Per quanto
riguarda il processo di domesticazione del cane e del gatto, qui lo s’affronta
data la loro importanza nell’ambiente antropico delle società stanziali, e valgano
a questo proposito le note seguenti. La domesticazione del cane è la prima
domesticazione d’una specie diversa dall’uomo, ma non si sa dove, né si sa
quando sia avvenuta con precisione; riguardo al dove, le ipotesi avanzano come
areali il Medio Oriente, cioè la Mezzaluna Fertile (risultati ottenuti con il
ricorso al DNA nucleare e l’analisi dei polimorfismi a singolo nucleotide, o Single-Nucleotide
Polymorphism, SNP, grosso modo analizzando le piccole differenze nella
sequenza di una singola base del DNA), l’Europa (risultati ottenuti con il
ricorso al mtDNA,
v. supra), la Siberia e, infine, la Cina
meridionale (risultati ottenuti sempre con il ricorso al mtDNA); riguardo al
quando, alcuni datano la domesticazione
a 135 000 – 76 000 anni fa, in presenza essenzialmente di Homo neanderthalensis (con una
datazione basata sul DNAmt; per inciso, questa tipologia di datazione è molto criticata in quanto è
ritenuta non attendibile per eventi filogenetici che si sviluppano in tempi
geologici brevi); altri, in presenza di Homo sapiens, la datano tra 40 000 e 12
000 anni fa, altri a 16 300 anni fa e altri ancora, non essendoci evidenze
fossili di cani vissuti prima di 12 000 anni fa, mettono in forse la
domesticazione prima dell’avvento del Neolitico. L’evidenza fossile di cui si
parla è databile tra 12 000 e 10 000 anni fa, ed è la tomba d’un Natufiano (v. supra) dove un umano posa una mano sullo
scheletro d’un cucciolo di cane, tra i primi esempi d’inumazione in cui un uomo
giace sepolto con specie diverse, cui s’aggiunga il fatto che prima di 10 000
anni fa non esistono, nell’arte parietale rupestre, documenti figurativi che rappresentino
il cane quali li si può ritrovare, per esempio, nelle scene di caccia presenti
a Alpera, in Spagna orientale, nella Cueva de la Vieja o nelle scene dell’arte
sahariana di Tadrart Acacus, nella Libia occidentale. In ogni caso, la domesticazione
s’è avuta a partire da un Lupo ancestrale (ascendenza che poi si traduce nella differenza
di specie e nicchie tra il Canis lupus
e il Canis familiaris, v. infra, differenza genetica che non
supera l’1,8%), là dove la divergenza con questo Lupo ancestrale, e con il Canis lupus, si nota con il fatto che la
domesticazione (v. supra) ne ha
ridotto la taglia, ne ha reso le fauci ridotte e con denti meno grossi e
robusti (per esempio, i denti carnassiali, v. infra), e ne ha prodotto la faccia più grossa, il muso più corto e
il cervello più piccolo del 15% ca., a pari peso, e si sospetta fortemente che
la domesticazione si sia inizialmente presentata come autodomesticazione in due
tappe del Canis lupus derivato dal
Lupo ancestrale. E si dice autodomesticazione perché il Canis lupus, sia pur un cucciolo che non ha ancora aperto gli occhi
(v. infra), non si riesce mai a
domesticarlo, e se si può dare il caso d’un Canis
lupus domato, questi, a differenza del cane, non trasmette geneticamente
questo tratto alla prole, quindi sarebbe necessario ripetere il processo
d’addestramento di nuovo da capo, come dire che il Canis lupus può essere addomesticato, ma non domesticato (v. supra). La prima autodomesticazione
consiste in una larvale coesistenza, fortemente competitiva dato che gli ecosistemi
che occupano il Canis lupus e le
bande dei cacciatori-raccoglitori sono spesso sovrapposti in quanto prediligono
le stesse prede e le stesse parti della preda altamente proteiche (cioè gli
organi interni quali cuore, fegato e polmoni e, a seguire, reni, milza e
muscoli). Cui s’aggiunga che nella predazione, per entrambe le specie, è
presente il cacciare organizzato, cioè sociale; prede che, in presenza di una
diminuzione delle risorse (quale si presenta a partire da 13 000 anni fa, alla
fine del Mesolitico, cioè durante il periodo glaciale chiamato Primo Dryas, nel quale si manifesta uno stress ambientale, cioè la detta diminuzione
in quantità e qualità delle risorse trofiche), e se il Canis lupus è impossibilitato a reperire prede, ma solo se è
impossibilitato, che, altrimenti, questa pratica non è da questa specie
dismessa, si traduce nel suo comportamento di consumare gli avanzi abbandonati nei
pressi degli insediamenti temporanei dei cacciatori-raccoglitori (anche se alcuni
sostengono che questa pratica opportunistica sia documentabile già a partire da
ca. 30 000 anni fa). Si tenga in ogni caso conto, per valutare il comportamento
opportunistico o meno del Canis lupus,
che questi può arrivare a consumare fino a 5 kg di carne al giorno per una
complessione fisica che mediamente va dai 45 a 35 kg, e che, per tutti i
carnivori dell’era glaciale, la morte per fame è stata la normalità e che pertanto
la competizione s’è presentata, conseguentemente, molto alta. In seguito, nel
Neolitico, a partire grosso modo da 11 000 anni fa (quando s’afferma il clima post-Dryas, cioè quando aumentano
temperature e precipitazioni) grazie alla presenza e a una certa regolarità dell’accumulo
di rifiuti organici nei pressi d’una popolazione di Homo sapiens che si sta facendo stanziale (una nuova nicchia), con
la presenza di un Canis lupus opportunista,
cioè adattabile a una prossimità con gli umani, vale a dire con una minore
distanza di fuga rispetto ad altri componenti della sua specie, e dove la
distanza di fuga (o flight distance,
che, alla lettera, si traduce come
distanza di volo), che si può misurare controllando quanto l’animale si lascia
avvicinare dall’uomo, o da qualsiasi altro animale, mentre mangia prima di
fuggire. La distanza di fuga è dunque quella a cui un animale, qui un Canis lupus, può lasciare avvicinare un
predatore, qui l’uomo quale agente stressante (o stressor), senza essere indotto alla fuga; ancora, per qualsiasi
specie e in qualunque situazione data la distanza di fuga ottimale si situa tra
un valore minimo, in cui l’animale troppo reattivo non riesce a mangiare
(distanza breve) e un valore massimo in cui l’animale riesce a controllare la
sua reattività mentre continua a mangiare (distanza lunga) e la selezione
naturale agisce sulla distanza di fuga proprio su questo continuum tra il minimo e il massimo, spingendola verso l’uno o
l’altro estremo secondo quanto cambiano le condizioni dell’ambiente in un tempo
evolutivo. E se una fonte abbondante di cibo si presenta, per esempio un accumulo
di rifiuti organici nei pressi d’un villaggio, essa tenderà a rendere breve la
distanza ottimale, e questo comportamento è probabilmente indotto, data la
nuova nicchia, da una diversa recettività agli stimoli dell’ambiente esterno
dovuti ad una casualità genetica che, in alcuni Canis lupus, si traduce in una riduzione della concentrazione di
corticosteroidi e alla produzione della serotonina che permette d’accorciare la
distanza lunga. A questo proposito è necessario, infatti, sapere che tra i
corticosteroidi, che sono ormoni secreti dalla corteccia surrenale che hanno il
compito di regolare lo stress, c’è
anche il cortisolo, un ormone legato alla produzione d’adrenalina che, a sua
volta, è un neurormone che stimola la risposta fight or flight, cioè combatti o fuggi, vale a dire le risposte
psicofisiche in caso di stress, e più
alto è il livello di cortisolo e più l’adrenalina incentiva l’ampiezza, ossia l’attivazione,
della distanza di fuga rispetto allo stressor;
contemporaneamente, più bassi livelli di cortisolo e minore produzione
d’adrenalina attivano una maggiore produzione della serotonina, un
neurotrasmettitore ch’è legato, tra altri stati dell’organismo, a quello del
rilassamento, cioè ad una inibizione del comportamento di fuga, ossia l’esatto
opposto della risposta fight or flight.
