IL PROCESSO DI OMINAZIONE (PARTE PRIMA)
Per quanto riguarda il genere Homo,
Australopitecine comprese, la prima divergenza evolutiva è dunque nel processo di
ominazione che riguarda il bipedismo; il
primo adattamento al bipedismo è la forma dell’anca, questo perché l’andatura
stabile dell’Homo sapiens (per cui
non è costretto a far oscillare il busto, se non in modo impercettibile, e può
impiegare la sua energia per andare avanti) è da attribuirsi in gran parte a
una semplice modifica del bacino (o pelvi); infatti, se s’osserva il bacino
d’uno scimpanzé mettendolo a confronto con quello di Homo sapiens, si noterà che il nostro osso iliaco (cioè la parte
più rilevata dello scheletro del bacino, derivato dall’unione di tre elementi
ossei, l’ilio, o ileo, che n’è la parte superiore, l’ischio e il pube) è corto
e rivolto all’infuori (orientato lateralmente), a differenza di quello delle
scimmie antropomorfe in cui lo stesso osso è alto e rivolto all’indietro; ed è
questo orientamento del bacino ad essere un adattamento cruciale per l’andatura
bipede perché consente ai muscoli ai lati del bacino (il piccolo gluteo) di
stabilizzare la parte superiore del corpo dal lato della gamba che tocca terra
nel mentre Homo sapiens cammina; la
figura seguente mostra come il bacino dell’uomo (a) sia più basso e largo
rispetto a quello delle scimmie antropomorfe (b, qui uno scimpanzé); in
particolare, nell’uomo, il femore è inclinato e l’ala iliaca è molto estesa per
consentire l’inserzione dei potenti muscoli glutei che devono mantenere in
equilibrio il tronco sugli arti inferiori:
Figura n. . Fonte: Biondi e Rickards, 2012, p. 14.
Per
quanto riguarda il rimodellamento del bacino, è da ricordare che, se l’apertura
pelvica è più larga nelle femmine che nei maschi, nella femmina è presente un
canale del parto che è relativamente stretto, ciò che implica un parto doloroso
assai e un notevole rischio di mortalità per la madre come per il figlio e che,
affinché la testa del neonato possa attraversare un passaggio così stretto,
occorre che le sue dimensioni, alla nascita, siano ancora piccole, il che
comporta che il neonato non sia autosufficiente e che siano necessarie lunghe
cure parentali (cui s’aggiunga il fatto che la madre richiede per il parto un
aiuto esterno, fenomeno inedito nelle specie in grado d’ingravidarsi); oltre a
quello del bacino, un altro adattamento importante è la forma della colonna
vertebrale (o rachide) che presenta due coppie di curve (a differenza della sola
curva continua che si presenta nelle scimmie antropomorfe, curva che, osservata
frontalmente, è un po’ concava, ciò che rende instabile il busto quando la
scimmia è in posizione eretta in quanto questo è proiettato in avanti rispetto
al bacino); precisamente nell’uomo si presenta una curva inferiore, detta
lombare, ch’è formata da 5 vertebre lombari (le antropomorfe, di solito, ne
hanno il 50% nel numero di 3, il 50% nel numero di 4 e una minutissima frazione
nel numero di 5), molte delle quali hanno una forma a cuneo che permette loro
d’incurvare la parte inferiore della spina dorsale verso l’interno, sopra il
bacino, ciò che abilita a posizionare stabilmente il busto al di sopra dei
fianchi (convessità detta lordosi lombare, nelle femmine più accentuata durante
la gravidanza per riportare il baricentro del corpo sopra i fianchi nonostante
il carico lombare del feto, della placenta etc.,
fino ad un aumento del carico che oggi, al termine della gravidanza, raggiunge
i 7 kg, ciò che rende instabile la postura eretta, a meno di non contrarre di
più i muscoli della schiena o di piegarsi all’indietro, nonostante che nelle
femmine il numero delle vertebre su cui inarcano la parte inferiore sia di 3, a
differenza dei maschi che ne hanno 2, ciò che permette, assieme alle
articolazioni più rinforzate, di ridurre e meglio sopportare le forze di taglio
sulla colonna vertebrale, adattamenti, questi, già presenti nelle colonne
vertebrali degli esemplari femminili dei primi ominini fino ad ora scoperti);
l’altra curva, superiore, detta lordosi cervicale, orienta le prime vertebre
del collo verso il basso anziché all’indietro rispetto al cranio; complessivamente,
in Homo sapiens, le vertebre della
colonna vertebrale sono in numero di 33-34, e partendo dall’alto si presentano
7 vertebre cervicali, 12 toraciche o dorsali (con una curvatura, detta cifosi
dorsale, a cui s’attaccano 12 paia di coste che formano la cassa toracica), 5
lombari, 5 sacrali e 4 o 5 coccigee; escluse le sacrali e le coccigee, saldate
in un corpo unico, le vertebre tra di loro sono collegate da legamenti che rendono
possibili i movimenti del rachide; la figura seguente mostra la forma a doppia
curva, o a S, della colonna vertebrale (i numeri che seguono le cinque regioni
della colonna vertebrale, ripetono le quantità di vertebre sopra indicate e
proprie a ogni regione):
Figura n. .
Fonte: Cavalli-Sforza e Cavalli-Sforza, 2010 a, p. 215.
Ancora,
il foro occipitale, che permette la comunicazione della cavità cranica con il
canale vertebrale (l’osso occipitale è quello che forma poi la parte inferiore
e posteriore del cranio e presenta, appunto, questo grosso foro, detto foramen magnum, che permette al midollo
spinale della colonna vertebrale di penetrare nella cavità cranica come midollo
allungato), può presentarsi in varie posizioni; nell’uomo, grazie all’espansione
della squama dell’occipitale, il foramen
magnum s’è spostato in avanti fino a occupare una posizione mediana sulla
base cranica, ciò che consente di mantenere in perfetto equilibrio la testa
sulla colonna vertebrale, come dire che il foro occipitale s’è venuto a trovare
in linea con la colonna vertebrale e ha reso verticale il tronco permettendo il
bilanciamento della testa sul busto e la posizione ortograda, mentre nelle
scimmie antropomorfe il foro occipitale si presenta arretrato nel cranio (ciò
che richiede lo sviluppo dei muscoli nucali al fine di potere mantenere la
testa in equilibrio su un tronco inclinato, quale quello della postura
clinograda, v. infra); per esempio,
il cranio di Sahelanthropus tchadensis
(v. infra), uno dei primi ominini,
mostra un foro occipitale che s’è anteriorizzato e non è arretrato come quello
delle scimmie antropomorfe, ma in posizione mediana, tanto che quando Sahelanthropus tchadensis era in
posizione eretta o camminava, la parte superiore del collo era quasi verticale,
configurazione ch’è possibile soltanto se la colonna vertebrale s’incurva
all’indietro (lordosi) nella parte inferiore o nel collo, o in entrambi i punti;
la figura che segue mostra il foro occipitale nell’uomo (b) e nelle scimmie
antropomorfe (a, qui uno scimpanzé):
Figura n. . Fonte: Biondi e Rickards, 2012, p. 58.
Ancora, rispetto
allo scimpanzé, negli ominini il femore (l’osso della coscia che, nella parte
superiore, s’articola
con l’osso iliaco formando l’articolazione dell’anca e, nella parte inferiore
s’articola con la tibia, con la quale forma l’articolazione del ginocchio) s’è
allungato in misura superiore rispetto all’òmero (cioè all’osso che costituisce
il braccio, ossia al segmento dell’arto superiore che va dalla spalla al gomito
e che s’articola con il tronco a livello del cinto scapolare); ancora, altro
adattamento importante è quello del piede (che s’è specializzato, oltre che in
funzione del bipedismo, anche per la necessità di sostenere il corpo nella
stazione eretta); mentre nelle scimmie antropomorfe manca l’arco plantare, ciò che fa sì che quando camminano
s’appoggino sul lato esterno del lungo piede, in Homo sapiens l’arco plantare (vale a dire la struttura a volta
della pianta del piede dovuta alla particolare conformazione dell’impalcatura
scheletrica, e che presenta un arco longitudinale e uno trasversale, o
metatarsale) è quello che permette d’appoggiare prima il tallone e poi, mentre
il resto del piede entra il contatto con il suolo, d’irrigidirlo, cosa che,
alla fine dell’appoggio, rende possibile spingere il corpo in alto e in avanti,
principalmente con l’alluce; cui s’aggiunga che le superfici delle
articolazioni tra le dita e il resto del piede sono arrotondate e puntano verso
l’alto, ciò che permette ai piedi e di piegarsi a un angolo estremo quando Homo sapiens lo stacca da terra (o
iperestensione) e di
scaricare le sollecitazioni trasmesse dalla tibia ad ogni passo (infatti,
l’assenza d’arco plantare nelle antropomorfe impedisce loro di premere con il
proprio corpo su un piede in tensione e, allo stesso tempo, le punta delle dita
non sono in grado d’estendersi come quelle degli uomini; per esempio, uno dei
primi ominini, Ardipithecus
ramidus
(v. infra), a differenza degli
scimpanzé aveva piedi in grado di produrre una spinta efficace durante la
deambulazione eretta grazie alla parte centrale, in parte irrigidita, è
un’articolazione delle dita in grado di piegarsi in avanti al termine del
movimento, anche se non capace di torsione come un piede umano); la figura seguente mostra come le
aree di carico sul piede si spostano sull’arco plantare, cioè come il peso del
corpo si trasferisca dal calcagno (è l’osso del tallone) all’avampiede e poi
all’alluce (i tre punti su cui poggia il piede sono poi detti tripode plantare):
Figura
n. . Fonte: Parker, 2008, p. 45.
Gli adattamenti imposti dal bipedismo implicano
dunque le modificazioni della
parte inferiore della colonna vertebrale, del bacino e degli arti inferiori,
modificazioni che permettono l’abbandono della postura clinograda, in cui
l’asse principale del corpo in movimento è inclinato rispetto al terreno che lo
sostiene (come è nelle scimmie antropomorfe), e il progressivo sviluppo della
postura eretta (cioè la postura ortograda in cui il citato asse è
perpendicolare al terreno e cranio, bacino e piedi sono allineati col
baricentro sulla verticale); mentre nelle scimmie antropomorfe l’andatura al
suolo è poi basata sull’appoggio a terra del dorso della mano ripiegata sulle
seconde falangi della mano (knuckle-walking, o andatura clinograda), la locomozione, o deambulazione, bipede dell’uomo è data dalla
differenziazione funzionale degli arti in cui quelli posteriori (plantigradi)
consentono, assieme al movimento degli arti pelvici, la spinta propulsiva in
avanti e quelli anteriori, liberati dalla knuckle-walking, presentano
mani capaci di prensione e manipolazione, cui seguono una maggiore statura e
massa corporea; valga, a illustrazione di quanto affermato, la figura seguente:
Figura n. . Fonte: Biondi e Rickards, 2012, p. 58.
La
figura seguente illustra, mettendo a paragone un uomo e uno scimpanzé (in
posizione ortograda), alcuni adattamenti alla posizione eretta e al bipedismo
presenti nell’uomo di cui s’è parlato in parte sopra:
Figura
n. .
Fonte: Lieberman, 2014, p. 15.
Ora,
se ci si domanda qual è il motivo per cui il bipedismo come variazione
adattativa ha iniziato a manifestarsi, occorre ritornare alle variazioni
ambientali che si sono presentate nella Great
Rift Valley nel passaggio dall’ultimo antenato comune (o LCA, last common ancestor) a uomini e
scimpanzé (volendo chimpanzee/human last
common ancestor, o CHLCA), cioè quando la pressione selettiva durante il
processo di ominazione ha incominciato a favorire chi era più abile a reperire le
risorse trofiche, specificamente la frutta degli alberi legata alle difficoltà
di reperimento e il ricorso obbligato a cibi di ripiego, di bassa qualità
(questa è perlomeno l’ipotesi qui riportata, scelta fra una dozzina di quelle
in circolazione, alcune delle quali non sono più accettate, mentre altre sono
in competizione fra loro); gli scimpanzé prediligono, nell’alimentazione, la
frutta matura (sono frugivori) e può capitare che la frutta, in periodo di
scarsità, possa essere più difficile da cogliere, ma se (come è il caso nel
mutamento d’un ecosistema) s’appetisce la frutta matura e la competizione è
forte, la stazione eretta come adattamento posturale a una locomozione sui rami
flessibili, cioè al di sotto dei 4 cm di diametro, può forse permettere di
coglierne di più, come fanno oggi, per esempio, gli oranghi (per esempio, l’orangutan di Sumatra, Pongo abelii) che spesso, sugli alberi,
stanno in posizione quasi ortograda, tenendo le ginocchia dritte e
appoggiandosi a un altro ramo per massimizzare la stabilità (detto bipedismo
assistito), e raggiungono con il braccio senza appoggi, cioè pènsile, cibi che
penzolano poco lontano, tanto che quelli che saranno i primi ominini, quelli con
un bacino in posizione più laterale (e con altre caratteristiche che li aiuteranno
a essere bipedi, v. supra), avrebbero
avuto un vantaggio sugli altri competitori che non presentano un bacino
siffatto perché avrebbero consumato meno energie, questo in quanto più abili
grazie a questa specializzazione posturale che avrebbe permesso posizioni di
raccolta più stabili e più vantaggiose dal punto di vista trofico; ominini che,
sempre con il ricorso a questa stazione eretta loro facilitata, avrebbero anche
potuto trasportare più frutta, come fanno oggi gli scimpanzé quando praticano
una deambulazione bipede occasionale, cioè quando usano gli arti superiori per
il trasporto delle risorse nei casi in cui la competizione si presenta
particolarmente intensa); inoltre, il potere essere bipedi, oltre che
all’adattamento arboreo, potrebbe avere aiutato i primi ominini a conservare
energia durante gli spostamenti rispetto ai loro competitori (infatti, lo knuckle-walking degli scimpanzé, per
esempio, è estremamente dispendioso in termini energetici, ancora di più se non
ci si può a volte spostare altrimenti che a terra a causa della riduzione e
frammentazione della foresta che si riempie di radure, dispendio nella
deambulazione bipede dovuto all’uso della forza muscolare, cioè alla
contrazione dei muscoli della schiena, del bacino e delle cosce al fine d’evitare
di cadere per terra, come mostrano gli scimpanzé con le loro zampe più corte,
le oscillazioni da un lato all’altro del busto e il camminare tenendo sempre le
ginocchia e le anche piegate, v. infra)
e, visto che oggi il dispendio d’uno scimpanzé che percorre 2-3 km al giorno è
pari allo stesso consumo energetico d’un uomo che percorre 8-12 km, si può anche
supporre che, se i primi ominini fossero stati soltanto anche di poco in
vantaggio rispetto ai competitori nel risparmiare energia in questo modo, non
sarebbe stata questione effimera; infatti, è stato calcolato che il dispendio
d’energia tra la deambulazione bipede e quella knuckle-walking (o bipede occasionale) nel percorrere una stessa
distanza su un terreno piano è grossomodo pari a un rapporto di 1 a 4 (il
percorso, per l’uomo, è meno costoso all’incirca del 75%, cui s’aggiunga il fatto
che, in linea di massima, è anche più dispendioso, dal punto di vista
energetico, spostarsi sugli alberi che non camminare), tanto che questo risparmio
energetico nell’apparato locomotore dovuto all’efficienza posturale sarebbe
stato un adattamento estremamente vantaggioso nel contesto d’un mutamento
dell’ecosistema, quello avvenuto nel tardo Miocene che, supponendo una
topografia come quella attuale, modifica sia la disponibilità che la localizzazione
delle risorse trofiche (e questo già a partire da Sahelanthropus tchadensis, v. infra,
in cui l’angolo del foro occipitale, come detto, indica che le prime vertebre
del collo erano verticali, ciò ch’è un chiaro indizio di locomozione bipede, per
arrivare a Ardipithecus ramidus, v. infra, un esempio certo di bipedismo, se
pure imperfetto in quanto aveva anche adattamenti per potersi arrampicare
verticalmente sugli alberi, o tree-climbing,
come una caviglia leggermente piegata verso l’interno, dita dei piedi lunghe e
curve, un alluce muscoloso e divergente in grado d’avvolgersi ai rami, braccia
lunghe e molto muscolose e da dita delle mani lunghe e ricurve); ora, gli
scimpanzé d’oggi, che prediligono nell’alimentazione, come detto, la frutta
matura, possiedono per questo un muso pronunciato e grossi incisivi a forma di
spatola, molto adatti per mordere la frutta, e molari con piccole cuspidi,
perfetti per sminuzzare la polpa di frutti fibrosi, nel mentre nei primi
ominini, per esempio, i citati Sahelanthropus
tchadensis e Ardipithecus ramidus
(v. infra), si presentano invece
molari leggermente più grandi e più spessi che permettono di masticare meglio
cibi più duri come gli steli fibrosi e le foglie delle piante, canini più
piccoli e corti utili per masticare cibi più duri e fibrosi e un muso meno
pronunciato grazie alla posizione più avanzata degli zigomi e a un volto più
verticale, configurazione che fa sì che i muscoli deputati alla masticazione
possano esercitare una forza maggiore, efficace per demolire cibi più coriacei
della frutta; e s’è vero, come sopra detto, che le variazioni tettoniche e climatiche
hanno ridotto e frammentato all’altezza di 7 milioni d’anni fa le foreste
pluviali e espanso gli ambienti aperti della savana, è anche vero che la
disponibilità di frutta diminuisce, specie ai margini dei residui d’una foresta
pluviale già rada, per cui occorre che in un mutato ecosistema forestale, con
differenti risorse trofiche, ci si debba spostare per cercare la localizzazione
della frutta e, anche, che ci s’adatti come ripiego ai cibi più abbondanti, ma
d’inferiore qualità nutritiva rispetto alla frutta (o fallback foods, FBF), come gli steli fibrosi e le foglie (come
fanno, oggi, gli scimpanzé cui capita d’essere costretti a vivere ai margini
della foresta pluviale, o gli oranghi, frugivori che s’adattano a mangiare
steli legnosi e, s’è il caso, pezzi di corteccia); e s’è vero tutto questo,
allora è anche vero che una differenza nella deambulazione (anche se non ancora
obbligata come locomozione bipede, vista la convivenza nel repertorio posturale
con la locomozione arboricola) e nell’assetto dentario possa fare una
differenza nella sopravvivenza e nella riproduzione, giusto quello che potrebbe
essere capitato con i primi ominini che, in un periodo di grandi cambiamenti
climatici su scala globale (v. supra),
sono sottoposti al regime imposto dai rilievi dell’Africa orientale (altipiani
e catene montuose, quali quelle del Virunga e del Ruwenzori), rilievi i cui
sollevamenti sono dovuti ai movimenti tettonici nella Great Rift Valley, che funzionano da barriera all’avanzata del
regime atlantico, cioè alle piogge, ciò che crea ambienti subaridi e aperti nella
parte orientale della fascia equatoriale (è, questo, il fenomeno dovuto alla
conformazione orografica che dà origine a una regione detta in ombra
pluviometrica, fenomeno che si spiega con il fatto che le masse d’aria portate
dal regime atlantico, nel risalire il versante, si raffreddano e perdono l’umidità
sotto forma di precipitazioni prima di superare il versante, tanto che
nell’area a valle che lo segue la massa d’aria, prima calda e umida, dopo aver
superato il versante è asciutta e assorbe l’umidità disponibile rendendo
pertanto la regione arida e causando, come detto, la diffusione della savana a mosaico,
caratterizzata da precipitazioni fortemente stagionali, distribuzione
discontinua di alberi e una vegetazione C4, v. infra, adattata al clima, coriacea e resistente alla siccità);
questi ominini, infatti, iniziano a divergere dalla linea evolutiva di quelli
che diventeranno gli scimpanzé, evoluti solo nei bassopiani forestali
sottoposti al regime atlantico, cioè umidi, dell’Africa occidentale (sempre
nella fascia equatoriale; Pan troglodytes
negli areali che s’estendono dalla Sierra Leone e dalla Guinea fino ai laghi
Tanganica e Vittoria; Pan paniscus
esclusivamente nella parte orientale del bacino del fiume Congo, v. infra); il che è ipotizzare che la
selezione naturale sia stata spinta dai fattori tettonici e climatici (l’emergere
di barriere che creano la polarità umido vs
arido e che favoriscono, in queste aree separate da barriere che ostacolano il
flusso genico fra popolazioni derivate da un antenato comune e ora isolate, una
speciazione allopatrica, v. supra,
ciò che comporta l’accumulazione di caratteri genetici che differenziano sempre
più queste due popolazioni conspecifiche) a favorire in modo tendenziale anche il
bipedismo dal punto di vista anatomico e comportamentale al fine di migliorare
la fitness di determinati organismi (lo
stile di vita di questi primi ominini è perdurato per almeno 2 milioni d’anni e
il bipedismo è poi diventato obbligato con Homo
ergaster, v. infra, a partire da
poco meno di 2 milioni d’anni fa; è da sottolineare, inoltre, che tra i taxa dei mammiferi che si sono adattati
al clima arido sono coinvolti in modo sincrono, oltre agli ominini, anche i
bovidi); la figura seguente mostra l’albero evolutivo di uomini, scimpanzé e
gorilla, cioè la sottofamiglia Homininae
nelle sue due tribù, Hominini (uomo e
scimpanzé) e Gorillini (gorilla); si
ricorda, e sia detto per inciso, che il tratto del bipedismo, presente
nell’antenato ancestrale a uomini e scimpanzé, nel contesto forestale degli
scimpanzé ha una funzione opportunistica, ma che quando lo stesso tratto insorge
poi in un mutato contesto dov’è diversamente articolato da un’altra specie, cioè
negli ominini, acquisisce un’importante funzione nel determinare il destino
della specie stessa, meccanismo detto d’esaptazione; ancora, che i meccanismi
del bipedismo dell’orango sono in ogni caso più simili a quelli degli esseri
umani moderni che non quelli dello scimpanzé o del gorilla):
Figura
n. .
