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LA COEVOLUZIONE CULTURA-GENE

[... ] ora, giacché la NTC prevede anche la migrazione/dispersione opportunista d’organismi che si spostano nello spazio, cioè che si trasferiscono in nuovi ambienti (delocalizzazione) dove devono sperimentare altre condizioni, si pensi alla portata dell’affermazione sulle dinamiche transgenerazionali di nicchia se oggetto di studio diventa il genere Homo, là dove tutto il suo vissuto è fenomeno leggibile anche come effetto di una costruzione di nicchia transgenerazionale che si basa sulle dinamiche esperienziali di delocalizzazione e domesticazione dell’ambiente (v. supra) da parte d’una collettività d’organismi guidata dal cervello sociale (di cui s’è parlato diffusamente sopra e che sarà definito a seguire); questo dato che, s’è vero che le informazioni e i comportamenti acquisiti dagli organismi attraverso processi ontogenetici non possono essere ereditati in quanto si perdono dopo la loro morte, processi come l’appreso dai suoi discendenti in un contesto sociale, possono essere di notevole importanza per la sopravvivenza di questi (trasmissione verticale), per la loro diffusione promossa tra i componenti all’interno della generazione presente (trasmissione orizzontale) e per la trasmissione dell’appreso a una generazione più giovane messa in atto da un qualsiasi componente d’una generazione precedente (trasmissione obliqua), giacché il dispositivo dell’ereditarietà ecologica può permettere al cervello sociale di valutare e controllare in modo dinamico e plastico i parametri critici della costruzione di nicchia attraverso le modalità di circolazione dell’appreso (intesi i parametri critici come tutto ciò che può ridurre l’incertezza negli ambienti selettivi rispetto agli interessi manifestati dagli organismi riguardo alla loro fitness, cioè controllando il ventaglio degli ambienti di sviluppo cui possono essere esposti gli eredi), con la clausola che l’appreso dalla collettività d’organismi sia poi inteso in termini di flussi di conoscenze accumulate, di comportamenti e di pratiche acquisite; un insieme, dunque, ch’è veicolato da un cervello sociale in un processo di sociogenesi ininterrotta che, come mostra l’iter del genere Homo, implica dei cambiamenti tanto nel trasferimento transgenerazionale dell’ereditarietà ecologica quanto nella loro stabilizzazione (selettiva) storicamente data e determinata; e in special modo nel momento in cui la costruzione di nicchia gli permette di persistere, cioè di sussistere e riprodursi, nelle condizioni ambientali frammentate, instabili e ostative, ossia inospitali e proprie al vissuto di domesticazione dell’ambiente da parte del genere Homo (v. per esempio, supra, l’effetto di tamponamento, o buffering), condizioni d’antropizzazione che come si vedrà creano poi le premesse per la domesticazione e la colonizzazione dell’intero pianeta da parte di Homo sapiens; senza però dimenticare che questo dato di fatto, cioè che l’ereditarietà ecologica influenza fortemente le dinamiche evolutive, vale tanto per il genere Homo quanto per le centinaia di specie sociali di mammiferi, uccelli e pesci, così come per gli insetti eusociali (quali termiti, formiche, api, vespe e altre ancora), cioè in tutte quelle specie in cui la capacità d’interagire con l’ambiente, grazie al detto dispositivo di conoscenza e comportamento acquisito promosso dall’ingegneria ecologica, non è una capacità ch’è garantita dalla presenza di geni selezionati dall’evoluzione; o, detto altrimenti, è sempre sottinteso che questo dispositivo d’ereditarietà ecologica rappresenta un’eredità extragenetica che allarga il concetto stesso d’ereditarietà di là dalla genetica di trasmissione, ciò che sottolinea, in generale, come non tutto lo sviluppo sia sotto stretto controllo genetico (e sempre fatta salva la causalità reciproca e ricorsiva tra eredità ecologica e eredità genetica); ora, l’appreso dalla citata collettività d’organismi rimanda a quello che qui s’intende con il termine cultura, termine ombrello di difficile esplicitazione semantica a causa del suo uso polisemico (o, volendo, del suo uso come concetto passe-partout che difficilmente trova unanime consenso), che qui s’adotta nella sua valenza di strumento di trasmissione e modellamento sociale grazie al quale il genere Homo ha potuto costruire le sue nicchie in grado di modificare l’ambiente abiotico e biotico degli ecosistemi a suo vantaggio (e con ricadute evolutive anche