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COSTRUZIONE DI NICCHIA CULTURALE


 È necessario affermare, come assioma di partenza, che la dinamica della produzione della struttura del corpo umano (v. supra, Bauplan) e del funzionamento dei suoi organi e dei suoi apparati fisiologici, compreso il cervello, non è sufficiente a formare il dispositivo cervello-mente; infatti, questo dispositivo, come s’è detto sopra a proposito della GNST (Groups Neuronal Selection Theory), mostra la sua processualità (casuale, dinamica e plastica) a partire dalla vita fetale con la formazione del sistema neurale (il repertorio primario) e continua, come detto, sino alla morte, arco di vita dove si presenta l’interazione del cervello (del corpo) con l’ambiente esterno (repertorio secondario) che compartecipa via via alla costruzione d’una nicchia ecologica e culturale, fenomeno (il cui stampo è imprevedibile, cioè unico e irripetibile) ch’è dovuto a una dinamica dove le reti sociali, appoggiandosi sulle reti neuronali grazie ai fenomeni del rientro e della categorizzazione e ricategorizzazione percettiva, sono corresponsabili della transizione della mente dallo stato neonatale (coscienza primaria, propria anche ad altre specie) allo stato adulto (coscienza d’essere coscienti) dell’organismo, ciò che si traduce in un coagulo di rapporti tra loro interdipendenti che l’organismo tesse con la nicchia ecologica, con gli altri organismi della propria umana specie e d’altre specie (costruzione di nicchia culturale) e nell’eventuale successo/insuccesso di tali rapporti; ed è importante sottolineare da subito che questo strumento della nicchia culturale, ossia il dispositivo cervello-mente edificato per filogenesi dal genere Homo affinché questi possa arrivare a essere in grado di modellizzare e rimodellizzare ontogeneticamente il mondo circostante allo scopo d’essere esonerato dai limiti del qui e ora propri alla coscienza primaria, è solo uno strumento che, se pur diverso, è pari per valore (ma non per efficacia creativa/distruttiva) a quello che usano le altre specie per modificare la loro nicchia ecologica; fatta salva questa parità, bisogna sottolineare che, eseguendo un’analisi comparata dei tessuti cerebrali di alcune specie (ne sono state monitorate ca. un centinaio prima di reperire quelle pertinenti), queste presentano poi una parentela con un meccanismo che nel genere Homo s’ipotizza abbia innescato quella prosocialità interagente fra insiemi d’organismi che permette infine di costruire una nicchia culturale, cioè d’implementare delle reti sociali, e che rimanda ai neuroni di von Economo (von Economo neuron, o VEN); quest’ipotesi della prosocialità si basa, per il genere Homo, sulla scoperta di una tipologia di cellule cerebrali fusiformi (a forma di fuso, o spindle cell), cioè sottili e allungate, e a forma bipolare, con un soma che presenta un assone apicale e un dendrite all’altra estremità (dunque con una struttura dendritica semplice), cellule la cui comparsa avviene in piccolo numero nella 36a (altri dice 35a) settimana dopo il concepimento, numero che poi cresce durante i primi quattro anni di vita postnatale (con un picco attorno agli 8 mesi) e che in seguito rimane relativamente stabile durante l’età adulta, numero che si presenta poi con valori superiori nell’emisfero destro del cervello per un’asimmetria che emerge durante i primi mesi di vita postnatale; ancora, lo sviluppo di queste cellule cerebrali fusiformi durante l’infanzia potrebbe subire l’influenza di fattori ambientali, quali la assenza/presenza di stimoli, l’assenza/presenza di fattori di stress, la assenza/presenza di qualità nelle cure parentali etc., con ricadute positive o negative, durante l’età adulta, sulle competenze/incompetenze cognitive di tipo sociale (tipo riconoscimento degli errori propri e altrui e pronta risposta adattativa a condizioni mutevoli); capacità/incapacità di risoluzione dei problemi (problem-solving) che si giustappongono poi sulla capacità/incapacità dell’autocontrollo emotivo e la presenza/assenza di stabilità emotiva, ciò che porta a modificare/alterare, a livello dell’ontogenesi, le tappe dello sviluppo socioemotivo in meglio o in peggio; la figura seguente mostra una microfotografia di un neurone piramidale (a) e di un neurone di von Economo (b) colorati con il metodo di Golgi (cioè fissando i preparati con bicromato di potassio e impregnandoli con nitrato d’argento); in (b) si nota la struttura fusiforme della cellula e la presenza di un assone apicale che trasmette le informazioni ricevute dal dendrite basale (sul funzionamento dei neuroni, v. supra); la barra di scala vale per entrambe le immagini:

Figura n.   . Fonte: Watson, Jones e Allman, 2006, p. 1108.

Cellule, ancora, che sono rare e ca. 4 volte più grandi rispetto alla media degli altri neuroni e che sono stati individuate per la prima volta da von Economo (da cui il nome) nello strato V di due regioni del cervello, una chiamata corteccia cingolata anteriore (anterior cingulate cortex, ACC, v. supra) e l’altra corteccia frontoinsulare (frontoinsular cortex, FI, v. supra), come mostra la figura seguente dove a sinistra si ha la vista laterale del cervello con la corteccia frontoinsulare (FI, colore rosso) e a destra se ne ha la vista mediana con la corteccia cingolata anteriore (ACC, colore rosso):


Figura n.   . Fonte: Ibegbu, Umana, Hamman e Adamu, 2014, p. 2.

Ora, s’è scoperto che questi neuroni su cui si basa l’ipotesi sopracitata sono poi presenti nella famiglia Hominidae al suo completo, cioè in tutte le sue ramificazioni (v. supra) in generi, cioè Homo, Pan (Pan troglodytes e Pan paniscus), Gorilla (Gorilla gorilla) e Pongo (Pongo pygmaeus e Pongo abelii); i VEN sono poi più abbondanti in Homo e via via diminuiscono in densità negli altri generi con la seguente progressione: Homo (Homo sapiens) > bonobo (Pan paniscus) > scimpanzé comuni (Pan troglodytes) > gorilla (Gorilla gorilla) > oranghi (Pongo pygmaeus e Pongo abelii) e, indipendentemente dalla loro densità (ch’è storia evolutiva a seguire), tutto ciò riporta a un loro antenato comune proveniente dall’Africa settentrionale/orientale (della superfamiglia Driopitècine, Dryopithecinae) e presente all’altezza di ca. 15 milioni di anni fa, nel tardo Miocene (dunque prima della divergenza, datata grossomodo a 6 milioni d’anni fa, fra i lignaggi del genere Homo e del genere Pan, v. supra), cui bisogna però aggiungere che i VEN sono presenti, se pure in misura minore, anche nel genere Macaca, anche questo appartenente come i già citati generi al gruppo di primati delle scimmie Catarrine (Catarrhini) o scimmie del Vecchio Mondo, specificamente alla sottofamiglia Cercopithecidae (Cercopitècidi), sottofamiglia che s’è scissa dal sottordine Catarrine tra l’Oligocene e il Miocene, ca. 25 milioni d’anni fa (in ogni caso, per i neuroni di von Economo si tratta d’una recente specializzazione filogenetica, tanto che si sospetta che la vulnerabilità dei VEN nelle condizioni disfunzionali legate ai disturbi neurali propri a Homo sapiens, v. infra, sia dovuta proprio al fatto che l’evoluzione non abbia potuto plasmare il loro funzionamento e l’integrazione con altre popolazioni cellulari con il dovuto tempo); la figura seguente mostra la localizzazione della corteccia frontoinsulare (FI) e della corteccia cingolata anteriore (ACC) su sezioni coronali di cervello in Homo sapiens, in Pan paniscus (Bonobo) e in Gorilla:


Figura n.   . Fonte: Ibegbu, Umana, Hamman e Adamu, 2014, p. 2.

Questi VEN, ancora, s’è poi scoperto che sono presenti anche in elefanti (della famiglia degli Elefantidi, Elephantidae), balene (della famiglia dei Balenidi, Balaenidae), delfini (della famiglia dei Delfinidi, Delphinidae) e, in misura minore, nei procioni (della famiglia dei Procionidi, Procyonidae) e complessivamente tutti questi mammiferi fra loro filogeneticamente diversi (umani, scimmie, elefanti, balene, delfini e procioni) arrivano a suggerire che i VEN derivano da popolazioni comuni di neuroni (molto probabilmente da una popolazione di neuroni piramidali) già presenti nella corteccia prefrontale e nella corteccia cingolata anteriore di mammiferi ancestrali e evoluti più volte nel contesto di specie-specifiche pressioni adattative, come dire che il fatto che questa classe di neuroni, in quanto presente in varie specie con distribuzioni corticali simili e con numeri assoluti di VEN ragionevolmente comparabili, può essere indice dell’evidenza che i neuroni di von Economo filogeneticamente conservati possono arrivare a rappresentare, a seguito delle dette pressioni selettive fra loro comparabili, una specializzazione neurale ch’è squisitamente relativa a dimensioni del cervello molto grandi; specializzazione, a sua volta, che sarebbe pari, nelle diverse nicchie ecologiche delle citate specie, alla presenza d’una socializzazione emergente che coinvolge aspetti emozionali/cognitivi, allocati nelle suddette regioni corticali e legati alla trasmissioni d’informazioni strategiche per la sopravvivenza delle specie (ciò che fa rientrare anche queste specie, oltre al genere Homo, nell’ipotesi della prosocialità); la figura seguente mostra l’adattamento della filogenesi dei mammiferi placentati, compresi Ordini (a destra) e Superordini (a sinistra); in rosso sono indicati ordini che contengono almeno una specie i cui VEN sono stati descritti:


Figura n.   . Fonte: Butti, Santos, Uppal e Hof, 2013, p. 322.

