L’estinzione
del Cretacico (al confine K/T, cioè tra il Cretacico, K, e il Terziario, T),
che è quella meglio studiata, è attribuibile a un cambiamento climatico di tipo
catastrofico che si suppone sia stato provocato o dall’impatto sulla Terra d’un
corpo celeste di non grandi dimensioni (asteroide o nucleo di cometa che sia,
di ca. 10-12 km di diametro) che, cadendo a una velocità 40 volte superiore a
quella del suono, ha creato, nell’impatto, situato dove oggi si trova la
penisola dello Yucatán, nel Golfo del Messico, il Cratere di Chicxulub, v. infra; e forse è opportuno ripetere che 1
km è poi la soglia ultima del diametro dell’oggetto collidente oltre la quale
l’impatto creerebbe, con le polveri sollevate nella stratosfera, un blocco dei
raggi solari cui sarebbe pari un calo delle temperature tale che coinvolgerebbe
in una catastrofe tutti i viventi sulla Terra, calo delle temperature detto,
come visto, inverno da impatto, e questa è la prima spiegazione; o da attività
vulcaniche anche con indice VEI superiore a 8 (v. supra) con l’immissione nella stratosfera di volumi imponenti di
diossido di zolfo (SO2) e altri gas sulfurei che, mescolati con il
vapor d’acqua formano uno strato sottile di gocce d’acido solforico, o aerosol, che cattura una parte delle
radiazioni solari e porta al raffreddamento della troposfera e della superficie
terrestre, fenomeni di vulcanismo che sono prodotti da movimenti tellurici che
preannunciano l’orogenesi del Terziario, e questa è la seconda spiegazione. La
figura seguente illustra la situazione delle terre emerse al confine K/T (la
data è in milioni d’anni, Ma; si noti ch’è segnalata anche la posizione del Cratere
di Chicxulub, dov’è avvenuto l’impatto sopra citato; v. anche infra):
Figura
n. . Fonte: Altschuler, 2005, p. 111.
La
prima ipotesi (allo stato attuale largamente accreditata, ma ancora oggetto di
discussione) è suffragata dalla scoperta, negli strati geologici Cretacico-Terziari,
d’una anomalia geochimica data dalla presenza di granuli di magnetite (v. supra), di cristalli di quarzo stressati
o quarzo da shock (cioè di cristalli
la cui struttura mostra delle fratture microscopiche che possono rimandare alle
altissime pressioni e temperature prodotte da un impatto esogeno) e dalle
tectiti, sferule vetrose di materiali fusi (silicati) proiettate ad alta
velocità al momento della collisione e che, solidificandosi nel mentre ricadono
nelle rocce, vetrificano con la forma arrotondata più o meno regolare e,
soprattutto, dal fatto che l’iridio, un elemento raro sulla crosta terrestre,
ma estremamente diffuso nell’Universo (e nel Sistema solare), si trova, nel
limite temporale K/T, in percentuali anche 500 volte superiori a misure
precedenti e successive a K/T nelle rocce argillose (come dire ch’è, se c’è un
marcatore d’un evento catastrofico esogeno, questo è l’iridio, v. supra). La figura seguente, che usa per
i milioni d’anni la scala lineare solo per il periodo K/T che c’interessa (65
milioni d’anni fa; prima e dopo la scala, infatti, è logaritmica), mostra la concentrazione
d’iridio misurata in vari campioni estratti da una sedimentazione presente
nelle vicinanze di Gubbio dove, in uno strato d’argilla di pochi centimetri, è
presente una concentrazione d’iridio ch’è sì inferiore a 10 parti per miliardo
(ppb), ma ch’è centinaia di volte più abbondante che non nei depositi sedimentari
limitrofi, come mostra l’impennata della curva segnalata dai punti in grigio, ciò
ch’indica che qui (il che non è pero solo un effetto locale, giacché quest’impennata
la si ritrova anche in molte altri parti del mondo, dove sono presenti anche
granuli di magnetite, cristalli di quarzo da shock e tectiti) la polvere meteoritica non s’è depositata a ritmo
costante, ma s’è accumulata in un tempo geologicamente breve a causa
dell’impatto sopra detto:
Figura
n. . Fonte: Altschuler, 2005, p. 45.