Come dire che, in alcuni di questi Canis
lupus e grazie alla nuova nicchia si presenta, quindi, l’opportunità di
manifestare un comportamento adattativo alla distanza di fuga che, in un isolamento
sessuale dal Canis lupus territoriale
che continua a riprodursi all’interno del branco (v. infra), permette poi in modo incipiente la speciazione (cioè la
metamorfosi nel tempo in Canis familiaris)
e d’allevare una prole più numerosa e geneticamente differenziata grazie
all’aumento delle risorse alimentari e senza che possa sussistere un’esposizione
troppo ravvicinata con gli umani il cui unico ruolo, alla fin fine, è quello di
fornire loro la detta nuova nicchia che con la stanzialità antropica è in grado
di fornire una regolare discarica di rifiuti. Si ricorda che, in linea di
massima, il Canis lupus è un
carnivoro che, essendo un predatore generalista, cioè non legato a un tipo di
preda in particolare, può predare animali di dimensioni molto variabili, cioè
di grandi o di piccole, piccolissime dimensioni; oltre alla citata carnivoria,
presenta però anche abitudini alimentari opportuniste che gli permettono di cibarsi
di frutta, di vegetali, di carcasse d’animali morti, comprese quelle della
propria specie, e di carni in decomposizione, cui s’aggiunga che, oltre a
quest’ultimo tratto saprofago, presenta anche quello coprofago, cioè quello
d’alimentarsi con le deiezioni alvine umane, cioè con le feci. Dunque è qui, in
questa nicchia, che si ritrova la prima forma di simbiosi tra il Canis lupus docile (questo solo perché
la riduzione evolutiva della flight
distance per selezione naturale si traduce in un comportamento che noi per
nostri scopi definiamo di docilità), chiamiamolo protocane, e Homo sapiens; per il resto, i
comportamenti del protocane legati alla ricerca di cibo, alla riproduzione etc. sono simili a quelli delle specie
selvatiche, ma adattate alla sopravvivenza d’una nicchia dovuta al passaggio
storico dalle società itineranti di caccia-raccolta alle società agricole
stanziali, società dove la docilità potrebbe presentarsi come vantaggiosa per
gli uni e per gli altri, per esempio, con cibo dato al protocane in cambio della
caccia opportunista agli animali parassiti che saccheggiano le coltivazioni. Prole
di protocane che, nel giro di poche generazioni (si parla di un periodo tra i
50 e i 100 anni, tanto che, a partire da ca. 10 000 anni fa è documentata la
diffusione del cane in Eurasia, Africa, America del Nord e Australia) ha continuato ad evolversi e a proclamarsi
in una nuova specie, Canis familiaris e, lo si ripete, per selezione
naturale in un segmento della popolazione di Canis lupus del tratto della flight
distance, ossia dell’abilità di riuscire a mangiare in prossimità degli
umani senza abbandonare la risorsa trofica, dunque non per una selezione
artificiale da parte dell’uomo. Ragione per cui il Canis lupus e il Canis
familiaris, che hanno un progenitore ancestrale in comune, evolvono in due
specie distinte, diverse, da cui deriva la varianza dei loro tratti fenotipici,
con la clausola che è la diversa nicchia ecologica che li ha poi fatti evolvere
in due specie (altri, a partire dal 1982, invece che Canis familiaris usano il trinomio Canis lupus familiaris, e usandolo sottintendono che il processo di
differenziazione di specie che s’è cercato di descrivere non sia avvenuto,
dunque pensando che non esista un Lupo ancestrale, o che, s’esiste, si sia
evoluto nel Canis lupus attuale, e
che il cane sia non una specie a sé, ma solo una sottospecie del Canis lupus, nomenclatura trinomiale che,
date le premesse, qui non s’adotta). Questa specie, dunque, non è più legata al
comportamento sociale, gregario e territoriale dei Lupi, abituati a convivere,
in un habitat circoscritto, in
famiglie nucleari, date dalla coppia monogama e dai loro cuccioli (al massimo
in un branco che contiene 2-3 famiglie nucleari, dove una famiglia nucleare
comprende i genitori e i cuccioli degli ultimi tre anni o solo quelli nati nell’ultimo parto, in
media 5 o 6, ma questa pratica non è da generalizzare per tutti i Lupi), né
alla socialità del protocane opportunista, spazzino, che non s’è relazionato
con l’uomo pur vivendo con lui in simbiosi (socialità competitiva, da non
confondere con quella territoriale del branco propria al Canis lupus, in quanto il protocane, escluso il momento della
riproduzione, è costretto a vivere isolato o, al massimo, a formare piccoli
gruppi familiari con una durata ch’è limitata per il maschio al momento della
nascita dei cuccioli, questo vista la competizione tollerante, non aggressiva, dei protocani nei
confronti l’uno dell’altro per l’accesso alle risorse), ma è una specie in cui a un’evoluzione della
competenza sociale che si manifesta nella sua evoluzione storica come allontanamento
prima dal branco e poi dalla socialità competitiva. A seguire l’evoluzione
continua, questa volta però come effetto d’una selezione artificiale, anche se non
necessariamente voluta, per il tramite di quella che si chiama selezione
postzigotica (che, semplicemente, significa che l’umano elimina tra i cuccioli
quello che non gli piace e si prende cura di quello che gli piace, lasciando
all’ambiente antropico durante una finestra di socializzazione, v. infra, la cura della crescita cognitiva
del cucciolo), selezione che potrebbe essere stata data, per esempio, da un
cucciolo di protocane, opportunista e geneticamente docile ch’è adottato da un
umano che se ne prende cura. Se questo percorso storico dalla selezione
naturale a quella artificiale è vero, ciò porta, per effetto del fondatore (v. supra), alla definitiva transizione
verso il Canis familiaris attuale, vale
a dire a una specie funzionale, cioè addestrabile a un lavoro, ossia a cani da difesa
e da attacco contro gli animali infestanti i raccolti, a cani da conduzione
delle greggi transumanti etc., insomma
a cani da lavoro, il tutto grazie all’imprinting
(v. supra) dei cuccioli durante il
periodo critico della socializzazione. Ciò che comporta, se esemplifichiamo ricorrendo a un
cane da conduzione, a
una soggezione
attiva e emotiva del cane nei confronti del gregge da condurre, cioè a un
legame interspecifico tra cane e pecora (o cane e uomo, o cane e altro ancora)
che fa sì che il cane adulto esibisca i normali comportamenti intraspecifici
innati, ossia quelli che caratterizzano il rapporto del cane con un altro cane,
e che fanno sì che un carnivoro (il cane) diventi di fatto il conduttore di una
specie che avrebbe il ruolo di preda (qui la pecora). Il tutto, dunque, grazie
all’ambiente evolutivo antropico che si sostituisce a quello che sarebbe
primigenio per il cane (originariamente, quello del protocane con il modulo
comportamentale della docilità in prossimità d’un villaggio), vale a dire
spostando la collocazione del cane dai margini della comunità umana al suo
centro, da un luogo dove il protocane non è addestrabile a un luogo dove
l’addestramento, dapprima inconsapevole e poi con tassi sempre più alti
d’intromissione umana, si dimostra funzionale agli interessi dell’uomo (e
questa è la seconda forma di simbiosi, quella che permette il passaggio dal
commensalismo al mutualismo). A questo punto, è da sottolineare che nello
sviluppo dell’organismo (o ontogenesi) dei cani, il periodo critico della
socializzazione si presenta all’incirca tra la quarta e la sedicesima settimana
di vita; in questo periodo il cucciolo, che nasce senza funzione visiva e
uditiva, è portato per un lungo periodo alla dipendenza dalle cure parentali,
cui s’aggiunga il fatto critico che l’apertura degli occhi, cioè la funzione
visiva, sommata a tutte le altre percezioni sensorie diventate attive, quali il
tatto, l’udito, l’olfatto e il gusto presenti a partire dalla terza settimana,
mettono in moto in modo irreversibile uno sviluppo neurosensorio che si traduce
nella capacità di formare relazioni sociali intraspecifiche (normalmente con
chi gestisce le cure parentali, cui l’uomo si può sostituire). Dopo 6-8 settimane,
cioè dopo lo svezzamento,
s’attiva poi geneticamente lo schema (pattern)
motorio della paura
nei confronti di ciò che può essere pericoloso, cioè non conosciuto e al di
fuori del vissuto dell’area di socializzazione, vale a dire l’insorgenza d’una
reazione limite alla tolleranza d’un umano (che qui rappresenta uno stressor, nel caso che l’uomo non si
sostituisca alla madre) oltre la quale s’attiva la paura, in altre parole il