per piante e animali, che sfociano infine nella selezione artificiale; per esempio, v., infra, la loro domesticazione) e che possiamo tradurre, come sopra accennato, attraverso il ricorso ai flussi di conoscenze, di comportamenti e di pratiche acquisite trasmesse (in modo non passivo) con lo stoccaggio delle memorie e delle competenze che transitano nei cervelli e con la loro esplicitazione attraverso il linguaggio o l’imitazione o con altri modalità d’apprendimento sociale (o social learning), oppure con altri strumenti e metodi d’immagazzinamento esterno della memoria (v. infra), tratti che sono tutti d’interfaccia nell’interazione via via più complessa dell’organismo con l’ambiente e che possono essere indicizzati grazie al tasso d’uno sviluppo economico e sociale storicamente dato (e sono tratti d’interfaccia perché lo stoccaggio della memoria culturale ci dovrebbe rendere edotti del fatto che la cognizione immagazzinata non è qualcosa che capita solo nel nostro cervello alla stregua d’una routine biologica, ma che la cognizione in gioco che abita e che transita nella nostra mente è la risultante storica dei cambiamenti che intervengono nelle strutture d’assemblaggio e in quelle di relazione tra le eterogenee componenti biotiche e abiotiche d’un ambiente, d’una realtà); tasso di sviluppo economico e sociale storicamente dato, dunque, che poi può essere indicizzato, più o meno in dettaglio per gli ultimi 100 000 anni, questo ricorrendo alla tipologia delle risorse utilizzate, ai mezzi di produzione utilizzati per trasformarle in prodotto (e, a seguire, a distribuirlo per il consumo) e dai rapporti sociali che si creano nella collettività in riferimento alle possibilità di sfruttamento delle risorse offerte dallo stato dei mezzi di produzione e dall’accesso al consumo dei prodotti, ivi compreso il lavoro e la sua parcellizzazione (con tassi di delega allo stoccaggio specializzato delle conoscenze accumulate che variano al variare delle complessità sociale e della divisione complessiva del lavoro necessario per mantenere in essere e permettere la riproduzione sociale della struttura economica); e giacché ruoli e compiti che alterano il comportamento degli individui del genere Homo in una società storicamente situata lo fanno in un modo plastico e radicale, la modificazione dell’insieme (che, come vedremo a seguire, si basa sulla produzione materiale) include anche l’organizzazione degli stati mentali (epistemici o meno che siano, e là dove l’episteme riguarda l’indagine razionale del percepito), l’intrecciarsi dei vissuti emotivi (prosociali) e dei vincoli paradigmatici che i sistemi delle credenze e i sistemi valoriali (insomma i sistemi legati allo stato delle forze produttive e delle visioni del mondo, o Weltanschauungen), stabiliscono e plasmano all’interno delle collettività proiettate verso la loro riproduzione sociale in fase d’assestamento o di stabilizzazione (ciò che comprende anche la gestione della violenza istituzionale verso l’esterno e della violenza intraspecie all’interno) e altro ancora; con la clausola, ritornando alla costruzione di nicchia, che il serbatoio dell’appreso transgenerazionale (o eredità culturale, cultural inheritance) è poi da intendersi come una componente dell’eredità ecologica, un suo sottoinsieme che può essere definito come costruzione d’una nicchia culturale (cultural niche construction) o, detto altrimenti, che l’eredità non è tripla (genetica, ecologica e culturale), ma duale (genetica e ecologica) essendo la costruzione della nicchia culturale solo una componente, sia pur molto pervasiva nell’antropizzazione dell’ambiente, dell’eredità ecologica (o, detto altrimenti, non tutta la costruzione della nicchia umana è costruzione della nicchia culturale, e non tutta l’eredità ecologica umana è eredità culturale); e a proposito della pervasività di questo tratto della costruzione culturale, e fatto salvo il caso che l’eredità ecologica possa implicare un processo culturale senza alcuna ricaduta genetica, si presenta il problema dell’evoluzione dell’eredità genetica umana che si combina con l’eredità culturale (o coevoluzione cultura-gene, detta anche teoria dell’eredità duale, o Dual inheritance theory, DIT), il tutto come un effetto endogeno della costruzione di nicchia che potrebbe influenzare la selezione naturale dei geni nel genere Homo, selezione che, a sua volta, potrebbe a volte poi influenzare l’espressione dei processi culturali e l’antropizzazione dell’ambiente.