Infatti, questi neuroni di von Economo, in quanto grandi e con un’architettura dendritica semplice e simmetrica, hanno permesso agli studiosi di congetturare che essi sono stati sviluppati per la velocità di trasmissione delle informazioni, vale a dire che hanno probabilmente il ruolo d’accelerare, in un cervello a sua volta grande, la comunicazione della corteccia cingolata anteriore e della corteccia frontoinsulare con le altre aree del cervello (cioè di avere una funzione d’interconnessione fra aree corticali e sottocorticali distanti) grazie alla loro stretta arborizzazione dendritica con collegamenti assonali che s’estendono e attraversano gli strati della corteccia (questo in base al fatto che nel sistema nervoso la dimensione dei neuroni spesso si correla con la velocità);  le informazioni che la corteccia cingolata anteriore e la corteccia frontoinsulare anteriore devono poi velocemente veicolare, in quanto neuroni di proiezione che funzionano da crocevia, o relais, fra diverse aree cerebrali, riguardano la presenza delle sensazioni che un organismo (qui del genere Homo) sperimenta, sensazioni che le due citate aree integrano e automonitorano, quali le funzioni d’una regolamentazione di base delle percezioni proprie agli stati corporei interni, per esempio, di dolore, di caldo/freddo, di fame e altro ancora (nell’ottica dell’omeostasi fisiologica), cui s’aggiungono tutti quegli  aspetti che coinvolgono la consapevolezza di sé e degli altri e i processi decisionali effettuati in condizioni d’incertezza, ciò che s’intreccia con le funzioni esecutive della corteccia prefrontale (v. infra); ciò che, ancora, include emozioni quali l’empatia, la fiducia, il senso di colpa e altro ancora, vale a dire un’intera batteria di percezioni/emozioni/cognizioni che si presentano come prosociali (e le sperimentazioni su organismi del genere Homo dicono che queste aree s’attivano per effettuare una rapida scelta intuitiva in situazioni sociali più o meno complesse, per esempio, in un’interazione a due, se si scruta con attenzione la dinamica dell’espressione facciale dell’altro per discernere e valutarne le intenzioni), tanto che si sospetta che la consapevolezza di sé (l’automonitoraggio) e la consapevolezza sociale (v. teoria della mente, supra) facciano parte d’un dispositivo cervello-mente dove le reti sociali s’appoggiano in modo epigenetico sulle reti neurali, dunque grazie a un cablaggio flessibile dei circuiti socioemotivi che potrebbe permettere la sociogenesi e di dare origine a un cervello sociale; altri esperimenti, infatti, suggeriscono che le citare aree contenenti VEN sono attivate in situazioni di monitoraggio della rete sociale cui un individuo partecipa e in cui scopre un errore sociale dovuto, per esempio, a un cambiamento di stato di uno dei partecipanti, ciò che può attivare nel soggetto valutante un ventaglio emotivo intessuto di risentimento, inganno, imbarazzo, ciò che, ancora, può dare avvio a risposte adattive all’errore rilevato; oppure possono essere attivate dall’empatia in una situazione di sofferenza da parte di un individuo compresente nella rete sociale, per esempio, quello d’una madre a fronte di grida d’un bambino in difficoltà; oppure, ancora, possono essere attivate da segnali prosociali come l’affetto e la fiducia e altro ancora; inoltre, mentre molte di queste dinamiche sono coscienti, possono esisterne anche altre di cui l’organismo agente è inconsapevole, e a questo proposito, per esempio, è stato dimostrato che quando un soggetto guarda negli occhi il suo interlocutore non è consapevole se le dimensioni delle pupille di quest’ultimo s’alterano in modo discordante con la prosocialità ch’è in essere fra i due in quel momento (cioè s’allargano in modo involontario a causa dello stress emotivo che si mette in atto per simulare una concordanza che non c’è), inconsapevolezza che, al contrario, la corteccia cingolata anteriore e l’insula anteriore del soggetto non vivono in quanto s’attivano subito all’effettuarsi della dilatazione della pupilla dell’interlocutore e subito allertano il cervello sull’incongruenza presente nel fatto sociale, cioè dell’effettuarsi probabile d’un errore comportamentale nel caso non s’intervenga (e non si dimentichi che lo stato delle pupille tra interlocutori è costantemente monitorato dalle dette regioni cerebrali, sempre e durante tutte le interazioni sociali); tutto un insieme di fatti che alla fine induce a sospettare che queste aree cerebrali siano le componenti base d’un dispositivo cervello-mente preposto al controllo flessibile dei comportamenti diretti a un obiettivo (goal-directed) che si presentano in una rete sociale, quelli in cui l’individuo partecipante alla detta rete ne valuta sia gli aspetti negativi che positivi ch’essa al momento presenta in vista della sopravvivenza sociale; e si dice sopravvivenza perché l’evidenza che i neuroni di von Economo siano, come sopra affermato, presenti in mammiferi filogeneticamente diversi come gli esseri umani, le scimmie antropomorfe, gli elefanti, le balene e i delfini, è interpretabile come risultato d’una loro evoluzione sotto pressioni evolutive specie-specifiche legate alla costruzione di nicchie culturali fra loro decisamente comparabili (ossia a una evoluzione convergente, v. supra, in cui si presenta un adattamento neurale capace di veicolare con rapidità, in aree fra loro distanti d’un cervello grande, informazioni rilevanti sul contesto sociale, volendo, alla specializzazione di circuiti neurali legati alla cognizione sociale); e a proposito della sopravvivenza in un contesto sociale, e fatto salvo che una perdita di VEN nella corteccia frontoinsulare può essere correlata con una disinibizione, mentre una perdita di VEN nella corteccia cingolata anteriore si può correlare con l’apatia, può essere indiziario della validità dell’ipotesi della prosocialità (una specie di prova indiretta) il presentarsi nella demenza frontotemporale (frontotemporal dementia, FTD), specificamente nella sua variante comportamentale (behavioral variant FTD, o bvFTD), d’un deterioramento comportamentale che, indagato, mostra che oltre il 70% dei VEN presenti risultano essere stati distrutti selettivamente (mentre i VEN restanti mostrano alterazioni importanti nella morfologia, quali soma gonfio e dendriti intrecciati), ciò che porta a un progressivo restringimento dei lobi frontali e temporali del cervello, ciò che, ancora, produce il detto deterioramento comportamentale legato a disturbi della personalità, per esempio, irritabilità, iperattività, eccessi d’ira, aggressività, inaffidabilità dei giudizi, autolesionismo, assenza completa d’empatia, indifferenza rispetto al proprio aspetto fisico, mancanza d’inibizione verbale e comportamentale (con comportamenti sessuali inappropriati e atti osceni), evitamento dei contatti sociali e altro ancora; e il tutto porta a sospettare che i neuroni di von Economo siano coinvolti nell’implementarsi d’una rete sociale, tanto che la loro assenza si traduce in una totale inconsapevolezza sociale di sé e mancanza d’autocontrollo, cioè in una completa disgregazione della precedente vita sociale della persona che subisce la demenza, il tutto, ancora, in un arco temporale relativamente breve e con un climax distruttivo dell’intero repertorio comportamentale appreso nel corso del tempo; e questo nel mentre i neuroni che sono prossimi alle aree danneggiate con deficit di cognizione sociale rimangono in gran parte inalterati mantenendo integre le aree cerebrali non coinvolte, e quale esempio di questo fatto si può avanzare la presenza intatta della memoria, che di solito rimane tale per un ampio tratto nel decorso della bvFTD; ancora, s’è notato che nella schizofrenia e nell’autismo i VEN sono coinvolti in deficit della regolazione emotiva e delle competenze sociali e nell’agenesia del corpo calloso in comportamenti sociali carenti (dovuti a un’errata interpretazione dei segnali sociali o a una impropria valutazione degli affetti, cioè a un’alessitimia; l’agenesia è poi una condizione del corpo calloso del cervello dove mancano, in modo totale o parziale, le fibre commessurali che fanno da ponte di collegamento fra l’emisfero destro e l’emisfero sinistro); detto questo, valga ora come inciso una precisazione che riguarda il ruolo specifico assunto dai VEN all’interno della corteccia cingolata anteriore, corteccia che funziona come interfaccia tra le emozioni e le cognizioni, e che trasmette i risultati delle trasformazione avvenute nella corteccia cingolata anteriore a un’area ch’è denominata corteccia frontale polare (frontopolar cortex, FPC), corteccia ch’è poi classificata come area 10 di Brodmann (A10, v. supra); ora, si suppone che questa corteccia frontale polare integri a un livello superiore i risultati di varie operazioni cognitive (fra loro distinte) che le arrivano dalla corteccia cingolata anteriore allo scopo d’implementare un obiettivo comportamentale decisamente più complesso, per esempio, una rapida pianificazione adattativa a condizioni ambientali e sociali fortemente mutevoli, come dire un’acquisizione d’opzioni legate a nuovi comportamenti; la figura seguente riporta con il colore blu, in una mappa cerebrale di Brodmann, la localizzazione dell’area 10 (si noterà ch’è una grande area che occupa la porzione anteriore del lobo frontale del cervello); la vista del cervello è poi quella laterale (lateral); si ricorda che in Homo sapiens A10 è grande, sia in assoluto che relativamente, ed è molto più piccola, anche se ben sviluppata, nei Bonobo, negli scimpanzé comuni, nei gorilla e negli oranghi (l’estensione di A10 cala grossomodo nello stesso ordine in cui diminuisce la densità del neuroni di von Economo):


Figura n.  . Fonte (modificata): Allman, Hakeem, e Watson, 2002, p. 336.

La figura seguente mostra invece, sempre in una mappa cerebrale di Brodmann, la localizzazione, colorata in arancione, della corteccia cingolata anteriore (ma v. anche supra, fig. n. ), ritaglio ch’è classificato come area 24 (A24); la mappa rilocalizza, inoltre,  anche l’area 10 per una messa a confronto delle due aree in oggetto; la vista del cervello è quella mediana (medial):


Figura n.  . Fonte (modificata): Allman, Hakeem, e Watson, 2002, p. 336.

Entrando ancora di più nel dettaglio, è stato dimostrato che la corteccia cingolata anteriore opera un continuo monitoraggio dei cambiamenti di feedback dovuti all’interazione dell’organismo con il suo ambiente, cambiamenti che ne influenzano la sopravvivenza e la riproduzione e avviano risposte comportamentali per mantenere o migliorare queste condizioni e, in questo contesto, il ruolo dei VEN è che possono essere utilizzati per trasmettere l’avvenuto riconoscimento d’una situazione problematica (per esempio, la discriminazione tra segnali contrastanti) e delle informazioni necessarie per riaggiustarla ad altre aree corticali e a strutture sottocorticali ed eventualmente aumentarne la frequenza di trasmissione, cioè che possono partecipare alla dinamica riparatoria di molti sistemi efferenti (v. infra) all’interno del cervello e, soprattutto, che i neuroni di von Economo compartecipano all’attività della corteccia frontale polare (area 10); infatti, la corteccia cingolata anteriore è propriamente coinvolta nella maturazione comportamentale della consapevolezza di sé, consapevolezza che si determina (tramite la coazione a una logica non cieca di prova ed errore, dunque con una valutazione delle alternative ch’è relativa ed è in attesa di feedback positivo) con l’avanzare dell’età d’un organismo, ciò che si lega all’autocontrollo, alla volontà e, appunto, alla capacità acquisita di riconoscere gli errori e di poterli risolvere (problem solving); e, in questo dispositivo, sia la corteccia cingolata anteriore che l’area 10 mostrano un legame funzionale, ossia s’attivano quando un organismo recupera una memoria episodica pertinente (ciò che rimanda a una memoria a lungo termine), vale a dire quando l’area 24 e l’area 10 sono coinvolte in attività che richiedono di ricordare eventi specifici accaduti nel passato, e questa capacità d’integrare eventi passati come protocollo d’azione per il presente al fine di modificarlo ai propri fini è un aspetto importante della dinamica di sviluppo dell’autocontrollo (v., infra, l’esempio dei cacciatori-raccoglitori); il che è dire che l’area 10, con l’apporto delle informazioni veicolate dai VEN, confronta la situazione attuale con l’esperienza pertinente della memoria episodica, calcola le probabilità di successo d’un protocollo d’azione, e a seguire, e basandosi su questi calcoli probabilistici, implementa la strategia ritenuta (salvo gli errori che potrebbero presentarsi) la più adatta a quel dato contesto; ed è di supporto alla presenza di questa capacità, ch’è legata a compiti cognitivi complessi, il fatto che questo processo di maturazione implica, oltre alla formazione d’una memoria a lungo termine, anche un costante aumento dell’attività metabolica della corteccia cingolata anteriore nell’arco temporale che va dall’infanzia all’età adulta dall'infanzia, cui s’aggiunga che v’è anche la prova d’una maggiore attivazione della corteccia cingolata anteriore in organismi che presentano una competenza storicamente acquisita a meglio comprendere le dinamiche sociali e che in condizioni di mancato autocontrollo dovuto a disturbi per deficit d’attenzione, quindi di fronte a un problema sociale che il soggetto implicato non riesce a risolvere, non sono presenti risposte nella corteccia cingolata anteriore e, pertanto, non v’è alcun legame funzionale con l’area 10; inoltre, le lesioni all’area 10 sono associate con l’alterazione di quelle competenze cognitive che permettono di valutare l’esperienza in corso, tanto da  comprometterne la pianificazione strategica prevista come risposta, cioè le funzioni esecutive; per quanto riguarda, infine, lo scenario evolutivo che ha portato, rispetto ai lignaggi che precedono Homo sapiens, a una crescita numerica e funzionale dei neuroni di von Economo e a cambiamenti all’estensione e alla rilocalizzazione topografica dell’area 10 (compreso un aumento dello spazio tra strati corticali che ha così permesso un aumento di connettività con altre aree d’associazione ritenute d’ordine superiore), è importante sottolineare che questa specializzazione in termini di ridimensionamento e d’organizzazione suggerisce che le funzioni associate a questa parte della corteccia sono diventate particolarmente importanti nel corso del processo d’ominazione, giacché non ci si può impedire di vedere questa relativamente recente specializzazione se non come legata a una dinamica in continua evoluzione della pianificazione delle azioni a venire e dell’intrapresa d’inedite iniziative che implicano, necessariamente, dei fenomeni di sociogenesi (comprendendo in questi anche l’evoluzione tecnologica per la trasformazione delle risorse) e delle operazioni di trasferimento intergenerazionale dei tratti culturali dipendenti dalla costruzione di nicchia, cioè a un cambiamento materiale e funzionale delle competenze cognitive, dei comportamenti adattativi e dell’ambiente preesistenti a Homo sapiens; ora, e fatto salvo che, come sopra detto, la costruzione della nicchia culturale è solo una componente (sia pur diffusa e dominante nell’antropizzazione dell’ambiente) dell’eredità ecologica, può essere utile che, a proposito di cultura materiale e sociogenesi, s’osservi com’è possibile avanzare l’ipotesi che, nella storia del genere Homo, delle reti sociali si siano appoggiate su delle reti neuronali edificando per filogenesi un dispositivo cervello-mente che permetta al genere Homo di modellizzare e rimodellizzare ontogeneticamente il mondo circostante, questo valorizzando il rapporto che i cacciatori-raccoglitori (hunter-gatherer; per il loro stile di vita, v. anche supra) hanno con l’ambiente spaziale e con l’ecosistema in cui si ritrovano ad agire, rapporto legato a una processualità di lunga durata del sopra abbozzato dispositivo cervello-mente durante i 2 milioni di anni in cui questa pratica di sostentamento d’una collettività è stata vigente (cioè fino alle soglie del Neolitico); questo, ancora, valorizzando una strategia cognitiva che qui si recupera dalla Landscape Mind Theory (LMT, traducibile come teoria della mente basata sul paesaggio, e dove il paesaggio è da intendersi quale spazio delle interazioni fisiche, cognitive e sociali tra un organismo appartenente al genere Homo e l’ecosistema), strategia che s’appoggia, oltre che alle precedenti aree sopra citate, a due specifiche aree corticali di cui si parlerà a seguire; in quest’ipotesi s’avanza il sospetto che la pressione ambientale abbia indotto, nel corso del tempo, una sommatoria d’abilità cognitive adattate a risolvere problemi spaziali riguardanti la sussistenza (cioè la fenomenologia delle strategie venatorie da adottare o adottate in quanto imposte da un dato paesaggio) e, in pari tempo, problemi legati alla classificazione dell’ecosistema (cioè a problemi tassonomici nell’attribuzione dei nomi da dare ai tratti che caratterizzano il paesaggio, di fatto alla realtà e alla complessità del vissuto non solo venatorio); tipologia di problemi che, senza voler arrivare a sostenere uno stretto isomorfismo tra le strutture del paesaggio e le strutture cognitive che ne risultano modellate (e che sono in grado, come documentano le ricerche etnografiche, d’organizzare spazialmente le percezioni, le rappresentazioni e le conoscenze individuali/collettive), risultano comunque essere tra loro fortemente interdipendenti nella matrice dei comportamenti storicamente messi in atto nelle società di caccia e raccolta; il tutto parte dalla costatazione che esiste, nel tempo storico proprio ai cacciatori-raccoglitori, un’omeostasi che fa sì che le azioni di disturbo continuo dei fattori casuali (una qualsivoglia contingenza che si presenta) siano mantenute intorno a un livello d’equilibrio e tra gli organismi che abitano l’ecosistema e tra la collettività che questi organismi li preda, questo con il ricorso a un’attività di controllo materiale/immateriale sull’ambiente e sul vissuto dei detti organismi da parte dei cacciatori-raccoglitori che risultano così essere gli agenti d’una autoregolazione capace di controllare tutta la realtà (questo in quanto in grado di regolare, attraverso attività d’inibizione/promozione, i flussi appropriati del vissuto sociale mediante sistemi di controllo a feedback negativi/positivi); regolazione omeostatica che interviene, dunque, sia a livello etologico (per esempio, grazie a un comportamento ch’è la risultante d’una pressione ambientale che vale per tutti gli organismi di quell’ecosistema, e che nell’ecosistema sociale è controllata a livello segnico, v. infra) che ecologico (per esempio, controllando il rapporto prede/predatori); bisogna, infatti, sottolineare che a livello etologico il detto comportamento non è altro che la risposta a delle modificazioni, intervenute nell’esistente d’un organismo, da parte dell’organismo stesso (volendo, a partire qui dal predatore Homo habilis, v. supra) e che sono promosse dall’interazione fra stimoli che provengono tanto dal suo interno (interocettivi) quanto dall’esterno  che lo circonda (esterocettivi), esterno qui da intendersi tanto come ecosistema quanto come rapporto con conspecifici; comportamenti che, in una società di caccia e raccolta, si producono/riproducono con una stereotipia che, se isolata e resa discreta, si mostrano poi specie-specifici, cioè tipici di una data specie in un dato ambiente e in un dato momento storico (e che qui si possono solo congetturare), e che potrebbero alla fin fine dare origine, se elencati, a quello che si definisce come un etogramma (che, nel passaggio da una tipologia ambientale/sociale all’altra, dovrebbe essere poi in grado, grazie ai suoi riaggiustamenti negli schemi corporei, di mostrare nel repertorio dei comportamenti, fra loro comparati in modo indiziario e congetturale, le processualità d’una pressione evolutiva); per ricostruire in modo congetturale questo etogramma, se pure con modalità rozze e grossolane, cioè per provare a descrivere il comportamento d’un organismo del genere Homo, e tenendo conto del fatto che il sistema di caccia e raccolta è l’unica strategia di sussistenza che, come detto (v. anche supra), ha caratterizzato l’ontogenesi del genere Homo per almeno due milioni di anni, è necessario partire dall’indagare come quest’insieme d’organismi possono organizzare l’approvvigionamento alimentare in un dato ambiente, cioè analizzare la loro condotta diretta a un obiettivo (goal-directed, v. supra) di acquisizione o di prelievo delle risorse, partendo da quello che hanno bisogno di sapere dei cacciatori/raccoglitori per portare a compimento il loro compito (su questa questione, v. anche supra), il tutto al fine di modellizzare con una certa approssimazione il contesto ambientale in cui questi organismi perseguono il loro scopo (gli ambienti occupati dai cacciatori-raccoglitori possono essere o artici o desertici o forestali, in ogni caso si tratta di zone climatiche caratterizzate da risorse trofiche e/o idriche relativamente scarse e disperse su territori più o meno vasti); secondo una logica che rimanda alla realtà esperenziale che si basa sugli studi etnologici che hanno come oggetto i cacciatori-raccoglitori odierni e le loro pratiche di foraggiamento, e fatte salve le competenze ecologiche necessarie in questo tipo di società, risulta che la pratica della raccolta opera su porzioni relativamente limitate dell’ecosistema generalmente contigue, ciò che facilita l’orientamento e la memorizzazione delle direzioni di spostamento sul territorio che sono rese riconoscibili da punti identificabili nel paesaggio (landmark), mentre la caccia, in quanto le risorse sono mobili, è costretta ad operare su porzioni molto estese dell’ambiente che impongono, con la loro non contiguità, un disorientamento nello spostamento ch’è supplito da competenze cognitive flessibili (v. supra), ragione per cui qui si prende in carico il solo cacciatore; la figura seguente mostra le possibili mappature del territorio, a sinistra quella di società di soli raccoglitori (gathering, in figura) che si spostano su territori contigui (ciò che richiede, in linea di massima, una memoria puramente topografica del territorio), a destra quella di società di cacciatori-raccoglitori (hunting e gathering, in figura) che si spostano gli uni (gathering) su spazi contigui e gli altri su spazi non contigui (hunting), ciò che dà origine a una mappatura dell’ecosistema diviso in due parti (divisione segnalata, in figura, da una linea tratteggiata tra lo spazio dei cacciatori e quello dei raccoglitori), e dove lo spazio dei cacciatori è suddiviso in due zone, una con aree di ricovero (shelter) legate strategicamente ai lunghi percorsi da compiere, e l’altra con le aree discontinue legate al percorso effettivo o possibile della preda e senza dimenticare che tanto per i raccoglitori quanto per i cacciatori, le risorse trofiche non sono percepite solo come una cosa, ma implicano, nella loro rappresentazione mentale, anche un dove e un quando poterle trovare:


Figura n.  . Fonte: Meschiari, 2014, p. 56.

Per quanto riguarda specificamente il cacciatore (e dato come prerequisito ineliminabile quello della resistenza fisica alla fatica, v. supra), si può grossomodo affermare che questi deve possedere delle conoscenze sulla composizione, sulla struttura, sulla configurazione dei suoli e dei processi che vi operano; deve possedere una profonda consapevolezza geografica del territorio, dei confini distintivi, delle aree di transizione, delle barriere, etc.; deve utilizzare, come i raccoglitori, dei punti di riferimento (landmark) che non coincidono con la meta per potere così organizzare la sua percezione dello spazio; deve memorizzare gli itinerari, la distanza, il tempo necessario per spostarsi da un luogo all’altro; deve possedere delle strategie variate di spostamento nello spazio (legate anche ai cambiamenti stagionali e alle dinamiche metereologiche); deve riconoscere le connessioni ecosistemiche presenti nel repertorio dei luoghi familiari; deve possedere delle competenze biogeografiche sulla distribuzione e sulle dinamiche comportamentali relative alle specie animali cacciate e no; deve essere capace di usare in modo abile le tecnologie di caccia disponibili (dal tardo Paleolitico, archi, lance, mazze); deve possedere una memoria della probabile distribuzione spaziale delle risorse trofiche e deve essere capace di predire ipotesi e formulare decisioni sulla distribuzione delle risorse alimentari; deve possedere delle capacità inferenziali nella lettura degli indizi e delle tracce lasciate dalle prede; deve sapersi coordinare con il gruppo (specialmente se s’impiegano trappole, reti, barricate, palizzate, recinti o altro ancora che necessitano di una forte cooperazione attiva) per elaborare strategie finalizzate alla cattura delle prede e al sostentamento della collettività (e dove la spartizione della carne obbedisce a regole più o meno elastiche, ma sempre presenti); deve saper far fronte agli imprevisti e altro ancora, deve possedere, insomma, una mappatura dell’esistente che sia pari all’intreccio dinamico e contestuale che mettono in moto le sue innumerevoli competenze e i suoi comportamenti in un ambiente che, poiché saturo di segnali ecologici, necessita d’una griglia induttiva per essere interpretato; infatti, a proposito di questa griglia, bisogna sottolineare che ne fa parte anche un surplus legato a una creazione di significati aggiunti, per spiegare i quali partiamo dal fatto che il cacciatore sa ch’esistono delle categorie sistematiche corrispondenti ai vari organismi presenti nell’ecosistema, cioè dei raggruppamenti gerarchici dei viventi o taxa (v. supra), e il cacciatore, come sa di questa gerarchia, sa anche che a ogni livello gerarchico i taxa s’escludono a vicenda e che ogni organismo, preso in sé, è attribuibile a un dato taxon, e anche se i taxa sono classificati in modo variabile nelle varie tipologie di società di caccia e raccolta, in generale i livelli gerarchici fra taxa sono, all’interno d’una data tipologia sociale, stabili; ancora, il cacciatore sa che se due specie presentano una caratteristica comune, se ne può dedurre che tale caratteristica è condivisa anche da altre specie dello stesso taxon tanto che, stando a questa logica inferenziale, se un nuovo organismo è collocato in un taxon, si presenta un automatismo che tende ad attribuirgli le stesse caratteristiche condivise da altri appartenenti allo stesso; ciò nonostante questa tassonomia non però è vissuta in modo così meccanico come la descrizione che precede lascia presupporre, questo perché questa tassonomia manca della componente del rapporto di osmosi fra tutte le cose che risulta essere fondante nell’esperienza del cacciatore; infatti, a questa tassonomia ch’è garante dell’osservabile, vale a dire dei collegamenti ch’esistono di fatto e che il cacciatore istituisce tra gli organismi quali sono presenti nell’ecosistema condiviso (per esempio, la capacità di ratificare la presenza d’una colorazione o d’una morfologia somigliante fra organismi diversi, oppure la competenza nel reperire il rapporto ch’esiste tra predatore/preda, comprese le dinamiche della catena alimentare a ciò correlata etc.), i detti rapporti d’osmosi aggiungono un surplus di significato; e questo surplus, che risulta essere poi legato alla creazione d’immagini, non è dato dal fatto che questa creazione sfrutta in modo parassitario l’esperienza del cacciatore per potere poi produrre i suoi elaborati, ma è l’esperienza stessa del cacciatore quale questi la vive nell’ecosistema ch’è prodotta e strutturata dal suo sistema d’immagini in osmosi con il tutto (sistema, ancora, legato a una trasmissione di tratti culturali intergenerazionali in quelle società), ciò che fa sì che questo sistema possa così agire da collante causale sempre attualizzato nella fabbricazione d’un significato (meaning-making) ch’è in grado di debordare la meccanicità della sopra descritta logica tassonomica creando questo surplus che la scompagina e dove, come mostrano degli studi etnografici, gli organismi non sono percepiti come entità isolate all’interno d’un taxa ma, per esempio, come incrocio di relazioni complesse anche con animali appartenenti a diversi taxa; la figura seguente mostra un esempio di tassonomia presente presso gli Iglulingmiut (gli Iglulingmiut sono un popolo Inuit dell’Artico orientale che vive nella zona di Igloolik, nel Nord del Canada), dove la sistematica dei parlanti di questa zona distingue i nirjutit (alla lettera, gli animali utilizzati per essere mangiati), cioè i mammiferi, che sono divisi in pisuktiit, terrestri (quali il caribù, l’orso polare etc.), e puijiit, marini (quali l’orca, il narvàlo etc.); i tingmiat, gli uccelli (quali il beccaccino, la stròlaga etc.); gli iqaluit, i pesci (quali il ghiozzo, il salmone etc.); i qupirruit, gli animali piccoli (quali gli insetti, i ragni, i vermi etc.) e, infine, gli uviluit, i molluschi, sistematica ch’è legata a una trama di relazioni interspecifiche accessorie tra i taxa (le tassonomie sono rese, in figura, ognuna con un cerchio e dove i cerchi inglobanti i taxa sono fra loro autonomi; le relazioni tra i taxa sono segnalate, in figura, da rette che vanno dal taxon d’un cerchio a un altro d’un altro cerchio); e la trama che s’intesse nella figura è poi dovuta a osservazioni di tipo ecologico che possono debordare e rovesciare la tassonomia anatomica standard; per esempio, il caribù e il tricheco sono tra loro legati per il fatto di essere, in modo simmetrico, la preda del lupo e dell’orca, organismi legati a loro volta in quanto predatori alfa ciascuno nel proprio habitat; altre volte, invece, il legame è dato dalla condivisione della stessa nicchia ecologica, della stessa preda d’elezione, o anche da fattori più aleatori di tipo analogico, come il colore del pelo, o da un’affinità morfologica o etologica minore, tanto che, a livello generale, i taxa possono parzialmente sovrapporsi, sia orizzontalmente che verticalmente, e dare origine a sistemi classificatori anch’essi sovrapposti che conducono a una trasgressione della gerarchia dei livelli e delle regole d’inferenza (modalità che, all’interno del gruppo sociale, è poi riusata per altre tipologie di rappresentazione, per esempio, in narrazioni legate alla cosmologia, al sacro o a altre classi di fenomeni etc., e questo perché nelle società di caccia e raccolta, come si vedrà a seguire, la razionalità operante a livello materiale dell’empiria venatoria e la non-empiria dell’immaginario prodotta dalla sociogenesi dei cacciatori-raccoglitori non sono percepite e vissute come tra loro in opposizione, bensì come inevitabilmente complementari):


Figura n.  . Fonte (modificata): Meschiari, 2014, p. 58.

