le latitudini e, all’incirca, fino ai 2 000 m d’altitudine, e assumono la loro configurazione in base al clima, alla piovosità e alla condizione dei suoli; ne risulta così che attualmente il 22% delle terre emerse è occupato da foreste (prima dell’intervento antropico, la stima sale al 70% ca.), e che vi contribuiscono varie tipologie d’alberi d’alto fusto, le Conifere per oltre il 35% (Pini, Abeti, Larici etc.), le latifoglie delle zone temperate con il 15% (Querce, Faggi, Àceri, Pioppi, Betulle, Ontàni etc.), le latifoglie dei climi tropicali (dove le specie sono molto più numerose che altrove) con ca. il 50%; ancora, nella foresta sono presenti stratificazioni di piani diversi di vegetazione, nel senso che una specie dominante impone dei microclimi che sviluppano delle associazioni vegetali; per esempio, la foresta chiusa presenta una copertura vegetale (o canopia) fitta che, intercettando la luce, impedisce lo sviluppo d’altri piani nelle zone più basse e quindi d’una associazione, mentre altre coperture, creando altri microclimi permessi dalla luce non intercettata, possono favorire altri tipi di stratificazione e d’associazione; per ultimo il concetto di humus, il quale altro non è che l’insieme in fase di continuo rinnovamento della copertura vegetale (detta lettiera) e della materia organica morta in tutte le sue fasi di decomposizione, insieme ch’è degradato ad opera d’un un gran numero di microrganismi (quali funghi e batteri), che riducono la materia organica a composti più semplici (o nutrienti) che le piante sono in grado d’assimilare, composti che, rimescolandosi con particelle inorganiche e con resti non ancora degradati, danno appunto origine all’humus. Detto questo, la foresta boreale è una formazione con prevalenza di Conifere sempreverdi, detta anche taiga (dal russo тайга, tajgà, che sta per foresta di Conifere), caratteristica delle zone settentrionali, subartiche, dell’Eurasia e dell’America del Nord (in Canada è sì presente un’analoga formazione forestale, ma con una composizione floristica diversa, per esempio, invece che l’Abete rosso c’è quello nero etc.), come detto con latitudine 60°-50°; il clima, freddo di tipo continentale, è caratterizzato da inverni che hanno una durata tra 8 e 9 mesi e che sono molto rigidi (sono presenti lunghi periodi d’innevamento, tanto che la copertura della neve, o nivale, perdura fino a primavera inoltrata e le temperature minime gitano intorno ai -30 °C con punte a -50 °C, e con una temperatura media, nel mese più caldo, tra 10 e 20 °C), da un periodo vegetativo di pochi mesi, con scarse precipitazioni (con un massimo di 500 mm) concentrate nei brevi e particolarmente soleggiati periodi estivi (infatti, se le radiazioni solari coprono, d’inverno, le 6-8 ore, d’estate s’arriva a 19 ore); il suolo presenta un humus acido e insaturo (podzòl, dal russo подзолистая почва, suolo grigio) a causa del tappeto di foglie aghiformi non decomposto formato dalle Conifere, questo perché, come già accennato, le basse temperature presenti ostacolano la crescita degli organismi decompositori e la loro azione, tanto che il suolo di queste foreste risulta essere, oltre che acido, particolarmente povero di sostanze nutrienti; la vegetazione presenta notevole semplicità e omogeneità floristica e strutturale, essendo lo strato dominante costituito da Conifere, la cui particolare struttura e fisiologia fogliare consente una assimilazione per la maggior parte dell’anno anche a bassa temperatura (con assimilazione, in questo contesto, s’intende un complesso dei processi per cui la sostanza inorganica, o quella organica priva di vita, è trasformata in sostanza vivente), e si tratta di Pini (Pinus), d’Abeti (Abies e Picea), di Làrici (Larix, gli unici decidui); queste foreste, inoltre, poiché il clima presenta temperature che s’abbassano andando dal 50° al 60° di latitudine (la temperatura, infatti, cala d’un grado centigrado per ogni grado di latitudine), presentano una suddivisione in due fasce, una più meridionale, con formazioni ravvicinate di Conifere e la presenza d’Ontani (Alnus), di Betulle (Betula) e Pioppi (Populus) e uno strato inferiore con poche Erbe, Muschi ed Epatiche (Hepaticae, simili ai muschi); l’altra, più settentrionale, con Conifere distanziate su un terreno torboso (che presenta un permafrost discontinuo) e, nello strato inferiore, Muschi e Licheni (questa fascia, in complesso, segna la presenza d’un un ecotono verso le tundre); nella fauna della taiga predominano, tra i grandi mammiferi, l’Orso bruno (Ursus arctos; nell’America settentrionale vive la sottospecie Ursus arctos horribilis, nota come grizzly), l’Alce (Alces alces), la Renna, il Cervo (Cervus; diffusi in America Settentrionale, sono noti come Wapiti) e il Bisonte; sono poi presenti le Volpi rosse (Vulpes vulpes) e numerosi sono i Roditori, come lo Scoiattolo (Sciurus), il Burundùk (Eutamias asiaticus) e l’Arvicola boreale (Myodes rutilus); fra i carnivori si trovano anche il Lupo, lo Zibellino (Martes zibellina), la Martora, il Ghiottone, la Donnola siberiana (Mustela sibirica) e la Lince (Lynx); gli Uccelli più comuni sono il Crociere (Loxia curvirostra), la Nocciolaia (Nucifraga caryocatactes) e gli Strigiformi (Strigiformes, un rapace notturno); numerosi gli Insetti, tra cui le Cicale (Lyristes plebejus); la taiga presenta un’estensione di 20 milioni di km2 (il 18% delle terre emerse), e rappresenta la più grande configurazione forestale dell’Emisfero boreale e, se è vero che la superficie occupata da foreste è pari a 40,5 milioni di km2 (dati del 1988), allora le foreste, nel loro complesso, occupano all’incirca una superficie grosso modo pari a metà di tutte le terre emerse; da sottolineare è poi il fatto che la taiga manca completamente nell’Emisfero australe, non esistendo le terre emerse che potrebbero supportarla alla latitudine Sud corrispondente; è poi limitata, a Nord, dalla tundra, mentre verso Sud degrada nelle steppe e nelle praterie continentali, o nelle foreste temperate decidue di latifoglie nelle regioni a clima oceanico (da ricordare che, in altitudine, e secondo un’altitudine che varia al variare della latitudine, le foreste di Conifere crescono dopo i boschi di latifoglie, e oltre le Conifere, come detto, non crescono piante ad alto fusto); la figura seguente mostra la localizzazione delle principali zone che presentano il bioma della foresta boreale (la linea rappresenta l’Equatore):


Figura n.  . Fonte: Zunino e Zullini, 2014, p. 112.