Fonte: Lieberman, 2014, p. 8.
Gli
adattamenti a mangiare risorse trofiche che esulano dalla frugivoria (che, di
per sé, e al fine di raggiungere il fabbisogno di calorie richieste da questo
regime alimentare, implica che molta parte della giornata sia dedicata alla
ricerca di frutta selvatica, ricca di fibre e di semi, e che il processo di
masticazione sia prolungato nel tempo come avviene, per esempio, nello
scimpanzé che passa all’incirca meta del suo tempo quotidiano a masticare
quantità enormi di frutta, o germogli, o foglie, all’incirca 1 kg all’ora,
seguito da una pausa di 2 ore per svuotarsi, a seguito della quale pausa
riprende la masticazione), cioè un cambiamento nella dieta, sono avvenuti, come
visto, nei primi ominini che hanno fatto ricorso anche a cibi di bassa qualità;
ora, ca. 4 milioni d’anni fa, nella fase finale del Pliocene, s’è presentata
un’accelerazione a favore d’una dieta ancora più variata, ciò che ha messo in
moto la seconda trasformazione fondamentale nell’evoluzione del corpo umano
ch’è durata all’incirca fino a 1,3 milioni d’anni fa, agli inizi del
Pleistocene, e che ha investito le specie che vanno sotto il nome di
Australopitecine (i cui reperti sono stati localizzati a Est e a Sud dei
movimenti tettonici propri alla Great
Rift Valley e che si suddividono, per comodità esplicativa, in gracili e
robuste; per i dettagli, v. infra);
questi ominini pliopleistocenici presentano in media un’altezza che, per i
maschi, è di 1,4 m, con un peso che varia tra i 40-50 kg e che, per le femmine,
è di 1,1 m, con un peso che varia da 28 a 26 kg , dimorfismo sessuale elevato in
cui i maschi sono all’incirca il 50% più grossi delle femmine, una differenza
di taglia che si ritrova in specie come i gorilla o i babbuini in cui i maschi
sono in forte competizione tra loro per accedere sessualmente alle femmine (il
dimorfismo sessuale è poi generalmente indice d’una organizzazione sociale in
cui i maschi sono poligami; si presume che la durata della gravidanza sia a
cavallo tra quella degli scimpanzé e quella dell’uomo e che il tasso di
riproduzione sia analogo a quello degli scimpanzé, in cui le femmine, dato che
i nati impiegano ca. 12 anni a divenire adulti, partoriscono ca. ogni 5 o 6
anni, ciò che richiede in ogni caso lunghe cure parentali); i crani, che
presentano pareti relativamente sottili (ma con spigoli forti sopra le orbite,
nella parte posteriore e lungo i margini delle zone che richiedono degli
inserimenti muscolari), mostrano cervelli piccoli, con valori medi tra 400 e
500 cm3, poco più grandi di quelli degli scimpanzé se non si
considera il volume cerebrale relativo, nel quale il rapporto massa del cervello/corpo
mostra che le Australopitecine hanno un cervello del 25% ca. più grande dello scimpanzé
(indizio d’un probabile processo d’encefalizzazione, come mostra l’architettura
del cervello che presenta circonvoluzioni più complesse), inoltre le facce sono
più ampie e più allungate con zigomi che si protendono in avanti; l’apparato
masticatorio è molto sviluppato e presenta mandibole massicce generalmente
senza mento osseo e l’apparato dentario mostra denti appiattiti e molari e
premolari molto grandi (gli incisivi sono piccoli e taglienti e i canini sono ridotti,
ciò che permette lo spostamento laterale della mandibola; i canini presentano poi
poco dimorfismo sessuale rispetto, per esempio, allo scimpanzé); le gambe sono
relativamente corte e le braccia relativamente lunghe (presentano un alto indice
brachiale, dato dal rapporto fra la lunghezza dell’avambraccio e del braccio;
infatti, braccia e spalle presentano muscoli che indicano che le
Australopitecine mostrano capacità d’adattamento arboricolo, per esempio, per
eludere i predatori, questo nonostante il loro bipedismo molto, ma molto più
efficace rispetto ai primi ominini); il bacino è basso e largo con un’ampia
superficie per attaccare muscoli i delle natiche (glutei), dunque adatto
all’andatura bipede; le dita delle mani, infine, sono relativamente lunghe e curve;
ma, se le falangi sono curve, il piede, per esempio quello di Australopithecus afarensis, v. infra, è rigido e particolarmente
arcuato, con un alluce corto e allineato alle altre dita (ciò che gli permette
un’andatura più simile a quella di Homo
sapiens); per cui si può riassumere il tutto dicendo che le
Australopitecine presentano le basi morfologiche (foro occipitale, colonna
vertebrale, bacino, femore e piede) necessarie per la postura eretta e per la
locomozione bipede, questo in vista di una più ampia dispersione delle risorse
trofiche da ricercare deambulando nel loro areale (e questo laddove i
cambiamenti climatici hanno determinato uno spostamento della disponibilità delle
risorse, cioè un mutamento dell’habitat)
e un rimodellamento
del cranio, pari ai cambiamenti dell’apparato masticatorio e dell’articolazione
cranio-vertebrale, in vista d’una diversa composizione e articolazione della
dieta; la quale variazione della dieta rispetto ai primi ominini è poi nel
fatto che le Australopitecine mangiano molta meno frutta e s’alimentano in
maggior misura di cibi di ripiego edibili quali bulbi, tuberi, radici e rizomi,
semi e noci con guscio spesso, foglie, steli delle piante, erbe e altri cibi duri
e coriacei e insetti come termiti e larve e piccoli invertebrati, infine, ma la
questione è assai controversa, con il ricorso a una carnivoria occasionale,
ossia a carne di selvaggina abbattuta (piccoli mammiferi, rettili e uccelli) o
a carne di carcasse d’animali altrimenti uccisi e senza competere con i
predatori (con un comportamento da scavenging,
cioè d’utilizzazione a scopo alimentare di animali post-mortem; da scavenger,
che vuol dire animale necrofago, spazzino), ciò che li porta ad essere in
grado, per esempio, di rompere gusci, insetti o altri piccoli invertebrati
protetti da esoscheletri duri (e forse le ossa, per il midollo, cioè alimenti
meccanicamente resistenti) con i premolari e abili masticatori, cioè ad avere
denti più grandi (per esempio, rispetto a quelli citati di Sahelanthropus e Ardipithecus ramidus), con lo smalto dentario
ispessito che aiuta a proteggere i denti dalle fratture, dalla rottura e
dall’abrasione quando si ricorre a cibi duri (lo smalto sottile, infatti, e
come si vedrà a seguire, è tipico delle antropomorfe frugivore; in ogni caso lo
smalto più spesso è poi maggiormente presente nelle Australopitecine robuste
rispetto a quelle fragili, probabilmente perché queste consumano, come mostra
la dentatura, materiali vegetali più fibrosi e abrasivi), mandibole più
pronunciate e, come già detto, una morfologia facciale ch’è tale in funzione di
muscoli masticatori più pronunciati e sviluppati (specialmente tra le
Australopitecine robuste, tra cui il più specializzato, con la sua dieta di
bacche, noci,
tuberi, radici etc., è Australopithecus
boisei, v. infra), come dire che, in relazione ai cambiamenti della dieta, s’è
manifestata nelle Australopitecine un progressivo ampiamento del massiccio
facciale (cioè del sostegno scheletrico al tratto anteriore del tubo digerente,
o splancnocranio); per quanto riguarda l’ambiente in cui sono vissute le
Australopitecine, questo è diverso da quello forestale dei primi ominini (non
ci sono, infatti, evidenze di grandi foreste pluviali negli ecosistemi
frequentati dalle Australopitecine), e l’ambiente frequentato è poi probabilmente
quello che esula dalle foreste e si ritrova nell’habitat delle aree boschive aperte e della savana con le sue praterie
d’erbe alte che vanno verso la desertificazione, con la differenziazione
progressiva del clima, e quindi della vegetazione (per lo più lungo le sponde
dei fiumi e le rive dei laghi profondi, formati questi dagli sconvolgimenti e
assestamenti tettonici della Great Rift
Valley); tanto che, mentre nelle foreste si ha la predominanza delle piante
C3 (così dette perché tramite il metabolismo fotosintetico nella conversione
della CO2, la prima molecola stabile che si forma è un composto a
tre atomi di carbonio), cioè dei prodotti vegetali teneri, negli ambienti di
savana si presenta, come accennato, la predominanza di piante C4 (così dette
perché il primo prodotto stabile è un acido organico a quattro atomi di
carbonio ch’è poi il risultato d’un adattamento alle condizioni proprie ad ambienti
caldi e tendenzialmente aridi, dove queste piante limitano la perdita d’acqua e
aumentano la loro efficienza fotosintetica), vale a dire la presenza di
prodotti vegetali coriacei, ossia un ambiente che provoca così un’ampia
diminuzione, ma non la sparizione, della disponibilità di frutta (ciò che impone
una forte pressione selettiva fra le Australopitecine che devono diventare
abili a cercarsi altre risorse di ripiego, quelle che segnano il discrimine tra
sopravvivere e morire), ma in pari tempo permette una diversità di risorse trofiche
distribuite in una pluralità di nicchie che s’adatta bene all’elenco dietetico misto
dei cibi di ripiego sopra presentato (e agli adattamenti richiesti per
cibarsene), cioè all’utilizzo d’una vasta gamma di risorse vegetali e, forse,
animali; infatti, sul finire del Pliocene e durante il Pleistocene, un periodo
di particolare importanza per l’evoluzione delle Australopitecine, si
presentano crisi climatiche ed ecologiche; le crisi climatiche cambiano il
clima, che da caldo e umido si fa più freddo e asciutto e con un ventaglio di
variabilità stagionali (tra cui la stagione secca), e questa tendenza, iniziata
tra 3,5 e
3,2 milioni d’anni fa, diventa più evidente 2,6 milioni d’anni fa e raggiunge
un picco massimo d’aridità attorno a 1,8 milioni d’anni fa e questa tendenza è
stata una delle cause ecologiche (quanto meno, la principale a livello della
presenza di determinate risorse trofiche) che ha portato al differenziarsi adattativo
delle Australopitecine nell’Africa orientale e meridionale (o australe) e al
manifestarsi del genere Homo;
infatti, è da sottolineare, riguardo ai sopracitati cibi di ripiego, quali semi,
foglie, steli delle piante, erbe, che questi sono molto ricchi di fibre, ma
poveri di amidi, e sono quindi poco calorici, a differenza di bulbi, tuberi,
radici e rizomi (detti, collettivamente organi di riserva sotterranei o USO, underground storage organs) che sono
cibi ad alto
valore nutritivo; ora, è vero che gli USO sono difficili da trovare e
richiedono, per l’estrazione, un certo sforzo e una certa abilità (v. infra), ma resta che sono disponibili
tutto l’anno, anche nella stagione secca (il che è dire che, stagionalmente,
possono arrivare a costituire fino al 100% della dieta; di qui la loro
importanza in epoche di mutamenti climatici e ambientali), e possono arrivare a
costituire una percentuale sostanziale dell’apporto calorico e così diventare
più importanti della frutta, questo perché bulbi, tuberi, radici e rizomi presentano
un contenuto inferiore di fibre, sono più ricchi di sostanze glucidiche di
riserva per la crescita della pianta, quali gli amidi (tra i carboidrati, o
glucidi, l’amido presenta una delle strutture più complesse, è un
polisaccaride, e costituisce il carboidrato più importante nell’alimentazione; v.
infra), e rappresentano per questo una
valida fonte energetica, cioè un contenuto calorico ch’è maggiore di quello di
molti frutti selvatici, cui s’aggiunga che sono anche un’ottima risorsa d’acqua
(e si ritiene che le Australopitecine si siano servite, scavando, anche di
strutture ipogee, cioè sotterranee, per potere avere sempre a disposizione uno
stoccaggio di riserva di questi cibi ad alto valore nutritivo; e s’è poi vero
che gli amidi possono rappresentare un surplus
decisivo nella dieta delle Australopitecine, e se la digestione degli amidi,
cioè la trasformazione dei polisaccaridi in monosaccaridi, o zuccheri, gli
unici ad essere assorbiti e a entrare nel sangue, è dovuta all’amilasi, vale a
dire agli enzimi prodotti dalla saliva e dal pancreas, allora è anche necessario che la pressione selettiva si
sia indirizzata anche a chi è in grado di produrre una maggiore quantità degli
enzimi necessari per digerirlo e ridurlo in zuccheri a partire dalla
masticazione, v. infra); e la
gestione degli USO, ancora, può in parte spiegare la localizzazione dei
frugivori, gli scimpanzé, nelle foreste pluviali che sono dislocate nella parte
centro-occidentale dell’Africa, là dove s’evolvono in modo divergente
dall’antenato comune rispetto a come s’evolverà Homo che trova, nella permanenza e nella diffusione delle
Australopitecine negli areali colonizzati in Africa orientale e in Sudafrica,
la sua genesi prima, e questo nonostante l’avanzare del clima arido e la
rarefazione progressiva delle risorse più appetibili, il che è dire che si
propone che un cambiamento importante per l’evoluzione degli ominini a partire
dall’ultimo antenato comune condiviso con gli scimpanzé possa essere dovuta anche
alla sostituzione del cibo di riserva, da quello ipocalorico consumato dagli
scimpanzé in caso di carestia frugivora a quello con gli organi di riserva
sotterranei ricchi d’amido consumati dalle Australopitecine in caso di clima
arido, cioè in una mutazione adattativa all’ecosistema grazie all’uso di nuovi alimenti
di ripiego, il tutto dovuto dunque a diversi fattori critici limitanti presenti
in habitat diversificati che mettono
in moto una divergenza evolutiva che determina l’anatomia degli apparati
dentari e la fitness degli organismi;
la tabella seguente indica, con beneficio d’inventario, quando e dove si sono
presentate le varie specie delle Australopitecine (per molte delle quali, v.
anche infra):
SPECIE
|
DATA
(IN MILIONI D’ANNI)
|
LUOGHI
DI RITROVAMENTO
|
|
FRAGILI
[1]
|
AUSTRALOPITHECUS ANAMENSIS
|
4,3
- 3,9
|
KENYA,
ETIOPIA [4]
|
AUSTRALOPITHECUS AFARENSIS
|
3,9
- 3
|
TANZANIA,
KENYA, ETIOPIA [4]
|
|
AUSTRALOPITHECUS AFRICANUS
|
3 -
2
|
GAUTENG
[5]
|
|
AUSTRALOPITHECUS SEDIBA
|
2 -
1,8
|
GAUTENG
[5]
|
|
AUSTRALOPITHECUS GARHI
|
2,5
|
ETIOPIA
[4]
|
|
AUSTRALOPITHECUS PLATYOPS
|
3,5
- 3,2
|
KENYA
[4]
|
|
ROBUSTE
[1], [2]
|
AUSTRALOPITHECUS AETHIOPICUS
|
2,7
- 2,3
|
KENYA,
ETIOPIA [4]
|
AUSTRALOPITHECUS BOISEI
|
2,3
- 1,3 [3]
|
TANZANIA,
KENYA, ETIOPIA [4]
|
|
AUSTRALOPITHECUS ROBUSTUS
|
2 -
1,5
|
GAUTENG
[5]
|
[1] Le differenze
riguardano l’altezza, la struttura scheletrica e la massa muscolare
richiesta
(maggiore se la struttura scheletrica è più forte).
[2] Rientrano nel
genere dei Parantropi (Paranthropus).
[3]
La
scomparsa definitiva delle Australopitecine è probabilmente da legarsi alla
loro
estrema
specializzazione, dunque all’incapacità d’adattarsi alle nuove e ripetute
trasformazioni
ambientali cui riesce a far fronte soprattutto il coevo Homo erectus
(cui
s’aggiunga anche il loro isolamento geografico).
[4] In Africa
orientale.
[5] In Sudafrica
(Africa meridionale).
Figura
n. . Fonte (adattata): Lieberman, 2014,
p. 34.