Ancora,
l’ipotesi è suffragata dal fatto che, come già accennato, sotto la penisola
messicana dello Yucatán, a Chicxulub, esiste un cratere esplosivo, largo tra i
180 e i 190 km, circondato da una faglia circolare del diametro di 240 km e
profondo 48 km, prodotto nello stesso periodo (65 milioni d’anni fa) da un
corpo celeste con un diametro di 10-12 km e con una massa di oltre una
tonnellata [?] che, pur vaporizzato, produce nell’impatto enormi nubi d’aerosol solfato che ricade anche per vari
anni come pioggia acida (v. supra) e di
polvere che si deposita lentamente al suolo entro un raggio di almeno 1000 km e
forma una coltre talmente densa nella troposfera che n’è schermato il passaggio
(in un’altissima percentuale) della luce solare, ciò che rende impossibile la
fotosintesi clorofilliana marina e continentale, e dunque il poter rimanere in
essere di buona parte della catena trofica sulla Terra, cui s’aggiunga il
raffreddamento globale della stessa di parecchi gradi (si calcola sui 7 °C; c’è
chi dice 15 °C, ma, in ogni caso, è garantito un inverno da impatto con una
temperatura globale vicina al punto di congelamento) che porta all’estinzione
gli organismi sensibili alle basse temperature, seguito il tutto da un violento
innalzamento delle temperature prodotte dall’effetto serra (v. infra). Nello specifico, e avendo
presente che prima dell’impatto, il clima era più caldo di quanto non sia oggi,
che le calotte polari non erano ricoperte dal ghiaccio e la varietà degli
ecosistemi variava dalle paludi alle foreste decidue, è possibile ricostruire una
fenomenologia del cataclisma al fine di mostrare come potrebbe operare una
causa dell’estinzione, questo analizzando l’area dell’impatto e l’energia
rilasciata da un asteroide del diametro di dieci chilometri, ossia lo scenario
d’una catastrofe. Si suppone che questo corpo celeste (che ha impiegato tre ore
per percorrere lo spazio tra la Luna e la Terra e 1 secondo per attraversare
l’atmosfera) , appena entrato nell’atmosfera ad una velocità di 40 000 km/h, faccia
salire la temperatura sottostante a 60 000 gradi Kelvin (pari a dieci volte la
temperatura della superficie del Sole) e vada poi a collidere con la superficie
terrestre. Nel mentre questo corpo si vaporizza all’istante, la deflagrazione sviluppa
un’energia immane (pari a 5,0 x 1023 J, valore vicino a 100 milioni
di megaton; per dare un’idea, un chiloton è un’unità d’energia pari alla
potenza sviluppata dall’esplosione di 1000 tonnellate di tritolo e un 1 MT, 1 megaton, come detto, corrisponde alla
potenza di 1 000 000 di tonnellate di
tritolo, pari a loro volta a 4,2 x 105 J; ora si pensi che Little Boy, la bomba atomica sganciata su
Hiroshima durante la seconda guerra mondiale, ha sviluppato un’energia di 16 chiloton, 16 CT, e che per produrre un
rilascio di 1 MT di Little Boy ce ne
vogliono 65, e si valuti ad occhio il corrispettivo quanti Litte Boy sono necessari per liberare un’energia di ca. 100 milioni
di megaton) e solleva qualcosa come 1000
km3 di roccia e gas surriscaldati. La prima onda d’urto s’irradia
all’esterno a una velocità enorme (tra i 7 e i 40 000 km/h; e l’avanzamento
avviene nel silenzio, questo finché lo scarto tra la velocità del suono e
quello dell’onda non è compensato) in pari tempo bombardando i suoli con i
frammenti vaganti e per un’area con un raggio di 1500 km e oltre, di là dai
quali la devastazione immediata scemerà gradualmente. Tra gli effetti
collaterali avremo l’implementazione d’altri fenomeni, tra i quali grandi
incendi e terremoti su scala planetaria, legati questi ultimi a un proliferare,
dislocato in tutti i mari, di tsunami
immani (si parla d’un’onda di partenza alta 1 km) che distruggono tutto ciò che
si può distruggere, e intense attività vulcaniche che, nel giro d’un’ora,
oscureranno poi con una coltre tutta la Terra facendo cadere per ogni dove
rocce roventi, detriti e ceneri, cioè tefra ch’impedirà praticamente l’andamento
regolare del clima e dei cicli biologici per una durata probabile e
approssimativa di centinaia o centinaia di migliaia d’anni (c’è chi stima che
il tempo di recupero degli ecosistemi dopo la loro distruzione sia pari a 10