Dopo la foresta boreale, segue il bioma foresta temperata; l’aggettivo temperato, che sta per non eccessivo, moderato, è riferito in primo luogo alla temperatura, ch’è equamente regolata senza eccessi tanto in inverno, quanto in estate, ciò che rimanda al clima e alle zone che questo clima lo supportano, cioè a quelle zone nelle quali il Sole non è mai allo zenit (cioè nel punto più alto) e che presentano un clima con temperature medie annue moderate, una media escursione annua, una forte escursione tra il giorno e la notte e variazioni stagionali ben definite (inverno, primavera, estate, autunno, cioè non ridotte a due come nei biomi precedentemente illustrati), con piogge distribuite uniformemente in quantità variabile nel corso dell’anno (tra i 500 e i 1 000 mm); le zone temperate con clima temperato, o mesotermico, sono due, una per ogni Emisfero, e sono quelle comprese tra i Tropici (latitudine 22° 27' Nord o Sud) e i circoli polari (latitudine 66° 33' Nord o Sud); da ricordare che il clima temperato dell’Emisfero boreale è continentale (e si parla di foresta temperata decidua, in quanto tutte le piante perdono le foglie d’autunno e d’inverno presentano una stasi vegetativa; per inciso, la caduta delle foglie serve per evitare la perdita d’acqua, per traspirazione, durante il periodo invernale; questo bioma ricopre poi parte dell’America Nordorientale, dell’Europa centrale e parte del Giappone), mentre quello dell’Emisfero australe è oceanico (e qui le foreste hanno un’estensione decisamente minore rispetto a quelle dell’altro Emisfero e si trovano in Australia e nella punta meridionale dell’America del Sud, soprattutto sui rilievi sotto i 1 500 m di quota, e non tutte le piante di queste foreste sono caducifoglie); nella foresta temperata decidua, che occupa quasi il 5% delle terre emerse, i suoli, stabili rispetto ai vari tipi di disturbo e capaci di resilienza (v. infra), sono bruni ad humus dolce, a reazione sensibilmente neutra (humus detto mull), e la vegetazione dominante è costituita da latifoglie decidue, come Querce, Faggi, Aceri (Acer), Pioppi, Castagni (Castanea sativa), Olmi (Ulmus minor), Tigli (Tilia), Betulle e Liriodendri (Liriodendron, in America) e con la presenza d’un fitto sottobosco (come dire che, escluso il suolo con lo strato erbaceo, qui i piani della vegetazione sono due, il primo, arboreo, ch’arriva ai 15-30 m, il secondo, arbustivo, che va da 1 a 5 m); le foreste decidue sono ricche di vertebrati grandi e piccoli, tra cui Lupi, Linci, Gatti selvatici (Felis silvestris), Orsi, Volpi, Cinghiali (Sus scrofa), Donnole, Faine, Tassi, Caprioli (Capreolus capreolus), Talpe (Talpa), Topi, Castori, Scoiattoli, Lepri (Lepus); di molte specie di uccelli, tra i quali Poiane (Buteo), Picchi (Picus), Ghiandaie (Garrulus glandarius), e Rettili come Còlubri (o Colùbri, Coluber), Lucertole, mentre, nella lettiera si trovano Lombrichi (Lumbricus terrestris) che, rimescolando il suolo, ne assicurano l’aerazione; e altri ancora; la figura seguente mostra la localizzazione delle principali zone che presentano il bioma della foresta temperata (la linea rappresenta l’Equatore, sotto il quale è esclusa la segnalazione delle foreste temperate, in figura dette foreste a latifoglie, presenti a latitudine Sud):


Figura n.  . Fonte: Zunino e Zullini, 2014, p. 111.

Seguono la steppa e la macchia che, pur condividendo la stessa latitudine, in quanto biomi differenti saranno qui trattati separatamente; la steppa (dal russo степь, step′, pianura secca) è una formazione vegetale aperta (poiché manca la vegetazione arborea), diffusa nelle regioni centrali dei continenti, quale la maggior parte dell’altopiano iranico, dell’Ungheria (dov’è detta puszta), d’estese zone dell’Eurasia reperibili in una fascia continua che va dall’Ungheria, passa per il Mar Caspio e la Siberia e arriva in Manciuria, cioè nella parte Nordorientale della Cina (steppa eurasiatica), e di vaste regioni interne dell’Africa settentrionale e meridionale (dov’è chiamata Veldt), dell’America settentrionale (dov’è detta shortgrass prairie, prateria a erba bassa) e dell’America meridionale (dov’è chiamata pampa in Argentina , come detto, e puna in Perù e Bolivia) e dell’Australia (dov’è chiamata bush e copre quasi la metà dell’intero continente) etc.; tutte regioni che presentano un clima caratterizzato in genere da temperature con elevate escursioni termiche stagionali, cioè con stagioni o molto calde e secche o molto fredde e che presentano scarsità di piogge (la precipitazione media è di 250-500 mm), regioni insomma ch’esibiscono un lungo periodo arido e un breve periodo di piogge (che si riduce a una stagione di piogge zenitali, cioè in corrispondenza al periodo nel quale il Sole è più alto, della durata massima di 2-3 mesi); aridità e pioggia che s’alternano in stagioni diverse secondo l’Emisfero in gioco (periodo arido estivo e breve pioggia invernale nell’Emisfero boreale, periodo arido invernale e breve pioggia estiva nell’Emisfero australe) e che danno origine a un bioma tipicamente caratterizzato, come detto, dall’assenza d’alberi (la cui presenza è impedita, appunto, dalla scarsità delle piogge) e da una bassa densità di piante che, in generale, sono xerofite in quanto preferiscono vivere in ambienti aridi, ossia sono piante a ciclo vegetativo rapido o adatte alla siccità; si tratta d’arbusti nani (che generalmente non superano il metro d’altezza) e d’erbe annue o perenni, rappresentate in prevalenza da Graminacee di piccole dimensioni, fra cui le più caratteristiche sono le specie del genere Stipa; le radici marcescenti delle piante erbacee, che s’insinuano in profondità del terreno in cerca di nutrimento (s’arriva anche a profondità di 1 m), producono poi nel corso dell’anno, mescolandosi con il suolo grazie anche all’attività dei Lombrichi, quantitativi ingenti di una sostanza organica che si accumula formando terreni fertili e ricchi di humus (detti terre nere, o černozëm); tipiche sono poi le steppe dove prevalgono le Poacee, come quelle di Russia, Ungheria, Argentina; altri tipi di steppa sono le steppe salate, nelle quali prosperano arbusti ed erbe che amano terreni salmastri (o piante alofile), come nell’Asia centrale, e le steppe a piante grasse, per esempio, a Cactacee, come nel Messico; tra la fauna s’annoverano, grazie alla possibilità alimentari offerte dalle piante, grandi erbivori (migranti) quali i Bòvidi (Bovidae, quali il Bisonte europeo, Bison bonasus, e quello americano, Bison bison) e gli Equidi (i Cavalli e l’Ònagro, o Onàgro, Equus hemionus onager, una sottospecie d’asino selvatico, in Asia); tra i predatori sono presenti il Lupo in Europa e Asia e il Coyote (Canis latrans, della famiglia dei Canidi) in America; sono inoltre presenti Roditori di varie specie che scavano rifugi sotterranei,  cioè che presentano abitudini fossorie, come il Citello (Citellus citellus, Citellus suslica) in Eurasia e il Cane delle praterie (Cynomys), in America, cui s’aggiungano Ragni, Insetti, Serpenti, Sauri e Uccelli terricoli, cioè che nidificano al suolo, o Galliformi (Galliformes); completamente diversa è la fauna del veldt, tra cui abbiamo Marsupiali (quali il Canguro e l’Opossum), Uccelli di grandi dimensioni (che hanno perso la capacità di volare, quali l’Emù e il Casuario) e Rettili quali i Clamidosauri (Chlamydosaurus, o Lucertole dal collare) e il Mòloc (Moloch horridus); la figura seguente mostra la localizzazione delle principali zone che presentano il bioma della steppa (la linea rappresenta l’Equatore):


Figura n.  . Fonte: Zunino e Zullini, 2014, p. 108.