tratto geneticamente codificato della distanza di fuga. Come dire che il periodo in cui il cane può riconoscere nel
suo ambiente evolutivo un tratto eterospecifico ritenuto positivo (l’uomo, per
esempio) e, successivamente, di discriminarlo rispetto a quelli che ne sono estranei,
è
quindi limitato; infatti,
dopo 16 settimane questa finestra di socializzazione si riduce poi fortemente o
si chiude definitivamente, vale a dire si disattiva la finestra temporale in
cui l’ambiente evolutivo contribuisce a informare, a livello cerebrale, ciò che
darà poi origine al repertorio epigenetico delle strutture differenziate nel
comportamento, quali gerarchie di dominanza, sottomissione, richieste di cibo e
altro ancora. E si dice repertorio epigenetico (dove il prefisso epi-, dal greco
ἐπί, sta a significare dopo) perché
lo sviluppo genetico è legato a un processo dinamico dove, oltre che alla
risposta dei segnali che provengono dall’ambiente interno dell’organismo, anche
la risposta ai segnali che arrivano dall’ambiente esterno ha una funzione
regolatrice, come a dire che lo sviluppo e la differenziazione dell’organismo
sono dovute a uno scambio bidirezionale, d’interdipendenza, tra i due ambienti
(l’interno e l’esterno). Detto altrimenti, l’ambiente esterno produce una
modificazione nell’attività di un gene regolatore senza, per questo, cambiare le
istruzioni contenute nel DNA, ciò che arriva a costituire un fenotipo, dove, con fenotipo, s’intende
il complesso delle caratteristiche morfologiche e funzionali di un organismo in
quanto prodotto dall’interazione dei geni tra loro e con l’ambiente (v. infra). Durata della finestra temporale d’interscambio
interno/eterno che, nel caso della nicchia ecologica data dall’ambiente antropico,
coincide di fatto con la tipologia dell’addestramento (e se interessa, nel Canis lupus gli occhi si aprono verso il decimo giorno e questa
finestra s’apre dopo 13 giorni e al diciannovesimo si chiude, ciò che rende praticamente
impraticabile la sua domesticazione), ma con la clausola che questo addestramento
del cane deve tenere anche conto dei limiti genetici entro i quali l’ambiente
può modificarne la struttura, nel senso che ogni razza di cane ha strutture
comportamentali specie-specifiche (cioè un repertorio d’origine filogenetica
che permette ai pattern motori già
pronti di mettersi in moto quando l’ambiente li attiva come necessari per la
specie e che si può modificare in funzione della citata finestra temporale e
della contingenza ambientale). Ed è questo ciò che li predispone a essere in
grado d’imparare la propria mansione e a eseguirla meglio d’ogni altra razza. Per
riprendere l’esempio sopra utilizzato, tutti i cani, nella finestra temporale
detta, possono essere addestrati a condurre le pecore, ma il cane da conduzione
che ha la struttura adatta appartiene a una sola razza, ed è quel cane che
presenta una struttura fisica, cioè la taglia e la forma, che si traduce nel
giusto comportamento richiesto, che è poi quella che s’addestra tenendo conto
dei limiti della programmazione genetica che informa strutturazione fisica e
collegamenti fra le cellule cerebrali e che opera in modo bidirezionale,
epigenetico, con l’ambiente evolutivo stesso; complesso dato da struttura
fisica/cervello/ambiente evolutivo che differenzia di fatto, nelle
manifestazioni comportamentali della forma fisica, una razza antropicamente
utile dall’altra. Tanto, per essere chiari, che un cane da conduzione presenta
il pattern motorio d’inseguire, ma
non quello di mordere l’inseguito né per afferrarlo né per ucciderlo; un cane da
riporto presenta i pattern motori per
inseguire e per mordere afferrando ciò che deve riportare, ma non quello di mordere
per uccidere, mentre un segugio presenta i pattern
motori per inseguire, e per mordere afferrando e uccidendo la preda; dunque, se
gli schemi motori di predazione nel cane (ma anche nel Lupo) presentano la
sequenza ‘individuare > fissare > avvicinarsi furtivamente > inseguire
> mordere per afferrare > mordere per uccidere > sezionare > consumare’,
ecco che tra questi, che s’attivano dopo lo svezzamento, sono presenti anche
quelli che l’uomo può utilizzare o sfruttare per i suoi scopi e che questo
utilizzo, come per tutti gli altri pattern
motori che s’attivano e incrementano nella sequenza, è per sempre, e l’uomo li
può attivare o disattivare (regolando le risposte ritenute positive o negative, dato l’ambiente
di sviluppo che si ritiene ottimale per l’emissione dei moduli comportamentali,
v. infra, il fenomeno della potatura), facilitato
in questo anche dal fatto che questi tratti non sono strettamente collegati fra
loro (come capita ai Felini, che per predare devono compiere per intero la loro
sequenza motoria di predazione). Tanto che il via alla sequenza motoria, che
dopo l’addestramento diventa stereotipata, può cominciare nel Canis da qualsiasi punto (ciò che
spiega, tra l’altro, il perché i Lupi abbiano potuto con opportunismo presentare
da solo il pattern di consumare i
resti abbandonati dagli umani), ciò che farà, infine, che il cane sia
domesticato, da lavoro o altro, diventi cioè un animale sinantropico, ossia un animale
che, al pari del gatto, vive normalmente in compagnia dell’uomo. La figura
seguente, che mostra la crescita del cervello del cane nell’arco temporale d’un
anno, evidenzia che la maggior parte della sua crescita, quella in cui si
formano e stabilizzano le connessioni cerebrali che lo conformeranno alla
nicchia, coincide con il periodo sensibile alla socializzazione, oltre il quale
non saranno mai soddisfacenti nuovi addestramenti ad altre abilità sociali (infatti,
durante il periodo critico i circuiti neurali sono sensibili solo alla
persistenza dei segnali di nicchia, segnali che sono così in grado di provocare
un’attività neurale che si stabilizza in un preciso schema di connessioni tra le
cellule nervose, segnali che sono così selezionati per fare parte del cervello
dopo le 16 settimane, mentre altri schemi, pur presenti, ma non adeguatamente stimolati,
sono definitivamente persi con la crescita, fenomeno detto di potatura, o pruning; per riprendere l’esempio del
cane da conduzione, se i cuccioli mostrano lo schema motorio dell’inseguimento
delle pecore, o quello del mordere per afferrarle, è sufficiente allontanarli
per un dato tempo dal gregge, cioè dalle pecore quale stimolo scatenante, ed
ecco che in breve il comportamento scompare, per delezione, dal repertorio
senza che ne rimanga traccia mnestica, come dire che il pattern è potato dalla memoria; in figura, la
crescita è data in cm3 e il periodo critico in mesi):
Figura
n. . Fonte: Coppinger e Coppinger,
2012, p. 130.
Al cane è
dunque data la possibilità di manifestare un’intelligenza sociale che, nella
nicchia antropica, s’esplica come interazione condivisa con gli umani (qualità non
data nei Lupi, ma potenziale nei Lupi opportunisti, i protocani, che si
rivelano essere così gli antenati di fatto dei cani); qualità che li ha resi
capaci di leggere le intenzioni altrui, cioè capirne la gestualità, gli sguardi
orientati e soprattutto la deissi, cioè il gesto d’indicare (pointing), che solo cuccioli di cane e d’uomo
sanno da subito interpretare (non la sanno interpretare neppure gli Scimpanzé e
i Bonobo, come visto più vicini filogeneticamente all’uomo), il tutto
selezionando gesti, sguardi, indicazioni in funzione di ciò a cui gli umani
prestano attenzione, cioè manifestando attraverso l’intenzionalità condivisa
gli stessi processi mentali di un bambino sotto cura parentale. E questo vuol
dire che c’è stata un’evoluzione nelle capacità cognitive dei cani, capacità
cognitiva che si presenta innata (ossia come un sottoprodotto casuale della
domesticazione), come se solo tra cucciolo di cane e cucciolo d’uomo ci fosse
stata un’evoluzione convergente, nonostante la differenza di specie, verso un
comportamento che solleciti le cure parentali d’un adulto di Homo sapiens (ossia con alcuni tipi d’interazioni
sociale e comunicativa tipici fra il cucciolo d’uomo e sua madre) e che nell’arco
di nove settimane può definirsi completamente manifestata (v. supra). Capacità, dunque, che non necessita d’un apprendimento, cioè
non è dovuta all’influenza dell’addestramento, anche se è vero che a seguire la
lunga esposizione all’uomo e la selezione artificiale portano poi, come detto,
a una specializzazione delle capacità cognitive; tanto che si può affermare che