000 anni). Si suppone, ancora, che l’impatto non abbia estinto (va da sé, al di
fuori dell’area implicata) direttamente tutte le specie viventi, né che l’abbia
fatto immediatamente, ma che l’estinzione di massa K/T sia legata agli effetti
collaterali sopra detti legati fra loro a catena. Prendiamo, per esempio, ciò
che hanno lasciato sedimentato negli strati di rocce risalenti al limite tra il
Cretacico e il Terziario gli incendi, questo in una zona vicina all’evento
posta nel bacino di Raton Basin, tra il Colorado del Sud e il Nord del New
Mexico, dove si trova uno strato d’argilla d’un centimetro ricco di una
fuliggine che per composizione corrisponde a quella del fumo di incendi
forestali (fuliggine che, secondo stime, ha ricoperto l’intera superfice
terrestre con 70 miliardi di tonnellate). Per visualizzare quest’evento, si
pensi che i detriti ricadono con una velocità quasi pari a quella di fuga dal
cratere (tra i 7000 e i 40 000 km/h) e riscaldano così fino a parecchie
centinaia di gradi un volume immenso di troposfera per un lungo periodo di
tempo e che, nel mentre ricadono al suolo, incendiano la vegetazione di un’enorme
porzione della Terra, specificamente le regioni meridionali e centrali del Nord
America, quelle centrali del Sud America e dell’Africa e, infine, vaste zone del
subcontinente indiano e dell’Asia Sud-orientale (regioni che all’epoca, come
mostra la figura n. […], sono in posizioni differenti rispetto a quelle attuali
a causa della deriva dei continenti; le regioni più colpite sono l’area di Chicxulub
e, paradossalmente, l’India, che 65 milioni d’anni fa si trova agli antipodi
dello Yucatán e, proprio per questo, è un punto focale per la ricaduta di
detriti). Si calcola che gli incendi abbiano provocato l’emissione di 10 000
miliardi di tonnellate di diossido di carbonio (CO2), 100 miliardi
di tonnellate di monossido di carbonio (CO) e 100 miliardi di tonnellate di
metano (CH4) e questo abbia provocato, a porre termine all’inverno
da impatto sopra citato, un effetto serra che ha riscaldato in modo violento la
troposfera e la superficie terrestre creando in certe aree condizioni anossiche
(come s’evince dalle tracce, nelle rocce sedimentarie del Colorado e del
Montana, delle firme chimiche e isotopiche di batteri che prosperano per la
mancanza d’ossigeno e ossidano per il loro metabolismo il metano). S’aggiunga
il fatto che gli incendi emettono anche cloro e bromo che, come sopra visto,
distruggono l’ozonosfera rendendo la biosfera non protetta dalle pericolose
radiazioni ultraviolette che alterano il DNA degli organismi probabilmente ancora
viventi nelle zone non colpite dalla discontinuità degli incendi. La figura
seguente mostra, su scala logaritmica, la relazione tra le grandezze d’un
oggetto impattante (in metri), l’energia sprigionata nell’impatto (in MT) e
l’intervallo statistico atteso tra impatti successivi (in anni; v. anche, supra, la Scala Torino); la figura
indica tre eventi impattanti (i primi due classificati come NEO, il terzo come
ELE, v. supra), quello sopra Kusaie, oggi
Kosrae, un’isola della Micronesia, nel Pacifico meridionale, del 1994 (dove un
meteorite di 10 m di diametro ha liberato 0,1 MT, un evento che,
statisticamente, capita ogni dieci anni e presenta un livello di distruzione
locale), quello sopra il fiume di Tunguska, nella Siberia occidentale, del 1908
(dove un asteroide sui 50 e passa metri di diametro libera poco più di 10 MT, un evento che capita ogni
500 anni con un livello di distruzione regionale) e quello sopra citato di
Chicxulub (dove, si ripete, un oggetto di 10-12 km di diametro ha liberato 106
MT, che capita ogni 50-100 milioni d’anni e manifesta un livello di distruzione
globale); in aggiunta, nella figura ci sono, per la comparazione, riferimenti al
sopra citato Little Boy sganciato su
Hiroshima, un evento ch’è del 1945 (e che ha liberato 16 CT) e alla bomba all’idrogeno
più potente (100 MT; i colori, nella figura originale, vanno dal giallo, a
sinistra, della distruzione locale al rosso, a destra, di quella globale; TNT
sta, come detto sopra, per tritolo):
Figura
n. . Fonte: Altschuler, 2005, p. 188.