LA COEVOLUZIONE CULTURA-GENE

Detto che si stima che centinaia di geni siano stati oggetto di selezione positiva (relativamente) recente, e spesso in risposta alle attività umane, e sottolineato che in moltissimi casi deve ancora essere dimostrato il fatto che la causa di selezione del gene sia derivata da una pratica culturale, quest’ipotesi della DIT suggerisce che i processi culturali possono influenzare notevolmente l’evoluzione genetica con il tasso di variazione delle frequenze alleliche innescate come risposta a una modificazione delle condizioni ambientali, e sempre fatto salvo il fatto che sia presente un tempo sufficiente affinché si fissi l’allele benefico associato alla modificazione (come dire che la costruzione di nicchia culturale, introducendo una variante extragenetica che rende una mutazione vantaggiosa solo per date variabili ambientali, è in grado d’alterare positivamente l’esito previsto dalla trasmissione puramente genetica); dinamiche d’innesco delle variazioni alleliche che sono poi, in generale, più veloci, nel tempo richiesto per la fissazione dell’allele benefico associato, rispetto alle condizioni richieste dalle dinamiche evolutive convenzionali (o che, come pressioni selettive culturali, possono essere dismesse più velocemente, s’è il caso), questo perché operano con una frequenza maggiore e su un ventaglio più ampio e variato di situazioni; tanto che le pratiche culturali innovative, nei confronti d’una mutazione genetica che obbedisce ai tempi evolutivi standard, hanno solitamente risposte più rapide alla selezione, anche perché la popolazione sulla quale agisce la diffusione d’una innovazione culturale è di fatto numericamente amplificata dalla rapidità della sua diffusione, ciò che fa sì che s’amplifichi nella popolazione anche l’intensità della selezione della variante genetica dimostratasi vantaggiosa; ora, visto che gli ultimi 100 000 anni hanno prodotto, date la nicchie culturali presenti, una pressione selettiva sui fenotipi legata a nuovi habitat e climi; visto che la pressione selettiva s’è esercitata là dove la densità abitativa ha via via promosso l’esposizione a nuovi patogeni legati allo stile di vita antropomorfo (per esempio, alla sedentarietà; v. infra) e dove la vicinanza ad animali domesticati (o in fase di domesticazione, v. infra) ha favorito la diffusione di malattie legate a patogeni zoomorfi (dette zoonosi; v. infra); visto poi che la pressione selettiva s’è storicamente assestata con la transizione dalle società di caccia e raccolta a quelle pastorali e agricole che, affermatesi a partire dagli ultimi 10 000 anni, sono state, infatti, caratterizzate da un rapido e vincente incremento demografico; visto tutto questo, possiamo dunque dire che le situazioni demografiche venutesi a creare potrebbero avere poi permesso ad alcune mutazioni di poter essere vantaggiose e di creare un nuovo genotipo adattato, diciamo così, alla densità abitativa (ragione per cui è possibile che il passaggio dallo stile di vita nomade proprio ai cacciatori-raccoglitori a quello sedentario e ad alta densità demografica degli agricoltori abbia facilitato la diffusione di agenti infettivi legati a un’ampia casistica, ciò che potrebbe avere portato a un rapido incremento della frequenza degli alleli in grado di proteggere contro questi agenti e molto altro ancora); in generale, e partendo dall’assioma che la costruzione di nicchia umana è informata da una piattaforma unica di conoscenze culturali che sono potenti in quanto storicamente cumulatesi (e, bene o male, autoimpostesi), si può poi dire che alla base dei principali eventi che portano alla selezione sui geni umani (e alla formazione di genotipi inediti) ci sono dunque le innovazioni culturali legate alle nuove risorse trofiche, solitamente connesse con la colonizzazione di nuovi habitat, con le pratiche della loro produzione e con le strategie economiche