La macchia, alla stessa latitudine della steppa, è così denominata perché le piante, nel loro complesso, formano una macchia di diverso colore rispetto a quello del suolo circostante; questa macchia, se pure per certi tratti è originaria, è derivata dalla foresta temperata sempreverde (formata da Leccio, Quercus ilex; Sùghera, Quercus suber; Pino), di cui spesso costituisce il sottobosco, in seguito all’antropizzazione dei suoli; con l’aumentare della frequenza o dell’intensità del disturbo antropico, la macchia può poi gradualmente trapassare nella gariga (o garriga), ossia in chiazze di cespugli più bassi di ca. 1 m dove predominano piante resistenti alla siccità e all’insolazione, dette eliòfile, quali Rosmarino (Rosmarinus officinalis), Lavanda (Lavandula), Cisto (Cistus), Timo (Thymus) o Salvia (Salvia officinalis), cespugli a cui s’alterna un suolo affiorante spogliato di piante e pietroso, con rocce a vista o, con degradazione ulteriore, trasformarsi in steppa con vegetazione erbacea a graminacee; oppure, in assenza di disturbi antropici o d’altra natura, come incendi autocombusti, può riprodursi verso la foresta sempreverde; queste piante, che sono situate su regioni costiere a 30°-40° latitudine Nord e Sud e su suoli poveri di nutrienti a causa d’impedimenti climatici nella decomposizione della  lettiera, dunque con scarsa penetrazione dell’humus, e fra loro diversi nella tipologia del substrato (silicei o calcarei, sabbiosi o argillosi); specificamente, la costa mediterranea europea (dov’è detta macchia mediterranea e maquis in Corsica), della California centromeridionale (dov’è detta chapparal), del Cile centrale (dov’è chiamata come in Spagna, matorral), dell’Africa settentrionale (Marocco) e meridionale (dove è denominata fynbos) e dell’Australia Sudoccidentale (dov’è detta jarrah) e meridionale (e qui si chiama malee); zone costiere, che complessivamente sono pari all’incirca al 5% delle terre emerse, il cui clima (in tutte) trova un limite nelle catene montuose che ne limitano l’estensione; queste piante sono sempreverdi, con prevalenza di specie sclerofille (cioè con la foglia dura, coriacea, v. infra), arbustive o arboree con individui allo stato arbustivo, quali il Mirto (Myrtus), il Lentisco (o Lentischio, Pistacia lentiscus), il Leccio, e specie lianose come i Caprifogli (Lonicera caprifolium), le Clematidi (Clematis), la Smìlace (Smilax), con un’altezza media di 2-3 m circa; le piante alte fino a 4-5 m (macchia alta) presentano la  dominanza di Leccio, Corbezzolo (Arbutus unedo), a volte anche di Sughera, e quelle con altezza media di 1,5-2 m (macchia bassa) sono costituite di suffrutici, quali Cisti, Filliree (Phillyrea), Ginepri (Juniperus oxycedrus), Ginestre (Spartium junceum), Rosmarino etc.; le regioni che supportano questo bioma sono caldo-aride presentano inoltre inverni miti (in media sui 10 °C) ed estati brevi e secche (in media sui 20-25°C) con precipitazioni in autunno e in inverno (dai 250 mm ai 1 300 mm), e scarse o assenti nei mesi estivi (detto clima mediterraneo), ciò che fa sì che le piante siano, come detto, sempreverdi (e non caducifoglie, giacché è raro che l’inverno sia rigido, con temperature sui 0 °C); l’attività vegetativa si presenta in autunno e in primavera (cioè con l’abbondanza delle piogge), mentre d’estate il riposo vegetativo limita la perdita d’acqua dalla superficie delle foglie limitandone la traspirazione, ed è per questo che l’apparato radicale si sviluppa spesso in estensione e profondità alla ricerca d’acqua nei periodi d’aridità e che le foglie sono lucide (fotoriflettenti), rigide e coriacee in quanto rivestite d’una cuticola (vale a dire uno strato ceroso impermeabile che le ispessisce, per esempio, le foglie del Lentisco e del Corbezzolo), molto strette (per esempio, le foglie dell’Olivo e dell’Oleandro), con una superfice limitata (per esempio, il Ginepro, o come le foglie del Rosmarino che hanno la forma ad ago) o con una leggera peluria (o toménto, per esempio la biancastra pagina inferiore della foglia del Leccio, ch’è poi verde scura e lucida in quella superiore), e complessivamente questa flora rappresenta quasi il 20% delle piante vascolari conosciute, pari a 48 000 specie, la metà e oltre delle quali endemiche o rare (presenti, in particolare, nella fascia Sudafricana e australiana, ch’è anche quella più soggetta ad incendi non antropici e alla conseguente rigenerazione del manto vegetale, con speciale riguardo per le specie tolleranti al fuoco, o pirofite, per esempio la Sughera che resiste nel fuoco e le Eriche scoparie o arboree la cui crescita e favorita dagli incendi o i Cisti ch’inaugurano, a incendio concluso, una nuova successione vegetale); nella fauna si ritrovano animali di grossa taglia, Istrici (Hystrix) e Cinghiali (ch’è non però è esclusivo di questo bioma), mentre tutti gli altri sono di piccola taglia, quali Tassi, Volpi, Daini (Dama) etc.; s’annoverano numerose specie d’Uccelli Passeriformi, di Rettili e d’Insetti (spesso con forme xilofaghe e fitofaghe, cioè che mangiano il legno e i prodotti delle piante, legate a specifiche essenze vegetali); la figura seguente mostra la localizzazione delle principali zone che presentano il bioma della macchia (la linea rappresenta l’Equatore):


Figura n.  . Fonte: Zunino e Zullini, 2014, p. 109.