Tutto questo capita perché il sistema d’immagini del cacciatore è basato su un transfert di significato (o semantico) dovuto alla contiguità dei significati (spaziali, causali, temporali etc.) presenti nello stesso campo semantico, quello d’un animale, in cui un termine sostituente, presente (per esempio, in nome del luogo che il cacciatore ha di fronte a sé), sta in un rapporto logico con un termine sostituito e assente (per esempio il nome tassonomico dell’animale ch’è stato da lui visto in quel luogo), laddove il campo semantico, riferito a un singolo elemento linguistico, è poi l’insieme registrato da una collettività dei suoi possibili significati (e, se riferito a un gruppo di elementi, è la sfera di significati che essi hanno in comune), è cioè polisemico, vale a dire provvisto d’una pluralità di significati; ed è questa logica, ch’è quella della figura retorica classificata come metonìmia (o metonimìa), che fa sì che la descrizione tassonomica sopra offerta sia esperita dal cacciatore in modo molto meno meccanico di quanto farebbe un Homo sapiens odierno, il che è dire che per il cacciatore un animale non è mai decontestualizzato dall’ambiente in cui entrambi (preda e predatore) vivono, bensì è vissuto secondo una direttrice metonimica del posto che questi occupa nello spazio fisico e ecosistemico (habitat fisico/biologico), cioè è sempre incistato in una matrice topologica con cui in cui entrambi vivono in un rapporto di reciproca dipendenza e in cui il contenente sta al posto del contenuto, la causa al posto dell’effetto e il concreto al posto dell’astratto (e viceversa, in quanto questi rapporti sono sempre reversibili); e senza dimenticare che se all’inizio questa tassonomia ch’è alla base dell’etogramma del cacciatore ha presumibilmente coperto un ruolo di risposta all’esigenza ineludibile di catalogare le specie commestibili/non commestibili, a seguire la direttrice metonimica s’è estesa anche ad altre forme viventi non necessariamente utilitaristiche; oltre a questa, è poi presente anche una direttrice che si basa sul fenomeno dell’apofenìa (Apophänie), dove l’apofenia è da intendersi, in questo contesto, come la capacità cognitiva di un cacciatore di trovare un significato in configurazioni di realtà che, di fatto, sono solo configurazioni di cose originate dal caso, là dove il cacciatore ha quindi una percezione, che esperimenta, di vedere qualcosa che però non esiste, tanto che la rappresentazione del cacciatore si fonde con lo stimolo sensoriale (visivo, uditivo, olfattivo, tattile) insufficiente a produrre senso, di modo che questa capacità cognitiva gli fa perdere quella capacità che consiste nel differenziare gli elementi sensoriali diretti (la realtà effettiva) da quelli riprodotti a livello corticale (la realtà immaginata), per esempio, nel riconoscere visivamente qualcosa di già sperimentato con effetto di realtà tra le foglie delle piante dove caccia, tipo un predatore (e si sa che in contesti percettivi ambigui si può creare nell’osservatore uno stato d’allerta fisiologico in grado di falsare una percezione reale), o nel riconoscere il verso d’una preda in emissioni sonore dovute al caso (per esempio, al fluire del vento, allo stormire delle foglie, al fluire dell’acqua o a altri suoni naturali), o nel riconoscere delle tracce olfattive che in realtà hanno una origine diversa da quella percepita etc., ed è probabile che questa capacità cognitiva permessa dall’apofenia (ch’è poi una caratteristica generale di varie specie di Homo) non sia un difetto, ma sia stata permessa dall’evoluzione in quanto consente, anche in presenza d’indizi rarefatti, forsanche sbagliati, d’individuare situazioni di pericolo, cioè di potere adottare reazioni rapide di fuga che favoriscono la sopravvivenza, ed è pure plausibile che in ambienti poco antropizzati, dove il contesto percettivo è ambiguo, l’apofenia abbia funzionato per lungo tempo come un meccanismo essenziale di sopravvivenza; l’apofenia, dunque, opera un montaggio tra due campi visivi, uno reale e uno ricostruito a livello corticale in cui il secondo prende il posto del primo, ciò che dà origine a un qualcosa che è pertanto isolato dal continuum percettivo del reale e che, se provvisto di nome, si separa dalla realtà fisica ed entra a far parte d’una realtà ricostruita, culturale, un significato ch’è vissuto da un soggetto appartenente a una società di caccia e raccolta, ed è possibile che a fronte delle turbolenze caotiche, casuali e ingovernabili di questo continuum l’insieme dei soggetti d’una società di caccia e raccolta operi dei tagli e che, nelle slabbrature che si creano, sia messa in opera come collante cognitivo, e a un livello generalizzato, la procedura dell’apofenia che riesce, in questo modo, a produrre una struttura ordinata, una modellizzazione della realtà trasmissibile a livello intergenerazionale, e quale esempio, si può citare l’arte rupestre del Paleolitico (v. infra) nella quale chi intravede delle anomalie nel substrato roccioso (venature, sgocciolamenti di calcare, porzioni convesse o concave, noduli, variazioni cromatiche nelle rocce etc.) può interpretarle come delle parti anatomiche d’un animale (un ventre, uno zoccolo, un occhio etc.) che sono solo da integrare con dei contorni (pittogrammi), come dire che l’animale è visto da subito nella roccia e solo a seguire è completato con tratti complementari, e dove l’abilità apofenica si traduce in una rappresentazione della realtà che travalica il tempo di chi l’ha creata; ancora, l’apofenia è in atto quando il cacciatore è capace di sovrapporre modelli ambientali o ecosistemici noti a luoghi sconosciuti (per esempio, grazie al linguaggio orientato sul paesaggio, landscape oriented, proprio alle società di caccia e raccolta, d’adottare la pratica della denominazione/descrizione di ciò che si vede; ciò che, grazie a questi marcatori topografici, impone al paesaggio sconosciuto i nomi del noto facilitandone la domesticazione), ciò che gli permette di interpretare visivamente e linguisticamente un territorio sconosciuto come se fosse un territorio familiare sulla base di una somiglianza morfologica, anche vaga, imposta dai marcatori topografici, quindi conseguentemente di operare in un habitat sconosciuto, ma simile, così come ha operato nel suo habitat nativo; vale a dire d’attivare, grazie alle somiglianze geomorfologiche, delle attività d’orientamento spaziale (wayfinding, v. infra) e d’inseguimento (stalking) della preda che sono già state attivate in posti simili; di strutturare un orizzonte d’attesa, ch’è già stato messo in atto nell’habitat nativo, nell’habitat sconosciuto che gli è simile (per esempio, un torrente che ricorda al cacciatore l’improvvisa comparsa d’una preda nei pressi d’un torrente simile, ciò che lo mette in allarme, o altro ancora); insomma, tutto un insieme di possibilità induttive che gli permettono strategie efficaci di predazione (di sopravvivenza) dal punto di vista topografico ed ecologico, ciò che, volendo, mostra il vantaggio in termini evolutivi di vedere, grazie a delle catene apofeniche, dei luoghi familiari in luoghi che in realtà non lo sono (come dire che l’apofenia, semplice o complessa che sia, può permettere alla mente d’elaborare, fra entità separate dal punto di vista empirico e fattuale, intere sistematiche isomorfe); il che è affermare, ancora, e allargando le sue procedure all’intero vissuto delle società di caccia e raccolta, che sia la direttrice apofenica che quella metonimica danno origine a un dispositivo generatore di credenze che fa sì che l’autoinganno, come costruzione mentale prima che culturale, sia dotato d’una efficacia pratica (vincente alla prova dei fatti) che spinge il genere Homo a interpretare in modo olistico il tutto dell’ambiente che esperimenta, ciò che lo porta, come accennato, alla sovra-interpretazione di tratti che sono, in sé e per sé, privi di significato, ma che, se legati a una codificazione che arriva a creare dei segni e dei sistemi segnici (v. infra), ecco che questi sistemi segnici possono intervenire nelle strategie operative che portano, da un lato, ai processi che originano la cultura materiale, cioè le modalità complesse di sostentamento (foraging) d’una collettività, e, dall’altro, sono in grado di modellare la produzione e la riproduzione sociale di questa stessa materialità che li sorregge; produzione/riproduzione sociale che in un dato decorso temporale è volta a garantire e perpetuare comportamenti dati e approvati, quali l’elaborazione di strutture rituali e mitiche (documentale da studi etnologici riguardanti la costruzione ecologica del sacro) che traducono l’omeostasi ecologica e la sua manutenzione nelle società di caccia e raccolta attraverso una specie d’isomorfismo tra tempo profano e tempo sacro, isomorfismo ch’è in grado di proiettare sull’ecosistema una rete di significati che permettono anche l’origine di sistemi di regole morali, travestite da credenze, il cui precipuo ruolo è quello di garantire e perpetuare comportamenti individuali/collettivi nell’uso sostenibile delle risorse ambientali e dove (stando all’etnolinguistica) anche il paesaggio è incorporato nelle strutture linguistiche in uso e, pertanto, nella trasmissione delle conoscenze; per quanto riguarda poi la definizione del termine segno, esso è dato da un significante materiale, in sé privo di significato, ch’è associato da un codice, e in un modo arbitrario, a un significato, laddove è poi il codice che produce un segno ch’è riconosciuto, condiviso e trasmissibile come sistema di segni, segnico, dalla collettività degli interpretanti, e ciò che qui interessa è che se la collettività degli interpretanti è data dai cacciatori-raccoglitori e il sistema segnico è il paesaggio, quest’ultimo è allora pensato, appropriato e vissuto in queste società come una matrice cognitiva con la forma d’un ipersegno (ch’è codificato a vari livelli, pratico, rituale, morale e sociale, tutti fra loro sempre compresenti in un dato momento storico) ch’è in grado di mettere ordine in un insieme di significanti materiali, cioè di strutturare ciò ch’è senza nome in una realtà ordinata dotata di senso, vale a dire di creare con il lavoro immateriale della mente una nicchia culturale che facilita il lavoro materiale; ora, il modello cognitivo che coinvolge la sopraddetta gestione dell’ambiente (di fatto la proiezione di reti sociali su delle reti neurali per arrivare a creare un dispositivo cervello-mente), cioè che permette con l’attività di foraggiamento la costruzione di una nicchia culturale da parte di queste società di caccia e raccolta, ha alla sua base anche delle strutture corticali, che svolgono ruoli distinti ma complementari nell’atto del riconoscimento del paesaggio, che coinvolgono l’attivazione di due aree corticali, l’area paraippocampale (Parahippocampal Place Area, PPA) e la corteccia retrospleniale (Retrosplenial Cortex, RSC), aree che presentano un ruolo centrale nella contestualizzazione dello sfondo visivo, vale a dire nel riconoscimento e nella memorizzazione dei luoghi; tanto che, per quanto riguarda il riconoscimento dei luoghi, queste strutture sono direttamente coinvolte nel discriminare visivamente nel paesaggio degli elementi che indichino la direzione da seguire per arrivare a una meta (per esempio, alla predazione), cioè l’orientamento spaziale (o wayfinding, traducibile come scoperta della direzione), così come intervengono, per quanto riguarda la memorizzazione dei luoghi, nella mappatura cognitiva (o cognitive mapping), ossia costruendo una rappresentazione mentale della realtà (del mondo esterno) attraverso una codificazione sommaria delle immagini dei luoghi soggetti a una fenomenologia venatoria (questo perché, per potere essere pragmaticamente utili, cioè riutilizzabili, queste mappe possono essere solo abbozzate), mappatura che però, all’uso, deve poi essere integrata di volta in volta; fatto salvo il ruolo dell’ippocampo (v. supra), ch’è una struttura cerebrale al centro d’un vasto sistema neurale che sottende la rappresentazione e l’uso delle informazioni riguardanti l’ambiente spaziale, nello specifico delle differenze funzionali fra le due citate aree corticali, l’area paraippocampale (PPA), che altro non è che una sottoregione della corteccia paraippocampale (che si trova medialmente nella parte inferiore della corteccia temporo-occipitale), è poi coinvolta in una percezione visiva statica, cioè nella codificazione (percettiva) della struttura spaziale dei luoghi conosciuti/sconosciuti, cioè al modo in cui sono disposte le parti del paesaggio (o layout) e probabilmente nella pianificazione dei percorsi (nei luoghi già mappati e di cui si recupera la mappa da integrare) ed è inoltre reattiva alle scene raffiguranti luoghi piuttosto che ad altri tipi di stimoli visivi, per esempio, a volti o oggetti; mentre la corteccia retrospleniale (RSC, cioè l’area della corteccia retrostante lo splenio, dove a sua volta lo splenio è l’estremità posteriore del corpo calloso, area ch’è situata tra la corteccia parietale e l’ippocampo), tra le altre funzionalità, elabora le caratteristiche permanenti o più stabili d’un ambiente e, in quanto mappa il conosciuto, ne diventa la memoria topografica a lungo termine, tanto che la sua attività varia in funzione del tipo di conoscenza spaziale recuperato (può, per esempio, trattarsi di posizione o d’orientamento; e per inciso, la risposta più forte della RSC si ha poi nel recupero della posizione da parte d’un soggetto); tutto un insieme che ci permette d’affermare che la costruzione d’una nicchia culturale ha alla sua base una costruzione di nicchia ecologica (come ipotizza la Niche Construction Theory, NCT, v. supra) che ne costituisce l’anteriore storico in quanto, come s’è cercato di mostrare (con ipotesi, va da sé, da approfondire e convalidare), è il sistema cognitivo che è stato direttamente modellato dal sistema ecologico, ragione per cui non è una modellizzazione sociale quella che determina le visioni del mondo (Weltanschauungen, v. supra) dei cacciatori-raccoglitori, ma è giusto la materialità imposta dalla modellizzazione ecologica (che traduce la sopravvivenza e la riproduzione dell’organismo) che imposta un modello culturale storicamente determinato nelle sue strategie cognitive, il tutto con l’iniziale complicità della prosocialità (legata ai neuroni di von Economo, VEN) che favorisce un’implementazione delle reti sociali da cui parte la processualità multifattoriale che s’è cercato sopra di spiegare.