e sociali di trasmissione dell’insieme (ma senza dimenticare che la detta velocità dell’eredità culturale accumula però errori su errori i cui effetti producono spesso conseguenze maladattative non previste, passando, come esemplificano gli ultimi 10 000 anni, dall’alterazione degli equilibri ambientali alla creazione di strutture economico-sociali destabilizzati perché inegualitarie e altre nefaste conseguenze proprie all’Anthropocene); di risultati certi che gli  studi genetici hanno confermato essere soggetti a una selezione (relativamente recente) legata alla coevoluzione cultura-gene ne esistono (anche se, come sopra detto, ci sono moltissimi casi in cui deve ancora essere dimostrato che la causa di selezione del gene è derivata da una pratica culturale), e tra questi l’esempio più studiato d’una mutazione vantaggiosa è quello della c.d. tolleranza al lattosio; e si tratta d’una mutazione che ha permesso ai portatori una chance di sopravvivenza alimentare aumentata (cioè l’accesso a un surplus di calorie che ha dato ai portatori una possibilità d’avere più figli rispetto ai non portatori, specialmente nei periodi di carestia), ciò che ha permesso la diffusione nella popolazione e nelle generazioni a seguire della mutazione legata, nei climi freddi o nei climi caldi e aridi (v. infra), all’ambito della tolleranza al latte d’origine animale dopo lo svezzamento dal latte materno; ciò che rimanda alla comparsa storica della domesticazione del bestiame da latte nelle società pastorali e della produzione dei prodotti caseari fermentati ricavati dal latte (per esempio, yoghurt o formaggio, v. infra), evento di una costruzione di nicchia culturale che ha alterato gli ambienti selettivi di queste società per un numero sufficiente di generazioni (poche centinaia di generazioni) che sono così state in grado, persistendo la pratica culturale, di selezionare quelle mutazioni che conferiscono maggiore tolleranza al lattosio negli adulti e di aumentarne, pertanto, il carico calorico disponibile offerto dall’ambiente (questo perché il latte è un’importante fonte di proteine e grassi; per esempio, è stata stimata sui 400-600 kg la produzione di latte di una mucca nel periodo preistorico durante il periodo dello svezzamento dei vitelli, di cui 150-250 possono essere sottratti per l’alimentazione umana, ciò ch’è, in calorie, quasi equivalente al consumo carneo dell’intera mucca, ciò che ha quantomeno permesso di fare un uso più economico del bestiame e di meglio valorizzare il bestiame femminile rispetto a quello maschile, cioè di programmarne il consumo secondo le esigenze demografiche che si presentano); come detto sopra, è poi il gene LCT quello che poi fornisce le istruzione per produrre l’enzima della lattasi (lattasi florizin-idrolasi, o lactase-phlorizin hydrolase, LPH), enzima che aiuta, durante il transito intestinale, a digerire uno zucchero complesso presente nel latte, il lattosio (LPH è poi prevalentemente espresso nell’intestino tenue, v. infra, dove idrolizza il lattosio in glucosio e galattosio, due zuccheri che sono facilmente assorbiti nel circolo ematico); mentre la lattasi è smessa d’essere prodotta dall’organismo dopo lo svezzamento del lattante, generando, in questo modo, un deficit di lattasi congenita che non gli permette più di digerire il latte d’origine animale (sindrome di malassorbimento detta intolleranza al lattosio), è capitato che dei polimorfismi a singolo nucleotide (v. supra) nelle regioni circostanti al gene LCT che la produce siano associati, negli organismi che presentano queste mutazioni, con la persistenza (ereditabile) della lattasi dall’infanzia fino all’età adulta, ragion per cui questi organismi possono consumare latte d’origine animale senza problemi di malassorbimento, e questo grosso modo si sospetta sia avvenuto in un’economia di sussistenza già dedita alla pastorizia ca. 6 000 anni fa, specificamente