Detto
questo, è però necessario andare oltre ai cenni sopra offerti e meglio spiegare
come la difficoltà a reperire le risorse trofiche abbia, da un lato, accelerato
la variabilità della dieta, e dall’altro influito sull’evoluzione del corpo
degli ominini, al fine di potersi procurare questi cibi e, soprattutto,
d’essere in grado di mangiarli, quella che sopra s’è indicata come la seconda
trasformazione fondamentale nell’evoluzione del corpo umano, là dove gli adattamenti
anatomici più strettamente legati all’alimentazione sono la morfologia dei
denti, l’anatomia dell’intestino e le strutture coinvolte nella locomozione; partiamo
dunque dai denti, con la constatazione che questi subiscono, da parte della
selezione naturale, un’azione adattativa considerevole poiché la forma e la
struttura di ogni dente determina, in gran parte, la capacità d’un organismo di
potere prendere e ridurre meccanicamente il cibo, cioè masticare e frazionare
il cibo in parti più piccole che offrano una maggior superficie agli enzimi
digestivi, cioè per potere poi essere meglio processate nell’intestino (v. infra) al fine d’estrarne le componenti
nutritive e assimilarne l’energia, e più i frammenti sono piccoli, più è
l’energia che si riesce a produrre, tanto che la capacità di masticare e
frammentare incide in modo determinante sulla fitness dell’organismo; ora, i denti sono formati da uno strato di
dentina (o avorio), costituita da tessuto connettivo calcificato, e presentano
una porzione esterna (o corona) che emerge dalla parte ricoperta dalla gengiva
(o colletto) e una parte impiantata in un alveolo del tessuto osseo spugnoso
della mascella e della mandibola (o radice, mantenuta in sede da una membrana
periodontale formata da fibre elastiche e possono essere presenti da una a tre
radici; la dentina della corona racchiude poi una cavità che contiene la polpa
che penetra nella radice formando il canale radicale, riempiti l’una e l’altro
da un tessuto connettivo attraversato da nervi, vasi sanguigni e linfatici,
cioè innervato e vascolarizzato); mentre la dentina della radice e del colletto
è rivestita dal cemento, un tessuto simile al tessuto osseo, quella della
corona è poi rivestita dallo smalto, uno strato fortemente mineralizzato (i sali
minerali, costituiti da fosfato e carbonato di calcio, superano il 90%) che
presenta il tessuto più duro di tutto l’organismo e che ha lo scopo resistere
alle pressioni (un rinforzo strutturale per prevenire le tensioni di trazione
che portano a fratture nei denti) e agli sfregamenti durante la masticazione e
di proteggere la dentina da sostanze acide che potrebbero che potrebbero
danneggiarla; la tipologia della corona caratterizza poi incisivi, premolari e
molari che si presentano in ognuna delle 4 emiarcate (i denti, infatti, sono
ugualmente distribuiti nelle due arcate, superiore e inferiore, e disposti
simmetricamente in ogni metà dell’arcata, o emiarcata), e in ogni emiarcata si
trovano 2 incisivi, 1 canino, 2 premolari, 3 molari (per un totale di 32 denti
permanenti che erompono fra i 6 anni e l’età adulta, cioè 8 incisivi, 4 canini,
8 premolari e 12 molari, e poiché la dentatura è costituita da denti con
struttura e funzione diversificate, si parla di eterodonzia); gli incisivi si
trovano in posizione anteriore, uno centrale (o mediale) e uno laterale, e
hanno una forma a scalpello, ossia con un margine occlusale diritto e tagliente
per facilitare il morso e il taglio del cibo; per lacerarlo e ridurlo in pezzi
si trovano, dietro gli incisivi, tre denti a cuspide (ossia con un rilievo a
punta), specificamente il canino, posto dietro all’incisivo laterale, che ha una
forma ellittica (o lanceolata) e una sola cuspide appuntita, mentre gli altri
due, i premolari, hanno una forma cuboidale e una superfice (o faccia) occlusale
con 4 angoli smussati ciascuno con 2 cuspidi separate da un solco; dietro ai
premolari si trovano tre molari (compreso il dente del giudizio, che può non fare
eruzione per cui i molari possono ridursi a due) che presentano anch’essi una corona
a forma cuboidale, con faccia occlusale ampia e relativamente piatta (fornita
di 4 o 5 cuspidi nei molari inferiori, 4 nei superiori, sempre divise da solchi)
adatta a frantumare e a macinare il cibo in modo da renderlo digeribile (il
fatto d’avere superfici occlusali con cuspidi è poi in vista del fatto che la
forza esercitata durante la masticazione è così, su aree più vaste, meglio
distribuita ed esercitata, pressione che corrisponde poi
a 70
kg per cm2); da ricordare, infine, il piano occlusale che, mettendo
a contatto le parti occlusali inferiore e superiore della dentatura, ci offre
la superfice masticatoria utilizzata; la figura seguente mostra la struttura d’un
dente umano (si noti, sulla superficie occlusale, la presenza delle cuspidi e
del solco):
Figura n. .
Fonte: Cavalli-Sforza e Cavalli-Sforza, 2010 a, p. 173.
Quella
che segue mostra le arcate dentarie superiore e inferiore dove, per ogni
emiarcata, a, b, c, d rappresentano, nell’ordine, i denti incisivi, i canini, i
premolari, i molari (f indica la porzione ossea della mascella inferiore, o
mandibola):
Figura n. . Fonte (modificata): Biondi e Rickards,
2012, p. 17.
Volendo,
si può scrivere la formula dentaria, che rappresenta la forma convenzionale per
indicare il numero di ciascuno dei quattro tipi di denti presenti in una emiarcata
superiore e inferiore nel modo seguente (il numero dei denti, per ogni tipo, è
scritto in apice per l’emiarcata superiore seguito dal pedice per l’emiarcata
inferiore, divisi fra loro da una barra, e dove I sta per gli incisivi, C per i
canini, P per i premolari, M per i molari):
I 2/2
C 1/1 P 2/2 M 3/3
Ciò
che potrebbe trovarsi scritto, per ogni emiarcata, anche così:
I1
I2 C1 P1 P2 M1 M2
M3 (emiarcata superiore)
I1
I2 C1 P1 P2 M1 M2
M3 (emiarcata inferiore)
Ora,
alle Australopitecine, per potere mangiare degli USO selvatici crudi, cioè dei
cibi di riserva particolarmente duri (in ordine decrescente di durezza, abbiamo
poi rizomi, tuberi e bulbi), e poterne assimilare gli amidi, per esempio, è
richiesta una lunga attività di masticazione (che probabilmente, al pari degli
scimpanzé, investe buona parte della giornata, v. supra); per cui la caratteristica senz’altro più distintiva è che queste
presentano i molari grossi e relativamente piatti (con una superficie occlusale
utilizzabile più grande per potere masticare grandi quantità di cibi duri di
bassa qualità, meccanicamente difficili da processare), con uno spesso strato
di smalto e radici lunghe e grandi, un insieme adatto per alimentarsi d’organi
di riserva sotterranei; quelli gracili, come l’Australopithecus africanus, presentano molari più grandi del 50% e
più piatti rispetto a quelli degli scimpanzé e la corona smaltata è due volte
più spessa (è però fatta salva la formula dentaria, ch’è comune al gorilla, allo
scimpanzé, al macaco etc., giacché
l’apparato dentario,
dal punto di vista evolutivo, è relativamente immodificabile, tanto che la dentatura
dell’uomo e delle antropomorfe conserva le caratteristiche di base, a partire
da smalto, dentina, cemento e polpa, acquisite all’incirca 20 milioni d’anni fa);
ancora, nelle australopitecine robuste, per esempio, l’Australopithecus boisei, i molari sono più grandi più del doppio e
lo smalto è spesso tre volte tanto rispetto agli scimpanzé (detto altrimenti,
le Australopitecine hanno grandi denti a forma di macina ben adatti a un
movimento pressoché continuo di masticazione e frantumazione degli alimenti
duri, questo se la nicchia frequentata non offre altra disponibilità di risorse
trofiche); l’aumento di dimensione dei molari, poiché lo spazio per i denti
nelle mascelle è limitato, cioè non permette un eccessivo affollamento dentale,
fa sì che sparisca il diastema presente nell’arcata superiore e inferiore
presente negli scimpanzé fra l’incisivo laterale e il canino (v. supra) e, soprattutto, che gli incisivi
diventino più piccoli e verticali (mentre quelli delle prime Australopitecine,
per esempio, Australopithecus afarensis,
sono più ampi e proiettati in avanti, simili in questo a quelli degli scimpanzé)
e che anche i canini si riducano fino alle dimensioni degli incisivi, ciò che
ci traduce anche il parziale declino d’una dieta frugivora; la figura seguente
mette a confronto la mascella e la mandibola di Australopithecus africanus (forma fragile) con quella di Australopithecus boisei (forma robusta),
là dove si noti l’aumento di dimensione dei postcanini, cioè premolari e
molari, nel passaggio dalla forma fragile a quella robusta:
Figura
n. . Fonte (modificata): Ungar e Sponheimer, 2011, p. 190.
Detto
dei denti, vediamo ora l’apparato dei muscoli che permette la masticazione, un
apparato formato da 4 muscoli principali
(presenti specularmente su ogni lato della faccia) che dalla scatola cranica
s’innestano nella mandibola e, lavorando in sinergia, ne permettono i movimenti
(e sono i muscoli del collo che stabilizzano poi la testa durante la
masticazione); di questi, vediamone in dettaglio 2, il muscolo massetère, il
muscolo masticatorio più potente, e quello temporale; il muscolo massetere è un
muscolo corto e spesso composto di due fasci di fibre sovrapposti e inclinati secondo
angolature diverse a formare una X, ed è situato simmetricamente nella regione della
guancia, e presenta una forma quadrangolare in quanto è inserito, da un lato,
sull’arcata zigomatica e, dall’altro, sulla faccia esterna della branca
montante della mandibola, ed è uno dei muscoli, come detto, che ha la funzione
d’elevare la mandibola per la masticazione (innalza la mandibola come nell’atto
di chiudere la bocca); il muscolo temporale, che si presenta simmetricamente
nelle tempie, cioè nella regione laterale simmetrica del cranio ch’è situata
lateralmente alla fronte (e ch’è compresa tra le regioni orbitaria in avanti,
occipitale all’indietro, fronto-parietale in alto e la faccia in basso), è un
muscolo appiattito con fibre orizzontali, verticali e oblique che mostra una
disposizione a forma di triangolo (o ventaglio) con la base rivolta verso
l’alto e l’apice che punta in basso (la parte centrale di questo muscolo
s’estende dalle tempie agli zigomi fini a inserirsi nelle mascelle) e la cui
azione, nella masticazione, consiste nel serrare la mandibola contro la
mascella e di presentare un movimento di retrusione, cioè di spostamento
posteriore; gli altri 2 muscoli, sempre speculari, sono il pterigoidèo esterno
(o laterale), e il pterigoideo interno (o mediale), l’uno che si contrae e
porta in avanti la mandibola, cioè effettua un movimento di protrusione,
imprimendole anche movimenti laterali, l’altro ch’eleva e abbassa la mandibola,
come si verifica nell’apertura della bocca, e le imprime anche movimenti di lateralità
tipici della triturazione del cibo); le figure seguenti mostrano i muscoli che
s’è cercato di descrivere sopra (nella prima figura sono indicati l’articolazione
temporo-mandibolare e l’arcata zigomatica; la prima è una cerniera che articola
l’osso temporale con quello mandibolare, ciò che permette alla mandibola di
muoversi rispetto alla mascella, come dire ch’è quella che grazie ai muscoli
sopra citati consente alla mandibola i movimenti necessari per la masticazione,
cioè i movimenti d’innalzamento, d’abbassamento, di proiezione
antero-posteriore e di lateralità; la seconda è quella che costituisce un ponte
tra l’osso mascellare e le ossa della regione, o fossa, temporale; in entrambe
le figure, M. sta poi per muscolo):
Figura
n. . Fonte (modificata): Balboni, Bastianini, Brizzi et alii, 1991, p. [?].
Figura
n. . Fonte (modificata): Balboni, Bastianini, Brizzi et alii, 1991, p. [?].
Ora,
nelle Australopitecine, il muscolo temporale ha un’estensione a ventaglio
talmente grande che sopra il cranio e nella sua parte posteriore crescono delle
creste ossee per offrire a questo muscolo masticatore più superficie su cui
inserirsi (dette creste sagittali); è inoltre così spesso da costringere gli
zigomi a emergere di molto dal piano della faccia, a porsi più lateralmente e a
farsi più lunghi sul lato (lasciando così più spazio anche per il muscolo
massetere consentendogli d’applicare, durante la masticazione, una forza
verticale e trasversale); la grandezza e lo spessore del muscolo temporale rendono
poi le facce tanto allungate (protruse), quanto allargate e mettendo assieme
tutte le forze applicate da ogni muscolo si può stimare che Australopithecus boisei, per esempio, è
potenzialmente in grado di masticare per lungo tempo con una forza ca. 2,5
volte superiore a quella umana; ancora, le specie che applicano una forza
masticatoria intensa potrebbero presentare delle fratture alle ossa del volto e
delle mascelle (non solo dei microtraumi, normali e previsti e che permettono
alle ossa di ripararsi e ispessirsi), e per ovviare a queste fratture la
mascella e la mandibola sono più spesse, più alte e più ampie, ciò che permette
di diminuire le tensioni causate da ogni singolo movimento masticatorio
nell’impalcatura facciale; la figura seguente mette a confronto lo schizzo
della vista laterale di Australopithecus
africanus con quella di Australopithecus
boisei, dove risulta evidente l’aumento dello sopra citata protrusione (in
figura, Au. sta per Australopithecus,
P. sta Paranthropus, v. infra,
un’altra denominazione per la forma robusta):
Figura
n. . Fonte (modificata): Ungar e Sponheimer, 2011, p. 190.
Si
noteranno dunque le differenze delle dimensioni e della morfologia craniodentale,
differenze che sottolineano l’importanza della dieta per iniziare a comprendere
le pressioni selettive che questa differenza la producono, come mostra del
resto, nella figura seguente, la messa a confronto tra il cranio d’uno scimpanzé
(frugivoro), d’un Australopithecus
afarensis (forma gracile, consumatrice di cibi di ripiego e parzialmente di
cibi sotterranei) e d’un Australopithecus
boisei (forma robusta, forte consumatrice di rizomi, tuberi e bulbi); e
anche se qualcuno avanza il fatto che l’analisi della microusura dei molari non
offre prove che sostengano che il regime alimentare di Australopithecus boisei sia stato di forte consumo degli USO, si
può però sostenere che uno può sì scegliere cibi altri, cioè quelli preferiti,
che possono essere anche meccanicamente meno impegnativi rispetto a quelli della
nicchia per cui l’organismo può essere stato conformato, cioè ch’è possibile adottare
una dieta con una base di sussistenza allargata, variata (per esempio, frutta, fallback foods e organi di riserva
sotterranei); ma in questo contesto climatico instabile una possibilità d’adattamento
alimentare alla variabilità trofica allargata dell’ambiente (o euritopica) non
è conosciuta o data e s’impone pertanto un ambiente con risorse relativamente
invariabili (o stenotopico) che può rendere plausibile l’impossibilità di potere
scegliere il cibo, cioè una dipendenza crescente dall’alimentazione degli organi
di riserva sotterranei; come dire che se anche non ci sono prove definitive
sulla diete delle Australopitecine, non si può però arrivare al paradosso
d’affermare che una specializzazione morfologica (denti e crani robusti) è
senza identità adattativa (cioè senza una dieta in via di dipendenza verso i
cibi duri che ne avrebbe conseguentemente conformato la specializzazione
morfologica) e non si può, in ogni caso, non notare che può esistere un legame
evolutivo tra la morfologia dei denti e la morfologia del cranio, cioè che
questi crani presentano forme che si modificano e s’ampliano via via che i
cambiamenti climatici che si susseguono impongono dei regimi alimentari che
passano dalle risorse facili da masticare a quelle difficili, fino a
manifestare una specializzazione nella morfologia craniodentale, con mascella e
mandibola più spesse, più alte e più ampie (o megagnatia) e denti postcanini
più grandi e più spessi, (o megadontia) con caratteristiche che suggeriscono la
capacità di resistere alle sollecitazioni pesanti o alla rottura dovuta a carichi
di masticazione duri e ripetitivi e, infine, dei muscoli masticatori che, oltre
a essere grossi, sono anche configurati per essere più efficaci (in figura, a
differenza dello scimpanzé e dell’Australopithecus
africanus che mostrano la conformazione cranica completa, il cranio di Australopithecus boisei manca della
mandibola, ciò che rende relativamente incompleta la comparazione proposta, ma
v. figura precedente):
Figura
n. . Fonte (modificata): Lieberman, 2014, p. 43.
Detto
dei denti, dei muscoli masticatori e del cranio, e tralasciando per ora l’anatomia
dell’intestino (v. infra), restano da
affrontare le strutture coinvolte nella locomozione delle Australopitecine, e
per questo si riprenderà l’argomentazione dalla già citata deambulazione degli
scimpanzé nelle foreste pluviali al fine di poter meglio valorizzare l’emergere
degli ulteriori adattamenti al bipedismo, in un mutato contesto ambientale, nelle
Australopitecine; nelle foreste pluviali le risorse trofiche, frutta o cibi di
ripiego come foglie, erbe e steli delle piante, non richiedono che uno
scimpanzé debba spostarsi in un’area dall’ampio raggio, visto che lo spostarsi,
per esempio da un albero da frutta a un altro, comporta che in media un maschio
compia all’incirca 3 km al giorno con andatura bipede (una femmina 2), lo
stesso se deve ricorrere ai fallback
foods, tanto che si può affermare che gli scimpanzé sono circondati da
risorse trofiche che scelgono d’ignorare; ora, quando uno scimpanzé cammina il
suo bipedismo è imperfetto, inefficiente, in quanto le anche, le ginocchia e le
caviglie sono disallineate e sono piegate a un angolo estremo, ciò che
richiede, come visto, che i muscoli delle natiche, delle cosce e del polpacci
debbano sempre essere contratti per permettere che il centro di massa del suo
corpo s’alzi nella prima metà del passo e s’abbassi nella seconda metà; per meglio
comprendere questa dinamica s’osservi la figura seguente che mostra l’andatura
di Homo sapiens:
Figura
n. . Fonte (modificata): Lieberman, 2014, p. 47.
e
s’osservino il pallino nero (il centro di massa del corpo) che si sposta lungo
la linea tratteggiata e la linea grigia che percorre la coscia e la gamba, ciò
che indica quando l’azione dei muscoli la sposta; quando la gamba si sposta in
avanti, il centro di rotazione è il bacino, mentre quando la gamba poggia per
terra e sostiene tutto il corpo, il centro di rotazione dal bacino si sposta
nella caviglia attraversando la linea grigia e rendendo la caviglia il nuovo
centro di rotazione, ciò che vuol dire che quando i muscoli della gamba si
contraggono per spingere la gamba verso il basso, il peso del corpo si sposta
sul piede e sulla caviglia, ciò ch’innalza il centro di massa del corpo (come
mostra la linea tratteggiata), ciò che, ancora, vuol dire che il centro di
massa ha accumulato un’energia potenziale (come se fosse un peso che s’alza da
terra), energia ch’è rilasciata come energia di movimento, o cinetica, quando
il centro di rotazione si sposta nella caviglia (come se fosse il peso che s’è
alzato da terra che si lascia andare a terra), e visto che il bacino, le
ginocchia e le caviglie sono allineate, ciò permette di risparmiare energia (calorie)
e di percorrere più lunghi tragitti visto che la falcata s’allunga; risparmio,
come sopra detto, che non è dato agli scimpanzé in quanto questi, muovendo il
bacino, le ginocchia e le caviglie in modo disallineato, d’energia calorica ne
consumano molta di più per contrarre i muscoli che permettono loro il
bipedismo; infatti, visto che la forza di gravitazione tende a flettere con
angolo ottuso le articolazioni disallineate verso il basso, uno scimpanzé per
innalzare il centro di massa del corpo quando la caviglia è il centro di
rotazione, cioè per accumulare energia potenziale da rilasciare come energia
cinetica, deve tenere sempre contratti i muscoli delle natiche, delle cosce e
del polpacci (e non dimenticando che il piede, con l’alluce opponibile, osta il
percorso); la questione si spiega con la messa a confronto del femore dell’uomo
e dello scimpanzé, là dove il femore di Homo
sapiens presenta un’angolatura tra il ginocchio e l’anca (un femore
angolato) tale che l’articolazione del ginocchio si trova lungo la linea di
carico del peso corporeo che va dall’anca alla caviglia (o asse portante,
quello lungo
il quale si scarica il peso del corpo), come dire che è l’articolazione ad
essere allineata (e non il femore), e questo permette che l’estensione della
gamba allinei il femore della coscia con la tibia e lo sperone della gamba,
estensione che non è possibile nello scimpanzé visto che il suo femore è
diritto, senza la sopra citata angolatura, motivo per cui sono le ossa ad
essere allineate, ma non le articolazioni, come dire che l’articolazione del
ginocchio non si trova lungo la linea dell’asse portante che va dall’anca alla
caviglia e che pertanto il ginocchio è disallineato (simile in questo al
ginocchio varo), ciò che ne comporta, dell’articolazione, lo spostamento di
lato, ossia la sopra citata flessione ad angolo ottuso che si ha quando
s’esercita il carico del peso corporeo sul ginocchio, flessione che lo scimpanzé
controlla, lo si ripete, con i muscoli delle natiche, delle cosce e del
polpacci durante il bipedismo occasionale; nella figura seguente sono messi a
confronto l’inclinatura del femore dell’uomo e l’assenza d’inclinatura nello
scimpanzé:
Figura
n. . Fonte: [?]