quest’intelligenza sociale ha permesso ai cuccioli in grado di manipolare e interpretare
il comportamento umano d’avere più probabilità di sopravvivenza rispetto ai
cuccioli di Canis lupus (che questa
capacità innata non l’hanno), dunque d’avere più probabilità di riprodursi e di
trasmettere i propri geni alla generazione a venire. Come dire che, con il
cambiamento della nicchia ecologica e l’adattamento evolutivo (genetico ed
epigenetico) ad essa, cioè con il mutualismo e l’evoluzione convergente, s’è
assestata la detta capacità di saper rispondere simbioticamente al
comportamento umano e, soprattutto, a saper cooperare con l’uomo. Per quanto
riguarda l’atteggiamento simbiotico cane/uomo è poi necessario prendere in
considerazione anche il ruolo svolto dall’ossitocina (o oxitocina, abbreviata in OXT), un
ormone di natura proteica prodotto dall’ipotalamo e secreto dal lobo posteriore
dell’ipofisi; infatti, è stato dimostrato che la produzione dell’ossitocina aumenta sia nella madre che nel
neonato se questi si guardano negli occhi, aumento di produzione ormonale che
si traduce nella fiducia del neonato di ricoprire il ruolo d’oggetto di cura e
che crea, in pari tempo, un’empatia che nella madre si traduce come impegno ad assumere
il ruolo di soggetto di cura, come dire che l’ossitocina produce una
comunicazione madre/neonato che funziona anche in assenza d’una comunicazione
verbale; ora, è questo lo stesso dispositivo preverbale che s’implementa se un
uomo e un cane si guardano negli occhi, ed è probabilmente questa meccanica di
cura offerta dall’ossitocina che mette in moto un ciclo di feedback positivo tra oggetto e soggetto di cura che ha permesso la
sopra citata coevoluzione fra i due di un legame tanto affettivo quanto
cognitivo e sociale, legame che emerge anche perché l’ossitocina può agire
sulle strutture corticali limbiche e prefrontali, aumentando la trasmissione
dell’acido γ-aminobutirrico (o Gamma-AminoButyric
Acid, GABA), che è uno dei principali neurotrasmettitori inibitori, il che
è dire che quest’acido induce l’abbassamento di freni inibitori sociali, quali
la paura, l’ansia e lo stress, e apre
alla disponibilità di fiducia e empatia a fronte della necessità di
comportamenti collaborativi (per inciso, si sottolinea che l’azione di
guardarsi negli occhi sarebbe interpreta dal Canis lupus nel modo opposto, ossia come forte segno d’ostilità, e
che è per questo che i Lupi rifuggono il contatto visivo). Per
quanto riguarda invece la cooperazione uomo/cane, questa s’è sviluppata, come
visto, anche in funzione gregaria all’uomo e in modo utilitaristico per l’uomo;
con la cooperazione, dunque, s’assiste a un’autodomesticazione del protocane legata
al commensalismo che si traduce in un mutualismo (tramite un processo
d’adozione e d’addestramento in una data e determinata finestra temporale); autodomesticazione
che, probabilmente, s’è verificata più volte e in luoghi diversi (secondo
un’ipotesi multiregionalistica che si basa su risultati genetici, biogeografici
e archeologici) e che, oltre alla taglia e alle funzioni cerebrali che
governano i tratti comportamentali, ne ha modificato la riproduzione anticipandola
e raddoppiando nelle femmine la manifestazione dell’ovulazione annuale (estro che
nel Canis lupus si manifesta
annualmente e grossomodo a partire dal secondo anno d’età) e, con la dieta diventata
onnivora, ne modifica anche il metabolismo, per esempio, quello degli amidi con
l’amilasi (v. infra; quest’ultimo è dunque
un fenomeno presente data la dieta con carboidrati, possibile nelle società
agricole; e a questo proposito c’è chi sostiene che, probabilmente a causa delle
pressioni di selezione comuni tra cane e uomo, ci sia stata, oltre che la convergenza
evolutiva sopra citata, anche un’evoluzione parallela nei geni preposti al
metabolismo, ai processi digestivi e neurologici e al cancro). Riguardo al rapporto
mutualistico tra cane e uomo, si deve poi aggiungere che il cane, cambiando
geneticamente sia struttura sia comportamento, rimane intrappolato nella sua
nuova strutturazione, mentre l’uomo no, tanto che il cane domestico non sarebbe
in grado, da solo, di sopravvivere nella sua forma attuale in quanto, a livello
cognitivo, s’aspetta sempre un aiuto da parte dell’uomo. Quello tra cane e uomo
non è, dunque, un mutualismo pienamente simbiotico, quello in cui le specie
coinvolte si modificano in coevoluzione l’una con l’altra dando origine a due
simbionti (v. supra), perché qui, tra
l’uomo e il cane, solo il cane è pienamente un simbionte, mentre l’ospite lo è
a suo gradimento, tanto che qualcuno parla, a proposito del destino sociale di
alcuni cani, di dulosi (dove il termine dulosi rimanda al greco δούλωσις, derivato di δοῦλος, schiavo). Per quanto riguarda
l’aspetto delle aspettative del cane nei confronti dell’uomo, si parla di
neotenia (v. supra), cioè della
permanenza nell’adulto di un tratto comportamentale del cucciolo, qui la
richiesta di cure parentali. Per quanto riguarda poi l’intelligenza sociale del
cane, cioè l’aspetto sociocognitivo, si sospetta fortemente che la diminuita
distanza di fuga
prodotta dall’iniziale autodomesticazione
abbia portato questa intelligenza a manifestarsi come un sottoprodotto non
previsto di questo comportamento sociale, cioè come un fenomeno di pleiotropismo
capace di produrre effetti multipli sul fenotipo (laddove il termine pleiotropìa
rimanda alla capacità d’un singolo gene di potere influenzare, a livello
fenotipico, l’espressione di più d’un carattere, ossia d’intervenire su più
caratteristiche dell’individuo). Il che è dire che la mutazione della flight distance ha dato origine a un
comportamento sociale specializzato e innato (cioè indipendente
dall’esposizione all’uomo e dal rinforzo) capace tanto di leggere il
comportamento umano quanto di produrre e d’indirizzare, ben prima della
cooperazione richiesta al cane da lavoro, segnali di comunicazione specifici
all’uomo. O, detto altrimenti, non ha richiesto una selezione diretta per
migliorare questa abilità sociale cognitiva di base, giacché, di là da questo
azzeramento dalla paura dell’uomo in seguito a un’evoluzione del corredo filogenetico
che si traduce nell’interagire con gli umani come se fossero cani (cioè
spostando l’abilità d’interpretare il comportamento degli altri cani all’uomo, ossia
passando dall’abilità intraspecie a quella interspecie), l’intelligenza del
cane è un fenomeno interamente epigenetico, vale a dire un adattamento
all’ambiente nel quale il cane sta crescendo. Come dire, ancora, che la
seguente e conseguente struttura comportamentale del cane dopo il citato
azzeramento, non è genetica nel senso che i geni fissano o predeterminano i
tratti e i comportamenti adulti, ma che ogni singola caratteristica è solo un
adattamento ontogenetico all’ambiente. Quindi, generalizzando, è probabile che
l’innata socialità con l’uomo abbia avvantaggiato il Canis familiaris in quei contesti dove, anziché procurarsi le
risorse trofiche da sé, questo deve farsi alimentare dall’uomo, tanto da
costringersi a rispondere in modo attivo e pertinente al comportamento umano (e
questo può spiegare il perché della riduzione del cervello nel passaggio dal Canis lupus a Canis familiaris poiché le dimensioni e le caratteristiche del
cervello sono sempre strettamente vincolate all’ecosistema, in particolare alla
dieta possibile in una certa nicchia). Per finire, si sottolinea che la grande
diversificazione in razze del Canis
familiaris risale solo a ca. 200 anni fa, ed è stata ottenuta con l’incrocio
di razze diverse (cioè per il tramite d’un processo in cui s’introducono nel pool genico di un cane dei geni
appartenenti a un altro cane che possiede un corredo cromosomico diverso,
fenomeno detto d’ibridazione, o crossbreeding)
e manipolando il momento d’inizio e d’interruzione della crescita e, fatti
salvi i limiti della crescita allometrica, ossia della restrizione evolutiva
nei confronti della forma che un cane può arrivare ad assumere, tra una razza e
l’altra non si notano differenze genetiche apprezzabili. Come dire che nelle
varie razze c’è pochissima variazione genetica, tanto che si può affermare che,
se i geni sono gli stessi, eseguono però la metamorfosi dal cucciolo alla forma
adattiva adulta in tempi diversi (si parla, a questo proposito, di differenze
eterocroniche nella progressione temporale dello sviluppo).