LA COEVOLUZIONE CULTURA-GENE

[... ] ora, giacché la NTC prevede anche la migrazione/dispersione opportunista d’organismi che si spostano nello spazio, cioè che si trasferiscono in nuovi ambienti (delocalizzazione) dove devono sperimentare altre condizioni, si pensi alla portata dell’affermazione sulle dinamiche transgenerazionali di nicchia se oggetto di studio diventa il genere Homo, là dove tutto il suo vissuto è fenomeno leggibile anche come effetto di una costruzione di nicchia transgenerazionale che si basa sulle dinamiche esperienziali di delocalizzazione e domesticazione dell’ambiente (v. supra) da parte d’una collettività d’organismi guidata dal cervello sociale (di cui s’è parlato diffusamente sopra e che sarà definito a seguire); questo dato che, s’è vero che le informazioni e i comportamenti acquisiti dagli organismi attraverso processi ontogenetici non possono essere ereditati in quanto si perdono dopo la loro morte, processi come l’appreso dai suoi discendenti in un contesto sociale, possono essere di notevole importanza per la sopravvivenza di questi (trasmissione verticale), per la loro diffusione promossa tra i componenti all’interno della generazione presente (trasmissione orizzontale) e per la trasmissione dell’appreso a una generazione più giovane messa in atto da un qualsiasi componente d’una generazione precedente (trasmissione obliqua), giacché il dispositivo dell’ereditarietà ecologica può permettere al cervello sociale di valutare e controllare in modo dinamico e plastico i parametri critici della costruzione di nicchia attraverso le modalità di circolazione dell’appreso (intesi i parametri critici come tutto ciò che può ridurre l’incertezza negli ambienti selettivi rispetto agli interessi manifestati dagli organismi riguardo alla loro fitness, cioè controllando il ventaglio degli ambienti di sviluppo cui possono essere esposti gli eredi), con la clausola che l’appreso dalla collettività d’organismi sia poi inteso in termini di flussi di conoscenze accumulate, di comportamenti e di pratiche acquisite; un insieme, dunque, ch’è veicolato da un cervello sociale in un processo di sociogenesi ininterrotta che, come mostra l’iter del genere Homo, implica dei cambiamenti tanto nel trasferimento transgenerazionale dell’ereditarietà ecologica quanto nella loro stabilizzazione (selettiva) storicamente data e determinata; e in special modo nel momento in cui la costruzione di nicchia gli permette di persistere, cioè di sussistere e riprodursi, nelle condizioni ambientali frammentate, instabili e ostative, ossia inospitali e proprie al vissuto di domesticazione dell’ambiente da parte del genere Homo (v. per esempio, supra, l’effetto di tamponamento, o buffering), condizioni d’antropizzazione che come si vedrà creano poi le premesse per la domesticazione e la colonizzazione dell’intero pianeta da parte di Homo sapiens; senza però dimenticare che questo dato di fatto, cioè che l’ereditarietà ecologica influenza fortemente le dinamiche evolutive, vale tanto per il genere Homo quanto per le centinaia di specie sociali di mammiferi, uccelli e pesci, così come per gli insetti eusociali (quali termiti, formiche, api, vespe e altre ancora), cioè in tutte quelle specie in cui la capacità d’interagire con l’ambiente, grazie al detto dispositivo di conoscenza e comportamento acquisito promosso dall’ingegneria ecologica, non è una capacità ch’è garantita dalla presenza di geni selezionati dall’evoluzione; o, detto altrimenti, è sempre sottinteso che questo dispositivo d’ereditarietà ecologica rappresenta un’eredità extragenetica che allarga il concetto stesso d’ereditarietà di là dalla genetica di trasmissione, ciò che sottolinea, in generale, come non tutto lo sviluppo sia sotto stretto controllo genetico (e sempre fatta salva la causalità reciproca e ricorsiva tra eredità ecologica e eredità genetica); ora, l’appreso dalla citata collettività d’organismi rimanda a quello che qui s’intende con il termine cultura, termine ombrello di difficile esplicitazione semantica a causa del suo uso polisemico (o, volendo, del suo uso come concetto passe-partout che difficilmente trova unanime consenso), che qui s’adotta nella sua valenza di strumento di trasmissione e modellamento sociale grazie al quale il genere Homo ha potuto costruire le sue nicchie in grado di modificare l’ambiente abiotico e biotico degli ecosistemi a suo vantaggio (e con ricadute evolutive anche per piante e animali, che sfociano infine nella selezione artificiale; per esempio, v., infra, la loro domesticazione) e che possiamo tradurre, come sopra accennato, attraverso il ricorso ai flussi di conoscenze, di comportamenti e di pratiche acquisite trasmesse (in modo non passivo) con lo stoccaggio delle memorie e delle competenze che transitano nei cervelli e con la loro esplicitazione attraverso il linguaggio o l’imitazione o con altri modalità d’apprendimento sociale (o social learning), oppure con altri strumenti e metodi d’immagazzinamento esterno della memoria (v. infra), tratti che sono tutti d’interfaccia nell’interazione via via più complessa dell’organismo con l’ambiente e che possono essere indicizzati grazie al tasso d’uno sviluppo economico e sociale storicamente dato (e sono tratti d’interfaccia perché lo stoccaggio della memoria culturale ci dovrebbe rendere edotti del fatto che la cognizione immagazzinata non è qualcosa che capita solo nel nostro cervello alla stregua d’una routine biologica, ma che la cognizione in gioco che abita e che transita nella nostra mente è la risultante storica dei cambiamenti che intervengono nelle strutture d’assemblaggio e in quelle di relazione tra le eterogenee componenti biotiche e abiotiche d’un ambiente, d’una realtà); tasso di sviluppo economico e sociale storicamente dato, dunque, che poi può essere indicizzato, più o meno in dettaglio per gli ultimi 100 000 anni, questo ricorrendo alla tipologia delle risorse utilizzate, ai mezzi di produzione utilizzati per trasformarle in prodotto (e, a seguire, a distribuirlo per il consumo) e dai rapporti sociali che si creano nella collettività in riferimento alle possibilità di sfruttamento delle risorse offerte dallo stato dei mezzi di produzione e dall’accesso al consumo dei prodotti, ivi compreso il lavoro e la sua parcellizzazione (con tassi di delega allo stoccaggio specializzato delle conoscenze accumulate che variano al variare delle complessità sociale e della divisione complessiva del lavoro necessario per mantenere in essere e permettere la riproduzione sociale della struttura economica); e giacché ruoli e compiti che alterano il comportamento degli individui del genere Homo in una società storicamente situata lo fanno in un modo plastico e radicale, la modificazione dell’insieme (che, come vedremo a seguire, si basa sulla produzione materiale) include anche l’organizzazione degli stati mentali (epistemici o meno che siano, e là dove l’episteme riguarda l’indagine razionale del percepito), l’intrecciarsi dei vissuti emotivi (prosociali) e dei vincoli paradigmatici che i sistemi delle credenze e i sistemi valoriali (insomma i sistemi legati allo stato delle forze produttive e delle visioni del mondo, o Weltanschauungen), stabiliscono e plasmano all’interno delle collettività proiettate verso la loro riproduzione sociale in fase d’assestamento o di stabilizzazione (ciò che comprende anche la gestione della violenza istituzionale verso l’esterno e della violenza intraspecie all’interno) e altro ancora; con la clausola, ritornando alla costruzione di nicchia, che il serbatoio dell’appreso transgenerazionale (o eredità culturale, cultural inheritance) è poi da intendersi come una componente dell’eredità ecologica, un suo sottoinsieme che può essere definito come costruzione d’una nicchia culturale (cultural niche construction) o, detto altrimenti, che l’eredità non è tripla (genetica, ecologica e culturale), ma duale (genetica e ecologica) essendo la costruzione della nicchia culturale solo una componente, sia pur molto pervasiva nell’antropizzazione dell’ambiente, dell’eredità ecologica (o, detto altrimenti, non tutta la costruzione della nicchia umana è costruzione della nicchia culturale, e non tutta l’eredità ecologica umana è eredità culturale); e a proposito della pervasività di questo tratto della costruzione culturale, e fatto salvo il caso che l’eredità ecologica possa implicare un processo culturale senza alcuna ricaduta genetica, si presenta il problema dell’evoluzione dell’eredità genetica umana che si combina con l’eredità culturale (o coevoluzione cultura-gene, detta anche teoria dell’eredità duale, o Dual inheritance theory, DIT), il tutto come un effetto endogeno della costruzione di nicchia che potrebbe influenzare la selezione naturale dei geni nel genere Homo, selezione che, a sua volta, potrebbe a volte poi influenzare l’espressione dei processi culturali e l’antropizzazione dell’ambiente.