Mentre,
nella prossima figura, sono messi a confronto il femore dell’uomo e dello
scimpanzé mostrando che l’asse portante che va dall’anca alla caviglia allinea
l’articolazione del ginocchio nell’uomo grazie all’angolazione del femore, cosa
che non si presenta nello scimpanzé in cui il femore è diritto e
l’articolazione del ginocchio è disallineata (in figura, a sta per il femore, b
per la tibia, c per l’asse d’appoggio o portante):
Figura
n. . Fonte (modificata): Zihlman, 1984,
p. 15.
E a
questo, s’aggiunga anche che la falcata dello scimpanzé s’accorcia rispetto a
quella dell’uomo, tanto che per ogni passo la distanza percorsa è minore,
complesso di fatti che, come visto sopra, aumenta il costo energetico (calorie
consumate) della deambulazione del 75% all’incirca rispetto all’uomo; detto
questo, le Australopitecine sono però, nella deambulazione, più efficienti
degli scimpanzé, anche se meno efficienti di Homo sapiens e, ripartendo dai piedi, specie come Australopithecus afarensis e Australopithecus africanus, per esempio,
presentano alluci non opponibili e allineati con le altre dita, corte e tozze,
con articolazioni alle base delle dita orientate verso l’alto (efficace per
spingere il corpo in alto e in avanti) e un arco longitudinale parziale che
rende possibile l’irrigidimento di parte del piede, e alcune specie, come Australopithecus afarensis, presentano
un calcagno grosso e piatto adattato alle forze ad alto impatto causate
dall’appoggio del tallone, indizio d’una falcata ampia; ancora, presentano come
Homo sapiens un femore angolato
rivolto verso l’interno che, come detto, consente un risparmio energetico, e le
articolazioni dell’anca e del ginocchio sono grosse e ben protette e in grado
d’assorbire le forze intense che si sviluppano camminando con il corpo
appoggiato su una gamba sola, e le caviglie, ancora, presentano in linea di
massima un orientamento simile al nostro (sono, al fine d’evitare le
distorsioni, più stabili e meno flessibili rispetto a quelle degli scimpanzé);
la figura seguente mostra il femore angolato d’una Australopitecina non meglio
identificata (in figura, a sta per il femore, b per la tibia), e si coglie
l’occasione per ricordare che non si sono ritrovati femori antecedenti le
Australopitecine, per cui non si può determinare se il femore angolato è
caratteristica esclusiva delle Australopitecine, oppure se si sia evoluta
precedentemente, per esempio, in ominini come gli Ardipitechi:
Figura
n. . Fonte (modificata): Zihlman, 1984,
p. 15.
Oltre a quelli citati, altri adattamenti riguardano la
stabilizzazione della parte superiore del corpo durante il mantenimento della
postura eretta, a partire dalla colonna vertebrale lunga e incurvata nella
regione lombare (v. supra) che
posiziona il busto sopra le anche, presente in Australopithecus afarensis e Australopithecus
sediba, cui s’aggiunga la regione pelvica ampia, incurvata sui lati (il
bacino ampio e orientato lateralmente, come detto, permette ai muscoli sul lato
dell’anca di stabilizzare la parte superiore del corpo quando soltanto una
gamba è appoggiata al suolo); tutto un insieme d’adattamenti che gli scimpanzé,
che continuano a vivere nell’habitat
della foresta pluviale relativamente ricco di risorse trofiche, non presentano;
questo a differenza delle Australopitecine, che degli adattamenti verso il bipedismo hanno
bisogno in quanto vivono in habitat
particolarmente poveri di risorse trofiche, ragione per cui dovendo cercare
queste risorse in un ambiente più vasto dove non è sufficiente spostarsi per 2-3
km alla ricerca d’un albero da frutta come fanno gli scimpanzé, ma bisogna
percorrere più e più chilometri perché queste sono sparse in un habitat parzialmente aperto, ciò che
richiede un’efficienza nel camminare che eviti lo spreco energetico; e s’immagini
una femmina d’Australopiteco, del peso di 30 kg, che deve camminare il triplo
di quello ch’è usa fare la femmina dello scimpanzé durante il giorno, cioè 6
km; ora, se questa femmina avesse la metà dell’efficienza di locomozione d’una
femmina di Homo sapiens,
percorrerebbe più spazio nello stesso tempo rispetto alla femmina di scimpanzé,
con l’aggiunta d’un risparmio di ca. 70 calorie al giorno (quasi 500 calorie in
una settimana) e l’opportunità d’una facilitazione nel trasportare il cibo e
nello scavare a ricerca di USO, ciò che in tempi di persistente crisi trofica
rappresenta un notevole vantaggio dal punto di vista evolutivo, fatto salvo il
fatto che il bipedismo, in un ambiente ostile per la presenza di predatori
carnivori, non permette però di correre rapidamente come può fare uno scimpanzé;
riguardo poi allo scavare alla ricerca d’organi di riserva sotterranei da parte
delle Australopitecine, bisogna sottolineare che questi si nascondono nel
sottosuolo a profondità di decine di centimetri, e possono volerci dai 20 ai 30
minuti di scavi con un bastone per tirarli fuori e la forma delle loro mani,
ch’è intermedia tra quella degli scimpanzé e quella degli uomini (con pollici
più lunghi e dita più corte rispetto agli scimpanzé), indica pertanto che afferrare
e usare un bastone è fattibile con questa anatomia; ora, è documentato che la
pratica di scavare tuberi, radici e
rizomi è utilizzata oggi anche da una popolazione rarefatta di scimpanzé
orientali, Pan troglodytes schweinfurthii,
che in Tanzania occidentale, nella regione Ugalla, si trova in una
localizzazione intermedia tra i margini estremi della foresta e la savana
aperta, in uno degli habitat più
secchi e stagionali tra quelli marginali e in cui è possibile situare il
confine ultimo di penetrazione degli scimpanzé (anche se gli USO sono stati
scavati durante la stagione delle piogge); questo fatto, se pure relativizza la
divergenza scimpanzé/uomo sopra affermata relativamente agli effetti climatici
in Africa orientale, ha però anche il vantaggio di mostrare che
l’incorporazione della pratica USO nella dieta delle Australopitecine è alla
portata e cognitiva e tecnologica per un cervello poco più grande di quello
degli scimpanzé e che varia, come detto, da 400 a 500 cm3 in media e
là dove la tecnologia delle Australopitecine è poi da ritrovarsi nel rapporto
di omologia con l’uso dei bastoni come strumenti di scavo da parte degli
scimpanzé orientali, che li usano nel caso che la superficie si presenti dura,
ciò che porta a supporre che le Australopitecine, con i bastoni da scavo,
inizino la pratica d’una produzione intenzionale di strumenti da lavoro, o toolmaker, per migliorare l’efficienza
della raccolta alimentare, e senza dimenticare che anche cercare insetti e
invertebrati, solitamente difficili da scovare e che arricchiscono la dieta con
lipidi e proteine, richiede intelligenza operativa, pratica ancora una volta
all’altezza dell’intelligenza degli scimpanzé che modificano i bastoni per
catturare le termiti (entomofagia) e infilzare piccoli mammiferi, il
che è dire che la selezione della capacità di scavare con un bastone o di
modificarlo per scopi alimentari, potrebbe avere gettato le basi per la
selezione, più tardiva, a utilizzare strumenti anche di pietra (ed è, infine,
da farsi salvo il fatto che l’emancipazione delle mani dall’attività di
locomozione per favorire capacità come il fabbricare e utilizzare strumenti di
qualsivoglia tipo, ciò che avrebbe probabilmente favorito, a seguire, la
selezione di cervelli più grandi, di inedite capacità cognitive e del
linguaggio, ha richiesto un numero non indifferente d’anni, giacché l’uso di
strumenti litici risale a non prima di 2,5 milioni d’anni fa, alla Pebble culture di Homo habilis, contemporaneo delle Australopitecine robuste, v. infra, e dunque rimanda a comportamenti
e pratiche che non furono una subitanea conseguenza del fatto d’avere degli
arti superiori liberi per altri compiti); detto questo, l’evoluzione del corpo
umano che segue a quelle sopra illustrate, è coeva a quella delle Australopitecine
robuste e s’ha quando si presenta appunto Homo
habilis, ch’è discendente a pari titolo da Australopithecus africanus come lo sono le Australopitecine robuste
(o Paranthropus), quando nell’Africa
orientale, a partire da ca. 2,5 milioni d’anni fa, s’afferma il cambiamento
climatico ch’è tale anche su scala globale e che ha dato inizio a quella che
sopra s’è definita era glaciale del Neozoico (o Quaternario); ora, mentre i Parantropi,
come visto, mostrano un’evoluzione che prende il via dalla specializzazione della
morfologia dentaria (ipertrofica) funzionale a un’alimentazione vegetariana complessivamente
detta granivora, il primo rappresentante del genere Homo (la specie Homo habilis)
inizia a intraprendere, sempre a seguito d’una pressione selettiva dettata
dalle stesse condizioni ambientali, una strategia dietetica altra per
affrontare i cambiamenti dell’habitat
ch’è quella della caccia e della raccolta, strategia che richiede di continuare
a raccogliere i tuberi e le altre piante (a tutt’oggi, i cacciatori-raccoglitori
rimasti si basano per la loro sopravvivenza sugli organi di riserva, che
arrivano a costituire 1/3 della loro dieta, se non oltre, v. infra), ma che incorpora nuovi
comportamenti manipolativi, tra cui integrare nel regime alimentare a base vegetale
con l’alimentazione carnea, usare degli strumenti per estrarre e lavorare gli
alimenti e adottare una collaborazione sociale ineludibile e utile e per
procacciarsi e condividere il cibo e per altri compiti (infatti, le procedure
della caccia e raccolta rimandano a un sistema fortemente integrato in cui
l’aspetto operativo, raccogliere/cacciare/preparare/mangiare, non può
prescindere delle dinamiche di collaborazione/condivisione fra i tutti i membri
d’un gruppo sociale); e questa nuova strategia adattiva, per essere elaborata e
mantenuta, non ha richiesto che l’adattamento chiave iniziale da selezionare
sia da reperirsi nei grossi cervelli (Homo
habilis, per esempio, presenta un volume del cervello solo di poco più
grande di un’Australopitecina, v. infra),
ma nella materialità dell’adattamento dei corpi a una forma simile a quella
moderna, come affermare ch’è stato il sistema di caccia e raccolta, cioè
l’integrazione nella dieta di proteine d’origine animale tramite nuove modalità d’approvvigionamento
alimentare quali lo scavenging e la
predazione, a permettere al nostro corpo d’assumere la forma che ha oggi; le
varie specie di Homo saranno
illustrate a seguire, per ora, al fine di valorizzare le novità nella forma del
corpo, qui s’affronta il caso di Homo
erectus (questo perché quanto c’è stato prima di lui è più simile alle
antropomorfe, mentre quello che viene dopo ha caratteristiche via via più simili
alle nostre; solo in questo contesto, anche se la questione è assai
controversa, Homo ergaster, che
precede Homo erectus, s’identifica
poi come appartenente alla stessa specie e non a un taxon diverso; su questa questione, v. infra), una specie originaria dell’Africa, all’altezza di 1,9
milioni d’anni fa, che con la diaspora Out
of Africa I (v. infra), s’è
diffusa in aree diverse (Indonesia, Cina, Europa, Africa) ed è sopravvissuta in
Asia fino a poche centinaia di migliaia d’anni fa (c’è chi afferma fino a 20
000 anni fa, v. infra); il suo
aspetto, date le modalità di diffusione, è molto variabile, ma si possono
riassumere gli aspetti generali della sua conformazione affermando che il peso dei
maschi varia da 40 a 70 kg, l’altezza da 122 a oltre 185 cm, che è presente uno
spiccato dimorfismo sessuale (le femmine sono molto più piccole), che le spalle
sono basse e larghe e il torace è ampio e a forma di botte, che le braccia sono
relativamente corte e le gambe relativamente lunghe (con piedi completamente
moderni), che la vita è stretta, ma i fianchi sono più larghi dei nostri, che
il volto è lungo e scavato e caratterizzato da un’arcata sopraorbitaria enorme
(soprattutto nei maschi), che la dentatura è quasi identica alla nostra (con
denti solo un poco più grandi), che il volume del cervello (tra i 720 e i 1 350
cm3) è intermedio tra quello delle Australopitecine e quello di Homo sapiens e, infine, che i crani sono
allungati, appiattiti in cima, oltre che angolati sul retro (rispetto ai
nostri, più arrotondati) e con pareti spesse; ora, fatto salvo il fatto che c’è
chi afferma che non sussistono evidenze archeologiche d’attività sistematiche di
caccia fino a Homo sapiens e che pertanto
i resti d’animali antecedenti a 100 000 anni fa associati alle industrie litiche
(v. infra) indicano solo che Homo habilis e Homo erectus hanno praticato lo scavenging,
fatto salvo questo, in base ai resti fossili e agli artefatti che le ricerche su
Homo erectus hanno restituito e
legando a queste le informazioni che possono offrire i ricercatori sull’attuale
stile di vita dei cacciatori-raccoglitori (o Hunter-Gatherer; per esempio, i pigmei Aka della foresta pluviale
in Africa centrale, i !Kung San, o boscimani, del deserto del Kalahari, in
Africa meridionale, gli Hadza della Tanzania, in Africa orientale, gli
aborigeni del deserto australiano, gli Yanomami, o Yanomamö, della foresta pluviale
amazzonica tra Venezuela e Brasile, gli Hiwi delle savane neotropicali del
bacino dell'Orinoco, nel Venezuela Sudoccidentale e altri ancora), è possibile
congetturare (con beneficio d’inventario e cercando di non proiettare i dati
etnografici del presente sul passato) quale potesse essere il repertorio
operativo che porta alla dieta di Homo
erectus; pertanto può risultare utile per legittimare l’illustrazione di
questo repertorio operativo indicare, in linea di massima, quali caratteristiche
presentano le odierne e rarefatte società di caccia e raccolta (dette anche
società acquisitive, cioè di prelievo delle risorse trofiche in un’economia di
sussistenza) che sono oggi tali in quanto isolate in ambienti marginali dove possono
avere la possibilità di mantenere dei tratti distintivi ch’è ipotizzabile
ritenere comparabili con quelle di Homo
erectus, in special modo se si può istituire un’analogia dettata dalle
modalità con cui queste società, al pari di Homo
erectus, si sono adattate a uno specifico habitat caratterizzato da spazi più aperti, con fenomeni di
stagionalità e una bassa densità di piante commestibili, cioè alla scarsità
delle risorse utili per la sussistenza (nutrienti quali, proteine, grassi, carboidrati,
vitamine, sali minerali e acqua), scarsità ch’è poi tale, come detto, in base alla
dispersione delle dette risorse sul territorio (sfruttabili solo con il ricorso
alla locomozione bipede, ossia coprendo a
piedi, in media, una distanza di 9 km le femmine e di15 km i maschi),
alla variabilità stagionale con cui queste si possono trovare e utilizzare e,
infine, scarsità che dipende anche dalle tecnologie disponibili, tutte basate
sulla forza muscolare (bastoni da scavo per i raccoglitori delle società di
caccia e raccolta e per Homo erectus; bastoni
di legno appuntito e industria litica acheuleana, v. infra, per i cacciatori della specie Homo erectus; arco, frecce, clave e aste per i cacciatori delle
società di caccia e raccolta, e per inciso, l’arco e la freccia risalgono a non
più di 100 000 anni fa e le più semplici punte di lancia a 50 000 anni fa
all’incirca); un insieme di fatti che, conseguentemente, produce fenomeni di mobilità
nello spazio (nomadismo) in base alle opportunità di ritrovamento e alle
preconoscenze acquisite sulle specie raccolte o sul movimento delle prede, e un
numero variabile di componenti in una data aggregazione sociale ch’è sempre,
comunque, a bassa densità (all’incirca 0,1 - 0,5 abitanti per km2,
dunque con poche decine d’individui che si spostano su territori abbastanza
vasti, dell’ordine di decine di chilometri quadrati), aggregazione che non
sfrutta poi mai del tutto le capacità di carico dell’ambiente in quanto il
superamento dei limiti dell’ecosistema si traduce in una riduzione della
produttività dell’ecosistema stesso, cioè la scomparsa d’una altrimenti
garantita sicurezza alimentare, e questo se la popolazione aumenta oltre questa
capacità di carico (come dire che questo superamento s’evolve storicamente o
come declino della popolazione o come abbandono obbligato dell’area depauperata
se non s’obbedisce all’equilibrio che s’impone tra le attività antropiche di
prelievo e il funzionamento di quell’ecosistema), e questi gruppi sono poi
classificati come bande; in linea di massima, queste bande vivono sui prodotti
della raccolta da parte delle femmine e dei bambini di cibo vegetale a crescita
spontanea (cibi di ripiego edibili quali bulbi, tuberi, radici e rizomi, semi, foglie,
piante, germogli, funghi, bacche, frutti e frutta a guscio, tipo noci) con una
tecnologia elementare costituita, come detto, da bastoni da scavo e per un
ammontare che corrisponde grossomodo al 60-70% delle calorie introdotte nella
loro dieta (ma il dato è controverso, perché c’è chi afferma che le calorie
introdotte con la carne superano il 50%), cui s’aggiunga la raccolta di fonti
proteiche (forme larvali, vermi, insetti, molluschi, uova, piccoli
invertebrati) e di prodotti d’estrazione di sostanze zuccherine d’origine
animale, quali il miele, in ogni caso abbisognano d’un ventaglio ampio di
risorse, e generalmente si tratta di fare ricorso a decine di piante (come, per
esempio, i sopra citati !Kung San che usano ricorrere a oltre 23 specie di
piante alimentari, mentre i Kadi San, sempre del Kalahari, utilizzano
alimentarmente 80 tipi di piante), questo anche s’è vero che molte bande s’affidano
ad alcune piante chiave per il maggior cumulo giornaliero di risorse
energetiche (per esempio, la dieta base degli Hadza è rappresentata da numerose
tipologie di miele, prodotto dalle api con il ricorso al nettare prelevato da
varie specie di fiori; per i !Kung San la dieta base ricorre invece alla noce mongongo,
Schinziophyton rautanenii,
la cui percentuale d’utilizzo, in peso, assomma al 50% degli alimenti consumati etc.); la tabella seguente mostra, a titolo d’esempio, le
percentuali medie di consumo di risorse vegetali da parte degli aborigeni
australiani:
TIPOLOGIA RISORSE
VEGETALI SELVATICHE
|
% CONSUMATA NELLA
DIETA VEGETALE
|
FRUTTA
|
41
|
SEMI
E NOCI
|
26
|
STRUTTURE
DI STOCCAGGIO SOTTERRANEO (TUBERI, RADICI E BULBI)
|
24
|
FOGLIE,
FRUTTA SECCA, FIORI, GOMME1, E PARTI DI PIANTE VARIE
|
9
|
1
Le
gomme vegetali sono ottenute per coagulazione
e lavorazione del làtice, un liquido acquoso ricavato
mediante incisione della parte legnosa di ca.