Per quanto riguarda il bioma deserto (che deriva dal latino desertum, participio passato neutro sostantivato di deserĕre, abbandonare; 30-20° latitudine Nord e Sud), è proprio alle regioni con persistenti alte pressioni subtropicali, giacché le correnti d’aria calda che provengono dai Tropici a queste latitudini si raffreddano e, ritornando verso il suolo, producono zone d’alta pressione e la formazione d’anticicloni (v. supra) ch’impediscono la formazione di perturbazioni e precipitazioni, assenza ch’è propria alle regioni desertiche e che, appunto, le caratterizza; regioni in cui la forte insolazione è dominante (solo il 20% della radiazione solare è, infatti, deflessa dal pulviscolo) e le precipitazioni sono minime e molto distanziate nel tempo (a volte a distanza di anni; per esempio, nel Sahara, negli anni piovosi, cadono 20 mm di pioggia; in linea generale si parla di deserto solo se cadono meno di 250 mm annui), e l’aria è secca e l’evaporazione accelerata, ciò che comporta una copertura vegetale assai rada, quasi inesistente; l’aria secca, infatti, fa sì che il calore che raggiunge il suolo durante il giorno si disperda rapidamente nella troposfera (v. infra) di notte perché manca il vapor d’acqua capace di trattenerlo (è pertanto presente una forte escursione termica giorno/notte, con una media di 35-40 °C, con estremi di 60 di giorno e, a volte, valori notturni inferiori ai 0 °C; da sottolineare ch’esiste poi una cospicua differenza tra la temperatura al suolo e quella dell’aria soprastante all’altezza di 1,5-2 m; nel Sahara, per esempio, la temperatura diurna al suolo può sfiorare gli 80 ºC, mentre quella sovrastante a 2 m raramente supera i 50 ºC, ancora, che non esistono praticamente escursioni stagionali perché l’inverno presenta temperature di poco inferiori a quelle estive); il suolo, pertanto, viene pochissimo dilavato dalle piogge, tanto che persiste un’alta presenza di sali minerali (o non solubili o efflorescenze di quelli solubili) e si possono presentare distese saline (dette sebcha nel Sahara) e, va da sé, che praticamente non esiste la deposizione al suolo di resti organici, vegetali o animali che siano; questo paesaggio desertico è poi modellato (grazie anche all’assenza o quasi della vegetazione) dagli sbalzi di temperatura dell’escursione termica, sbalzi che frantumano le rocce producendo frammenti che sono asportati (corrasione) e che, grazie all’azione meccanica del vento (di fatto, il modellatore morfologico dei deserti), sono sollevati e dispersi al suolo (deflazione) e, infine, depositati o sotto forma di dune mobili, non compatte (a volte, lunghe per chilometri e d’altezza pari anche a 200 m, e la cui forma isolata più nota, detta barcane, ha un andamento a mezzaluna con le punte rivolte nella direzione del vento) o di ciottoli o di rocce (il deserto sabbioso è detto erg, quello costituito da piccoli ciottoli e sabbia, serìr e il deserto di rocce, hammada, tutti nomi derivati dall’arabo, e tutti presenti, per esempio, nel Sahara); da ricordare che sono però presenti delle falde d’acqua sotterranee che a volte, spesso ai piedi di tavolati di rocce sedimentarie, riaffiorano in superficie dando origine a delle oasi (generalmente antropizzate) in cui crescono, in relazione alla profondità/superficialità delle falde, permanentemente delle piante, per esempio, Palme da datteri (Phoenix dactylifera), cui si possono aggiungere Tamerici (Tamarix), Olivi (Olea), Fichi (Ficus), Melograni (Punica granatum) etc. e qui la stratificazione è tra piante alte e medie, queste ultime generalmente alberi da frutta, con un suolo adatto alle coltivazioni; le temperature estreme e l’assenza (o quasi) di piovosità ha comportato o estinzioni o forti adattamenti alle biocenosi preesistenti alla desertificazione, per esempio le piante presenti hanno una crescita molto rapida e una breve stagione vegetativa, che può essere però sospesa (per esempio, le teròfite presentano un seme che, in casi di clima avverso, può rimanere al suolo quiescente anche per anni, fino a che una precipitazione permette loro di germogliare) o immagazzinano acqua o formano organi sotterranei di riserva idrica (bulbi e rizomi), talora a notevole profondità, o riducono al minimo il consumo di acqua diminuendo o annullando l’estensione delle superfici traspiratorie (come le Cactacee, v. supra, che immagazzinano acqua nei fusti e riducono le foglie a spine per limitare al massimo la perdita d’acqua per traspirazione) o presentano foglie tomentose, cioè, come detto, ricoperte di una fitta peluria (che rallenta sempre la traspirazione), oppure certe piante (come le Crassulàcee, Crassulaceae) presentano un processo di fotosintesi detto CAM ch’avviene attraverso una dinamica notte/giorno, dove di notte le piante spalancano gli stomi assorbendo dall’esterno il diossido di carbonio che legano a un composto acido contenuto nelle loro cellule e dove, di giorno, le piante ricominciano a fare la fotosintesi utilizzando il diossido di carbonio legato all’acido di cui sopra e già immagazzinato, di modo che durante il giorno possono, a differenza d’altre piante con fotosintesi regolare a stami aperti, tenere chiusi gli stomi in modo da evitare un dispendio d’acqua (e dove CAM è acronimo di Crassulacean acid metabolism, o metabolismo acido delle Crassulacee; per inciso, lo stoma è l’apertura microscopiche che s’osserva nell’epidermide delle foglie, apertura con cui le parti aeree delle piante riescono ad avere degli scambi gassosi tra l’esterno e il loro interno) etc.; per quanto riguarda gli adattamenti a questo bioma tra gli animali si nota, per esempio, che molti Rettili e alcuni Insetti presentano un tegumento molto spesso (le squame i Serpenti, chitina gli Insetti); che alcuni organismi, invece che espellere l’urina liquida, riassorbono l’acqua prima dell’escrezione e presentano il prodotto terminale del metabolismo, l’acido urico, come eliminato sotto forma condensata, solida (questi organismi sono detti Uricotelici, e si ritrovano tra i Rettili, gli Uccelli, gli Insetti e gli Scorpioni, Scorpionida); altri Insetti possono utilizzare la loro acqua metabolica (derivante cioè dalla scissione dei carboidrati, come alcuni Coleotteri Tenebriònidi, Tenebrionidae, tipici della fauna desertica) o alcuni Mammiferi possono vivere di semi quiescenti e, poiché capaci di produrre acqua metabolica in quantità sufficiente, senza mai bere e senza uscire dalle tane se non di notte (per esempio, gli Eteròmidi, Heteromyidae, detti Ratto canguro per le loro abitudini saltatorie o il Topo del deserto, Jaculus jaculus); caratteristico è poi il Fennec (Fennecus zerda), detto  la Volpe del deserto, lungo 40 cm, che, per favorire la dispersione del calore corporeo, presenta grandi orecchie ch’arrivano a 15 cm; ancora, sopravvivono nei deserti  anche animali poco esigenti, quali i Camelidi (il Cammello, Camelus bactrianus, in Asia, e il Dromedario, Camelus dromedarius, nell’Africa del Nord e nella Penisola arabica) che, grazie a lipidi immagazzinati nelle gobbe (due nel Cammello) o nella gobba (una nel Dromedario), possono attraversare i deserti perché questi si consumano lentamente producendo, in seguito a processi metabolici per ossidazione dei citati lipidi, acqua che passa nel sangue, ciò ch’impedisce la disidratazione; il Dromedario, assieme al Topo del deserto, presenta poi la caratteristica di alzare la temperatura del sangue da 37 a 41 °C, in modo da risparmiare acqua e energia (che altri Mammiferi sono invece costretti a spendere per mantenere la temperatura sotto i 37 °C) etc.; da sottolineare, infine, e come si vedrà a seguire, che il bioma deserto è relativamente recente e che dove oggi è presente il clima arido, s’è verificato nel passato un progressivo inaridimento, seguito prima da oscillazioni umide, poi da una nuova fase arida che prelude a quella desertica attuale; da ricordare che i deserti non sono solo quelli subtropicali (qui privilegiati), esistono, infatti, deserti che costituiscono fasce strette ai margini occidentale dei continenti africano e americano, ed estesi dalle latitudini subtropicali fino all’Equatore (e questi deserti sono anche il prodotto delle correnti oceaniche fredde, v. supra, che toccano le dette fasce e sono detti deserti litorali); altri deserti, detti freddi, sono poi tipici nelle fasce temperate (per esempio, tra Cina e Mongolia, il Gobi o, nelle zone temperate a Sud, quello della Patagonia meridionale), e presentano zone rocciose e aride che sono tali per effetto della continentalità, cioè della loro lontananza dall’umidità degli Oceani (e per questo detti anche deserti continentali), deserti che presentano un’escursione stagionale, con estati torride (a 50° e oltre) e inverni molto rigidi (la temperatura può arrivare -27 °C) e con una persistente copertura nivale; in più, in alcune zone dell’Artide e dell’Antartide, e in buona parte della Groenlandia, esistono zone che sono classificate come deserti (o deserti polari); in ogni caso, i deserti freddi occupano poi il 14% delle terre emerse, e quelli aridi ne coprono un 16% (a maggioranza deserti subtropicali); i deserti, esclusi quelli polari, sono distribuiti tra Africa Settentrionale e Sudoccidentale, Penisola arabica, Medio Oriente, Asia Nordoccidentale (i paesi or ora citati costituiscono, praticamente, una fascia nell’Emisfero boreale che va dal deserto del Sahara, in Africa, al deserto di Thar, al confine tra Pakistan e India), America (la parte Sudoccidentale degli Stati Uniti e settentrionale del Messico), America meridionale (in Cile e marginalmente in Perù) e parte centroccidentale dell’Australia; la figura seguente mostra la localizzazione delle principali zone che presentano il bioma del deserto (la linea rappresenta l’Equatore):


Figura n.  . Fonte: Zunino e Zullini, 2014, p. 104.