Per quanto
riguarda la domesticazione del gatto selvatico, la sua presenza accanto agli
umani data con certezza a partire da 9 500-9 200 anni fa (si tratta di resti
fossili di un gatto selvatico africano, cioè di Felis silvestris lybica, introdotti nell’isola di Cipro in seguito
a un’ondata migratoria e colonizzatrice, e ritrovati in una sepoltura
intenzionale assieme ai resti d’un corpo umano nello scavo del sito preceramico
di Shillourokambos), ma la sua domesticazione certa (da Felis silvestris a Felis
silvestris catus, laddove il Felis
silvestris si separa dalle altre specie ca. 2 milioni d’anni fa), data a
partire da 5 300 anni fa (da un ritrovamento in Cina), domesticazione che ha favorito
l’emergere di comportamenti legati all’apprendimento del rapporto fra stimolo (caccia
da agguato) e ricompensa (cibo umano, giacché i gatti cacciano anche in assenza
di fame), cioè un mutamento delle funzioni cerebrali in rapporto a una
riduzione dell’aggressività e all’emergere del tratto della docilità. Di fatto
un’autodomesticazione che è legata, come in parte è avvenuto per il cane,
all’affermarsi della stanzialità e delle società agricole, cioè a un aumento
delle disponibilità alimentari carnee (la dieta del gatto, infatti, è composta
per il 70% e oltre da carne, e lo mostrano i loro canini e i loro denti
carnassiali, cioè l’ultimo premolare superiore e il primo molare inferiore,
allineati in modo tale da funzionare come strumenti trancianti per tagliare via
la carne dalle ossa, carne che non è poi generalmente masticata, ma ingoiata
intera). Nello specifico questa disponibilità riguarda le popolazioni infestanti
di roditori (topi e ratti) e uccelli attirate negli insediamenti umani dove
sono presenti semi e immagazzinati degli accumuli di prodotti agricoli, ciò che
è di reciproco vantaggio e per i gatti predatori e, soprattutto, per gli umani stanziali
che sono dipendenti da questa pressione predatoria. Sede della domesticazione
sono probabilmente stati i villaggi agricoli cinesi, dove è accertata la
presenza di magazzini di stoccaggio dei cereali e un ciclo che lega i roditori
al miglio e i gatti ai roditori e agli uomini (come è avvenuto nel 5 300 nel
villaggio agricolo di Quanhucun, nella regione del Shaanxi, Cina Nordoccidentale),
cui s’aggiungano quelli delle regioni della Mezzaluna fertile (v. supra). Oltre a questo aspetto
mutualistico, in seguito si presenta, com’è avvenuto per il cane, un mutamento
di nicchia ecologica (commensalismo) che porta a un diverso regime alimentare
in cui il gatto domesticato è direttamente alimentato da mano umana, con conseguenti
modificazioni del comportamento, per esempio, con la regressione ad alcuni tratti
infantili nell’individuo adulto, una specie di neotenia (v. supra), o la modificazione della
fisiologia dovuta all’allungamento dell’intestino. Quest’ultimo tratto, per
inciso, è probabilmente una conseguenza adattativa a una dieta mista, meno
carnivora, che per l’estrazione e l’assimilazione dei principi nutritivi da
alimenti alimentari richiede viscere più lunghe, e n’è esempio il miglio che i
gatti di Quanhucun si sono abituati a mangiare, come è documentato, quale
controparte degli agricoltori alla loro attività di caccia della popolazione
murina e aviaria. Bisogna poi sottolineare che il gatto, per le sue abitudini
riproduttive e alimentari, non può mai ritenersi completamente domesticato in
quanto, a differenza degli organismi domesticati, non s’evolve nella dipendenza
totale dall’uomo
poiché mantiene delle caratteristiche adattative specie-specifiche che gli
permettono il riadattamento ad un ambiente poco o parzialmente o per niente antropizzato. Come dire che il gatto manca di quel
tratto della coevoluzione sociale con l’uomo, cioè la pratica gregaria d’accettazione
completa e non relativa a una gerarchizzazione sociale utilitaristica, che lo
renderebbe di fatto pari alle altre specie domesticate che sono sociali allo
stato brado; mancanza di cui è indizio anche il fatto che, mentre i
corrispettivi selvatici di tutte le
altre specie domesticate sono ormai estinti o sull’orlo dell’estinzione (come, per
esempio, il Canis lupus) il Felis silvestris oggi prospera accanto
al Felis silvestris catus. E per
finire, un inciso. S’è già usato, e più volte, il termine mutualismo, e si
sottolinea che s’intende parlare con questo termine dell’associazione tra
specie animali differenti (qui cane/uomo o gatto/uomo) che comporta un
vantaggio per entrambe le specie, e senza che tale rapporto (almeno nella fase
iniziale) sia obbligato in quanto le due specie possono vivere anche
indipendentemente l’una dall’altra, mentre con commensalismo s’intende invece parlare
dell’associazione tra due specie che produce benefici trofici per una sola specie
(qui il cane e il gatto, nella loro fase premutualistica). Ed è bene ricordare,
tra le altre cose, che mutualismo vuol anche dire che ci si può anche nutrire
del cane o del gatto (e, in linea generale, dell’animale che s’alleva), mentre
commensalismo vuol dire che, anche se non si dà direttamente da mangiare all’animale
(qui il cane) come si fa con gli animali di compagnia, questo può però nutrirsi
con i rifiuti prodotti dall’uomo grazie al tratto della flight distance, presente anche in altre specie (per esempio, gabbiani,
piccioni, ratti e scarafaggi), perché ciò che varia, infine, è solo il tipo di
nicchia.
UOMO
E AUTOMESTICAZIONE
L’ipotesi
di un’autodomesticazione dell’uomo non è sperimentalmente dimostrabile, ma
alcuni fatti documentati la rendono plausibile, nell’ordine, la domesticazione
della Volpe argentata, la domesticazione del Cane (di cui s’è detto sopra) e la
fenomenologia comportamentale degli Scimpanzé pigmei, o Bonobo (Pan paniscus), tutti casi dove i
cambiamenti anatomici e fisiologici osservati sono il risultato d’una selezione
(artificiale nel caso delle Volpi, naturale nelle altre due specie) ch’è
avvenuta sulla sola base del coinvolgimento di tratti comportamentali, tutti casi
dove la selezione per la docilità, cioè la pressione selettiva, ha
prodotto dei cambiamenti ormonali e neurochimici che traducono, a livello
biologico, una domesticazione interspecie
(cioè con l’uomo) nelle Volpi e nei Cani e intraspecie tra i Bonobo. Tutti effetti che si possono ipotizzare come
marcatori generali della domesticazione giacché diverse specie (per esempio, Maiali,
Pecore, Capre e altre, v. supra)
hanno risposto, se sottoposti alla stessa tipologia di pressione selettiva, in
modo simile,
e questo perché i Mammiferi condividono, nonostante le specie, meccanismi simili di
regolazione degli ormoni e della neurochimica dell’organismo. Partiamo dalla Volpe,
che al pari del Lupo, del Cane, dello Sciacallo, del Coyote e altri, appartiene
alla famiglia dei Mammiferi carnivori dei Canidi (v. supra), specificamente dalla Volpe argentata (una variante di
colore nero della Volpe fulva, Vulpes
vulpes, il cui manto di colore scuro presenta in superfice un colore bianco)
che, allo scopo di studiare le modalità di domesticazione del cane, è stata domesticata a partire dal
1959 in una struttura di ricerca di Novosibirsk, in Siberia, attraverso una
selezione artificiale di Volpi già in cattività e virtualmente selvatiche.
Selezione, questa, che s’è basata non sulla selezione di tratti morfologici,
bensì su tratti comportamentali quali il grado manifesto di docilità di alcune
di queste Volpi (generalmente molto aggressive) verso gli umani, cioè
attraverso l’accoppiamento degli esemplari ritenuti più mansueti. Il test standard di scelta dei cuccioli
prodotti da questo accoppiamento consiste, a partire dall’età di un mese fino
ai 7-8 mesi (quando presentano la maturità sessuale), nell’offrire loro del
cibo e in pari tempo accarezzarli e coccolarli e, in base alla risposta
comportamentale ottenuta, suddividerli in
tre classi, come da tabella:
CLASSI
|
COMPORTAMENTO MANIFESTATO
|
% DELLA POPOLAZIONE TOTALE
|
III
|
RIFUGGONO
LE CAREZZE O MORDONO CHI LI ACCAREZZA
|
90
|
II
|
SI
LASCIANO TOCCARE, MA IN ASSENZA DI MANIFESTAZIONI AMICHEVOLI NEI CONFRONTI
DELL’UOMO
|
|
I
|
SI
LASCIANO TOCCARE E PRESENTANO REAZIONI AMICHEVOLI NEI CONFRONTI DELL’UOMO (SI
AVVICINANO)
|
10
|
Tabella
n. . Fonte (adattata): Trut, 1999, p.
163.
Quelli
scelti sono i cuccioli della Classe I che, arrivati in eta riproduttiva, sono
fatti accoppiare. Se inizialmente i cuccioli di Volpe in grado di rispondere ai
criteri di amicalità stabiliti per rapportarsi agli umani sono poche, dopo solo
6 generazioni d’allevamento selettivo orientato alla docilità le Volpi si sono
modificate al punto che viene istituita una nuova classe (l’élite domesticata, IE) e si modificano
le scelte, come da tabella:
CLASSI
|
COMPORTAMENTO MANIFESTATO
|
SCELTA DEGLI SPERIMENTATORI SULLA
POPOLAZIONE ORIGINARIA
|
III
|
RIFUGGONO
LE CAREZZE O MORDONO CHI LI ACCAREZZA
|
SONO
SCELTI PER CREARE IL GRUPPO DI CONTROLLO (CON IL TRATTO DELL’AGGRESSITÀ [1])
|
II
|
SI
LASCIANO TOCCARE, MA IN ASSENZA DI REAZIONI POSITIVE NEI CONFRONTI DELL’UOMO
|
|
I
|
SI
LASCIANO TOCCARE E PRESENTANO REAZIONI POSITIVE NEI CONFRONTI DELL’UOMO (SI
AVVICINANO)
|
SONO QUELLI
INIZIALMENTE SCELTI; MA, A PARTIRE DALLA SETTIMA GENERAZIONE, SI SCELGONO
QUELLI CHE CONFLUISCONO NEL GRUPPO IE
|
IE
|
SONO
ANSIOSI DI STABILIRE CONTATTI CON L’UOMO, CERCANO LA SUA ATTENZIONE, LO
FIUTANO E LO LECCANO GIÀ ALLA FINE DEL PRIMO MESE (COMPORTAMENTO DOG-LIKE [2])
|
SONO
QUELLI SCELTI DEFINITIVAMENTE, MA SOLO A PARTIRE DALLA SETTIMA GENERAZIONE DELLA
CLASSE I (GRUPPO SPERIMENTALE)
|
[1] Il gruppo di controllo permette di
misurare ogni cambiamento indotto dalla selezione
sperimentale. Da sottolineare che entrambi
i gruppi non sono stati allevati a contatto
con l’uomo, esclusi il test iniziale e il momento della nutrizione.