300
piante tropicali.
Tabella n. .
Fonte: Cordain et alii, 2000, p. 686.
Molte di queste piante sono poi laboriose da estrarre
e difficili da trovare (ciò che richiede una mappatura spaziale del territorio,
mappatura già disponibile come risorsa mentale a partire dagli scimpanzé e nel
genere Homo più sofisticata), e che
possono assommarsi, secondo studi sui cacciatori-raccoglitori africani d’oggi,
in una raccolta quotidiana da parte delle donne d’alimenti vegetali che vanno
dalle 1 700 alle 4 000 calorie quotidiane
(le madri che allattano, ingombrate dai neonati, sono situate però nella fascia
più bassa di quest’intervallo); alla restante parte del fabbisogno nutrizionale
proteico e lipidico provvedono i maschi adulti con la carne predata durante la caccia
(i !Kung San, per esempio, cacciano regolarmente 17 specie d’animali e i Kadi
San ca. 50 tipi d’animali, anche se la carne, per loro, costituisce il 20%
della dieta; e anche se quest’apporto calorico non è poi dato in modo prevedibile
e costante, può arrivare ad essere tra le 3 000 e le 6 000 calorie in un
proficuo giorno di caccia e dove si stima sia compresa, nella pratica dello scavenging, anche un’utilizzazione della
carcassa commestibile ben superiore al 50% del peso dell’animale vivo), con la
clausola che il cibo cacciato è più condiviso delle risorse vegetali e ch’è poi
oggetto di spartizione fra i soli componenti maschili della banda e ch’è con la
loro mediazione che quest’importante risorsa proteica è utilizzata anche da
tutti gli altri componenti della banda (per inciso, per oltre il 99,9% della
storia del genere Homo e per il 95%
della storia della specie Homo sapiens,
questo modo di produzione è stato l’unico ad essere presente); data la
condivisione delle risorse trofiche vegetali e carnee, resta, infine, la
preparazione del cibo per l’assimilazione, e tanto i vegetali quanto la carne
sono poi difficili da preparare, le piante perché non sono coltivate e
presentano pertanto un alto contenuto di fibre non digeribili che vanno in un
qualche modo rese assimilabili, la carne perché i denti di Homo sapiens non sono in grado di tagliare le dure fibre carnee
della selvaggina cruda (poco grassa e ricca di collagene e le cui fibre sono
rigide e resistenti) e, in assenza di preparazione, bisognerebbe masticare e
ancora masticare (gli uomini moderni hanno denti piatti e piccoli, al pari degli
scimpanzé e, tanto per fare un esempio, uno scimpanzé che cattura un piccolo di
Colobo rosso può impiegare fino a 11 ore per masticare i pochi chili di carne
di questa scimmia; per l’alimentazione carnea degli scimpanzé, v. infra), e come minimo, con la
strumentazione adatta, bisogna frantumare le pareti cellulari e le altre fibre
non digeribili delle piante per renderne più facile la masticazione (se proprio
non sono altrimenti assimilabili, i cacciatori-raccoglitori consumano le piante
con una tecnica speciale nota come wadging,
che consiste nel masticarle a lungo per estrarre tutti i nutrienti, finché non
si sputa quello che n’è rimasto) e, in pari tempo, bisogna tagliare la carne
cruda in piccoli pezzi al fine di poterla mangiare e digerire, pratiche che
aumentano sostanzialmente la quantità di calorie apportata ad ogni morso in
quanto ne facilitano la digestione e l’assimilazione, compiti questi tutti preparatorii,
ulteriormente facilitati dall’uso culinario del fuoco che coinvolge solo una
parte delle risorse utilizzate (da ricordare che, se la presunta capacità da
parte di Homo erectus di potere
controllare il fuoco opportunistico, cioè creato con la caduta stagionale dei
fulmini durante la stagione secca, risale all’incirca a 700 000 anni fa, secondo
altri a 1 milione d’anni fa, la capacità documentata d’usare e controllare il
fuoco di Homo erectus è però mostrata
dagli strati di cenere, di carboni e d’ossa combuste della caverna di
Zhoukoudian, in Cina, risalente all’incirca a 400 000 anni fa; l’uso accertato della
tecnologia del fuoco, cioè la capacità d’usare un fuoco non opportunistico che
contempla anche la diffusione della cottura degli alimenti, s’ha poi a partire
da 125 000 anni fa, altri dice tra 70 000 e 40 000 anni fa, con la diffusione di
Homo neanderthalensis, v. infra); complessivamente si tratta
dunque d’un regime alimentare che incorpora carboidrati (o glucidi), grassi (o lipidi),
proteine (o protidi), vitamine, sali minerali, fibre e acqua (sui nutrienti, in
generale, v. infra), regime che
richiede un rigido e integrato pacchetto di comportamenti operativi e
collaborativi al fine di risolvere il problema di potere usufruire d’una
maggiore quantità di cibo di più alta qualità nutritiva; comportamenti
operativi che devono essere svolti sincronicamente e collettivamente, con le
femmine che operano per la raccolta dei vegetali e coi maschi che cacciano per il
procacciamento della carne, comportamenti preceduti dalla fabbricazione degli
strumenti necessari ai vari compiti e poi seguiti dalla preparazione del cibo; comportamenti collaborativi, infine, che perseguono lo scopo
di potere condividere il cibo fra tutti; ed è questo pacchetto integrato così
definito quello che presenta poi quei tratti distintivi ch’è possibile
utilizzare per potere comparare i
comportamenti operativi e collaborativi dei cacciatori-raccoglitori con quelli
di Homo erectus, vale a dire i tratti
raccogliere/cacciare/ collaborare/fabbricare-preparare/condividere; fatto salvo
ch’è stato stimato che la composizione media in macronutrienti (v. infra), in % d’energia, nella dieta dei
primi rappresentanti del genere Homo,
è del 22% di grassi, 37% di proteine e
41% di carboidrati (i grassi utilizzati sono poi in prevalenza monoinsaturi, ma
anche saturi e polinsaturi, tra cui i grassi essenziali, quali l’omega 3, v. infra, ricavati principalmente da carne
e frutta secca; i carboidrati sono essenzialmente ricavati dalle risorse
vegetali; le proteine provengono in modo predominate da vegetali e carne, mentre
gli organi degli animali, come il fegato, il cuore, il midollo e il cervello,
oltre ai grassi, forniscono anche dei micronutrienti, v. infra, quali zinco, ferro etc.),
e partendo dal tratto distintivo della raccolta, negli habitat in cui vive Homo
erectus, i vegetali probabilmente coprono il 70% della dieta, ed essendo
questi ambienti aperti, con le risorse vegetali sparse, è implicito un percorso
che copra 9 km al giorno (secondo le
abitudini dei cacciatori-raccoglitori odierni), così com’è implicito che molte
di queste risorse siano sotterranee (tuberi e altro) o protette da un guscio
duro (noci e simili) e che molte altre possono essere difese da una tossina
(come bacche e radici), e che, infine, essendo le piante commestibili
stagionali, è necessario avere un ampio ventaglio di risorse vegetali a
disposizione, se pure, a fronte di queste difficoltà, il vantaggio è nel fatto
ch’è possibile prevedere in modo affidabile dove trovarle; ancora, essendo la densità nutritiva di queste risorse
bassa, il ventaglio deve pertanto comprendere decine e decine di piante fra
loro diverse; ora, una femmina di 50 kg di Homo
erectus ha bisogno, secondo calcoli
approssimativi (o spannometrici), di ca. 1 800 calorie al giorno, e di 500
calorie aggiuntive s’è incinta o allatta (per inciso, si suppone una media di
nascita d’un bambino ogni 3-5 anni), e se ha anche un figlio già svezzato, ma
incapace di procurarsi il cibo in modo autonomo, ecco che la prole dipende da
lei, tanto che ha bisogno tra le 1 000 e le 2 000 calorie aggiuntive, tanto che,
ancora, sommando questi fattori si può arrivare a un’ipotetica somma di 3 000 –
4 500 calorie che questa madre deve quotidianamente procurarsi e, se quanto
detto sopra sulle femmine raccoglitrici delle società di caccia e raccolta
d’oggi è vero, ed è fatto salvo ch’è improbabile che una femmina di Homo erectus incinta possa competere con
un’analoga raccoglitrice incinta d’oggi (che, come detto, si presenta nella
fascia più bassa del ventaglio sopra detto delle 1 700 – 4 000 calorie raccolte
individualmente dalle altre), ecco che, grosso modo, queste calorie sono per
lei difficili da accumulare, per cui ha bisogno di sommare alle calorie ottenute
dai vegetali anche delle calorie procurate con la carne; per quanto riguarda la
caccia (e tenendo conto del fatto che qui non si valorizza il pescato), la
questione è dibattuta, e anche s’è documentato che a partire da 2,6 milioni
d’anni fa l’uso della carne era accessibile, come mostrano le ossa degli
animali, restituite dai siti, che presentano tagli dovuti a strumenti di pietra
per asportarne la carne e mostrano fratture ch’indicano ch’è avvenuta
un’estrazione del midollo che v’era contenuto, il problema è nel come la
procuravano e quanta ne mangiavano; s’è detto, sopra, che qualcuno ritiene in
base ad evidenze archeologiche che la pratica della caccia risalga a Homo sapiens e che fino ad allora, cioè
fino a 100 000 anni fa, s’è praticato per procurarsi la carne, da parte delle
specie precedenti di Homo, solo lo scavenging, cioè s’è utilizzata la carne
d’animali già uccisi da altri animali predatori dopo averne macellato e
disarticolato le carcasse, resta però che la fabbricazione d’utensili litici da
parte di Homo erectus, utensili che
sono ben più complessi rispetto ai choppers
utilizzati da Homo habilis (v. infra), possa essere stata utilizzata
per la caccia; infatti, si ritrovano tra questi strumenti litici, per esempio, i
bifacciali (Modo II o industria litica acheuleana, v. infra), strumenti che presentano il vertice appuntito, i margini
laterali diritti e taglienti e una base adatta a essere impugnata, cui possono
benissimo legarsi delle tattiche predatorie non saprofaghe (v. infra, corsa di persistenza)
ch’implicano, tra l’altro, una memoria progettuale e anticipatoria e una
capacità strategica di coordinamento fra i cacciatori d’una banda (evento plausibile
visto che la costruzione d’un bifacciale richiede un’impronta mentale cui ci si
deve attenere per dare forma all’utensile, questo perché è necessario e il
rispetto di proporzioni e d’una simmetria operativa), ragione per cui si può
supporre che Homo erectus sia, oltre
che oltre praticante lo scavenging
con un’utilizzazione piena della carcassa commestibile (al pari dei cacciatori-raccoglitori),
anche un cacciatore d’animali
di media-piccola taglia, quali le gazzelle, e che faccia entrare nella dieta
ca. 1/3 d’alimentazione carnea e che questa sia procurata per la maggior parte
dagli uomini, secondo una divisione del lavoro basata sulle differenze sessuate
impostesi con il problema della riproduzione biologica (la prole curata dalle
femmine) e della condivisione, pena la sopravvivenza, delle risorse vegetali e
carnee; s’è ipotizzabile che un maschio di Homo
erectus che caccia percorra in media 15 km al giorno per fare in modo che possa
apportare con la carne tra le 3 000 e le 6 000 calorie (ritenendo chilometri e
calorie pari a quelle d’un cacciatore d’una società odierna di caccia e
raccolta), queste arrivando a sommarsi con quelle vegetali, necessarie al
maschio perché la caccia non è quotidianamente proficua, possono arrivare a
dare 6 000 – 10 500 calorie al giorno per un nucleo basico composto da femmina,
prole e maschio; il tratto della condivisione delle risorse trofiche, infatti,
è alla base del come s’è imposta una divisione del lavoro tra femmine e maschi
e del perché i raccoglitori-cacciatori sopravvivono oggi e del perché è
sopravvissuta la specie Homo erectus,
condivisione, per gli uni e gli altri, che non è però focalizzata sulla distribuzione
del cibo tra femmina/prole/maschio, ma è allargata ai componenti di tutta la
banda (in un ambiente ostile, infatti, la distribuzione a tutti del cibo non
avviene in nome d’una virtù civica, ma è basata sul fatto che rifiutarsi alla reciprocità
nella condivisione può fare, nel corso del tempo, la differenza tra la vita e
la morte) e per converso richiede anche la reciprocità d’una collaborazione
sociale intensa ch’investe la distribuzione del carico dei figli non solo alla
madre naturale, questo perché le donne portano con sé alla raccolta il proprio
figlio solo fino a quando ha 3 anni, dopo di che lo si ritiene svezzato e
rimane in custodia agli adulti presenti nel campo base (si tratta d’un maternage collettivo) mentre le madri
vanno alla ricerca di risorse vegetali; ancora, la reciprocità della
collaborazione richiede la cura degli anziani, l’organizzazione della caccia di
gruppo, la preparazione del cibo e altro ancora, collaborazione probabilmente
facilitata per Homo erectus dalla presenza d’un linguaggio
rudimentale (v. infra; e, sia detto
per inciso, la cura degli anziani è poi legata alle loro importanti conoscenze sull’habitat acquisite con la pratica, non
solo dei luoghi dove trovare cibo e materie prime per costruire i vari utensili
in uso, ma anche nel dove reperire le piante medicinali e nell’uso che si deve
farne, e un repertorio completo si stima assommi a qualcosa come la conoscenza
di 200 tipi di piante, tutto un insieme che diventa preconoscenza da
trasmettere e fare assimilare ai componenti attivi della banda); per quanto
riguarda l’ultimo tratto, la preparazione del cibo, è necessario ricordare che
gran parte delle risorse consumate da Homo
erectus è difficile da estrarre (un tubero, per esempio, può richiedere
fino a 20 minuti di scavo), dura da masticare e sgradevole da digerire a causa
dell’alto tasso fibroso, e la carne della selvaggina cruda, che, tra l’altro,
non ha depositi di grasso apprezzabili come il bestiame allevato, presenta poi fibre
che, come sopra detto, sono difficili da tagliare con i denti appiattiti,
ragione per cui bisogna fare come i cacciatori-raccoglitori, cioè preadattare
al consumo le fibre vegetali e carnee con una tecnologia semplice, questo, per
esempio, con strumenti litici semplici come i choppers (Modo I o industria litica olduvaiana, v. infra) che altro non sono che il
risultato d’una pietra che, scheggiando un’altra pietra, riesce a produrre
strumenti di taglio con bordi lunghi e affilati (e la loro semplicità di
produzione non inganni, perché questa va ben oltre le capacità d’uno scimpanzé),
si può tagliare la carne a pezzettini rendendola facile da masticare e
digeribile, si possono tagliare tuberi e con un pestello si possono frantumare
le fibre non digeribili dei vegetali (per l’uso del fuoco a scopi alimentari,
v. supra), per cui si può affermare
che in un periodo di grandi cambiamenti climatici Homo erectus utilizza, a differenza dei suoi predecessori, non solo
cibi di ripiego, ma risorse più ampie che ricorrono, su una base di sopravvivenza
vegetale, all’apporto proteico aggiuntivo della carne, e la combinazione di
questi tratti distintivi, raccogliere vegetali, cacciare e mangiare carne, collaborare,
fabbricare strumenti, preparare il cibo e condividerlo (si perdoni la
ripetizione), è specifica unicamente del nostro genere e sono questi quei tratti
che, basandosi sulla modificazione della morfologia dei denti, dell’anatomia
dell’intestino (v. infra) e delle
strutture coinvolte nella locomozione, ci hanno morfologicamente riplasmato; affermato
questo, bisogna ora domandarsi quali adattamenti sono stati selezionati da
questo modo di produzione e di riproduzione sociale per rendere adatti i corpi
al prelievo delle risorse trofiche in un’economia di sussistenza, e s’è vero
che gli individui adulti di Homo erectus
hanno più o meno le stesse dimensioni dei moderni cacciatori-raccoglitori e
vivono in un habitat simile al loro,
è presumibile anche uno stesso fabbisogno calorico, ma soddisfatto con un corpo
che non è più quello delle Australopitecine, bensì quello adattato a percorrere
distanze che vanno dai 9 ai 15 km alla ricerca di risorse trofiche; per prima
cosa, nel repertorio adattativo, rientrano le gambe lunghe, perché queste hanno
una falcata che permette di percorrere in minor tempo e con minore costo
energetico una distanza maggiore; siano, per esempio un’Australopitecina e un Homo erectus appaiati nel percorso e
abbia quest’ultimo, com’è nei fatti, una gamba del 10-20% più lunga di quella
di un’Australopitecina (lo si dice tenuto conto delle differenze nelle
dimensioni del corpo), ebbene le gambe più lunghe, visto che il costo per
muoversi per una data distanza dipende dalla falcata, richiedono per percorrere
la stessa distanza meno consumo energetico rispetto a gambe più corte, e Homo erectus avrebbe quasi dimezzato
questo consumo rispetto alle Australopitecine; seguono, nel repertorio
adattativo, un arco plantare completamente sviluppato (al confronto con Homo erectus, un’Australopitecina
presenta un’andatura da piedi piatti) e un ingrandimento e ispessimento delle
ossa (per esempio, il femore) e un irrobustimento delle articolazioni delle
anche, del ginocchio e delle caviglie, questo per meglio resistere alle
sollecitazioni d’uno stile di vita fortemente locomotorio che potrebbe portare
a fratturazione le ossa e a danneggiamento le articolazioni; infine, nel
repertorio, si presentano tutta una serie di adattamenti per regolare la
temperatura corporea (la regolazione omeostatica della temperatura corporea, ossia
l’equilibrio tra l’ambiente interno ed esterno, è poi conosciuta come
termoregolazione, v. infra, e questa
è compromessa se si superano i 40-41 °C corporei, quando nelle proteine si
rompono i legami che coinvolgono gli atomi d’idrogeno), cioè per regolare la
quantità di calore subita durante la marcia, tanto quella prodotta dal corpo
sotto sforzo (d’origine metabolica) quanto quella assorbita dalla radiazione
solare in habitat aridi sottoposti a
forte insolazione, giusto quelli frequentati da Homo erectus; specificamente, si tratta del naso proteso in avanti
rispetto al resto della faccia che fa sì che l’aria che passa dalle narici non
arrivi in linea retta nella cavità nasale interna ricoperta di muco e che
s’apre all’interno della scatola cranica (com’è nelle scimmie), ma che passi
attraverso tre sporgenze formate dalla proiezione di tre turbinati che
s’estendono dalle pareti laterali della cavità nasale e che suddividono ciascun
lato della cavità nasale in una serie di passaggi convoluti, i meati, cioè in
una serie di condotti obbligati che causano dei vortici caotici, delle
turbolenze che aumentano il contatto fra l’aria e la superfice della membrana
che si trova nella cavità nasale, ossia incrementano la superfice nasale
interna, ed è questo meccanismo che permette, assieme al muco della cavità che