A seguire la savana (il cui nome deriva dallo spagnolo sabana, che è dal taìno zabana , prato, pianura fertile, e che, come si vedrà, è coinvolta con la foresta pluviale nei processi evolutivi di Homo Sapiens; il taino è poi il nome della lingua ch’era parlata nelle Antille) che rappresenta una fascia che separa le foreste pluviali dai deserti tropicali, ed è compresa tra i Tropici e l’Equatore,  precisamente lungo la fascia arida (che presenta aree pianeggianti più o meno vaste a clima subdesertico) in corrispondenza dei Tropico del Cancro e del Capricorno, ed è un bioma che presenta alte temperature persistenti per tutto l’anno (con una media annua che oscilla tra i  21 °C e i 28 °C), con forti insolazioni e escursioni termiche giorno/notte e con fenomeni stagionali dove periodi secchi (che possono durare dai 4 agli 8 mesi, che corrispondono poi al periodo di riposo delle piante), s’alternano a periodi umidi (le piogge sono concentrate su pochi mesi, da 2 a 4, nei periodi corrispondenti ai monsoni e le precipitazioni presentano una variabilità tra i 250 mm e i 1 200 mm annui, ciò che dà origine alla savana umida, con 1 200 mm, alla savana arida, con 500-1 100 mm, alla savana spinosa, con 250-500; sotto i 250 mm, come detto, ci sono i deserti; nell’Emisfero boreale la stagione delle piogge s’ha tra aprile e settembre, in quello australe tra ottobre e marzo); la vegetazione xeromorfa (cioè adattata alla mancanza d’acqua) è caratterizzata da strato erbaceo alto (da 1 a 6 m) e con denso tappeto di Graminacee, a volte insieme con Ciperacee (copertura dell’80%, con la clausola che solo le Erbe possono convivere con le basse precipitazioni del clima arido), da uno strato arbustivo con cespugli di 1-3 m (copertura del 10%), e con alberi isolati di 5-7 m (con una copertura del 10%, Acacie ad ombrello, Acacia tortilis, pianta decidua, che qui perde le foglie nella stagione secca, e che sopporta condizioni di siccità; sono presenti anche il Baobàb, Adansonia digitata, la cui altezza può raggiungere oltre i 30 m e il cui tronco può arrivare ai 10 m di diametro e oltre, tronco in cui questa pianta immagazzina l’acqua assorbita durante le piogge), vegetazione che si rinnova, nonostante i suoli lateritici poveri di nutrienti, durante le stagioni della pioggia (presenti 1 o 2 volte l’anno, come dire che la ciclicità delle Piante erbacee è annuale) e fornisce alimentazione a Giraffe (Giraffa), Rinoceronti, Elefanti, a grandi branchi di Ungulati, tra i quali Zebre, Bufali (Bubalus), Gnu (Connochaetes taurinus), Antilopi e Gazzelle (Gazella); erbivori, questi, che sono predati da Felidi quali Leoni (Panthera leo), Leopardi (Panthera pardus) e Ghepardi; oltre ad altri predatori, quali lo Sciacallo (del genere Canis) e il Licaone), s’aggiungano i grandi Uccelli non carenati, inetti al volo, come lo Struzzo (Struthio camelus), l’Emù  e il Nandù (Rhea americanae), e quelli che si nutrono di carogne (o necrofagi), come  l’Avvoltoio orecchiuto (Torgos tracheliotus) e la Cicogna gozzuta (o Marabù, Leptoptilos crumeniferos); oltre a quella di grossa mole (è gli animali di grossa taglia sono una caratteristica della savana), è poi presente una fauna di piccola mole che ha abitudini fossorie nella stagione avversa (Roditori, Rettili, Insetti, etc.; per inciso, lo scavare tane sotterranee per ovviare alla forte escursione termica è dovuta al fatto che, sotto i 50 cm di profondità, la temperatura del substrato è costante e vivibile); da ricordare che, tra la fauna invertebrata tipica degli ambienti xerofili, sono anche presenti Formiche (della famiglia dei Formìcidi, Formicidae) e molte specie di Tèrmiti (dell’ordine degli Isòtteri, Isoptera), animali sociali i cui termitai possono arrivare a misurare 6 m o più d’altezza (a questi s’associa poi l’Orittèropo, Orycteropus, che i termitai li scava e si nutre di termiti) e le Locuste (Locusta migratoria); ancora, che molte specie, poiché migranti in cerca di zone umide nel periodo arido, sono sociali in funzione di difesa contro gli attacchi dei predatori (tanto che anche i neonati sono precoci, per esempio, uno Gnu appena partorito è già in grado di seguire il branco dopo poche minuti dalla nascita), così come sono sociali i predatori nelle loro strategie d’offesa; che le specie, avendo ognuna una nicchia separata, non sovrapposta, ed essendo come detto migranti stagionali, non sono in competizione fra di loro (per esempio, fra gli erbivori, i pascoli sono utilizzati ad altezze fra loro diverse, con le Zebre che si nutrono della parte alta della pianta erbacea e con gli Gnu ch’utilizzano, della stessa pianta, lo strato appena inferiore etc.); infine, sono presenti Primati quali il Babbüino (del genere Papio) e l’Amadriade (Papio hamadryas); il paesaggio della savana è poi aperto, brullo nelle stagioni secche e lussureggiante nelle stagioni della pioggia (la catena del pascolo, v. infra, ch’è molto intensa, assieme ai numerosi incendi spontanei, spesso causati dai fulmini, produce un paesaggio spoglio; nel caso scompaia la vegetazione arborea si hanno le steppe a Graminacee, mentre,  in assenza dei citati fattori di disturbo, e con maggiori precipitazioni non evaporate, la savana si trasformerebbe in una fitta foresta tropicale; da sottolineare poi che in queste zone si presentano spesso delle foreste a galleria, cioè delle formazioni vegetali che si formano lungo i corsi d’acqua e che l’ecotono, il passaggio dalla vegetazione della foresta a quella aperta della savana è brusco, tanto che spesso si forma una vera e propria barriera tra la distribuzione di numerose specie che possono vivere solamente o in un bioma o nell’altro); da ricordare è poi il fatto che la presenza dominante delle Graminacee (che avranno un ruolo determinante nell’alimentazione di Homo sapiens, v. infra) è data dal fatto che queste specie sono provviste di un apparato radicale rizomatoso tale che permette loro di catturare l’acqua alla superficie del suolo e sia che questa sia scarsa o abbondante, sia che il suolo la dreni o che la sua impermeabilità la trattenga (le radici, infatti, sono fibrose e fascicolate, cioè costituite da un asse principale che si ramifica in molteplici fasci laterali di filamenti sottili che terminano in peli radicali, sottilissime e numerose estroflessioni cui l’acqua e i sali minerali, necessari al metabolismo della pianta, riescono a risalire nei vasi delle radici e del fusto alimentando tutte le parti della pianta), e che i suoli lateritici, frequenti, come si vedrà, nelle regioni equatoriali e tropicali, sono dati da rocce sedimentarie, prodotte da processi eruttivi intrusivi (v. supra), di un colore tra l’ocra e il rosso, provenienti dall’alterazione di rocce silicatiche (v. infra) e con uno strato fertile di superficie di pochi centimetri; da sottolineare che questi suoli residuali di colore rosso scuro, sono ricchi d’ossidi d’alluminio (Al) e ferro (Fe), e che il processo naturale di trasformazione superficiale, o laterizzazione, avviene in seguito all’alterazione di tutti i silicati, i quali sono lisciviati, cioè, grazie alle acque percolanti, capaci di migrare nel livello inferiore del suolo (e insieme al carbonato di calcio) e che là dove il clima risulta particolarmente arido, qual è il caso in oggetto, si possono formare delle stratificazioni cementate che prendono il nome di bowal; sono a savana le regioni aride tropicali, e in parte subtropicali, dell’Africa (a Nord e a Sud dell’Equatore), del Madagascar occidentale (in cui il Baobab è endemico), dell’America Centrale e Meridionale (dove si trovano vàrzeas e llanos, o pianure, del Venezuela e della Columbia, che sono inondate da straripamenti di fiume una o due volte l’anno, e i cerrado, che sta per non accessibile, del Nordest brasiliano), dell’Asia (India, con due fasce) e dell’Australia (la savana, all’incirca, copre più del 10% delle terre emerse); la figura seguente mostra la localizzazione delle principali zone che presentano il bioma della savana (la linea rappresenta l’Equatore):