in una popolazione nomade di pastori di renne (sulla domesticazione della renna, Rangifer tarandus tarandus, v. infra) vicino ai monti Urali, in Russia (si ricorda che altri dice che la tolleranza al lattosio data a partire da ca. 10 000 anni fa e che solo via via la frequenza dell’allele è poi aumentata, a basse frequenze 8 000-7 000 anni fa e poi, dal 6 000 e solo in certe aree geografiche, ad alte frequenze); in ogni caso, la distribuzione del fenotipo tollerante al lattosio si sovrappone al reperimento dei siti che, in quest’arco temporale di 10 000 anni, mostrano presenza d’attività pastorali legate all’allevamento di animali da latte e all’attività di produzione, di stoccaggio e di distribuzione del latte e dei prodotti caseari (sovrapposizione in cui l’insorgere della mutazione segue l’adozione della pastorizia, ossia una costruzione di nicchia culturale, dunque una coevoluzione cultura-gene che va sotto il nome di Cultural Historical hypothesis; la cui contro-ipotesi è quella che afferma che la tolleranza al lattosio è stata consentita prima dall’insorgenza d’una mutazione cui solo a seguire s’è affermata con la diffusione dell’allele collegata alla pratica culturale della pastorizia che ne ha permesso la persistenza) e che si ritrova nei climi aridi e caldi e alle alte altitudini; nei climi aridi e caldi là dove ci sono popolazioni di pastori nomadi che vivono in zone steppose e desertiche, qual è il caso, per esempio, della Penisola Araba, dove il latte di dromedario (Camelus dromedarius, v. supra e infra) è usato dai pastori nomadi, i beduini, e a partire da ca. 4 000 anni fa, come alimento di base che risulta essere, per coloro che lo consumano, oltre che una fonte di cibo, anche una preziosa sostanza liquida incontaminata; mentre nei climi freddi il consumo di latte da parte delle popolazioni nomadi di pastori, oltre che ai citati benefici, apporterebbe loro anche il calcio, ciò che permetterebbe d’evitare la diffusione nella popolazione delle patologie delle ossa (rachitismo e osteomalacìa, v. infra), presenti nei detti climi delle alte altitudini a causa d’una scarsa irradiazione solare (detta Calcium absorption hypothesis; v. infra; sul problema della tolleranza/intolleranza al lattosio, v. supra e infra); un altro esempio di coevoluzione cultura-gene in atto lo si ritrova nelle popolazioni che appartengono alla famiglia linguistica Kwa dell’Africa occidentale e che coltivano yams (lo yam, o Dioscorèa, della famiglia delle Dioscoreacee, è un tubero d’amido commestibile d’una pianta rampicante presente nei paesi tropicali e subtropicali) e i cui i metodi di coltura, vale a dire di gestione antropica dell’ambiente, hanno favorito l’emergere nelle popolazioni di un’emoglobina (Hb) con una mutazione che ha dato origine all’emoglobina S (HbS) che protegge i portatori sani dell’anemia falciforme dalla malaria; bisogna, infatti, sapere che per fare crescere queste colture di yam gli agricoltori hanno dovuto tagliare delle radure nelle foreste marginali, ciò che ha avuto l’effetto, durante le piogge (e lo yam s’inizia a coltivare quando inizia la stagione delle piogge), d’aumentare la quantità di acqua stagnante a causa delle diverse modalità di drenaggio dei suoli, ciò che a sua volta ha creato, complice anche il clima con temperature che s’aggirano sui 25-30° C, la possibilità d’incrementare la presenza di popolazioni di zanzare apportatrici di malaria (zanzare femmine infette del genere Anopheles) e, pertanto, la diffusione della malaria nelle popolazioni che hanno creato queste stagnazioni (v. infra); fatto salvo che la malaria ha una fase di sviluppo che coinvolge i globuli rossi dell’organismo infettato, è questa diffusione della malaria che ha creato le condizioni per una coevoluzione gene-coltura, nel senso che la pratica antropica di deforestazione a fini alimentari ha favorito la formazione di varianti dell’emoglobina, ossia