trattiene l’acqua, una termoregolazione, vale a dire di potere umidificare
l’aria calda e secca di questo habitat,
di saturarla con acqua affinché i polmoni non secchino (lo stesso, durante
l’espirazione, la disidratazione non si presenta perché piccole gocce d’acqua
restano intrappolate negli stessi passaggi convoluti), meccanismo che permette
di percorrere lunghe distanze in condizioni climatiche calde e secche senza
disidratarsi, cioè una selezione adattativa che dal naso piatto delle
Australopitecine porta a un naso con narici ampie (v. infra) proiettato all’infuori; ancora, partecipano della
termoregolazione la postura eretta che diminuisce la superfice corporea esposta
alle radiazioni solari dirette e l’allungamento della forma del corpo rispetto
alle Australopitecine (con un aumento del rapporto tra la superficie e il peso al
fine di favorire la termodispersione; l’aumento di statura è poi favorito dalla
maggiore disponibilità di proteine d’origine animale) che presenta, relativamente
alla massa, una superfice corporea più ampia che si raffredda grazie alla
dilatazione dei vasi sanguigni sottocutanei (o vasodilatazione periferica), al
volume d’aria inspirata ed espirata (o ventilazione polmonare) e, soprattutto, alla
sudorazione permessa dalla distribuzione in tutto il corpo delle ghiandole
sudoripare (che in Homo sapiens
odierno sono dell’ordine dei 3 milioni; il sudore diffuso, che compensa la
caduta del pelo isolante, è presente nel genere Homo, nel cavallo e nei ruminanti); il sudore consiste poi in una secrezione
d’acqua e sostanze di scarto sulla superfice dell’epidermide, che con
l’evaporazione crea un raffreddamento della superficie cutanea e del sangue
sottostante, ciò che dissipa una grande quantità d’energia termica (il sudore,
evaporando, assorbe una quantità notevole di calore, pari a 580 kcal per litro);
favorisce, infine, la capacità adattativa al calore anche un’elevata
pigmentazione cutanea [?]; un’ulteriore serie d’adattamenti si ritrova nell’ipotesi
(non pienamente accettata da tutti gli studiosi) della corsa di persistenza (endurance running, ER, alla lettera,
resistenza in esecuzione), elaborata per potere spiegare come Homo erectus abbia fronteggiato la
caccia d’animali di grossa taglia, compresi quelli a loro volta predatori, in
assenza d’una tecnologia superiore agli strumenti di cui dispone, come detto,
bastoni appuntiti e bifacciali; per comprendere il perché di questa corsa di
persistenza, ossia d’una corsa sulle lunghe distanze a velocità moderata in
presenza di una notevole insolazione, occorre, infatti, valutare i modi con Homo erectus ha potuto entrare in possesso
della carne; oltre al già citato scavenging,
migliorato con le opportunità della corsa di persistenza, Homo erectus preda grossi animali, quali lo gnu (un erbivoro
gregario con un peso tra i 140 e i 250 kg) e il cudù (un’antilope della
sottofamiglia Tragelafini, Tragelaphus
strepsiceros, con un peso tra i 120 e i 300 kg), come mostra la
documentazione archeologica all’altezza di 1,9 milioni d’anni fa; ora, quando
un animale si sente attaccato, ha una velocità di scatto superiore a quella
dell’uomo e passa velocemente al galoppo, solo che il galoppo gli impedisce il
raffreddamento che, in alcuni quadrupedi, per assenza di ghiandole sudoripare e
per la presenza d’un manto coibentante o isolante che impedisce la circolazione
dell’aria vicino all’epidermide, avviene attraverso l’ànsito, per cui dovendo
raffreddarsi l’animale deve avere la possibilità di fermarsi per potere
ansimare (fenomeno detto di polipnèa termica), cosa che richiede un aumento nella
frequenza degli atti respiratori, con molti respiri rapidi, brevi e profondi,
ciò che permette all’aria calda di penetrare, nella cavità nasale, nella bocca
e nei polmoni, là dove, ritrovando delle superfici umide, ne provoca un’evaporazione,
tanto che l’aria immessa diventata fredda ha un effetto veloce d’abbassamento
della temperatura corporea, cioè un effetto termoregolante; Homo erectus si raffredda sempre per
evaporazione come alcuni quadrupedi, come sopra detto, ma, a differenza di loro
che mancano d’una specializzazioni per scaricare tutto il calore prodotto
durante la corsa prolungata, egli lo scarica attraverso il sudore, dove la
sudorazione non è legata ai cicli di respirazione e dove il bipedismo facilita
la variazione della frequenza
respiratoria rispetto all’andatura, per cui può, senza pericolo di vita per sé,
correre per resistenza (infatti, è capace di produrre più d’un litro di sudore
all’ora, per un massimo giornaliero di 10 l), ossia ha un’alta capacità
di dissipare i carichi di calore mentre corre, cioè può incitare l’animale al
galoppo sotto il Sole, e per un lungo lasso di tempo, impedendogli il
raffreddamento corporeo, ed è poi quest’assenza di termoregolazione che porta l’animale
a livelli di sfinimento e d’ipertermia, cioè a temperature che sono gli sono letali
e che si manifestano con un collasso, nel qual caso il cacciatore può infine
uccidere l’animale in sicurezza e con una tecnologia povera; per
approvvigionarsi di carne, Homo erectus
ha dunque solo bisogno di poter correre e marciare per lunghe distanze (che
possono avvicinarsi ai 30 km) in un habitat
parzialmente aperto e soleggiato, sapere riconoscere le tracce per raggiungere
l’animale se questo s’è nascosto per potere ansimare, dato che l’habitat è a visibilità variabile, ciò
che comporta l’alternanza di marcia e corsa, e d’avere accesso a una fonte
d’acqua potabile prima e dopo la caccia (e sono, per esempio, cacciatori di
persistenza attuali i !Kung San nell’Africa meridionale e gli aborigeni
australiani), e, per inciso, i cacciatori normalmente inseguono la preda più
grossa perché gli animali più grandi si surriscaldano più rapidamente, giacché
il calore corporeo cresce in modo proporzionale alle dimensioni del corpo,
seguendo una funzione cubica, mentre la capacità di perdere calore si manifesta
linearmente; un comportamento predatorio d’insieme, quello di Homo erectus, che richiede poi molteplici
adattamenti che sottolineano che il bipedismo, in sé e per sé, non rappresenta
per l’evoluzione del genere Homo lo
iato definitivo con le Australopitecine perché è solo con il modo di produzione
e riproduzione sociale della caccia-raccolta di ca. 2 milioni d’anni fa che lo
iato diventa definitivo, cioè dà origine alla pressione selettiva che fa del
corpo delle Australopitecine, ch’è stato bipede per ca. 4, 4 milioni d’anni, il
corpo di Homo moderno, dunque
escludendo l’ipotesi che il correre sia un semplice sottoprodotto del camminare
(questo, almeno, stando all’ipotesi dell’Endurance
running, non da tutti accettata) o, detto altrimenti, che il camminare, in
sé e per sé, non riesce a spiegare molti dei cambiamenti morfologici e
post-craniali (ossia dello scheletro, escluso il cranio) del corpo che
distinguono Homo dalle
Australopitecine, cambiamenti che hanno la prerogativa d’essere simultanei;
sopra s’è accennato al repertorio degli adattamenti, che ora s’affronteranno con
maggiore dettaglio partendo dalla differenza tra camminare e correre, per poi analizzare
in ordine sparso gli adattamenti basandoci sulle caratteristiche strutturali
rilevanti che una corsa di persistenza pone al corpo, ossia le modalità
energetiche, le forze a cui lo scheletro è assoggettato, la stabilizzazione
(ossia il bilanciamento in corsa; per la termoregolazione e la respirazione, v.
supra), il tutto nella consapevolezza
che la documentazione fossile, incompleta e limitata, complica la capacità di
verificare le ipotesi evolutive riguardanti molti modificazioni strutturali
(per
esempio, non s’ha nessun esemplare di esemplare intero d’un piede dei primi
generi di Homo, il tendine d’Achille
non lascia chiara evidenze scheletriche rendendo incerta la prima apparizione
d’un lungo tendine etc.); sopra s’è
analizzato il camminare e s’è visto che questo implica d’alzare il centro di
massa nella prima metà del passo per poi abbassarlo nella seconda metà (v., supra, fig. n. ), ora nel correre il
funzionamento è altro, come mostra la figura seguente:
Figura
n. . Fonte (modificata): Lieberman, 2014, p. 47.
Si noterà, osservandola, che nel correre la gamba
agisce in modo simile a una molla, con i muscoli e i tendini (una struttura
connettivale fibrosa, la cui funzione è quella di fissare l’estremità d’un
muscolo sul segmento osseo) che s’allungano quando il centro di massa s’abbassa
nella prima metà del passo (movimento che a lato è rappresentato da una linea
seghettata che s’abbassa), per poi rinculare e spingere il corpo verso l’alto
nella seconda metà del passo, fino a compiere il salto; infatti, quando durante
la corsa il piede tocca il suolo, le anche, le ginocchia e le caviglie si
flettono e il centro di massa abbassandosi allunga molti dei muscoli e dei
tendini delle gambe, e nell’allungarsi questi muscoli e tendini raccolgono e
conservano energia elastica (potenziale) in quanto ricchi di collagene, energia
potenziale
di tensione memorizzata che si converte in energia cinetica (di movimento)
quando muscoli e tendini la rilasciano arretrando nella seconda metà del
movimento, accumulo/rilascio d’energia ch’è quello che caratterizza la
meccanica della molla, ed è questa meccanica che propriamente permette il rimbalzo
e la propulsione durante la corsa (il correre, pertanto, presenta un movimento
opposto a quello del camminare, in cui il centro di massa, come detto, s’alza
durante la prima parte di ciascun passo); la figura seguente mostra
graficamente la differenza cinematica tra il camminare (a sinistra) e il
correre (a destra):
Figura
n. . Fonte (modificata): Bramble e Lieberman, 2004, p. 346.
Ed è
stato poi stimato che la corsa, poiché conserva e rilascia energia in modo
efficace, richiede un costo calorico che varia soltanto dal 30 al 50% d’energia
in più rispetto alla camminata sostenuta alla velocità di massima autonomia,
costo ch’è, esclusi gli scatti, indipendente dalla velocità sostenuta; gli
adattamenti affinché le gambe durante la corsa possano applicare la meccanica
delle molle sono nell’arco plantare e nel tendine d’Achille (detto anche calcaneare); l’arco plantare è
arrotondato e non è utilizzato quando si cammina, e le impronte e i piedi
parziali di Homo erectus mostrano che
questo arco è assimilabile a quello di Homo
sapiens, questo a differenza delle Australopitecine che hanno sì un arco
plantare, che però permette loro solo di camminare, non di correre, e un arco
plantare arrotondato permette d’abbattere i costi energetici di ca. il 17%
(cioè il ritorno dell’energia generata durante ogni fase d’appoggio); il
tendine d’Achille, che collega i muscoli del polpaccio alla faccia anteriore
del calcagno del piede, è poi spesso e lungo più di 10 cm in Homo sapiens, e nelle Australopitecine
il punto del suo inserimento nel calcagno suggerisce che il loro tendine fosse
più corto (com’è più corto di 1 cm quello di scimpanzé e gorilla), per cui
s’ipotizza che si siano allungati per la prima volta nel genere Homo, e quest’allungamento è dovuto al
fatto che, durante la corsa, si presenta l’azione combinata di due forze, la
prima esercitata dal peso del corpo sul piede, la seconda dalla contrazione dei
muscoli del polpaccio, tanto che, quando il tendine retrocede, si determina l’estensione
dei flessori plantari del piede, mentre il muscolo ancora contratto spinge in
avanti la gamba e si stima che un tendine d’Achille lungo 10 cm e oltre permetta
di conservare/rilasciare quasi il 35% dell’energia meccanica generata durante
la corsa (ma non durante la camminata); ancora, al fine di stabilizzare il
corpo durante la corsa, il grande gluteo delle Australopitecine, modesto nelle
sue dimensioni, s’è riconfigurato e modificato nel muscolo più grosso di tutto
il corpo di Homo erectus e nostro, il
grande gluteo (Gluteus maximus proprius),
un muscolo prevalentemente quiescente, con bassi livelli d’attività durante il
cammino (con il calpestio bipodalico), ma attivo per camminare su pendenze molto
ripide o su terreni molto irregolari e che, soprattutto durante la corsa, si
contrae con grande intensità, al fine d’evitare che il tronco perda di
stabilità e, sbilanciandosi, si proietti a terra, come dire che questo muscolo permette
il recupero della posizione eretta controllando la flessione del tronco e
l’oscillazione della gamba; ora, fatto salvo che le Australopitecine mostrano
una configurazione del grande gluteo intermedia quella tra degli scimpanzé e
degli esseri umani, la figura seguente mette a confronto l’anatomia del grande
gluteo di Pan troglodytes (A, B) e Homo sapiens (C, D); si noti che il
grande gluteo dello scimpanzé presenta due componenti, il gluteus maximus proprius (o porzione craniale) e il gluteus maximus ischio-femorale (ischiofemoralis; o porzione caudale, che
si contrae in collaborazione con i muscoli posteriori della coscia per
estendere l’anca durante l’arrampicarsi verticale sugli alberi, o tree-climbing), mentre gli esseri umani hanno
solo un gluteus maximus proprius che
presenta una notevole espansione d’attacco e non ha un’appendice caudale in
quanto presenta al posto del gluteus
maximus ischio-femorale il tratto ilio-tibiale (iliotibial tract), gluteo che però funziona principalmente come il gluteus maximus ischio-femorale dello
scimpanzé; le Australopitecine mantengono poi un qualche tratto di porzione
caudale utilizzabile quale estensione efficace del femore nel caso sia incluso nei
loro repertori locomotori un’attività di tree-climbing
e s’ipotizza che la restante parte della porzione caudale si sia probabilmente
espansa in una porzione craniale il cui scopo, inizialmente, è stato quello di
stabilizzare l’osso sacro, ma che, a seguire, s’è manifesta in Homo erectus come un tratto derivato ch’è
stato selezionato per il controllo della flessione del tronco durante la corsa
di persistenza (v. infra); come dire,
di là dallo scenario ipotizzato, che il gluteus
maximus proprius, in Homo sapiens,
si presenta come tratto distintivo caratterizzante il genere Homo e che questo gluteo è in ogni caso
più spesso e più grande rispetto al gluteus
maximus proprius di Pan troglodytes e
delle Australopitecine (in figura, l’asterisco indica la posizione
approssimativa degli elettrodi utilizzati nello studio che ha permesso la
ricostruzione sotto riportata):
Figura
n. . Fonte: Lieberman et alii, 2006,
p. 2144.
Per
inciso, si ricorda che i muscoli della natica di Homo sapiens sono distinti in grande, medio e piccolo gluteo e sono
muscoli sovrapposti, nel senso che il grande gluteo è il più voluminoso e
superficiale, mentre l’ultimo è il più piccolo e profondo; questi glutei, come
mostra D in figura, s’inseriscono sulla cresta iliaca, sull’osso sacro e sul
coccige e si portano poi in fuori e si dirigono in basso sull’estremità
superiore del femore (o grande trocantère); insieme, provvedono all’estensione
della coscia sul bacino e, nella stazione eretta, a fissare il bacino sulla
coscia, a ruotare e ad allontanare la coscia dalla linea mediana del corpo, da
quella ch’è la sua posizione di riposo, cioè a permettere il movimento
dell’abduzione; un altro insieme d’adattamenti, comparsi per la prima volta
negli esemplari che inaugurano il genere Homo,
riguarda i meccanismi di stabilizzazione della testa durante la corsa, corsa
che provoca sobbalzi rotatori della testa che non mantengono fisso lo sguardo e
che offuscano, se non corretti, la vista, movimenti ancora che vanno
controbilanciati; il primo problema è risolto con l’adattamento dei canali
semicircolari dell’orecchio interno, il secondo con una modificazione
strutturale che porta alla formazione del legamento nucale (e si dice formazione
perché questo legamento adattativo è assente negli scimpanzé e nelle
Australopitecine e compare solo nei primi esemplari di Homo); vediamoli in dettaglio partendo dall’adattamento dei canali
semicircolari dell’orecchio interno (presente in ciascun orecchio); l’orecchio
interno è un organo ch’è definibile come un labirinto con una componente ossea
(con cavità scavate nello spessore dell’osso temporale, v. supra) e una componente membranosa di canali a spirale pieni d’un liquido
(l’endolinfa) il cui scopo è quello di permettere le funzioni uditive e
d’equilibrio (presenti in aree contrapposte); tralasciando le funzioni uditive (gestite
dall’area della còclea, che si trova nel labirinto anteriore), nell’area dell’organo
di senso statico, cioè d’equilibrio e di movimento, che si trova nel labirinto
posteriore (o vestibolare) dell’orecchio interno, le funzioni d’equilibrio sono
permesse dall’apparato vestibolare, ch’è dato da due organi recettori (il sacculo
e l’utricolo), che controllano le inclinazioni del capo, e da tre canali
semicircolari che permettono l’equilibrio dinamico che s’attua con il mantenimento
d’una posizione del corpo, soprattutto la testa, in risposta a un’accelerazione
o decelerazione rotatoria; la figura seguente mostra le strutture dell’orecchio
interno sopra citate:
Figura n. .
Fonte (modificata): Tortora e Derrickson, 2011, p. 633.
Quello
che ora c’interessa sono questi tre canali semicircolari, che essendo tra loro
perpendicolari, sono orientati secondo i tre assi dello spazio (i due verticali
sono i canali semicircolari anteriore e posteriore, mentre quello orizzontale è
il canale semicircolare laterale) e sono
pertanto in grado di rilevare, come detto, le accelerazioni o decelerazioni
rotatorie del corpo, ma soprattutto della testa, al fine di stabilire i
movimenti di risposta tra l’equilibrio dinamico della testa e la
stabilizzazione (o fissità) dello sguardo; a questo proposito, si deve sapere
che ogni canale semicircolare presenta un’estremità allargata, detta ampolla,
che contiene una formazione di cellule ciliate, detta cresta ampollare, le cui
ciglia s’estendono in una formazione gelatinosa, detta cupola, ed è quando la
testa si muove che l’endolinfa del canale, che si muove per inerzia con un
certo ritardo, vortica intorno alla cupola e la piega stimolando le cellule
ciliate della cresta, cellule che, grazie a questo vortice, inviano poi attraverso
il nervo ampollare e altre terminazioni i segnali nervosi al cervello ch’implementa
così le risposte motorie per la stabilizzazione; le figure seguenti illustrano
quanto s’è cercato di descrivere:
Figura n. .
Fonte: Tortora e Derrickson, 2011, p. 630.
Figura n. .
Fonte: Tortora e Derrickson, 2011, p. 631.