Figura n.  . Fonte: Zunino e Zullini, 2014, p. 104.

La regione compresa tra i Tropici è la più calda della biosfera e in essa si trova il bioma della foresta pluviale (di foreste pluviali n’esistono varie tipologie, qui si valorizza quella tropicale); a queste latitudini (10°-0° latitudine Nord e Sud) è praticamente presente un clima uniforme in tutto il corso dell’anno, senza variazioni stagionali, clima ch’è caratterizzato da una forte insolazione (con durate del giorno pressoché costanti che s’aggirano su un fotoperiodo di 12 ore) e da abbondanti precipitazioni (tra 1 500 e 4 000 mm annui) e, giacché non esiste una stagione arida, queste si si presentano pressoché quotidianamente, come dire ch’è una fascia climatica caratterizzata da elevate temperature (con una media annua di 25-35 °C, senza forti escursioni giorno/notte) e umidità; questo tipo di clima è poi detto equatoriale; pertanto la vegetazione è fitta, gli alberi, a latifoglie sempreverdi, sono molto alti (40-50 m) e la stratificazione arborea, che si presenta a copertura discontinua nel piano alto (o volta, dove è più alta l’insolazione e la temperatura media subisce un’escursione di 10 °C o più), è a copertura perlopiù continua nel piano arboreo intermedio (con piante di 25-35 m) e inferiore (10-20 m), piano, quest’ultimo, che sfuma in quello arbustivo e fa sì che la luce spesso non riesca a raggiungere il suolo (la luminosità qui presente è pari allo 0,5-3% di quella del piano superiore; l’interno della foresta pluviale, oltre che da una bassa luminosità, è poi caratterizzato da un microclima uniforme, molto caldo e umido, e da un’atmosfera ricca di diossido di carbonio); per questo, per la ricerca della luce, il sottobosco presenta epifite (cioè, come detto, piante che crescono su altre piante, quali Orchidee, Orchideae, Epatiche, Licheni, Felci etc.) e, unite alle epifite, piante rampicanti (quali le Liane, per esempio, in Amazzonia, il Guaranà; le Liane, come già accennato, sono poi piante legnose che s’attorcigliano attorno ai loro sostegni), nel complesso piante in cerca di luce, e che possono crescere anche sui rami sospese nell’aria con radici adattate a catturare l’umidità); lo strato erbaceo è poi spesso assente a causa della scarsa luminosità, mentre sono presenti Muschi; da ricordare, ancora, che le cortecce degli alberi sono sottili perché l’elevato tasso d’umidità non richiede protezioni, che l’apparato radicale è strutturato in modo da funzionare quale sostegno su substrati poco profondi e saturi d’acqua, che molte piante possiedono, per facilitare lo scorrimento delle precipitazioni, foglie con una punta ricurva verso il basso (la permanenza prolungata d’umidità sulle foglie, infatti, favorirebbe la crescita di piante epifille, cioè d’Alghe, Muschi, Epatiche e Licheni la cui crescita avverrebbe direttamente sulla foglia), infine, che molti fiori, per potere essere impollinati, non sbocciano tra le foglie, ma direttamente sul càule, o fusto (v. infra); per quanto riguarda il suolo, questo proviene dall’alterazione di rocce silicatiche (avvenuta in condizioni che favoriscono l’eliminazione della silice e dei metalli alcalini e alcalino-terrosi, v. supra), che sono di grana molto fine e di colore ocraceo rossastro, formate essenzialmente d’idrossidi di alluminio e ferro, talora accompagnati da minerali argillosi, quarzo etc., come dire che si tratta d’un suolo a laterite; questo suolo, ancora, a differenza della foresta temperata dove la maggior parte dei nutrienti è data dall’humus, manca di lettiera o quasi perché le condizioni di temperatura e d’elevata umidità favoriscono la veloce mineralizzazione delle sostanze organiche residue al suolo, e i nutrienti (che si ritrovano in un substrato di 5-10 cm) non sono abbondanti e, se sono possibili, è solo grazie alla rapida decomposizione della materia organica della biomassa vegetale e animale e all’altrettanto rapida attività dei decompositori (favorita anche dall’attività detrivora instancabile delle moltissime specie di Formiche presenti, per esempio) e grazie anche a una più rapida utilizzazione dei nutrienti permessa alle piante da un fungo delle radici che n’aumenta la capacità d’assorbimento (si tratta d’un fungo che, con tipo di simbiosi mutualistica, v. infra, detta micorriza, nel mentre accelera e fa da tramite per l’assorbimento dei nutrienti da parte della pianta, riceve a sua volta, e prodotte dalla pianta, delle sostanze organiche di cui necessita); la riproduzione delle quali piante (giacché le condizioni ambientali e dei suoli la permettono a ciclo continuo) favorisce, quindi, l’implementarsi d’una rete trofica sempre disponibile e ricchissima di biodiversità (si stima, per esempio, che in un ettaro di terreno possano essere presenti fino a 200 specie di piante), biodiversità ch’è favorita anche dalla detta stratificazione arborea (che permette a sua volta la stratificazione di nicchie ecologiche) e fatta soprattutto d’Insetti e gruppi d’Invertebrati, d’Uccelli, di Rettili, d’Anfibi e di Mammiferi arboricoli (da ricordare che moltissime specie delle foreste sono ancora da censire e classificare); in ogni caso, la fauna che si ritrova nel sottobosco è costituita da Mammiferi scavatori (Roditori, Armadilli), Scimmie terricole (Babbuini, che solo in caso di necessità sono arboricoli), Leopardi o Giaguari (Panthera onca); fra i Serpenti, Boa e Pitoni (che appartengono alla famiglia dei Bòidi, Boidae) e Bòtropi (Bothrops), e Ragni, Scorpioni, Formiche (che costituiscono 1/3 di tutta la biomassa animale); la fauna che si ritrova sotto la volta e sui rami più alti, e data da Scimmie, Bradipi, piccoli Uccelli che si nutrono di nettare, Pappagalli, Serpenti arboricoli, grandi Farfalle, Scoiattoli volanti e Pipistrelli; oltre la volta si ritrova, come fauna, la presenza d’Aquile (Aquila), Tucani (famiglia dei Ranfàstidi, Ramphastidae) o Bùceri (Buceros) e altri Uccelli; la foresta pluviale, che copre all’incirca il 10% delle terre emerse (e presenta il 60% delle specie conosciute), è distribuita tra il Tropico del Cancro (a Nord) e quello del Capricorno (a Sud), specificamente in America centrale, dalla costa dell’Ecuador fino al Messico meridionale; in Sud America, nel Bacino del Rio delle Amazzoni (e la foresta amazzonica è, in assoluto, la foresta più estesa della Terra) e lungo le coste dell’Atlantico, dal Brasile Nordorientale fino al Paraguay (questa foresta è detta, in portoghese, la Mata Atlântica, cioè foresta atlantica, e oggi è fortemente compromessa dal disturbo antropico) e, nell’Africa subsahariana, dal Camerun al Congo (anch’essa fortemente compromessa), nel Madagascar orientale, nell’India occidentale, nello Sri Lanka, in Birmania, nel Sudest asiatico, in Indonesia, in Nuova Guinea, nell’Australia Nordorientale, e in molte isole dell’Oceano Pacifico (fra cui, le Hawaii) ; la figura seguente mostra la localizzazione delle principali zone che presentano il bioma della foreste pluviali tropicali (in figura, invece che foresta pluviale, s’annota Foresta tropicale umida; la linea rappresenta poi l’Equatore):