Quella
delle attività vulcaniche, nella prima ipotesi tra gli effetti collaterali, rimanda poi
alla seconda ipotesi (presente, nonostante la persistenza accreditata della
prima) legata ai Trappi del Deccan (v. supra)
e all’iridio, ch’è stato dimostrato è presente anche nel mantello della Terra
come deposito d’un flusso d’origine esogena e primordiale, risalente al periodo
di formazione del sistema solare, che i moti convettivi hanno introiettato
all’interno della Terra (cioè d’un flusso meteoritico, come mostrano i
giacimenti siderofili di platino in cui si ritrova assieme all’osmio), là dove
si formano gli hot spots (v. supra) e che questi Traps hanno depositato nelle rocce argillose nella ricaduta del
materiale gassoso eiettato assieme al basalto che forma dei plateaux nell’arco di 500 000 anni
(tanto è durata, si suppone, la formazione del Trappi del Deccan, cosa
ch’implica flussi considerevoli di ricaduta e sedimentazione nelle rocce dell’iridio);
bisogna, infatti, sottolineare che questa provincia magmatica (o LIP, v. supra) è il risultato dell’attività d’un
hot spot al momento del passaggio
della zolla indiana durante la sua deriva verso l’Asia in corrispondenza dell’emissione
di lava d’un vulcano lineare, emissione lenta, regolare, degassata e molto
viscosa (e fatta salva l’ipotesi che il vulcanismo basaltico del Deccan è stato
sicuramente accompagnato da altre eruzioni di tipo esplosivo con VEI di grado 8
che potrebbero spiegare la presenza dei granuli di magnetite e di quarzo
stressato) che rimanda a un punto d’estrusione ch’è causa dell’estinzione di
massa alla fine del Cretacico, causa che rimanda alle enormi quantità di
diossido di carbonio (CO2) disperse nell’atmosfera che hanno causato
alterazioni climatiche e una serie di crisi biologiche; ancora, che, in quanto
estrusione, meglio è poi in grado di spiegare la presenza dell’iridio nei
sedimenti, sedimenti che rimandano a una più lunga durata d’esposizione che non
è compatibile, in questa ipotesi, con l’evento istantaneo dell’impatto. Inoltre,
gli squilibri ecologici provocati da queste eruzioni prolungate meglio
spiegherebbero anche la distribuzione nel tempo d’alcune estinzioni che
sembrano (secondo quest’ipotesi, cioè stando a una lettura partigiana dei dati)
aver avuto luogo in periodi tra loro successivi. Quale che sia poi l’ipotesi
giusta (impatto d’una meteorite o formazione dei Traps o, perché no, discutibilmente entrambe), l’iridio è sempre
presente in quantità anomale in molti depositi, così com’è certa l’estinzione
di massa del limite K/T, e senza dimenticare che quest’impatto ha aperto
nicchie ecologiche (prima impensabili) per l’evoluzione dei mammiferi, tra i
quali anche noi.
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