Ora,
questo processo che mette in moto i riflessi di stabilizzazione del collo e
degli occhi è calibrato con una grandezza dei canali ch’è pari all’intensità
delle caratteristiche cinematiche messe in essere con la locomozione (come dire
che la sensibilità del recettore dipende dalla grandezza), tanto che gli
animali veloci tendono ad avere canali semicircolari più grandi rispetto ad
animali più lenti, e visto che il labirinto posteriore osseo si conserva nei
fossili, è possibile affermare che in Homo
erectus, come mostrano le evidenze paleontologiche, questi canali si sono
evoluti per essere molto più grandi, relativamente alle dimensioni corporee,
rispetto a quelli degli scimpanzé e alle Australopitecine (le dimensioni dei
cui canali sono fra loro equiparabili) e, data la relazione stabilita tra le
dimensioni dei canali e il comportamento motorio, si può sostenere che
quest’ingrandimento è specificamente adattativo alla corsa di persistenza; per
quanto riguarda il legamento nucale, utile, come detto, per controbilanciare in
modo efficace i movimenti della testa stabilizzandola in opposizione allo
spostamento inerziale in avanti causato dalla corsa, esso non è altro che una formazione
fibrosa, ricca di fibre elastiche, che dalla protuberanza occipitale esterna
del cranio, s’estende fino alla settima vertebra cervicale (la vertebra prominente
posta alla fine della curva cervicale, appena prima della curva toracica), inserendosi
in pari tempo sui processi spinosi delle altre vertebre cervicali, in combinazione
con la porzione cleidocranica del trapezio che collega la massa di ciascun
braccio alla parte posteriore della testa nel piano sagittale mediano (la
porzione cleidocranica è poi la parte muscolare che collega il cranio alla
clavicola, o, meglio, che collega il cingolo scapolare, formato dalla scapola e
dalla clavicola, con l’occipite); ora, quando la testa è sollevata, questo
legamento mantiene la curvatura cervicale con poco sforzo muscolare, quando
invece il piede tocca il suolo, la spalla e il braccio di quel lato del corpo
tendono a cadere nel mentre la testa si muove in avanti e, in quanto il
legamento nucale lega il retro della testa al braccio, ecco che il braccio che
s’abbassa, grazie all’elasticità del legamento, spinge indietro la testa e le
permette di ritornare in posizione eretta, cioè in posizione stabile; la figura
seguente mette a confronto i legamenti posteriori del collo in Homo sapiens e Pan troglodytes; nell’uomo sono indicati il muscolo splenio (splenius capitis, un muscolo della nuca
situato sotto il trapezio), il legamento nucale (nuchal ligament), la porzione cleidocranica (cleidocranial portion, in sigla CCT) del trapezio (trapezius, un ampio muscolo della
regione posteriore del tronco e del collo) e i romboidi (rhomboideus, muscoli legati alla scapola); è inoltre mostrato, in
fondo, il profilo di Homo sapiens con
la messa in evidenza del legamento nucale e del trapezio; nello scimpanzé sono indicati
il muscolo splenio, il trapezio, il muscolo semispinale (semispinalis capitis, un muscolo del dorso) e il muscolo atlanto-clavicolare
(atlantoclavicularis, muscolo che va
dalla prima vertebra cervicale, o atlante, alla clavicola); si noterà che, negli
esseri umani, la testa è molto meno collegata con dei muscoli al torace e al
cingolo scapolare rispetto allo scimpanzé, che l’inserimento del romboide sulla
zona dell’occipite non si presenta e che manca il muscolo atlanto-clavicolare;
inoltre, il trapezio e il muscolo semispinale sono molto ridotti:
Figura
n. . Fonte: Lieberman, 2011, p. 342.
Oltre
a questi adattamenti alla corsa, nel repertorio s’includono molte altre
caratteristiche, che probabilmente si sono evolute per la prima volta nel
genere Homo; tra queste, una vita
sottile e spalle basse e ampie che permettono che il tronco ruoti
indipendentemente dalla testa e dalle anche, questo perché durante la corsa le
gambe presentano un movimento a forbice in cui le gambe oscillano senza
appoggio, per aria (come mostra la figura seguente), ciò che crea un movimento
che, non controllato, farebbe ruotare il corpo verso destra o verso sinistra;
per ovviare a questo, si devono simultaneamente far oscillare le braccia e
ruotare il tronco in direzione opposta alle gambe, ciò che crea un movimento
uguale nella direzione opposta che annulla la rotazione del corpo, ivi compresa
la non oscillazione della testa da un lato all’altro:
Figura
n. . Fonte (modificata): Bramble e Lieberman, 2004, p. 346.
Ancora,
si presentano nei piedi gli alluci relativamente corti, che lo stabilizzano, e
nelle gambe una prevalenza di fibre muscolari che si contraggono lentamente,
ciò che, pur compromettendo la velocità, permette un maggiore risparmio
energetico, cioè maggiore resistenza, fatto che non si presenta, per esempio,
negli scimpanzé, le cui gambe presentano fibre muscolari a contrazione rapida,
che permettono sì di correre rapidamente negli scatti, ma che presentando un
maggior consumo energetico ne riducono la capacità di resistenza; infatti, nel
muscolo del polpaccio, le fibre a contrazione lenta sono pari al 60% in un uomo
e al 15-20% in uno scimpanzé, e si ritiene che anche le gambe di Homo erectus fossero per lo più costituite
da fibre a contrazione lenta; ora, molti di questi adattamenti avvantaggiano la
corsa e non influiscono su come Homo
sapiens cammina (per esempio, il grande gluteo molto sviluppato, il
legamento nucale, i grossi canali semicircolari e gli alluci relativamente
corti), mentre altri adattamenti avvantaggiano sia la corsa che la camminata
(v. tabella seguente); resta però che la presenza dei soli tratti specifici per
la corsa suggerisce che si sia presentata una forte selezione nel genere Homo in vista della caccia e della
ricerca di risorse trofiche, ciò che non ha impedito adattamenti migliorativi
anche nel camminare, fatto salvo che alcuni di questi (specialmente le gambe
lunghe e gli alluci relativamente corti) hanno fortemente compromesso l’abilità
ad arrampicarsi verticalmente sugli alberi; la figura seguente mette a
confronto con immediatezza visiva le differenze anatomiche tra Australopithecus afarensis e Homo erectus (non sono però rispettate
le altezze poichè, in realtà, Australopithecus
afarensis è decisamente più piccolo di Homo
erectus, come s’evidenzia anche nella figura a seguire):
Figura
n. , Fonte: © Laszlo Mészöly (Harvard University)
La
tabella seguente traduce le caratteristiche in figura enunciate in inglese
(partendo dall’alto):
Australopithecus afarensis
(camminatore
e arrampicatore d’alberi)
|
Homo erectus
(camminatore
e corridore di resistenza)
|
Testa
sbilanciata (muso allungato)
|
Testa
bilanciata (muso corto)
|
Spalle
alte e stette
|
Spalle
basse e larghe
|
Torace
largo
|
Torace
stretto
|
Vita
corta e larga
|
Vita
alta e stretta
|
Avanbraccio
lungo
|
Avanbraccio
corto
|
Piccolo
muscolo gluteo (non mostrato)
|
Grande
muscolo gluteo (non mostrato)
|
Collo
del femore lungo
|
Collo
del femore corto
|
Piccole
[1] articolazioni dell’anca, del ginocchio e della caviglia
|
Grosse
[2] articolazioni dell’anca, del ginocchio e della caviglia
|
Tendine
d’Achille corto
|
Tendine
d’Achille lungo
|
Piccolo
osso del calcagno
|
Grande
osso del calcagno
|
Dita
lunghe
|
Dita
corte
|
Arco
plantare debole
|
Arco
plantare stabilizzabile
|
[1] O deboli.
[2] O forti.
Tabella
n. .
Per
entrare poi nel dettaglio, la tabella seguente mostra l’elenco completo di
questi adattamenti, cioè i 26 tratti distintivi legati alla sopra citata corsa
di persistenza, cioè quei tratti legati alla possibilità di potere predare
grossi animali in un nuovo contesto produttivo pari alla riproduzione sociale
dello stile di vita di caccia e raccolta:
TRATTI
DISTINTIVI
|
NUMERO
[1]
|
RUOLO
FUNZIONALE
|
R [2]
|
R>W
[3]
|
PRIMA
PROVA NELLA DOCUMENTAZIONE FOSSILE
|
Canali semicircolari posteriore e
anteriori allargati
|
Stabilizzazione della testa e del
corpo
|
R
|
Homo
erectus
|
||
Sviluppo della circolazione venosa
del neurocranio [4]
|
Termoregolazione
|
R>W
|
Homo
erectus
|
||
Testa più bilanciata
|
Stabilizzazione della testa
|
R
|
Homo
habilis
|
||
Legamento nucale
|
1
|
Stabilizzazione della testa
|
R
|
Homo
habilis
|
|
Muso corto
|
2
|
Stabilizzazione della testa
|
R>W
|
Homo
habilis
|
|
Forma del corpo alta e stretta
|
Termoregolazione
|
R>W
|
Homo
erectus
|
||
Testa e cingoli scapolari [5]
disaccoppiati
|
3
|
Contro-rotazione del tronco in
opposizione alla testa
|
R
|
Homo
erectus?
|
|
Spalle [6] basse e
larghe
|
4
|
Contro-rotazione del tronco in
opposizione ai fianchi
|
R
|
Homo
erectus?
|
|
Accorciamento dell’avambraccio
|
5
|
Contro-rotazione del tronco
|
Homo
erectus
|
||
Torace stretto
|
6
|
Contro-rotazione del tronco in
opposizione ai fianchi
|
R
|
Homo
erectus?
|
|
Vita alta e stretta tra la cresta
iliaca e la cassa toracica
|
7
|
Contro-rotazione del tronco in
opposizione ai fianchi
|
R
|
Homo
erectus?
|
|
Bacino stretto
|
8
|
Contro-rotazione del tronco in
opposizione ai fianchi;
riduzione dello stress
|
R
|
R>W
|
Homo?
|
Ampliamento della superficie della
parte centrale lombare
|
9
|
Riduzione dello stress
|
R>W
|
Homo
erectus
|
|
Allargamento del pilastro iliaco [7]
|
10
|
Riduzione dello stress
|
R>W
|
Homo
erectus
|
|
Stabilizzazione del giunto sacro-iliaco
[8]
|
Stabilizzazione del tronco
|
R
|
Homo
erectus
|
||
Ampliamento della superfice d’attacco
dei muscoli erettori spinali [9]
|
11
|
Stabilizzazione del tronco
|
R
|
Homo
erectus
|
|
Ampliamento della superfice d’attacco
del muscolo grande gluteo
|
12
|
Stabilizzazione del tronco
|
R
|
Homo
erectus
|
|
Gambe lunghe
|
13
|
Lunghezza del passo
|
R, W [10]
|
Homo erectus
|
|
Ingrandimento della superficie
articolare (anca, ginocchio, caviglie) dell’arto inferiore
|
14
|
Riduzione dello stress
|
R>W
|
Homo
erectus
|
|
Breve collo del femore
|
15
|
Riduzione dello stress
|
R>W
|
Homo
sapiens
|
|
Lungo tendine di Achille
|
16
|
Accumulo di energia; assorbimento
degli urti
|
R
R
|
Homo?
|
|
Arco plantare (stabilizzato
passivamente)
|
17
|
Accumulo di energia; assorbimento
degli urti;
grande forza di movimento della
flessione plantare
|
R
|
R>W
R>W
|
Homo?
|
Allargamento parte sporgente del
calcagno [11]
|
18
|
Riduzione dello stress
|
R>W
|
Homo?
|
|
Estensione congiunta dell’articolazione
calcaneo-cuboidea [12]
|
Accumulo d’energia;
stabilità durante la flessione
plantare
|
R
|
R>W
|
Homo
habilis
(OH 8) [13]
|
|
Alluce permanentemente addotto [14]
|
19
|
Stabilità durante la flessione
plantare
|
R>W
|
Homo
habilis
(OH 8)
|
|
Dita dei piedi corte
|
20
|
Stabilità durante la flessione
plantare;
riduzione di massa distale
|
R>W
R>W
|
Homo
habilis
(OH 8)
|
[1] Il numero rimanda alla figura n. che segue la tabella.
[2] R indica i tratti
che migliorano le prestazioni della corsa di persistenza.
[3] R>W indica che le
caratteristiche sono di beneficio sia a piedi che durante la corsa di
persistenza (ER), ma che il loro effetto maggiore si verifica nella corsa di
persistenza (ER).
[4] Il neurocranio, in contrapposizione allo
splancnocranio, è la parte del cranio che racchiude l’encefalo e gli organi sensoriali
(naso, occhi, orecchi).
[5] Il cingolo
scapolare, che si trova a ogni lato del corpo (o cintura pettorale), è, come
sopra detto, formato dalla scapola e dalle clavicola, e il suo ruolo è di servire
di sostegno agli arti anteriori allo scheletro (a volte, al posto di cingolo, si
trovano i termini cinto o cintura).
[6] La spalla è un’impalcatura
di sostegno (o cintura scapolare), costituita da tre ossa (testa omerale,
scapola, clavicola), che permette all’arto
superiore
d’articolarsi al tronco.
[7] Il pilastro iliaco
è una formazione ossea a forma di colonna, con funzione di sostegno contro le
forze generate dai muscoli abduttori dell’anca,
cioè
da quei muscoli che facilitano l’allontanamento dell’arto dall’asse mediano del
corpo.
[8] I giunti
sacro-iliaci sono quelli che permettono l’incastro tra le parti (di sinistra e
di destra sull’asse mediano del corpo) dell’ileo del bacino
con
l’osso sacro (la parte più bassa della spina dorsale sopra il coccige).
[9]
I
muscoli erettori spinali sono muscoli che estendono la colonna vertebrale facilitando
la postura eretta.
[10] W indica i tratti
che migliorano le prestazioni della resistenza a piedi.
[11]
Il
calcagno è un osso di forma irregolarmente cubica che offre, posteriormente, il
punto di inserzione al tendine di Achille.
[12] L’osso cuboide si
trova nella parte posteriore esterna del piede, anteriormente al calcagno e l’articolazione
tra le due ossa (o calcaneo-cuboidea)
è
una delle due che costituiscono l’articolazione trasversa della parte
posteriore del piede (o tarso).
[13] OH 8 è il codice
attribuito a una forma fossile di un piede di Homo habilis.
[14] Addotto significa
ch’è avvicinato alla linea mediana della mano in posizione di riposo.
Tabella
n. . Fonte (modificata): Bramble e
Lieberman, 2004, p. 348.
Nella
figura che segue a, c, rappresentano la visione anteriore e posteriore di Homo sapiens;
b,
d, rappresentano la visione anteriore e posteriore di uno scimpanzé; i muscoli etichettati
in b, d, collegano la testa e il collo alla cintura pettorale e, negli esseri
umani, sono ridotti o assenti (sono segnalati il trapezio, i romboidi, e il
muscolo atlanto-clavicolare, come detto, muscolo assente nell’uomo); e, rappresenta
la ricostruzione di Homo erectus (altri
dice Homo ergaster) basata
principalmente su KNM-WT 15000, nome in codice di un fossile di sesso maschile
ritrovato presso il lago Turkana, in Kenia, a cui mancano alcune parti dello
scheletro (è completo al 40%); f, rappresenta la ricostruzione d’uno scheletro
parziale di Australopithecus afarensis
basata principalmente su AL-288, nome in codice di un fossile di sesso
femminile ritrovato nel sito di Hadar, in Etiopia:
Figura
n. . Fonte: Bramble e Lieberman, 2004,
p. 349.
Tra gli
altri vantaggi, il bipedismo perfezionato con la corsa, libera poi le braccia e
le mani dal ruolo primario che avevano nella locomozione (la sopra citata
emancipazione da uno stile di vita arboricolo), e le libera per altri ruoli,
per altre attività sempre legate a una maggiore possibilità d’avere cibo d’alta
qualità nutritiva, attività che rimandano alla pratica del lancio d’oggetti (in
seguito manufatti) e all’utilizzazione di strumenti litici; il gesto di
lanciare intenzionalmente un oggetto è
proprio anche agli scimpanzé (che, per esempio, lanciano rami, sassi e feci),
ma in questa pratica essi non raggiungono la combinazione di velocità e
accuratezza propria al genere Homo,
questo perché gli scimpanzé lanciano l’oggetto tenendo il braccio disteso e il
gomito diritto, cioè generando la forza solo con il movimento della spalla, nei
fatti usando solo la parte superiore del corpo e con questa tecnica (imposta
dalla loro anatomia) possono al massimo arrivare a lanciare un oggetto a 30-35
km/h e senza accuratezza di tiro, mentre nell’uomo l’esercizio del lancio
coinvolge un susseguirsi d’azioni, una geometria del movimento che investe
tutto il corpo con la rapida attivazione sequenziale di molti muscoli (a
partire dalle gambe e progredendo attraverso i fianchi, tronco, spalla, gomito
e polso), con un lancio che può arrivare a velocità che rasentano i 160-180 km/h;
la figura seguente mostra come gli esseri umani (a sinistra) e scimpanzé (a
destra) si differenzino, a causa d’una diversa modalità d’orientamento della
spalla, per l’abduzione di braccio e la flessione del gomito durante il lancio:
Figura
n. . Fonte (modificata): Roach et alii, 2013, p. 484.
La
figura seguente (dove a sinistra è l’uomo e a destra lo scimpanzé) mostra,
ancora, come l’anatomia della spalla dello scimpanzé sia diversa da quella dell’uomo,
perché nello scimpanzé la spalla è più alta rispetto al tronco e più chiusa
verso l’esterno, al contrario dell’uomo dove la spalla è più bassa rispetto al
tronco e più aperta verso l’esterno, tanto che le differenze d’orientamento
della spalla alterano la principale linea di azione del muscolo grande
pettorale (Pectoralis major)
influendo pesantemente sull’attività di lancio:
Figura
n. . Fonte (modificata): Roach et alii, 2013, p. 484.
Il
tutto di questa geometria del movimento nell’uomo si ha a partire dalla posizione
d’armamento, o di caricamento, che situa le gambe a forbice (con l’adesione d’un
piede al terreno), ruota il tronco di lato e fa eseguire alla spalla una
rotazione esterna, seguita da una flessione della spalla stessa e del gomito,
cioè ponendo il braccio piegato dietro il resto del corpo; dopo di che, nella
fase d’accelerazione, il corpo inizia ad accumulare energia elastica ruotando
la vita e poi il tronco e poi, ancora, ruotando internamente la spalla dietro
la testa e flettendola, ciò che provoca nel braccio un’estensione del gomito e
del polso, insomma una torsione che produce movimenti in avanti nella spalla,
nel gomito e infine nel polso, ed è nella spalla che avviene l’accumulo di quest’energia
elastica (infatti, nella fase d’armamento, i muscoli, i tendini e i legamenti
del braccio ruotando dietro il resto del corpo si tendono e s’allungano
accumulando energia elastica che si carica e conserva, appunto, nella spalla),
ciò che si traduce in energia cinetica nel rilascio dell’oggetto ch’è scagliato,
con un’accuratezza senza pari e, come detto, con un’elevata velocità; la figura
seguente (dove l’oggetto di lancio rimanda a una tecnologia più evoluta di
quella litica) mostra quanto sopra s’è cercato d’illustrare:
ARMAMENTO
DEL BRACCIO
|
FASE
D’ACCELERAZIONE
|
|
FINE
DEL PASSO
|
MASSIMA
ROTAZIONE ESTERNA
|
RILASCIO
|
ROTAZIONE
DEL BUSTO
|
ROTAZIONE
DEL BUSTO
|
|
ROTAZIONE
ESTERNA DELLA SPALLA
|
ROTAZIONE
INTERNA DELLA SPALLA
|
|
ESTENSIONE
DELLA SPALLA
|
FLESSIONE
DELLA SPALLA
|
|
FLESSIONE DEL GOMITO
|
ESTENSIONE
DEL GOMITO
|
|
ESTENSIONE DEL POLSO
|
Figura
n. . Fonte (modificata): Roach et alii,
2013, p. 484.