LA COEVOLUZIONE CULTURA-GENE

Detto che si stima che centinaia di geni siano stati oggetto di selezione positiva (relativamente) recente, e spesso in risposta alle attività umane, e sottolineato che in moltissimi casi deve ancora essere dimostrato il fatto che la causa di selezione del gene sia derivata da una pratica culturale, quest’ipotesi della DIT suggerisce che i processi culturali possono influenzare notevolmente l’evoluzione genetica con il tasso di variazione delle frequenze alleliche innescate come risposta a una modificazione delle condizioni ambientali, e sempre fatto salvo il fatto che sia presente un tempo sufficiente affinché si fissi l’allele benefico associato alla modificazione (come dire che la costruzione di nicchia culturale, introducendo una variante extragenetica che rende una mutazione vantaggiosa solo per date variabili ambientali, è in grado d’alterare positivamente l’esito previsto dalla trasmissione puramente genetica); dinamiche d’innesco delle variazioni alleliche che sono poi, in generale, più veloci, nel tempo richiesto per la fissazione dell’allele benefico associato, rispetto alle condizioni richieste dalle dinamiche evolutive convenzionali (o che, come pressioni selettive culturali, possono essere dismesse più velocemente, s’è il caso), questo perché operano con una frequenza maggiore e su un ventaglio più ampio e variato di situazioni; tanto che le pratiche culturali innovative, nei confronti d’una mutazione genetica che obbedisce ai tempi evolutivi standard, hanno solitamente risposte più rapide alla selezione, anche perché la popolazione sulla quale agisce la diffusione d’una innovazione culturale è di fatto numericamente amplificata dalla rapidità della sua diffusione, ciò che fa sì che s’amplifichi nella popolazione anche l’intensità della selezione della variante genetica dimostratasi vantaggiosa; ora, visto che gli ultimi 100 000 anni hanno prodotto, date la nicchie culturali presenti, una pressione selettiva sui fenotipi legata a nuovi habitat e climi; visto che la pressione selettiva s’è esercitata là dove la densità abitativa ha via via promosso l’esposizione a nuovi patogeni legati allo stile di vita antropomorfo (per esempio, alla sedentarietà; v. infra) e dove la vicinanza ad animali domesticati (o in fase di domesticazione, v. infra) ha favorito la diffusione di malattie legate a patogeni zoomorfi (dette zoonosi; v. infra); visto poi che la pressione selettiva s’è storicamente assestata con la transizione dalle società di caccia e raccolta a quelle pastorali e agricole che, affermatesi a partire dagli ultimi 10 000 anni, sono state, infatti, caratterizzate da un rapido e vincente incremento demografico; visto tutto questo, possiamo dunque dire che le situazioni demografiche venutesi a creare potrebbero avere poi permesso ad alcune mutazioni di poter essere vantaggiose e di creare un nuovo genotipo adattato, diciamo così, alla densità abitativa (ragione per cui è possibile che il passaggio dallo stile di vita nomade proprio ai cacciatori-raccoglitori a quello sedentario e ad alta densità demografica degli agricoltori abbia facilitato la diffusione di agenti infettivi legati a un’ampia casistica, ciò che potrebbe avere portato a un rapido incremento della frequenza degli alleli in grado di proteggere contro questi agenti e molto altro ancora); in generale, e partendo dall’assioma che la costruzione di nicchia umana è informata da una piattaforma unica di conoscenze culturali che sono potenti in quanto storicamente cumulatesi (e, bene o male, autoimpostesi), si può poi dire che alla base dei principali eventi che portano alla selezione sui geni umani (e alla formazione di genotipi inediti) ci sono dunque le innovazioni culturali legate alle nuove risorse trofiche, solitamente connesse con la colonizzazione di nuovi habitat, con le pratiche della loro produzione e con le strategie economiche e sociali di trasmissione dell’insieme (ma senza dimenticare che la detta velocità dell’eredità culturale accumula però errori su errori i cui effetti producono spesso conseguenze maladattative non previste, passando, come esemplificano gli ultimi 10 000 anni, dall’alterazione degli equilibri ambientali alla creazione di strutture economico-sociali destabilizzati perché inegualitarie e altre nefaste conseguenze proprie all’Anthropocene); di risultati certi che gli  studi genetici hanno confermato essere soggetti a una selezione (relativamente recente) legata alla coevoluzione cultura-gene ne esistono (anche se, come sopra detto, ci sono moltissimi casi in cui deve ancora essere dimostrato che la causa di selezione del gene è derivata da una pratica culturale), e tra questi l’esempio più studiato d’una mutazione vantaggiosa è quello della c.d. tolleranza al lattosio; e si tratta d’una mutazione che ha permesso ai portatori una chance di sopravvivenza alimentare aumentata (cioè l’accesso a un surplus di calorie che ha dato ai portatori una possibilità d’avere più figli rispetto ai non portatori, specialmente nei periodi di carestia), ciò che ha permesso la diffusione nella popolazione e nelle generazioni a seguire della mutazione legata, nei climi freddi o nei climi caldi e aridi (v. infra), all’ambito della tolleranza al latte d’origine animale dopo lo svezzamento dal latte materno; ciò che rimanda alla comparsa storica della domesticazione del bestiame da latte nelle società pastorali e della produzione dei prodotti caseari fermentati ricavati dal latte (per esempio, yoghurt o formaggio, v. infra), evento di una costruzione di nicchia culturale che ha alterato gli ambienti selettivi di queste società per un numero sufficiente di generazioni (poche centinaia di generazioni) che sono così state in grado, persistendo la pratica culturale, di selezionare quelle mutazioni che conferiscono maggiore tolleranza al lattosio negli adulti e di aumentarne, pertanto, il carico calorico disponibile offerto dall’ambiente (questo perché il latte è un’importante fonte di proteine e grassi; per esempio, è stata stimata sui 400-600 kg la produzione di latte di una mucca nel periodo preistorico durante il periodo dello svezzamento dei vitelli, di cui 150-250 possono essere sottratti per l’alimentazione umana, ciò ch’è, in calorie, quasi equivalente al consumo carneo dell’intera mucca, ciò che ha quantomeno permesso di fare un uso più economico del bestiame e di meglio valorizzare il bestiame femminile rispetto a quello maschile, cioè di programmarne il consumo secondo le esigenze demografiche che si presentano); come detto sopra, è poi il gene LCT quello che poi fornisce le istruzione per produrre l’enzima della lattasi (lattasi florizin-idrolasi, o lactase-phlorizin hydrolase, LPH), enzima che aiuta, durante il transito intestinale, a digerire uno zucchero complesso presente nel latte, il lattosio (LPH è poi prevalentemente espresso nell’intestino tenue, v. infra, dove idrolizza il lattosio in glucosio e galattosio, due zuccheri che sono facilmente assorbiti nel circolo ematico); mentre la lattasi è smessa d’essere prodotta dall’organismo dopo lo svezzamento del lattante, generando, in questo modo, un deficit di lattasi congenita che non gli permette più di digerire il latte d’origine animale (sindrome di malassorbimento detta intolleranza al lattosio), è capitato che dei polimorfismi a singolo nucleotide (v. supra) nelle regioni circostanti al gene LCT che la produce siano associati, negli organismi che presentano queste mutazioni, con la persistenza (ereditabile) della lattasi dall’infanzia fino all’età adulta, ragion per cui questi organismi possono consumare latte d’origine animale senza problemi di malassorbimento, e questo grosso modo si sospetta sia avvenuto in un’economia di sussistenza già dedita alla pastorizia ca. 6 000 anni fa, specificamente in una popolazione nomade di pastori di renne (sulla domesticazione della renna, Rangifer tarandus tarandus, v. infra) vicino ai monti Urali, in Russia (si ricorda che altri dice che la tolleranza al lattosio data a partire da ca. 10 000 anni fa e che solo via via la frequenza dell’allele è poi aumentata, a basse frequenze 8 000-7 000 anni fa e poi, dal 6 000 e solo in certe aree geografiche, ad alte frequenze); in ogni caso, la distribuzione del fenotipo tollerante al lattosio si sovrappone al reperimento dei siti che, in quest’arco temporale di 10 000 anni, mostrano presenza d’attività pastorali legate all’allevamento di animali da latte e all’attività di produzione, di stoccaggio e di distribuzione del latte e dei prodotti caseari (sovrapposizione in cui l’insorgere della mutazione segue l’adozione della pastorizia, ossia una costruzione di nicchia culturale, dunque una coevoluzione cultura-gene che va sotto il nome di Cultural Historical hypothesis; la cui contro-ipotesi è quella che afferma che la tolleranza al lattosio è stata consentita prima dall’insorgenza d’una mutazione cui solo a seguire s’è affermata con la diffusione dell’allele collegata alla pratica culturale della pastorizia che ne ha permesso la persistenza) e che si ritrova nei climi aridi e caldi e alle alte altitudini; nei climi aridi e caldi là dove ci sono popolazioni di pastori nomadi che vivono in zone steppose e desertiche, qual è il caso, per esempio, della Penisola Araba, dove il latte di dromedario (Camelus dromedarius, v. supra e infra) è usato dai pastori nomadi, i beduini, e a partire da ca. 4 000 anni fa, come alimento di base che risulta essere, per coloro che lo consumano, oltre che una fonte di cibo, anche una preziosa sostanza liquida incontaminata; mentre nei climi freddi il consumo di latte da parte delle popolazioni nomadi di pastori, oltre che ai citati benefici, apporterebbe loro anche il calcio, ciò che permetterebbe d’evitare la diffusione nella popolazione delle patologie delle ossa (rachitismo e osteomalacìa, v. infra), presenti nei detti climi delle alte altitudini a causa d’una scarsa irradiazione solare (detta Calcium absorption hypothesis; v. infra; sul problema della tolleranza/intolleranza al lattosio, v. supra e infra); un altro esempio di coevoluzione cultura-gene in atto lo si ritrova nelle popolazioni che appartengono alla famiglia linguistica Kwa dell’Africa occidentale e che coltivano yams (lo yam, o Dioscorèa, della famiglia delle Dioscoreacee, è un tubero d’amido commestibile d’una pianta rampicante presente nei paesi tropicali e subtropicali) e i cui i metodi di coltura, vale a dire di gestione antropica dell’ambiente, hanno favorito l’emergere nelle popolazioni di un’emoglobina (Hb) con una mutazione che ha dato origine all’emoglobina S (HbS) che protegge i portatori sani dell’anemia falciforme dalla malaria; bisogna, infatti, sapere che per fare crescere queste colture di yam gli agricoltori hanno dovuto tagliare delle radure nelle foreste marginali, ciò che ha avuto l’effetto, durante le piogge (e lo yam s’inizia a coltivare quando inizia la stagione delle piogge), d’aumentare la quantità di acqua stagnante a causa delle diverse modalità di drenaggio dei suoli, ciò che a sua volta ha creato, complice anche il clima con temperature che s’aggirano sui 25-30° C, la possibilità d’incrementare la presenza di popolazioni di zanzare apportatrici di malaria (zanzare femmine infette del genere Anopheles) e, pertanto, la diffusione della malaria nelle popolazioni che hanno creato queste stagnazioni (v. infra); fatto salvo che la malaria ha una fase di sviluppo che coinvolge i globuli rossi dell’organismo infettato, è questa diffusione della malaria che ha creato le condizioni per una coevoluzione gene-coltura, nel senso che la pratica antropica di deforestazione a fini alimentari ha favorito la formazione di varianti dell’emoglobina, ossia mutazioni del materiale genico codificante l’emoglobina, ciò che ha portano a emoglobinopatie, quale è il caso dell’emoglobina S, o HbS, che presenta in dati casi una più alta resistenza alla malaria, ciò che conduce a un significativo vantaggio evolutivo (se pur relativo) per i portatori di tale mutazione ch’è molto frequente nelle popolazioni per le quali risulta più alto il rischio di contrarre la malaria; questo perché, se la malaria è molto diffusa in una data area geografica, essere portatori di un solo allele falciforme nell’emoglobina conferisce un vantaggio ai portatori sani dell’emoglobinopatia che sono soggetti a sintomi meno gravi quando sono infettati (l’allele è poi detto falciforme perché è la cellula, deformandosi per una carenza d’ossigeno, crea una struttura a falce, o sickle, da cui la sigla HbS che aggiunge a Hb la S di sickle); infatti, è da ricordare che l’emoglobina permette il metabolismo energetico aerobico, ed è una proteina combinata con il ferro ch’è raccolta nei globuli rossi del sangue ed è dotata della funzione di combinarsi reversibilmente con l’ossigeno molecolare O2, cioè d’assumere ossigeno a livello dei polmoni e di cederlo ai vari tessuti del corpo per permetterne la respirazione cellulare e, nella fase seguente della respirazione, di trasportare il diossido di carbonio, CO2, dai tessuti ai polmoni per l’espulsione; ancora, che l’anemia falciforme (o falcemia o sickle-cell disease) è una forma ereditaria di carenza d’ossigeno nei globuli rossi causata dalla detta mutazione del gene che codifica la catena β dell’emoglobina che, negli individui eterozigoti che possiedono nella catena mutante un allele normale e uno mutante produce effetti non gravi e protegge dalla malaria (e quelli che portano un solo tratto falciforme, o Sickle-cell trait, sono detti portatori sani), a differenza della gravità dei sintomi (che portano a una ridotta aspettativa di vita) che si presenta negli omozigoti che, nella detta catena, presentano una coppia di alleli mutanti; da ricordare che qui la variabile cruciale, cioè la quantità d’acqua stagnante nell’ambiente conseguenza della coltivazione yam, è in sé una variabile ecologica e non una variabile culturale che, in parte, dipende da fattori che sfuggono al controllo della popolazione (cioè dalla quantità delle effettive precipitazioni nell’area coinvolta; quindi, in senso stretto, il legame tra l’eredità culturale e quella genetica non è diretto giacché i due sistemi ereditari, genetici e culturali, necessitano dell’intermediazione d’una variabile intermedia di tipo abiotico ed ecologico; ma, il fatto che si possa poi affermare che le popolazioni adiacenti a quelle degli agricoltori yam che, in Africa occidentale, presentano pratiche agricole non legate alla produzione di questa risorsa trofica, non mostrino lo stesso aumento nella frequenza allelica dei coltivatori di lingua Kwa può essere di supporto a una conclusione che affermi che le pratiche culturali possono guidare l’evoluzione genetica; come lo yam, ch’è un tubero ricco d’amido, contengono amido anche le patate, le farine di frumento, di mais, d’orzo, d’avena, di segale, il riso etc., e il consumo di questi prodotti amidacei nella dieta umana si presenta come fortemente strutturato a partire dalle società agricole, questo perché l’amido ha costituito e costituisce il carboidrato (o glucide) tra i più importanti nella dieta umana, tanto che questi, per il tramite del suo massiccio consumo nella costruzione d’una nicchia culturale in fase d’espansione, ha ingenerato anche risposte genetiche per favorire la sua assimilazione; l’amido, che appartiene al gruppo dei polisaccaridi, si forma nelle parti verdi delle piante per fotosintesi da acqua e diossido di carbonio, e s’accumula quale sostanza di riserva nelle radici, nei tuberi, nei semi (là dove rappresenta una riserva d’energia per la pianta in crescita) e le quantità più elevate d’amido si trovano nelle cariossidi (v. infra) dei cereali e nei tuberi della patata, se pure ne ritrovano, ma in minori quantità, anche nei legumi, nella frutta etc. (e ci si ricordi, a questo proposito, di quanto sopra detto rispetto alle variazioni di consumo di bulbi, tuberi, radici e rizomi nel genere Homo, cioè degli organi di riserva sotterranei, o USO, underground storage organs, che sono cibi ad alto valore nutritivo, cioè amidi che potrebbero avere facilitato la comparsa iniziale e la diffusione di Homo erectus dall’Africa; per inciso, dal punto di vista nutrizionale l’amido apporta, per ogni grammo, 4,2 kcal); nell’organismo la digestione degli amidi si presenta a partire dall’insalivazione nella bocca dei detti cibi masticati (dove di fatto avviene, a livello di quantità, una notevole  digestione dell’amido) e sono le ghiandole salivari che, per il tramite dell’amilasi prodotta, catalizzano il primo passaggio nella digestione degli amidi (dove l’amilasi rappresenta un gruppo d’enzimi che catalizzano l’idrolisi del legame α-1,4-glicosidico dei polisaccaridi costituenti l’amido per arrivare poi a formare una miscela di glucosio e maltosio; l’amilasi salivare, o α-amilasi, è detta anche ptialina, v. infra, ed è la prima espressione dell’amilasi); è poi il gene AMY1 che codifica l’enzima presente nella saliva come amilasi salivare (v. infra), e poiché il consumo d’amido in Homo sapiens si stima si sia storicamente presentato a partire da ca. 200 000 anni fa per poi differenziarsi nelle varie società presentandosi, a partire dalla transizione neolitica, come una caratteristica alimentare propria alle società agricole, e questo a differenza delle società dei cacciatori-raccoglitori delle foreste fluviali e dei territori circumartici (escluse dunque quelle società di cacciatori-raccoglitori che hanno operato e operano in ambienti aridi, per esempio, gli Hadza, v. supra) e di quelle pastorali, che consumano molto meno amido, è allora possibile che queste differenze alimentari portino a pressioni selettive diversificate in società culturalmente diverse nelle modalità di sfruttamento antropico dell’ambiente, cioè che le differenze di dieta nell’esposizione agli amidi, dovute ai vincoli storici contingenti via via presentatisi, abbiano