Figura n.  . Fonte: Zunino e Zullini, 2014, p. 101.

La tabella seguente riassume le caratteristiche di massima dei biomi precedentemente descritti:

TIPOLOGIA
CARATTERISTICHE
ZONAZIONE (LATITUDINE NORD-SUD [1]) E % DI COPERTURA DELLE TERRE EMERSE
BIOMA (CLIMA+FLORA) / BIOCENOSI (FLORA+FAUNA)
CLIMA
BIOTOPO E FLORA
FAUNA
TUNDRA
90°-60° [2]; 5%
Rigido, con debole irradiazione solare solo estiva e molto scarse precipitazioni (clima artico)
Suolo periglaciale (permafrost, mollisol) povero di nutrienti; Muschi, Licheni, Ericacee
Uccelli estivanti, Roditori, Bue muschiato, Renna, Lupo, Volpe polare, Orso polare
FORESTA BOREALE (TAIGA)
60°-50° [3]; 18%
Rigido, con lunga irradiazione solare estiva e con scarse precipitazioni (clima subartico)
Suolo con humus acido (podzol) povero di nutrienti; Pini, Abeti, Aceri
Alce, Renna, Cervo, Volpe, Lince, Orso bruno, Scoiattolo: Crociere
FORESTA TEMPERATA
50°-40°;  5%
Temperature medie annue moderate, media escursione annua, variazioni stagionali ben definite con piogge distribuite uniformemente in quantità variabile nel corso dell’anno (clima temperato)
Suolo con humus dolce (mull) ricco di nutrienti; Querce, Faggi, Aceri, Pioppi, Castagni, Olmi, Tigli e Betulle, Liriodendri (in America)
Lupi, Linci, Volpi, Cinghiali, Donnole, Faine, Tassi, Caprioli, Talpe, Castori, Scoiattoli, Lepri; Poiane, Picchi, Ghiandaie; Colubri, Lucertole
STEPPA
40°-30°; dato mancante
Stagioni o molto calde e secche o molto fredde e che presentano scarsità di piogge, dove si susseguono un lungo periodo arido e un breve periodo di piogge
Suoli ricchi di humus (terre nere o černozëm); arbusti nani e d’erbe annue o perenni (rappresentate in prevalenza da Graminacee)
Bisonte europeo e americano, Cavalli, Onagro; Lupi, Coyote Citello, Cane delle praterie; Galliformi; Canguri, Emù, Casuario), Lucertole, Moloc
MACCHIA
40°-30°; 5%
Inverni miti ed estati brevi e secche, con precipitazioni in autunno e in inverno, e scarse o assenti nei mesi estivi (clima mediterraneo)
Suoli a laterite, con scarsa penetrazione dell’humus; Mirto, Lentisco, Leccio, Caprifoglio, Corbezzolo, Sughera, Cisti, Filliree, Ginepri, Ginestre
Istrici, Cinghiali, Tassi, Volpi, Daini; Uccelli Passeriformi; Rettili; Insetti (spesso con forme xilofaghe e fitofaghe)
DESERTO
30°-20°; 30%
Clima con forti insolazioni e precipitazioni minime e molto distanziate nel tempo; aria, evaporazione accelerata, con forti escursioni termiche giorno/notte (clima arido)
Suoli o sabbiosi o ciottolosi o rocciosi, con assenza di humus; copertura vegetale quasi inesistente (dove presente mostra forti adattamenti al clima)
Ratto canguro, Topo del deserto, Fennec, Camelidi, Scorpioni (e altra fauna con forti adattamenti al clima)
SAVANA
20°-10°; 10%
Clima che presenta alte temperature persistenti per tutto l’anno, con forti insolazioni e escursioni termiche giorno/notte e con fenomeni stagionali dove lunghi periodi aridi s’alternano a brevi periodi con precipitazioni (clima arido)
Suoli a laterite, con scarsa penetrazione dell’humus; Acacie, Baobab, Poacee
Giraffe, Rinoceronti, Elefanti, Zebre, Bufali, Gnu, Antilopi e Gazzelle; Leoni, Leopardi, Ghepardi, Sciacalli, Licaoni; Struzzi, Emù, Nandù, avvoltoi, Marabù; Roditori, Rettili; Formiche, Termiti, Cavallette migratrici
FORESTA PLUVIALE
10°-0°; 10%
Clima uniforme in tutto il corso dell’anno, senza variazioni stagionali, con forte insolazione, elevate temperature, abbondanti precipitazioni pressoché quotidiane e forte umidità (clima equatoriale)
Suoli a laterite, con scarsa presenza d’humus e con simbiosi micorriza; stratificazione arborea di latifoglie sempreverdi, sottobosco con piante epifite e rampicanti, strato erbaceo pressoché assente, con marcata biodiversità nell’insieme
Roditori, Armadilli, Scimmie terricole, Boa e Pitoni, Bothrops, Leopardi o Giaguari, Ragni, Scorpioni, Formiche; Bradipi, Pappagalli, Serpenti arboricoli, Scoiattoli volanti e Pipistrelli; Aquile, Tucani o Buceri
[1] Salvo diversa indicazione.
[2] È esclusa la latitudine Sud.
[3] È esclusa la latitudine Sud.

Tabella n. .