[2] Cioè con un comportamento come
quello del Cane.
Tabella
n. . Fonte (adattata): Trut, 1999, pp.
160-169.
Ora, verso
la decima generazione il 18% delle Volpi sottoposte ad esperimento appartiene
alla classe IE, è cioè domesticato, dato che sale al 35% dopo 20 generazioni e
al 70-80% dopo 35-40 generazioni; il tutto con effetti collaterali plurimi e
apparentemente non connessi prodotti dalla pleiotropia (v. supra), cioè con il
fatto che nel corso delle generazioni muta la morfologia in quanto le orecchie
diventavano flosce e pendenti, la coda più corta o arricciata all’insù, il
colore ritenuto standard del manto
muta in marrone o in manti pezzati, i crani si modificano anche rispetto al
dimorfismo sessuale e il muso diventa più corto (ma la taglia non si modifica);
oltre a questo, si manifesta la ritenzione di caratteristiche infantili
(neotenia), la maturità sessuale si manifesta prima, l’estro in un anno raddoppia
e la fisiologia si modifica con una riduzione della concentrazione del cortisolo
(nella popolazione sperimentale di quattro volte inferiore a quella di
controllo), e cui è pari un aumento della serotonina (v. supra). Infine, il comportamento, a partire da quello che si
potrebbe definire abbaio, diventa in tutto e per tutto come quello del cane (dog-like) e, ciò che più importa,
s’emancipa anche l’evoluzione cognitiva verso i segnali comunicativi umani (questo
dopo 18 generazioni e con un comportamento della Volpe domesticata che, a un
mese dalla nascita, si dimostra simile a quello d’un analogo cucciolo di cane),
ciò che legittima l’ipotesi processuale di domesticazione del Cane come una
successione senza soluzione di continuità tra la selezione naturale (che è
dominante nei primi stadi della domesticazione) e la soluzione artificiale (che
è presente a seguire). Un processo che porta Cani e Volpi domesticate a
spostare in modo innato l’abilità a interpretare i comportamenti intraspecie
verso quelli interspecie, qui l’uomo. Detto della volpe, per affrontare ora la
questione dei Bonobo e dell’ipotesi della loro autodomesticazione, è necessario
parlare anche degli Scimpanzé (Pan
troglodytes), e della rete sociale che è propria a entrambi questi Pongidi
(v. supra). Gli Scimpanzé vivono in
bande che, risorse permettendo, possono arrivare fino a 150 individui e coprono
un vasto territorio che percorrono alla ricerca di cibo (la dieta è
principalmente a base di frutta, ma è compresa anche la carnivoria) e, escluso
il rapporto madre/figlio, non esistono fra questi individui dei legami stabili
e la femmina, se le è possibile, s’accoppia con vari partner (o poliandria, dal greco πολύανδρος, che ha molti uomini). Tolto questo, i componenti della
banda, comprese le femmine, cooperano però fra di loro nella caccia (salvo
manifestare interazioni aggressive nel momento della spartizione della carne; la
loro preda preferita è poi il piccolo di una scimmia arboricola, il Colobo
rosso, o Piliocobius badius, che
adulta ha un peso di 5-10 kg), così come collaborano nel presidiare il loro territorio
e manifestano ostilità verso gli estranei (o xenofobia) e una forte
aggressività nei confronti delle bande confinanti i cui membri possono essere uccisi
(a partire dai maschi e dai piccoli, soggetti questi a cannibalismo, però risparmiando,
solitamente, le femmine) per occupare il loro spazio vitale, cioè per ridurre
la pressione sulle risorse disponibili, tanto che la prima causa di mortalità
tra gli Scimpanzé maschi allo stato brado consiste proprio nel tasso
d’aggressione mortale dovuto a questa guerra fra bande. Quest’aggressività si
manifesta poi anche all’interno delle bande, suddivise per gruppi dai confini
incerti, variabili e perennemente in fase di ristrutturazione (secondo un
modello detto di fusione/fissione, dove la fusione è data di notte nel dormire
tutti assieme e la fissione nella separazione durante il giorno per risolvere
le esigenze alimentari) e può esercitarsi con violenza, quali morsi e percosse,
nei confronti della femmina in estro appartenente a un maschio di rango del gruppo
(e con infanticidi per affermare il controllo spermatico sulla femmina) e,
fatte salve le intimidazioni solo esibite, può essere mortale tra i maschi al
fine di conquistare la posizione dominante che permette, all’interno d’un
gruppo, il controllo gerarchico, la preminenza nel momento della spartizione
della carne e il controllo sessuale delle femmine nel periodo dell’estro (che
coincide poi con il massimo periodo dell’attività sessuale fra gli Scimpanzé).
Come dire che quella dello Scimpanzé è una rete sociale che privilegia il ruolo
del maschio dominante e che sottomette tutto a questa logica dominanti vs. dominati (o androcrazìa, dove andro-
è dal greco ἀνήρ ἀνδρός, uomo). Per
quanto riguarda la specie Pan paniscus (detti
anche Scimpanzé pigmei, il che non deve far pensare che siano molto più piccoli
del Pan troglodytes, miniaturizzati, giacché
si tratta solo d’una leggera riduzione di taglia che porta a una corporatura
più esile, a una struttura più slanciata, ad arti in proporzione più lunghi), e
fatto salvo che nuovi studi potrebbero rendere la descrizione a seguire idilliaca,
negli studi fino ad ora presenti s’afferma che presso i Bonobo la rete sociale
privilegia all’interno della comunità il ruolo dominante delle femmine, comunità
ch’è poi formata, sempre stando alle risorse disponibili, da un massimo di 80
individui. Le femmine, infatti, intessono fra loro legami d’amicizia secondo un
modello ginecocratico (dal greco γυναικοκρατία,
composto di γυνή γυναικός, donna e -κρατία, potere), per cui il maschio non può
usare l’aggressività per sottomettere le femmine e, in questa rete estesa sul
territorio, il Bonobo non è xenofobo, non presidia i confini né esercita scontri
territoriali, anzi quando gruppi confinanti s’incontrano si creano alleanze e
non stagioni di conflitti territoriali. Il cemento sociale tra i Bonobo non
rientra in quella dinamica processuale ch’instaura il rapporto
dominante/dominati, ma è dato da un’eccitazione genitale costante (dunque non
solo nel periodo dell’estro delle femmine, come per gli Scimpanzé) che si
dispiega nella bisessualità e nella pansessualità, cioè in tutte le forme
possibili dell’interazione sessuale non riproduttiva e strumentale, sia etero
che omosessuale, sia con adulti che con immaturi, inclusi nel repertorio la manipolazione
dei genitali propri e altrui, il baciarsi con la bocca e, sporadicamente, la
pratica del sesso orale e la copula ventro-ventrale, cioè faccia a faccia, che
si credeva propria solo agli umani (questa copula, dove i Bonobo manifestano un
assiduo contatto oculare, è poi permessa dall’orientamento frontale dei
genitali della femmina, cioè dal fatto che questi non sono orientati verso
l’ano come in altri primati). Quest’interazione, promossa e mantenuta dalle
femmine, è anche data dal fatto che le femmine dei Bonobo praticano poi, in
funzione d’integrazione sociale fra ranghi diversi, il tribadismo, cioè lo
sfregamento della clitoride, spesso faccia a faccia (detto sfregamento
genito-genitale, o sfregamento GG), là dove la rivalità maschile è poi risolta spesso
con rapporti omoerotici tipo il frottage,
cioè lo sfregamento, in posizione faccia a faccia, dei genitali eretti o con lo
sfregamento natiche a natiche delle voluminose sacche scrotali, anche se queste
tipologie si praticano meno spesso rispetto agli sfregamenti delle femmine
tribadi. Sempre riguardo alla sessualità, mentre tra gli Scimpanzé è la femmina
ch’esibisce ai maschi il rigonfiamento genitale mensile (l’estro), tanto che all’avvicinarsi
dell’ovulazione con il suo corredo olfattivo si scatena l’aggressività dei
maschi per il predominio nella copula (che, a differenza dei Bonobo, è ventro-dorsale),
questo fenomeno non avviene con le femmine dei Bonobo. Infatti queste,
nascondendo l’ovulazione (ossia non facendo coincidere la fase del gonfiore
sessuale con l’effettiva ovulazione), impediscono di fatto ai maschi di
riconoscere il preciso momento procreativo della copula, ciò che può disincentivare
di per sé la competizione. Detto questo, sarebbe però eccessivo definire i
Bonobo come non violenti, visto che anche i Bonobo praticano la carnivoria e possono
predare scimmie giovani (tra queste, il Cercocebo dal ciuffo, Lophocebus aterrimus), questo senza però
mai raggiungere i tassi predatori degli Scimpanzé, e che le femmine, per
esempio, per difendersi da un maschio aggressivo, si coalizzano fra di loro e
feriscono il detto maschio, anche gravemente (seppure mai in un modo che sia
per questi mortale, come capita tra gli Scimpanzé), così come sarebbe eccessivo
definire questa società come democratica perché le disparità esistono, come
mostra l’ascesa di status d’un bonobo
maschio ch’è determinata dal potere gestito dalla madre nel gruppo (o
nepotismo), ciò che di fatto facilita l’accesso al cibo. O, ancora, che l’ansia
non esista in questa società poiché, per esempio, nei maschi di status sono presenti alti livelli di
cortisolo correlati allo stress di
ruolo in caso di copula con una femmina in estro, dovuti al fatto che questi maschi
devono essere dominanti per controllare la controparte maschile antagonista e
devono non esserlo per potersi accoppiare con la controparte femminile appetita.