mutazioni del materiale genico codificante l’emoglobina, ciò che ha portano a emoglobinopatie, quale è il caso dell’emoglobina S, o HbS, che presenta in dati casi una più alta resistenza alla malaria, ciò che conduce a un significativo vantaggio evolutivo (se pur relativo) per i portatori di tale mutazione ch’è molto frequente nelle popolazioni per le quali risulta più alto il rischio di contrarre la malaria; questo perché, se la malaria è molto diffusa in una data area geografica, essere portatori di un solo allele falciforme nell’emoglobina conferisce un vantaggio ai portatori sani dell’emoglobinopatia che sono soggetti a sintomi meno gravi quando sono infettati (l’allele è poi detto falciforme perché è la cellula, deformandosi per una carenza d’ossigeno, crea una struttura a falce, o sickle, da cui la sigla HbS che aggiunge a Hb la S di sickle); infatti, è da ricordare che l’emoglobina permette il metabolismo energetico aerobico, ed è una proteina combinata con il ferro ch’è raccolta nei globuli rossi del sangue ed è dotata della funzione di combinarsi reversibilmente con l’ossigeno molecolare O2, cioè d’assumere ossigeno a livello dei polmoni e di cederlo ai vari tessuti del corpo per permetterne la respirazione cellulare e, nella fase seguente della respirazione, di trasportare il diossido di carbonio, CO2, dai tessuti ai polmoni per l’espulsione; ancora, che l’anemia falciforme (o falcemia o sickle-cell disease) è una forma ereditaria di carenza d’ossigeno nei globuli rossi causata dalla detta mutazione del gene che codifica la catena β dell’emoglobina che, negli individui eterozigoti che possiedono nella catena mutante un allele normale e uno mutante produce effetti non gravi e protegge dalla malaria (e quelli che portano un solo tratto falciforme, o Sickle-cell trait, sono detti portatori sani), a differenza della gravità dei sintomi (che portano a una ridotta aspettativa di vita) che si presenta negli omozigoti che, nella detta catena, presentano una coppia di alleli mutanti; da ricordare che qui la variabile cruciale, cioè la quantità d’acqua stagnante nell’ambiente conseguenza della coltivazione yam, è in sé una variabile ecologica e non una variabile culturale che, in parte, dipende da fattori che sfuggono al controllo della popolazione (cioè dalla quantità delle effettive precipitazioni nell’area coinvolta; quindi, in senso stretto, il legame tra l’eredità culturale e quella genetica non è diretto giacché i due sistemi ereditari, genetici e culturali, necessitano dell’intermediazione d’una variabile intermedia di tipo abiotico ed ecologico; ma, il fatto che si possa poi affermare che le popolazioni adiacenti a quelle degli agricoltori yam che, in Africa occidentale, presentano pratiche agricole non legate alla produzione di questa risorsa trofica, non mostrino lo stesso aumento nella frequenza allelica dei coltivatori di lingua Kwa può essere di supporto a una conclusione che affermi che le pratiche culturali possono guidare l’evoluzione genetica; come lo yam, ch’è un tubero ricco d’amido, contengono amido anche le patate, le farine di frumento, di mais, d’orzo, d’avena, di segale, il riso etc., e il consumo di questi prodotti amidacei nella dieta umana si presenta come fortemente strutturato a partire dalle società agricole, questo perché l’amido ha costituito e costituisce il carboidrato (o glucide) tra i più importanti nella dieta umana, tanto che questi, per il tramite del suo massiccio consumo nella costruzione d’una nicchia culturale in fase d’espansione, ha ingenerato anche risposte genetiche per favorire la sua assimilazione; l’amido, che appartiene al gruppo dei polisaccaridi, si forma nelle parti verdi delle piante per fotosintesi da acqua e diossido di carbonio, e s’accumula quale sostanza di riserva nelle radici, nei tuberi, nei semi (là dove rappresenta una riserva d’energia per la pianta in crescita) e