Questo
schema motorio d’amplificazione della potenza richiede (oltre all’allenamento)
anche un’anatomia appropriata, di cui alcune parti si sono evolute con le
Australopitecine, ma la cui anatomia d’insieme compare con Homo erectus, cioè gambe lunghe, fianchi mobili che disaccoppino
fianchi e torace permettendo una maggiore rotazione del tronco, spalle basse e
ampie che permettano la contro-rotazione in opposizione ai fianchi,
un’articolazione della spalla orientata lateralmente anziché in verticale, un
polso molto estensibile e una bassa torsione dell’omero (la torsione omerale è
data dall’angolo tra la testa omerale, in articolazione con la cavità della scapola,
e l’orientamento dell’asse del gomito; normalmente l’omero ha una torsione che
fa sì che l’articolazione del gomito sia piegata verso l’interno, ma riuscire
con l’allenamento a rendere minore questa torsione permette di piegare maggiormente
all’indietro il braccio e, data questa retroversione della testa omerale,
favorire un maggiore stoccaggio d’energia elastica, dunque una maggiore
velocità dell’oggetto lanciato); da sottolineare che, anche se alcune di queste
caratteristiche sono probabilmente state selezionate per funzioni diverse dal
lancio, la loro configurazione combinata presente per la prima volta in Homo erectus (e a seguire da uno schema
motorio innato in tutto il genere Homo), come sopra detto, produce dei benefici
specifici nelle prestazioni motorie necessarie al gesto di lanciare, dunque consentendo,
come visto, uno stoccaggio d’energia elastica nella spalla; ora, la capacità d’utilizzare
un oggetto lanciato (di tipo litico, ai primordi tecnologici) può avere di
fatto fornito un significativo vantaggio evolutivo come può mostrare, per
esempio, il lancio di sassi (specie se in gruppo) che potrebbe essere stato una
componente nei comportamenti di scavenging,
cioè una specie di lapidazione per tentare d’allontanare i predatori che hanno accesso
alla carcassa ambita, oppure il lancio di sassi potrebbe uccidere una piccola
preda o ferire un animale di grossa taglia, ciò che renderebbe più facile il
tenerne traccia durante la caccia di persistenza, o d’ucciderlo se nonostante
il collasso la preda manifestasse ancora pericolosità o imprevedibilità di
comportamento, e questa capacità d’allontanare, d’uccidere o di seguire a
distanza un animale fornirebbe anche una spazio vitale di distanza tra i
cacciatori e la preda pericolosa, spazio utile ai fini della sopravvivenza del
gruppo, cui s’aggiunga una flessibilità nei comportamenti predatori e un
potenziale vantaggio nella fitness di
quella particolare comunità di cacciatori-raccoglitori; l’altro ruolo liberato
dal bipedismo perfezionato con la corsa riguarda solo le mani usate per
fabbricare e usare strumenti, e s’è pur vero che gli scimpanzé fanno uso di
strumenti, per esempio, d’un sasso per spaccare i gusci o di bastoncini
modificati per catturare le termiti, resta che la capacità umana di fabbricare con
le mani strumenti con intenzionalità progettuale, cioè strumenti d’uso aventi
uno scopo, è decisamente più avanzata, e anche se l’area coinvolta in cui scimpanzé e Homo erectus usano strumenti è quella del miglioramento in qualità dell’alimentazione,
è l’anatomia della mano che decide in modo definitivo della nostra dipendenza
dagli strumenti, specialmente a partire dall’evoluzione del sistema di caccia e
raccolta; infatti, mentre gli scimpanzé usano la mano per una presa di potenza,
questo ricorrendo alle dita per stringere l’oggetto sul palmo, essi sono
incapaci d’una presa di precisione in quanto se prendono un oggetto piccolo,
per esempio, un seme, lo fanno usando un lato del pollice e quello dell’indice,
ma non sono in grado di farlo come l’uomo la cui mano è in grado di tenere un
oggetto piccolo tra il lato del pollice e la punta d’un dito opposto (e quindi
d’usare la presa di precisione, oltre a quella di forza, cioè le prese che sono
alla base di tutte le attività di prensione), mani che, in questo modo, sono
utilizzabili per tutte le attività che la presa di precisione può favorire; la
figura seguente mostra una mano destra in norma palmare di uno scimpanzé (a) e
d’un essere umano (b); si noti che nello scimpanzé il pollice molto corto non
consente al polpastrello di toccare quelli delle altre dita e quindi di
esprimere la presa di precisione, tipica, come detto, del solo uomo (b);
l’uomo, infatti, che ha pollici relativamente lunghi e dita corte, può toccare
col polpastrello del pollice tutti gli altri polpastrelli della mano (cioè ha
il pollice opponibile), ed è questo che gli permette, appunto, la citata presa:
Figura n. . Fonte: Biondi e Rickards, 2012, p. 15.
Questa
figura mostra anche come le dita dello scimpanzé (a) siano incurvate e lunghe
(1), ossia impossibilitate alla presa di precisione, al contrario (2) di quelle
dell’uomo (b), che ha anche muscoli del pollice forti (ipertrofia) e ossa delle
dita robuste e con grosse articolazioni (utili per tollerare le elevate
sollecitazioni che sono comuni durante l’uso di utensili):
Figura n. . Fonte (modificata): Biondi e Rickards,
2012, p. 15.
Le
mani dell’uomo, qui Homo erectus,
presentano quindi la combinazione di forza e precisione, e questo è importante
per i primi cacciatori-raccoglitori, per esempio, la presa di forza è
necessaria per colpire le pietre una contro l’altra mentre si fabbrica un utensile,
mentre la presa di precisione, sempre per esempio, serve per tenere in mano
schegge di pietra mentre si toglie la pelle e si scarnifica una carcassa o,
ancora, si lancia un oggetto; come dire che nelle società di caccia e raccolta
gli strumenti fabbricati con le mani servono per scavare alla ricerca di
piante, per cacciare e macellare gli animali e per preparare il cibo per
migliorarne la digeribilità e aumentarne l’apporto calorico in modo
significativo; ed è poi questa pratica di preparare il cibo, per esempio
intenerendo un tubero o sminuzzando la carne, v. supra, che ha consentito a Homo
erectus d’avere muscoli masticatori e denti più piccoli, per esempio, rispetto
alle Australopitecine i molari rimpiccioliscono del 25%, fin quasi alla
dimensione dei molari dell’uomo anatomicamente moderno, e sono queste riduzioni
dovute all’uso di strumenti per preparare il cibo che in parte consentono alla
selezione d’accorciare la parte più bassa del volto e d’avere una faccia senza
muso; ancora, il sistema di caccia e raccolta ha radicalmente modificato il
rapporto tra il cervello e l’apparato digestivo, e per comprendere appieno
perché il sistema di caccia e raccolta sono forse utili alcune informazioni
preliminari, anzi tutto che il cervello e l’apparato digestivo sono organi che
presentano tessuti costosi in termini energetici, sia per la crescita che per
il mantenimento, in quanto consumano all’incirca la stessa energia per unità di
massa, ca. il 15% del metabolismo del corpo, richiedono quantità simili di sangue
per trasportare ossigeno ed elementi nutritivi e per eliminare gli scarti; inoltre,
il cervello e l’apparato digestivo vuoto hanno dimensioni simile e pesano
entrambi poco più d’un chilo e nella maggior parte dei mammiferi con massa
corporea paragonabile alla nostra, il cervello è ca. 1/5 di quello umano e
l’intestino è grande il doppio (da ricordare, infine, che l’apparato digestivo presenta un’innervazione
pari a 100 milioni di nervi, più del numero di nervi della colonna vertebrale o
dell’intero sistema nervoso periferico, cioè è il solo organo a contenere un
sistema nervoso intrinseco in grado d’essere autonomo dal cervello o dal
midollo spinale nel mediare i riflessi, ed è per questo chiamato il secondo
cervello); premesso che la dimensione del tratto gastrointestinale dipende sia dalle
dimensioni del corpo che dalla qualità della dieta, qualità che fa sì che gli
organismi che si nutrono di piante hanno bisogno d’una digestione più elaborata
e pertanto hanno un tratto gastrointestinale più lungo, mentre i carnivori,
richiedendo una digestione meno elaborata, presentano un tratto
gastrointestinale più corto; per esempio, è stato affermato, sulla base di una
ricostruzione della regione addominale dello scheletro delle Australopitecine,
che il loro intestino è più lungo di quello del genere Homo perché queste ricorrono a un’alimentazione prevalentemente vegetale,
mentre Homo erectus, che ha una
regione addominale meno capiente, ha un intestino più corto perché ricorre anche
alla carnivoria; la figura seguente mostra i tronchi di Australopithecus afarensis (a sinistra)
e di un essere umano (a destra), dove si nota che la gabbia toracica, rispetto
a Australopithecus afarensis, è molto
meno prominente e capiente:
Figura n.
. Fonte (modificata): Aiello e Wheeler, 1995, p. 210.
Premesso
questo s’osserva che quest’inedito asse cervello/apparato digestivo si
manifesta come il prodotto finale d’una profonda dislocazione energetica che ha
origine con i primi cacciatori-raccoglitori, là dove è presente un’alimentazione
di più alta qualità ch’incorpora nella dieta gli amidi e la carne e include anche
una preparazione del cibo che ne migliora la digeribilità e l’assorbimento dei
nutrienti e ne aumenta l’apporto calorico, una specie d’esternalizzazione della
digestione (resa in seguito più tecnologica con la cottura) per aumentare l’apporto
energetico; asse che ha poi permesso, quale forma di bilanciamento o di compromesso,
che si crei una sinergia di coevoluzione grazie alla quale l’inferiore energia
richiesta per la digestione in un tratto gastrointestinale accorciato è stata
sfruttata dal punto di vista evolutivo per fare diminuire via via gli intestini
e far crescere via via il cervello soddisfacendone sempre le maggiori richieste
energetiche, o, detto altrimenti, che il costo dell’encefalizzazione è stato compensato
da una riduzione delle dimensioni d’un organo costoso, in termini metabolici,
quale l’apparato digerente (nel corpo umano gli organi costosi sono il fegato, il
cervello, il tratto gastrointestinale, il cuore e i reni; insieme questi organi
costituiscono poco meno del 7% della massa totale del corpo, ma rappresentano all’incirca
il 70% del metabolismo basale totale del corpo, e da solo il cervello, ch’è
pari al 2% del peso corporeo, è responsabile del 20% della spesa energetica
negli adulti, e d’oltre il 60% in un neonato; là dove il metabolismo basale è
poi determinato in condizioni standard
di riposo; per inciso, la scelta di riduzione cade poi sul tratto gastrointestinale
poiché il cuore non può ridursi in quanto deve garantire la sua funzione, cioè pompare
sangue in tutto il corpo, così come i reni che devono potere produrre urina con
una concentrazione massima prima d’espellerle e così come, ancora, lo stesso
fegato il cui limite è che deve potere garantire la fornitura di glucosio
necessaria al metabolismo cerebrale, e pertanto le richieste energetiche del
cervello non possono per definizione superare la capacità del fegato di produrre
glucosio, ragion per cui tra tutti i tessuti costosi solo il cervello e il
tratto gastrointestinale presentano una latitudine significativa tale da potere
variare in dimensioni rispetto alle dimensioni generali del corpo, giacché la
dimensione dell’intestino è determinata non solo dalla dimensione complessiva
del corpo ma, come detto, anche dalla qualità dietetica e dalla digeribilità/assimilabilità
del cibo; l’assioma è dunque che una dieta d’alta qualità e digeribilità sia stata
necessaria, in prima istanza, per sbloccare l’espansione del cervello dai
vincoli metabolici preesistenti e, in seconda istanza, che questa possibilità
sia poi stata utilizzata dalla pressione evolutiva concomitante all’evolversi
delle società di caccia e raccolta, questo almeno stando all’ipotesi dei
tessuti costosi, expensive tissue hypothesis,
o ETH, non da tutti accettata); e sebbene l’intestino non si conservi nella
documentazione fossile, molti ritengono plausibile che l’aumento del cervello, che
dai 400-550 gr delle Australopitecine e dai 500-700 gr di Homo habilis è arrivato ai 600-1 000 gr in Homo erectus (con un aumento del volume cerebrale percentualmente
alto rispetto alle Australopitecine, aumento che, rapportato alle dimensioni
corporee, è all’incirca del 33%), sia corrispondente a una diminuzione di
dimensioni progressiva dell’apparato digerente, cioè un’inedita evoluzione ch’è
stata permessa dai vantaggi energetici del cibo d’alta qualità, dallo sblocco
di vincoli metabolici all’espansione del cervello e dallo stile di vita proprio
alle società di caccia e raccolta (e senza dimenticare che questi fenomeni sono
contemporanei l’aumento di dimensioni del corpo di Homo erectus e all’attenuazione del dimorfismo sessuale pari a un aumento
delle richieste energetiche, probabilmente soddisfatte queste grazie a un adattamento
che comporta un aumento dei depositi di grasso nel corpo, cioè dei tessuti
adiposi di riserva in previsione di fluttuazioni delle risorse disponibili, e
la possibilità, senza la quale l’impalcatura teorica collassa, d’avere sempre a
disposizione, fluttuanti o meno, risorse trofiche d’alta qualità); s’è detto
stile di vita delle società di caccia e raccolta, e il cervello n’è implicato
perché questo sistema richiede un’intensa collaborazione di tutti con tutti
tramite la quale potere condividere il cibo, le informazioni e altre risorse,
ciò che richiede abilità cognitive decisamente al di sopra di quelle dello
scimpanzé; fatta salva l’ipotesi dell’autodomesticazione (v. infra) che postula che prima di
diventare cooperativo il genere Homo
è diventato tollerante nei confronti dei conspecifici (ossia non aggressivo) e
che la tolleranza ha preceduto le forme di cognizione più complesse che richiedono
un cervello sofisticato (per esempio, la sola capacità di seguire le tracce
degli animali da predare richiede la messa in atto di ragionamenti raffinati,
ossia d’un ragionamento induttivo e deduttivo, dove il primo è un ragionamento
che, dall’osservazione di dati particolari, passa ad una generalizzazione, cioè
formula una congettura operativa, e il secondo un ragionamento che partendo da un
presupposto, passa ad una immediata conclusione, operativa anch’essa); e il
ragionamento sul perché della sequenza tolleranza/cognizioni
complesse/cooperazione è semplice, se pure ipotetico, dato che questo cervello sofisticato
e capace d’articolazione logica, ma dal metabolismo assai dispendioso, se non
potesse essere utilizzato al fine di far sì che più individui alla ricerca di
cibo d’alta qualità possano programmare e coordinare le loro azioni, cioè se
non servisse come organo di calcolo alla cooperazione cognitiva, ebbene la
selezione naturale non l’avrebbe implementato dopo lo sblocco dai vincoli
metabolici preesistenti, bensì ne avrebbe semplicemente preso atto senza
ricorrere a quel tipo di pressione selettiva; ora, fatta salva questa ipotesi (e
dove la dimensione del gruppo è poi importante per potere massimizzare i
benefici complessivi), specificamente, per potere cooperare sono necessarie la
tolleranza, una capacità di differire i bisogni immediati pari a una capacità d’articolazione
logica, una memoria, un linguaggio e una teoria della mente; la tolleranza
presuppone il controllo dell’aggressività, cioè il controllo delle emozioni (v.
infra), e la tolleranza serve per
instituire una base per la cooperazione (v., infra, l’esempio scimpanzé vs
Bonobo); la capacità di differire i bisogni immediati serve perché permette
d’introdurre una progettualità operativa proiettata su ciò che può ancora
avvenire e si basa su un calcolo che mette in rapporto vantaggi/svantaggi o
costi/benefici, che prima valuta ciò che offre il contesto dato e solo in
seguito decide, e questa progettualità è legata alla capacità d’articolazione
logica in quanto la rinuncia (il differimento) deve ricorrere a un ragionamento
che permetta il calcolo sopra citato, e questo può svolgersi solo in un tempo
ch’è il tempo sociale (cooperativo, coordinativo) della comunità, e banalmente
si tratta d’un differimento motivato che, se pure non produce un vantaggio
immediato, permette con buone probabilità d’averne uno maggiore in futuro; una
memoria a lungo termine, come detto, serve per ricordarsi dove e quando
ritrovare le varie risorse trofiche e per prevedere, in una mappatura del
territorio, dove potrebbe esserci del cibo (si pensa che più aree del cervello
partecipino contemporaneamente all’azione del ricordare e, anche se non è
ancora chiara né la loro localizzazione, né la natura delle tracce del ricordo,
o tracce mnesiche, che le percorrono, si sospetta che siano distribuite a rete
nel cervello e che arrivino a costituire dei circuiti neurali specializzati
nelle differenti regioni coinvolte, e s’identifica una di queste ragioni nell’ippocampo,
v. infra, una struttura cerebrale di
fatto coinvolta nei processi di memoria); il linguaggio serve per comunicare ed
è anche questo probabilmente il risultato d’una pressione evolutiva sul funzionamento
del cervello in un contesto pratico, pragmatico, dove l’obbligo
dell’interazione sociale deve essere codificato a partire da un’attività che
per tentativi e approssimazioni tenta d’accorciare quella distanza sociale che
sta tra le menti degli interlocutori (di chi comunica ciò che sta nella sua
mente e di che deve rappresentarsi, attraverso la materialità del linguaggio
che passa, ciò che ci s’immagina stia nell’altra mente, e viceversa), linguaggio
che in ogni caso deve attribuire a una materialità, gestuale o iconica o
fonica, un significato e che richiede per potere legare in modo stabile un
significante (la materialità dei gesti o dei suoni, per esempio) a un
significato la collaborazione e la negoziazione degli interlocutori all’interno
d’una collettività, attività di codificazione che dall’instabilità segnica (e
dove il segno è l’unione arbitraria, e socialmente condivisa, d’un significante
con un significato) tende via via ad una stabilità ch’è fatta propria dagli
appartenenti a quella comunità e ch’è può pertanto diventare una processualità trasmissibile
nel tempo, insomma una tecnologia che dà nome e scopo al tessuto intersoggettivo
in quanto comunicazione socialmente costruita; una teoria della mente (o mindreading), infine, serve per intuire
quello che l’altro individuo sta pensando, e probabilmente anche questa
capacità, come il linguaggio, è un adattamento evolutivo per inferire gli stati
mentali interni, nascosti, degli altri, tra cui le loro motivazioni e
intenzioni, un insieme di calcoli induttivo/deduttivi che permette in un
qualche modo di regolare il proprio e l’altrui comportamento, di negoziarlo,
ancora, in un tessuto sociale cooperativo e intersoggettivamente costruito,
codificato (per inciso, fatta salva la questione che la priorità teorica
analizzando il linguaggio la si deve collocare nel suo essere un’entità sociale,
una tecnologia, e non un’entità che prende forma autonoma in un cervello avulso
dai dati ricavati pragmaticamente dal contesto, seguiranno poi informazioni sulle
basi anatomiche, fisiologiche e neurologiche del linguaggio nel genere Homo, cioè sulla localizzazione dei
centri e delle aree del linguaggio nel cervello e sulle modalità del suo
funzionamento; il tutto nella consapevolezza che non solo l’uomo, ma anche gli
animali comunicano informazioni a chi appartiene la sua specie, questo attraverso
vari tipi di segnali, segnali chimici che investono il gusto e l’olfatto e segnali
fisici legati all’udito, al tatto e alla vista, il tutto secondo le occorrenze
imposte dall’habitat in cui vivono e
che la
complessità del linguaggio che n’emerge, innato o trasmesso culturalmente che
sia, è funzione diretta del grado di complessità dell’organizzazione sociale
della specie cooperativa presa in carico, e lo stesso per gli uomini); vedremo,
ma a seguire, che il costo della riproduzione sociale di questo modo di
produzione basato sulla caccia e sulla raccolta, in pratica la possibilità d’una
manutenzione della reciprocità e della cooperazione, ha poi un prezzo molto
alto.
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