In pari tempo bisogna stemperare, senza nulla togliere alla dominante
androcrazia della rete sociale degli Scimpanzé, le affermazioni perentorie che
riguardano la loro competitività in quanto tra questi le interazioni pacifiche
sono di gran lunga più frequenti di quelle aggressive, la gestualità
blandamente minacciosa risulta più frequente di quella apertamente violenta,
così come le minacce si verificano più spesso dei veri combattimenti cruenti.
Detto tutto questo, l’antenato ancestrale di questi Pongidi è lo stesso, e sul
piano genetico gli Scimpanzé e i Bonobo sono quasi identici (la differenza tra
i due genomi è dello 0,4% e la divergenza fra i due è poi avvenuta per
speciazione allopatrica a causa delle barriere fluviali del Congo che ha resi
isolati i loro areali tra 1,5 - 1,3 milioni d’anni fa, altri dice meno di un
milione d’anni fa, v. infra), eppure
gli uni sono aggressivi come il Canis
lupus (anche tra i Lupi, per inciso, una delle maggiori cause della
mortalità è nell’aggressività maschile intraspecie fra branchi confinanti o fra
individui per il controllo delle femmine in calore) e gli altri paiono
domesticati come il protocane e il Canis
familiaris (che, sempre per inciso, non ricorrono all’aggressività diretta,
non cacciano, hanno una maggiore attività sessuale e sono promiscui). C’è dunque
un qualcosa che ha reso i Bonobo meno aggressivi degli Scimpanzé, come se
fossero Scimpanzé autodomesticati. Ora, analizzando le differenze anatomiche
tra Scimpanzé e Bonobo, s’è notato che i canini sono meno sviluppati e che il
cranio dei Bonobo può essere più piccolo anche del 15% rispetto a quello degli
Scimpanzé, inoltre il dimorfismo sessuale è poco accentuato e sono poi presenti
tratti neotenici come la testa che ha una forma arrotondata e la faccia ch’è
meno sporgente, oltre a una riduzione del pigmento nelle labbra che diventano
rosa, fenomeni, come visto, che si possono riscontrare anche in un’intera
categoria d’animali domesticati, ciò che ha portato all’ipotesi
dell’autodomesticazione dei Bonobo. Quest’ipotesi è stata testata poi analizzandone
anche le differenze comportamentali e una serie d’alterazioni, specificamente
quella dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (o Hypothalamic-Pituitary-Adrenal axis, HPA; per inciso, questo asse
regola la risposta individuale di stress
a una situazione potenzialmente pericolosa che potrebbe sfociare nella logica fight or flight) e quella del sistema serotoninergico.
Per spiegare quest’ipotesi dell’autodomesticazione dei Bonobo partiamo dal
fatto che la selezione naturale privilegia chi si riproduce di più, tanto che
la nozione della sopravvivenza del più adatto non va necessariamente coniugata
con la forza e l’aggressività a svantaggio del più debole perché, come visto
per il Canis lupus e la Vulpes vulpes, è proprio la riduzione
dell’aggressività che ha favorito e incentivato la riproduzione (e, nel caso
del Canis lupus, con una riduzione
evolutiva della distanza di fuga ne ha favorito, in una nuova nicchia, la
sopravvivenza), per cui si può ipotizzare che una specie selvatica possa, in
una nicchia dove è più facile l’accesso alle risorse trofiche, autodomesticarsi.
E a questo proposito bisogna sottolineare che l’areale dello Scimpanzé (nella
foresta tropicale che degrada a savana) s’estende dalla Sierra Leone fino ai
laghi Vittoria e Tanganica, là dove le risorse, in caso di scarsità e pur con
diete relativamente diverse, sono contese con il Gorilla (i primi sono
frugivori, cioè s’alimentano principalmente di frutta, i secondi sono folivori,
ossia hanno un’alimentazione a base di foglie), mentre l’areale del Bonobo, nella
foresta pluviale, di suo più ricca in tutte le stagioni di risorse alimentari, è
nella Repubblica democratica del Congo (ex Zaire), specificamente nella parte
orientale del bacino del fiume Congo (Zaire), e a Sud del fiume Congo non ci
sono Gorilla con cui competere per il cibo. L’assenza dei Gorilla in questo
areale è poi spiegata dal fatto che questo habitat
è pianeggiante, senza rilievi montuosi, giacché i rilievi montuosi sono solo
presenti a partire dalla riva destra del fiume Congo, per esempio, i Monti
Virunga, ed è questo dato che ha cambiato il destino dei Gorilla sulle due
rive; infatti, la topografia ha permesso al Gorilla della riva destra, a
partire dalla siccità impostasi con il cambiamento climatico di 3-2,5 milioni
d’anni fa, ripresentatosi ca. 1 milione d’anni fa, di potere sopravvivere
trovando in una nuova nicchia le risorse alimentari della sua dieta folivora,
ora mancanti in pianura, solo a quote più alte, sui 2 000-4 000 m; ciò che però
ha al contempo impedito ai Gorilla presenti nella riva sinistra di trovare
nuove nicchie, dunque la possibilità di potere sopravvivere; questo a
differenza degli Scimpanzé e dei Bonobo che possono sopravvivere con una dieta
frugivora nelle foreste sul piano, sulle due rive del fiume. Ora, il fatto
dell’assenza del Gorilla, vale a dire il non dover competere per l’accesso alle
risorse (e laddove un Gorilla adulto, che consuma in media più di 30 kg
quotidiani di risorse, potrebbe essere un forte competitore), sommato al fatto
che la dieta dei Bonobo è diversa da quella degli Scimpanzé, questo visto che
aggiunge, al cibo di cui entrambe le specie si cibano, alimenti ricchi di fibre
quali foglie giovani e steli d’erba (come mostra anche l’apparato masticatorio
ch’indica che sono e frugivori e folivori), dà origine a una meccanica che può modificare
i rapporti intraspecie e potrebbe disincentivare il vantaggio evolutivo dei
maschi aggressivi che lottano per le risorse. Questo facendo emergere, in un
ecosistema isolato quale è la fitta foresta tropicale, là dove non esistono
transizioni verso zone meno fitte (come nella parte sulla riva destra del
Congo), dove le risorse trofiche sono abbondanti tanto da rendere inutile la
competizione per l’accesso alle risorse, il tratto della docilità come fattore
vincente di successo riproduttivo, e solitamente le femmine dei Bonobo mostrano
una predilezione per i maschi mansueti. Come dire che in questo ecosistema
isolato l’aggressività maschile verso le femmine e gli altri maschi modifica, ma
in negativo, la capacità riproduttiva e di sopravvivenza (o fitness) tanto che i maschi meno
aggressivi, soprattutto se alleati con le madri, possono mostrare, al
contrario, un incremento della fitness.