Escludendo gli ambienti acquatici di transizione con salinità spesso elevate (cioè con acque salmastre contenti sali d’origine marina in concentrazioni normalmente inferiori a quelle dei mari), quali si ritrovano in prossimità della costa, come le lagune, gli stagni o le foci dei fiumi (estuari, delta fluviali) che, immettendosi in mare, risentono anche per lunghi tratti dell’intrusione marina (e dove le biocenosi sono adattate a brusche oscillazioni di concentrazione salina e di temperatura, con piante alòfile e fauna alolimnòbia, dove alo- deriva dal greco ἅλς ἁλός, sale), abbiamo sopra detto che rientrano nei biomi terrestri anche i biomi d’acqua dolce; questi rimandano a due ecosistemi, quello delle acque litosferiche, ossia le acque che scorrono in superficie, o acque interne correnti, quali fiumi, torrenti, ruscelli, rapide e sorgenti (o ecosistema lòtico; sistema che non valuta però le acque che scorrono sotto la superficie nelle falde acquifere) e quello delle acque interne non correnti, sempre di superficie, quali laghi, stagni e pozze (o ecosistema lentico o lenitico; lotico deriva poi dal latino lotus, participio passato di lavĕre, lavare, mentre lentico, sempre dal latino, deriva da lentus, lento); detto per sommi capi, nell’ecosistema lotico le variabili investono essenzialmente la temperatura (con la qualità del pH e i contenuti di gas e sali disciolti), il substrato dell’alveo (roccioso, sabbioso o fangoso), la sua ampiezza, la sua profondità e la sua erosione/ablazione (cioè, la rimozione e trasporto del materiale eroso, a diversa granulometria, pari a trasparenza/torbidità delle acque) e la velocità della corrente; alla sorgente la temperatura d’un corso d’acqua è bassa (in media sui 5-10 ° C) e la pendenza determina la velocità della corrente, solitamente alta, tanto che i nutrienti dell’alveo sono pochi e provenienti dall’esterno, mentre a valle la temperatura è più alta (in media aumenta dai 12 ai 18 °C), la velocità della corrente è in diminuzione, tanto che il genere l’acqua e torbida, e i nutrienti accumulati sul fondo dell’alveo sono maggiori ed è permessa poi una più abbondante biocenosi; in ogni caso bisogna sottolineare ch’è mancante una biocenosi uniforme che valga per tutto l’ecosistema lotico in quanto, se pure graduali, esistono successioni variate di biocenosi, questo essendo diffusi microhabitat di varia tipologia (esistono microambienti dove gli organismi sono litofili, cioè vivono a contatto delle pietre sommerse, o sotto di esse, e trovano un habitat nella rada vegetazione; altri microambienti dove gli organismi sono detti igropetrici, questo poichè colonizzano rocce affioranti e mantenute in stato d’umidità, o organismi che colonizzano la superficie di ciò ch’è sommerso, piante, pietre, animali più grandi o altro, ancorandosi o strisciando su di questi supporti, quello che si chiama peripyhton etc.); tanto che, ed escludendo gli organismi che si spostano da un ecosistema all’altro, quali Uccelli, Rettili e Mammiferi (essendo quello lotico un ecosistema aperto), si può nel complesso dire che sono dominanti le biocenosi bentoniche, le forme natanti (il necton della colonna d’acqua) e le forme sospese e trascinate dalla corrente (plancton) e che nelle successioni di biocenosi dalla sorgente allo sbocco del corso d’acqua, cioè dall’alto, al medio e al basso corso, aumenta sempre il numero di specie; nell’ecosistema lentico, al contrario di quello lotico, il ricambio dell’acqua è lento (e solitamente dovuto ad immissari lotici o a sorgenti sotterrane) o assente, tanto che si parla di ecosistemi chiusi, e spesso si ritrovano dislivelli di temperatura tra la superficie più calda e il fondo più freddo, mentre nei laghi si presenta anche un termòclino che separa la zona calda da quella fredda, ciò che impedisce gli scambi fra le due zone, e possono variare i tassi dei nutrienti, da poco abbondanti (o oligotrofismo) ad abbondanti (o eutrofismo), e le forme di vita generalmente presenti sono il bentos in profondità (con Funghi e Batteri decompositori degli organismi morti sul fondo), il necton nella zona mediana e il plancton e il nèuston in superfice (il neuston è dato da piccoli organismi che vivono a  contatto con lo strato superficiale delle acque, sopra o sotto di esso; neuston deriva poi dal greco νευστός, che nuota), con specie predatrici, erbivore e filtratrici. Diversa è la situazione dei biomi marini, che si reperiscono invece in zone batometriche (o batimetriche, cioè riguardanti la profondità), di varia denominazione; per prima abbiamo la zona intertidale (detta anche intercotidale), vale a dire la zona della fascia costiera ch’è compresa tra i livelli della bassa e dell’alta marea e che, in quanto legata all’escursione delle maree e all’inclinazione delle coste, varia per estensione da pochi decimetri ad alcuni chilometri, con una sua flora e una sua fauna adattata alla particolarità dell’ambiente (per esempio, Crostacei sèssili e Alghe); in base poi alla distanza dalla zona intertidale e alla profondità s’identifica la zona di costa (o zona nerìtica, che termina dove finisce la piattaforma continentale e ha una profondità da 0 e 200 m; neritico deriva poi dal greco νηρίτης, conchiglia marina), dove l’intenso ricambio d’acqua mantiene in circolazione una quantità elevata di nutrienti da parte delle acque continentali, ciò che sviluppa la popolazione del fitoplancton (quali Cianobatteri e Alghe) che, in quanto autotrofa (cioè in grado di produrre gli alimenti che le necessitano con la fotosintesi), a sua volta permette una catena alimentare con lo zooplancton, eterotrofo (ossia incapace di produrre gli alimenti che gli necessitano se non nutrendosi d’altri organismi) quali Protozoi, Celenterati, Crostacei e uova o stadi larvali di vertebrati e altri invertebrati (da ricordare che i componenti di questo plancton neritico, o neroplancton, sono sospesi nelle acque e trascinati dal movimento delle correnti); in zona pelagica, cioè, come visto, in mare aperto (a partire da dove la piattaforma continentale aumenta fortemente la sua inclinazione con una scarpata), abbiamo in superficie la zona epipelagica che corrisponde con la zona fòtica, quella che si presenta fin dov’arriva la luce del Sole, cioè fino a 100 m, e dove dunque avviene la fotosintesi e vivono in sospensione gli organismi del plancton soggetti alle fluttuazioni delle masse d’acqua e dove circola il nècton, cioè il complesso degli organismi capaci, a differenza del plancton, di muoversi in opposizione al movimento delle correnti della zona epipelagica, insomma tutto ciò che nuota e che si nutre di plancton e si sposta isolato o in branchi, per esempio Cefalopodi, i Pesci e Cetacei; a seguire una zona intermedia (o mesopelagica) dove la luce del Sole fatica ad arrivare e dove la luminosità è pertanto bassa e non è possibile la fotosintesi, situata tra i 200 e i 1 000 m, che vede incursioni degli organismi nectonici; dove la luce non arriva c’è la zona batipelagica (o batiale), fino a 3 000 m, seguita dalla zona dei fondali oceanici, o zona bentonica, fino ai 6 000 m, oltre la quale c’è la già citata zona hadale (le tre zone sono anche dette afotiche), e qui abbiamo il bèntos (o bènthos), cioè il complesso degli organismi che vive sui fondali degli oceani, quali Alghe, Batteri, Molluschi, Vermi etc., cioè organismi ancorati ai fondali (o sessili), oppure che possono muoversi (o vàgili), e che possono essere o predatori d’altri organismi, o saprofagi, vale a dire organismi che si nutrono di forme in decomposizione, o decompositori e detrivori dei resti ch’arrivano sui fondali.