agito sull’amilasi salivare, come mostra, per esempio, il fatto che gli individui provenienti storicamente da popolazioni che hanno praticato diete ad alto contenuto d’amido (o high-starch) hanno, mediamente, più copie AMY1 rispetto a quelli con diete tradizionalmente a basso contenuto d’amido (o low-starch), là dove il più alto numero di copie AMY1 è nei fatti ipotizzabile come opera d’una selezione naturale che ha plasmato una variazione del numero di copie AMY1 in funzione del miglioramento digestivo degli alimenti ricchi d’amido (si ricorda, ancora, che l’amilasi salivare persiste nello stomaco e nell’intestino dopo l’ingestione, ciò che aumenta in tal modo l’attività enzimatica dell’amilasi pancreatica nel piccolo intestino, come dire che un numero di copie superiore di AMY1 è in grado di migliorare l’efficienza con cui diete ricche d’amido sono digerite in bocca, nello stomaco e nell’intestino potendo, così, anche tamponare gli effetti di riduzione della fitness di problemi intestinali eventualmente presenti); ed è notevole il fatto che la transizione neolitica (in tutte le aree dov’è avvenuta) abbia coinvolto anche la dieta del cane (Canis familiaris, v. infra), all’epoca in fase di domesticazione, dando inizio ad una coevoluzione biologica e culturale cane/uomo, coevoluzione che s’ipotizza con il fatto che la dieta del cane in questo periodo muta profondamente poiché, come mostrano alcune indagini paleogenetiche sul DNA antico (ancient DNA, aDNA) di alcuni esemplari di canidi (v. supra; qui si tratta di cani e lupi) sparsi in Eurasia, inizia a digerire gli amidi provenienti dai cereali, cioè da risorse trofiche di scarto, ma edibili, dei prodotti agricoli coltivati da Homo sapiens (il quale modifica, a sua volta e come sopra visto, dieta e modalità digestive), e questo grazie all’enzima dell’amilasi pancreatica codificato dal gene AMY2B, che nel DNA del cane presenta un’amplificazione genica, tanto che questo gene arriverà, dalle iniziali 2 copie precedenti a 8-7 000 anni fa, a essere presente con copie via via più numerose con il decorrere del tempo (e con l’affermarsi definitivo delle pratiche agricole in Eurasia) fino alle attuali e possibili 34 copie, ciò che traduce il passaggio da una dieta esclusivamente carnivora a una onnivora, e questo mentre un parente stretto, il lupo (Canis lupus, v. infra), con il suo tipo di dieta radicalmente carnivora ne presenta a tutt’oggi, e nella più parte dei casi (60 %), solo 2, ciò che può fornire ai cani domesticati un forte vantaggio adattivo in un contesto agricolo, legato probabilmente questo più al cambiamento della dieta e delle abitudini alimentari di Homo sapiens durante il Neolitico piuttosto che a un rilassamento delle naturali pressioni selettive legate a una fase della domesticazione del cane (e un’analoga ristrutturazione dietetica è stata vissuta anche durante la domesticazione dal gatto, Felis catus, come si sostiene per i gatti di Quanhucun, in Cina, che hanno modificato e allungato le loro viscere per l’estrazione e l’assimilazione dei principi nutritivi presenti nel consumo del miglio comune, Panicum miliaceum, loro offerto dagli agricoltori all’altezza 6-5 000 anni fa, v. infra); e che il tutto sia probabilmente legato al cambiamento della dieta e delle abitudini alimentari di Homo sapiens, cioè alla costruzione di una nicchia culturale, questo lo mostra anche il fatto che alcuni canidi selvatici o semidomesticati, quali i dingo australiani (Canis dingo) e i siberian husky, che provengono da regioni dove le pratiche agricole erano inesistenti, o si sono presentate tutt’al più recentemente (come dire che si parla di canidi la cui dieta storica predilige, per il dingo, la carne e, per i siberian husky, la carne e il pesce), presentano, i dingo, 2 copie del gene AMY2B al pari del lupo e, i siberian husky, da 4 a 8 copie; e senza dimenticare, primo, che l’adattamento a una dieta amidacea (e relativamente ricca di scarti) da parte del cane ha avuto un impatto non solo sulle funzioni digestive, ma anche sui tratti morfologici legati al mordere e al masticare (per esempio, sui denti, il cranio e la conformazione della mandibola); secondo, che analisi genetiche di popolazione canine hanno permesso di identificare un elenco di geni sotto selezione positiva durante il processo della loro domesticazione che si sovrappone a lungo con la relativa lista dei geni selezionati positivamente nello stesso periodo negli esseri umani, tanto che c’è chi sostiene che quest’evoluzione parallela (dove la selezione naturale, spinta da pressioni ambientali fra loro convergenti, potrebbe avere lavorato su una serie analoga di geni nei genomi tanto di Canis familiaris quanto di Homo sapiens) è più evidente nei geni implicati nella digestione, nel metabolismo, nei processi neurologici (v. infra) e, infine, nell’insorgere di forme tumorali maligne; sempre restando nell’ambito della dieta del genere Homo, si possono valorizzare le modalità di cottura degli alimenti sulle braci di legna (per esempio, della carne o degli USO, underground storage organs) al fine d’incorporare un ventaglio più ampio di risorse trofiche (v. supra e infra), modalità che però presentano un fattore negativo, di rischio, in quanto fanno sì che ci s’esponga al fumo, cioè che s’inalino durante la cottura degli elementi nocivi causati dalla parziale combustione di sostanze organiche (il detto legno), principalmente idrocarburi policiclici aromatici (Polycyclic aromatic hydrocarbons, PAH); lo stesso se si usa il fuoco per riscaldare un ambiente che poi diventa fumoso e può causare asfissia da fumo (per esempio, quando il genere Homo trova un riparo contro il freddo a fronte d’ambienti ostili, e laddove i focolari sono poi posti in una posizione centrale nelle profondità delle caverne, là dove avvengono le pratiche sociali legate alla sopravvivenza) o, volendo, con l’uso controllato del fuoco da parte dei cacciatori-raccoglitori per stanare le prede o per essiccare o affumicare la carne (rendendola così adatta allo stoccaggio o al trasporto), o per preparare il terreno a pratiche di coltura in società seminomadi, cioè per arricchire il suolo di azoto al fine di renderlo fertile per la semina per una stagione (v. infra), o perché serve a controllare lo sviluppo di un certo tipo di vegetazione, oppure quando lo si usa come strumento di difesa contro i predatori e d’offesa contro i nemici, o in quanto permette la visione notturna, o, a partire dal Neolitico, quando s’usa il fuoco regolato per manipolare i metalli e le argille per la costruzione di strumenti etc.; insomma quando si presenta una costruzione di nicchia che, grazie alla tecnologia del fuoco (v. supra), introduce un nuovo regime ecologico estremamente versatile (che rimanda, per inciso, alla profonda alterazione d’un equilibrio naturale e d’un paesaggio) e che, in quanto costruzione di nicchia culturale, cioè socialmente trasmessa, diventa irreversibile; ossia da quando il genere Homo è stato in grado di controllare il fuoco opportunistico (v. supra), ecco che si presenta un effetto collaterale non previsto, un metabolismo xenobiotico (v. infra) che porta a effetti negativi per Homo Neanderthalensis, ma che, grazie a una mutazione intervenuta in Homo sapiens, permette la convivenza, diciamo così, con gli idrocarburi policiclici aromatici; infatti, l’uso continuato del fuoco, oltre ai benefici, ha un costo per la salute del genere Homo in quanto il fumo prodotto dalla combustione (di legno o d’altro materiale organico) genera un insieme di fini particelle solide (o particolato) che contiene svariate sostanze chimiche tossiche e irritanti, compresi i citati PAH; particolato che, ad alte concentrazioni, può causare reazioni tossiche acute e una successiva tossicità cronica che, nelle citate collettività, potrebbero arrivare a un’alta frequenza percentuale (o a un elevato tasso di morbilità), tra cui, a causa dell’esposizione materna al fumo, a un aumento della morte programmata delle cellule germinali femminili (o apoptosi degli ovociti) e a un aumento del tempo di gravidanza e, per i neonati, a un elevato rischio di basso peso legato a un’alta mortalità infantile e, nei maschi, a una ridotta spermatogenesi e, in generale, a infezioni respiratorie acute e all’introduzione di fattori mutanti che sono in grado di causare dei tumori (sono cioè fattori oncògeni); ora, s’è detto, sopra, metabolismo xenobiotico, là dove con il termine xenobiotico si rimanda a quell’insieme di sostanze naturali (cui s’aggiungono, oggi, le sostanze attive sintetizzate ex novo da Homo sapiens) che sono estranee al normale metabolismo dell’organismo, dunque a ciò che mangia, beve o respira; sostanze che possono presentarsi come atossiche o tossiche, e dove il grado di tossicità è presente quando queste sostanze sono in grado di produrre un danno a carico dell’organismo che si ritrova a metabolizzarle, danno che nel caso dei tossici idrocarburi policiclici aromatici è alleggerito in Homo sapiens (diversamente che in Homo neanderthalensis) come mostra una recente analisi dei dati di sequenze paleogenetiche sull’esoma (grossomodo con il sequenziamento delle regioni codificanti del genoma d’un individuo in grado d’esprimere proteine) di 3 Homo neanderthalensis (uno nello strato 11 della grotta di Denisova nei Monti Altai, in Siberia, Russia, detto Altai Neanderthal; uno dalla Cueva [cava] del Sidrón nelle Asturie, a Nord-Ovest della Spagna e l’ultimo dalla grotta di Vindija, nel Nord della Croazia) e di un uomo di Denisova (sempre dalla grotta di Denisova, da cui deriva il suo nome, dove sono stati trovati, tra gli strati 9-11, dei suoi reperti fossili che lo imparentano, come ominine, con Homo neanderthalensis; questa grotta, inoltre, è stata frequentata oltre che dal detto Homo Neanderthalensis, anche da Homo sapiens); questi dati sono poi stati confrontati con il DNA di 9 Homo sapiens (3 d’origine sub-sahariana, 3 d’origine europea e, infine, 3 d’origine asiatica); a seguito delle analisi, la discontinuità tra Homo neanderthalensis e Homo sapiens è emersa grazie alla differenza che si presenta nel recettore arilico per gli idrocarburi (aryl hydrocarbon receptor, AHR; scritto anche come Ah Receptor), cioè in quel recettore che regola la risposta metabolica dell’organismo ai PAH (questo perché l’AHR è coinvolto nella regolazione dell’espressione di numerosi geni, per esempio quelli che codificano per enzimi coinvolti nel metabolismo, come il gene CYP1A1, ossia è una proteina che, come fattore di trascrizione del DNA, posta a fronte delle molecole di idrocarburi policiclici aromatici può presentare degli errori di trascrizione recettore; da non dimenticare però che questo recettore, oltre a funzioni esogene, influenza anche numerose funzioni endogene, tra cui il metabolismo lipidico e la funzione immunitaria); infatti, in Homo sapiens, rispetto a Homo neanderthalensis, questi composti tossici prodotti dal mangiare carne cotta alla brace e dall’esposizione al fumo, grazie a una differenza presente nel recettore arilico, ossia a una mutazione, sono metabolizzati molto più lentamente, con meno danni all’organismo; vale a dire che presentano un cambiamento funzionale significativo nella tolleranza ambientale, un’evoluzione nella risposta al fuoco/fumo e alle sue componenti xenobiotiche che si traduce, in Homo sapiens, a una versione mutante della proteina AHR ch’è di 150-1 000 volte meno sensibile agli effetti deleteri del fumo rispetto a Homo neanderthalensis; in dettaglio, nella proteina AHR il cambiamento riguarda un singolo aminoacido, che in Homo sapiens presenta nella posizione 381 una valina (Val381; variante derivata), mentre in Homo neanderthalensis e in Homo di Denisova in questa posizione c’è un’alanina (Ala381; variante ancestrale), mutazione scritta come A → V381 AHR; mutazione, lo si ripete, che permette a Homo sapiens una desensibilizzazione nei confronti di date sostanze xenobiotiche tossiche, ossia rallenta la produzione degli enzimi in gioco per la trasformazione degli idrocarburi che sono responsabili della generazione dei metaboliti tossici, mentre, al contrario, in Homo Neanderthalensis si presenta un’accelerazione nella produzione degli enzimi che dovrebbero metabolizzarli, fenomeno che sovraccarica il metabolismo e produce una tossicità cellulare perniciosa (da ricordare, infatti, che i metaboliti svolgono anche una funzione di regolazione del metabolismo dato che variazioni della loro concentrazione sono in grado d’influenzare la velocità e l’andamento delle reazioni in gioco decelerandole o accelerandole; là dove un metabolita è poi il prodotto d’una reazione e, insieme, la causa di un’altra reazione nel complesso di tutte le reazioni di biosintesi e di degradazione proprie all’organismo, cioè di trasformazione delle molecole); per inciso, ancora, l’alanina, o acido α-aminopropionico, è un aminoacido non essenziale; la valina, o acido α-aminoisovalerianico, è un aminoacido essenziale, v. supra); di qui, dato l’articolato sopra esposto di fatti, s’è sviluppata nei ricercatori l’ipotesi d’un vantaggio selettivo contro gli effetti collaterali negativi della PAH per la specie (tra i quali la detta spermatogenesi e l’apoptosi degli ovociti), vantaggio dunque che sarebbe legato poi a un miglioramento, nella popolazione di Homo sapiens, della fitness; questo in base al noto principio che se una mutazione genera una variabilità genetica casuale in una popolazione (per esempio, Homo sapiens che presenta una mutazione che protegge il suo organismo dagli effetti nocivi del PAH), si ha che, quando una popolazione sperimenta nella costruzione di nicchia un’esposizione a livelli elevati di PAH, ecco che gli organismi che trasportano la mutazione sono in grado di sopravvivere e riprodursi in presenza di questi livelli elevati di PAH e in più risultano favoriti nella riproduzione perché lasciano agli eredi un genoma adattato a quella specifica nicchia culturale, con l’effetto transgenerazionale finale d’avere geni che codificano per la resistenza alla PAH che si ritrovano via via sempre più diffusi nelle popolazioni che si susseguono e che adottano lo stesso stile di vita (oltre che in Homo sapiens, questo meccanismo si presenta anche in alcune popolazioni di pesci all’interno di habitat altamente inquinati, ciò che fornisce una forte evidenza al fatto che i vertebrati possono adattarsi a una pressione evolutiva dovuta a una persistente esposizione a ligandi AHR ambientali tossici, come mostra il rilascio industriale ad alta concentrazione, durato per ca. 30 anni, nel fiume Hudson, negli Stati Uniti, dei planari bifenili policlorurati, planar polychlorinated biphenyls o PCB, riconosciuti per essere dei potenti ligandi AHR, ciò che ha portato le popolazioni di Atlantic tomcod, o Microgadus tomcod, che lo abitano a evolversi, e nel giro di poche generazioni, si suppone ca. 60 anni, in un modo all’incirca analogo a quello sperimentato da Homo sapiens, in un modo cioè che permetta loro di resistere a molti degli effetti negativi dovuti all’esposizione al PCB, per esempio la mortalità embrionale acuta in condizioni di sovraesposizione dell’AHR ligando; sul concetto di ligando, v. supra); sempre nell’ambito della manipolazione degli alimenti, della loro cottura, legate a uno sviluppo culturale che vede implicati meccanismi di regolazione del cervello, dei denti e del tubo digerente, e di cui si parlerà a seguire a proposito della pratica del cucinare, è interessante un fenomeno che riguarda il gene MYH16 che codifica la principale proteina contrattile che costituisce i tessuti dei muscoli, denominata miosina, implicata nei muscoli masticatori dei primati non umani, e che ha subito una delezione nel lignaggio degli ominini, dove con delezione s’intende una mutazione genica che consiste nella perdita di uno o più nucleotidi in una sequenza di DNA; ora, si sospetta che questa mutazione possa provocare una massiccia riduzione nei muscoli masticatori della mascella (la mutazione è riconducibile a ca. 2,4 milioni d’anni fa), vale a dire che s’ipotizza che la riduzione marcata delle dimensioni di singole fibre muscolari e di interi muscoli masticatori, ossia il decremento (in termini di dimensioni) dei muscoli masticatori la cui causa si ritrova nell’inattivazione di MYH16, abbia rimosso, a partire da ca. 2 milioni d’anni fa (nel passaggio da Paranthropus a Homo ergaster/erectus, v. supra), un vincolo evolutivo sull’encefalizzazione negli ominini, questo permettendo ai piccoli muscoli della mascella di rimodellare il cranio giusto quando la capacità cranica è in fase d’espansione, questo perché la ridotta dimensione dei muscoli della mascella ha necessità di una regione del cranio molto più piccola per il fissaggio di questi muscoli alla struttura ossea (e va da sé che il gene MYH16 dei primati non umani fa sì che questi continuino a presentare presentano potenti muscoli in una mascella massiccia ch’è legata alla loro dieta crudista, muscoli che, causa il loro ampio spazio d’ancoraggio richiesto alla struttura ossea, non hanno lasciato spazio all’espansione del cranio); la figura seguente mostra che la dimensione relativa dei muscoli masticatori è molto diversa tra primati non umani e Homo sapiens; partendo da destra, abbiamo due crani di primati non umani, specificamente un cranio di Macaca fascicularis (un primate principalmente frugivoro, con dieta completata da foglie, fiori, radici, cortecce, insetti, uova d’uccelli e piccoli vertebrati) seguito dal cranio di Gorilla gorilla (un primate folivoro, frugivoro e, in modo opportunistico, insettivoro nel privilegiare termiti e formiche); a sinistra in cranio di Homo sapiens (un primate con dieta onnivora); le differenze nella muscolatura nei tre crani (robuste vs. fragili) si riflettono in alcune caratteristiche delle morfologie craniofacciali, quali la fossa temporale e zigomatica evidenziate in rosso nei tre crani:

Figura n.  . Fonte (modificata): Stedman et alii, 2004, p. 417.

Il tutto che s’è cercato di descrivere s’è poi verificato con una cadenza temporale che grossomodo può coincidere con la probabile comparsa storica della cottura (là dove la masticazione di cibi cotti d’un ominine onnivoro è facilitata rispetto alla masticazione specializzata dei cibi crudi nei primati non umani, v. supra); se quest’ipotesi sarà confermata (poiché non tutti gli studiosi sono in ciò concordi, lo stesso per la data della mutazione spostata, per esempio, a 5,3 milioni d’anni fa), è come dire che siamo in presenza del fatto che un processo culturale ha contribuito a rimuovere un vincolo genetico che impediva un cambiamento morfologico, specificamente quello in grado di correlare la morfologia craniofacciale con la modificazione della forza della contrazione muscolare masticatoria (ed è poi più che probabile che diverse altre delezioni geniche possano essersi verificate in collaborazione con i cambiamenti nella dieta del genere Homo); la tabella seguente, a  riassunto, indica i geni identificati come oggetto d’una selezione rapida, storicamente recente, dovuta a  pressioni selettive culturali:

GENI [1]
FUNZIONE O FENOTIPO

PRESSIONE CULTURALE

LCT, MAN2A1, SI, SLC27A4, PPARD, SLC25A20, NCOA1,
LEPR, LEPR, ADAMTS19, ADAMTS20, APEH, PLAU, HDAC8,
UBR1, USP26, SCP2, NKX2‑2, AMY1, ADH, NPY1R, NPY5R
Digestione del latte e di prodotti lattiero-caseari; metabolismo dei carboidrati, dell’amido, di proteine, di lipidi e fosfati; metabolismo dell’alcool
Produzione di latte e uso alimentare del latte; preferenze di tipo alimentare; consumo d’alcool

CITOCROMO P450 [2] (CYP3A5, CYP2E1, CYP1A2 E CYP2D6)
Disintossicazione
da composti secondari della pianta
Domesticazione delle piante
CD58, APOBEC3F, CD72, FCRL2, TSLP, RAG1, RAG2, CD226,
IGJ, TJP1, VPS37C, CSF2, CCNT2, DEFB118, STAB1, SP1,
ZAP70, BIRC6, CUGBP1, DLG3, HMGCR, STS, XRN2, ATRN,
G6PD, TNFSF5, HbC, HbE, HbS, Duffy, α‑globin
Immunità e risposta ai patogeni;
resistenza alla malaria e ad altre
malattie da affollamento (crowd
diseases)
Processi di dispersione (di distribuzione d’una popolazione su un’altra vasta area); attività agricole (compresi contatti con il bestiame domesticato); fenomeni d’aggregazione e di successiva esposizione a nuovi agenti patogeni
LEPR, PON1, RAPTOR, MAPK14, CD36, DSCR1, FABP2, SOD1,
CETP, EGFR, NPPA, EPHX2, MAPK1, UCP3, LPA, MMRN1
Metabolismo energetico, tolleranza al caldo o al freddo; geni heat-shock [3].
Dispersione e successive
esposizioni a nuovi climi
SLC24A5, SLC25A2, EDAR, EDA2R, SLC24A4, KITLG, TYR,
6p25.3, OCA2, MC1R, MYO5A, DTNBP1, TYRP1, RAB27A,
MATP, MC2R, ATRN, TRPM1, SILV, KRTAPs, DCT
Caratteristiche del fenotipo visibili esternamente, quali pigmentazione della pelle, spessore dei capelli, colore degli occhi e dei capelli, lentiggini
Dispersione e adattamento alla situazione locale e/o selezione sessuale
CDK5RAP2, CENPJ, GABRA4, PSEN1, SYT1, SLC6A4, SNTG1,
GRM3, GRM1, GLRA2, OR4C13, OR2B6, RAPSN, ASPM, RNT1,
SV2B, SKP1A, DAB1, APPBP2, APBA2, PCDH15, PHACTR1,
ALG10, PREP, GPM6A, DGKI, ASPM, MCPH1, FOXP2
Sistema nervoso, funzioni cerebrali e processi di sviluppo; competenze linguistiche e apprendimento vocale
Stato d’esistenza d’una attività cognitiva complessa con la quale la cultura s’intreccia per potersi manifestarsi [4]; intelligenza sociale; uso della lingua e
apprendimento vocale

BMP3, BMPR2, BMP5, GDF5

Sviluppo scheletrico
Dispersione e selezione sessuale
MYH16, ENAM

Fibre muscolari della mascella; spessore dello smalto dei denti
Invenzione della cottura; dieta [5]

[1] si ricorda che esiste una convenzione internazionale riguardante il modo con cui i nomi dei geni e delle proteine sono scritti; s’usa, per geni e proteine appartenenti al genere Homo, sempre la lettera maiuscola, scritta in corsivo per i geni e in testo pieno (non in corsivo) per le proteine codificate dai geni; per le altre specie, pur mantenendo il corsivo per i geni e il pieno testo per le proteine, si scrive, di solito, in maiuscolo solo con la prima lettera.
[2] Il citocromo P450 (CYP) metabolizza tanto le sostanze xenobiotiche o no che vengono ingerite (anche composti potenzialmente tossici), quanto le sostanze interne, quali le tossine che si formano all'interno delle cellule (come dire ch’è un detossificante dell’organismo).
[3] Il termine heat-shock è traducibile come shock termico, e i geni heat-shock limitano i danni causati da esposizione a stress ambientali di qualsiasi tipo (specie in condizioni estreme) e facilitano il recupero cellulare.
[4] V., infra, il cervello sociale.
[5] Termine da intendersi come l’insieme dei nutrienti utilizzati per garantire il fabbisogno alimentare dell’organismo.

Tabella n.  . Fonte (adattata): Laland, Odling-Smee e Myles, 2010, p. 143.


Detto delle evidenze empiriche avanzate dalla genetica sulla ristrutturazione da parte della cultura del genoma del genere Homo (coevoluzione cultura-gene), restano ora da indagare le modalità di trasmissione degli adattamenti cognitivi propri alla cultura e quali sono state le sue modalità evolutive, insomma avvicinarsi a capire come funziona l’essere in esistenza del repertorio delle pratiche e delle informazioni da cui dipende il genere Homo per la sua sopravvivenza (perché, come ha detto qualcuno, soli e deprivati della nostra cultura, siamo senza futuro come specie), e si sospetta fortemente che l’efficacia dimostrata da questo processo evolutivo della cultura nelle specie del genere Homo (che si forma per accumulazione della memoria storica) dipenda dalla formazione biologica d’una processualità cervello-mente a livello individuale, dalla dimensione delle popolazioni (e dei rapporti fra gli organismi che la compongono) e dalla qualità dell’interconnessione fra le reti nella trasmissione dei pacchetti culturali, reti che sono poi socialmente prodotte grazie all’insieme del lavoro materiale/immateriale fin lì accumulato e disponibile in un dato momento storico; e sarà questo l’argomento a seguire.