Tutto questo fatto salvo il fatto che, s’è assai azzardato il comparare le
risorse odierne con quelle del passato (ossia affermare che i Bonobo hanno
avuto nel loro habitat, la ricca foresta
tropicale a sinistra del fiume Congo, varietà e quantitativi di frutta
superiori a quelli dell’habitat degli
Scimpanzé a destra del fiume Congo, ch’è relativamente più spoglio e più secco,
quindi meno produttivo), non lo è dire che i Bonobo non sono stati costretti come
gli Scimpanzé a contendere con altri Pongidi per le risorse (né, come gli
Scimpanzé, sono stati costretti a inventare e utilizzare strumenti per
aumentare la disponibilità trofica), il che è dire che è in ogni caso un surplus trofico ciò che farebbe la
differenza tra il manifestarsi dell’aggressività e della docilità. La figura
seguente mostra la localizzazione e l’estensione degli areali sopra citati:
Figura
n. . Fonte: Wrangham e Peterson, 1996,
p. 222.
Detto
questo, analizzando il comportamento verso il cibo di Scimpanzé e Bonobo, s’è poi
potuto anche dimostrare che, conseguentemente, il primo è competitivo e il
secondo collaborativo; infatti, in un esperimento per testare l’ipotesi della
domesticazione dei Bonobo sono stati fatti entrare a turno, in una a stanza con
del cibo in un piatto unico, prima una coppia adulta di Scimpanzé e poi una coppia
adulta di Bonobo, e gli Scimpanzé si sono mostrati competitivi poiché uno dei due
cercava d’accaparrarsi tutto mentre, al contrario, i Bonobo si sono mostrati
collaborativi in quanto condividevano sempre il cibo, per di più giocando nel
contempo tra di loro. Prelevando poi loro campioni di saliva al fine d’analizzare
la fisiologia del comportamento di queste coppie, gli Scimpanzé mostravano un
aumento di testosterone e i Bonobo un aumento di cortisolo; ora, il
testosterone è un ormone secreto dai testicoli e rappresenta, nei mammiferi, il
principale ormone sessuale maschile (è un ormone androgeno) e, tra altre
funzioni, entra anche in gioco nei comportamenti di dominanza, cioè nei ruoli competitivi
e antisociali, dove può essere correlato ad un aumento dell’aggressività, come
è stato mostrato nell’assunzione d’un ruolo chiuso al diverso da sé proprio agli
Scimpanzé nel momento della spartizione del cibo (e se, allo stato brado, il
gruppo è misto, e indipendentemente da chi ha trovato il cibo, è sempre un
maschio che se ne impossessa). Nei Bonobo, al contrario, sono invece aumentati
i livelli di cortisolo (v. supra),
ciò che indica non un ruolo competitivo e antisociale, bensì un momento
d’interazione sociale di tolleranza che produce uno stress che si cerca di controllare per il tramite d’una attività
ludica che previene la competitività e favorisce la cooperazione, cioè l’assunzione
d’un ruolo aperto alla condivisione sociale del cibo, come dire che la selezione autodomesticante del
tratto della docilità potrebbe in parte spiegare la variabilità nella capacità
di cooperazione tra le specie che si può qui analizzare data la diversa fisiologia
dei Bonobo e degli Scimpanzé. Ma non solo la fisiologia è in grado di
convalidare l’ipotesi dell’autodomesticazione giacché altre sperimentazioni
hanno mostrato che i Bonobo sono attratti dagli estranei, capaci di
flessibilità cooperativa e d’intelligenza sociale (anche con l’uomo; infatti, è
più probabile che un Bonobo, e non uno Scimpanzé, guardi nella direzione d’un uomo)
e questo significa che i Bonobo sono più sensibili all’informazione sociale e per
questo dotati di abilità impensabili per uno Scimpanzé. Ed è alla fin fine più
che probabile che queste differenze anatomiche, fisiologiche, comportamentali e
cognitive tra i Bonobo e gli Scimpanzé siano probabilmente tali a causa dei
cambiamenti evolutivi manifestatisi come un prodotto secondario dell’autodomesticazione,
alla stessa stregua di ciò che è capitato nelle Volpi domesticate e nei Cani. Ora,
assodato che l’aggressività può fortemente ostacolare il potenziale cognitivo per
potere risolvere dei problemi sociali e che la selezione sulla reattività
emozionale (cioè il passaggio alla docilità), al contrario, influenza
positivamente la capacità cognitiva di risolvere i problemi sociali, la domanda
è se la sindrome dell’autodomesticazione può spiegare anche l’evoluzione
cognitiva del genere umano (il cui fondamento si trova nel bambino che, nel
primo anno di vita, sviluppa delle competenze sociali che gli consentono di
comunicare e d’apprendere dagli adulti che lo curano e che, già a 14 mesi,
manifesta una forte motivazione a cooperare, là dove la comunicazione e la
cooperazione sono poi il cemento di qualsiasi società). E la risposta è sì se solo
si suppone che il tratto della docilità (che si traduce come tolleranza verso
il diverso da sé) abbia preceduto l’evoluzione di forme cognitive complesse che,
di fatto, sono inutili alla sopravvivenza della specie se per caso i componenti
d’una società non la supportano con la cooperazione fra di loro. Questo perché è
sempre estremamente dispendioso per il metabolismo d’un individuo mantenere un
cervello capace di complesse abilità cognitive, cervello che per altro sarebbe
già stato eliminato dalla selezione naturale se il cooperare fra gli individui
non fosse stato un tratto pervasivo e incentivante della specie. Oltre a
questo, si sa anche che la cooperazione, senza la tolleranza verso l’altro, è
di fatto un evento sociale impossibile a realizzarsi, e questo presuppone che,
per permetterla, sia avvenuta a monte l’individuazione, l’estromissione o l’eliminazione
degli elementi perturbanti, cioè intolleranti (come fanno le femmine dei Bonobo
con i maschi aggressivi). Si può poi presupporre, ancora, che dopo questa prima
ondata di selezione, ne sia avvenuta un’altra ch’è intervenuta direttamente
sulle differenze individuali a livello di cognizione sociale, ed è a partire da
questa seconda ondata che in isolamento sessuale dagli individui aggressivi
continua a riprodursi all’interno del gruppo sociale il tratto della tolleranza
e della cooperazione che permette d’accudire una prole più numerosa e
geneticamente differenziata grazie all’aumento delle capacità comunicative e
delle risorse alimentari dovute all’attività cooperativa ch’è in grado di
controllare il farsi d’una nicchia via via più estesa (e si dice questo sulla
falsariga delle tappe dell’evoluzione da Lupo a protocane, che sarebbe qui la
prima ondata, e da protocane a Cane da lavoro, identificata come seconda
ondata, là dove i Cani da lavoro collaborano in modo flessibile con l’uomo a
differenza dei protocani che sono meno evoluti cognitivamente, e sempre avendo
come riferimento l’uomo). Detto questo, quando poi sia accaduta questa
selezione evolutiva sulle dinamiche emotive, come quelle che controllano la
paura e l’aggressività e quando e come si sia manifestata l’emarginazione degli
elementi perturbanti la cooperazione sociale e la conseguente pressione
selettiva sulla docilità che ha permesso, alla fin fine, che la cooperazione si
manifestasse come una strategia consolidata nell’evoluzione della nostra
specie, tutto questo non si sa perché molto dipende dal corredo genetico
dell’ultimo antenato avuto in comune con Bonobo e Scimpanzé. In ogni caso, l’uomo
moderno, rispetto ai reperti fossili di 200 000 anni fa, mostra ossa più
sottili, denti più piccoli e più ravvicinati, un viso più corto (che spiega il
mento) e un cranio più piccolo, tutti indizi morfologici che sono compatibili
con la sindrome della domesticazione. Altri dati affermano poi che a partire da
50 000 anni fa, quando Homo sapiens
ha già iniziato il suo percorso di colonizzazione, il cervello umano s’è
ridotto del 10-30%, giusto quando Homo
sapiens è in possesso del linguaggio e produce manufatti complessi che
presuppongono una persistente cooperazione sociale. E se è vero che le
sopravvissute società di caccia e raccolta sono società che non hanno un leader o un individuo dominante decisore
per tutti e cooperano fra di loro anche per ostracizzare, ripudiare ed
eventualmente uccidere chiunque tenti d’imporsi con la forza per dominarli, allora
è più che probabile che il tratto della tolleranza ci abbia permesso
l’evoluzione cognitiva come effetto a lato dell’autodomesticazione, questo visto
che le società di caccia e raccolta hanno accompagnato quasi per intero l’evoluzione
della specie Homo sapiens, tranne che
negli ultimi 12 000 anni, quelli che partono dalla nascita dell’agricoltura e
delle società stanziali. Che poi in questi ultimi 12 000 anni, nelle società che
si fanno storiche, la cooperazione abbia permesso anche un’evoluzione cognitiva
raffinata capace di tradurre operativamente, a vantaggio dei pochi, la
cooperazione dei molti come un tratto imposto o con la coercizione o con
l’abilità manipolatoria delle emozioni intrecciate con le strutture cognitive,
questa è poi tutta un’altra storia.
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