le quantità più elevate d’amido si trovano nelle cariossidi (v. infra) dei cereali e nei tuberi della patata, se pure ne ritrovano, ma in minori quantità, anche nei legumi, nella frutta etc. (e ci si ricordi, a questo proposito, di quanto sopra detto rispetto alle variazioni di consumo di bulbi, tuberi, radici e rizomi nel genere Homo, cioè degli organi di riserva sotterranei, o USO, underground storage organs, che sono cibi ad alto valore nutritivo, cioè amidi che potrebbero avere facilitato la comparsa iniziale e la diffusione di Homo erectus dall’Africa; per inciso, dal punto di vista nutrizionale l’amido apporta, per ogni grammo, 4,2 kcal); nell’organismo la digestione degli amidi si presenta a partire dall’insalivazione nella bocca dei detti cibi masticati (dove di fatto avviene, a livello di quantità, una notevole  digestione dell’amido) e sono le ghiandole salivari che, per il tramite dell’amilasi prodotta, catalizzano il primo passaggio nella digestione degli amidi (dove l’amilasi rappresenta un gruppo d’enzimi che catalizzano l’idrolisi del legame α-1,4-glicosidico dei polisaccaridi costituenti l’amido per arrivare poi a formare una miscela di glucosio e maltosio; l’amilasi salivare, o α-amilasi, è detta anche ptialina, v. infra, ed è la prima espressione dell’amilasi); è poi il gene AMY1 che codifica l’enzima presente nella saliva come amilasi salivare (v. infra), e poiché il consumo d’amido in Homo sapiens si stima si sia storicamente presentato a partire da ca. 200 000 anni fa per poi differenziarsi nelle varie società presentandosi, a partire dalla transizione neolitica, come una caratteristica alimentare propria alle società agricole, e questo a differenza delle società dei cacciatori-raccoglitori delle foreste fluviali e dei territori circumartici (escluse dunque quelle società di cacciatori-raccoglitori che hanno operato e operano in ambienti aridi, per esempio, gli Hadza, v. supra) e di quelle pastorali, che consumano molto meno amido, è allora possibile che queste differenze alimentari portino a pressioni selettive diversificate in società culturalmente diverse nelle modalità di sfruttamento antropico dell’ambiente, cioè che le differenze di dieta nell’esposizione agli amidi, dovute ai vincoli storici contingenti via via presentatisi, abbiano agito sull’amilasi salivare, come mostra, per esempio, il fatto che gli individui provenienti storicamente da popolazioni che hanno praticato diete ad alto contenuto d’amido (o high-starch) hanno, mediamente, più copie AMY1 rispetto a quelli con diete tradizionalmente a basso contenuto d’amido (o low-starch), là dove il più alto numero di copie AMY1 è nei fatti ipotizzabile come opera d’una selezione naturale che ha plasmato una variazione del numero di copie AMY1 in funzione del miglioramento digestivo degli alimenti ricchi d’amido (si ricorda, ancora, che l’amilasi salivare persiste nello stomaco e nell’intestino dopo l’ingestione, ciò che aumenta in tal modo l’attività enzimatica dell’amilasi pancreatica nel piccolo intestino, come dire che un numero di copie superiore di AMY1 è in grado di migliorare l’efficienza con cui diete ricche d’amido sono digerite in bocca, nello stomaco e nell’intestino potendo, così, anche tamponare gli effetti di riduzione della fitness di problemi intestinali eventualmente presenti); ed è notevole il fatto che la transizione neolitica (in tutte le aree dov’è avvenuta) abbia coinvolto anche la dieta del cane (Canis familiaris, v. infra), all’epoca in fase di domesticazione, dando inizio ad una coevoluzione biologica e culturale cane/uomo, coevoluzione che s’ipotizza con il fatto che la dieta del cane in questo periodo muta profondamente poiché, come mostrano alcune indagini paleogenetiche sul DNA antico (ancient DNA, aDNA) di alcuni esemplari di canidi (v. supra; qui si tratta di cani e lupi) sparsi in Eurasia, inizia a digerire gli amidi provenienti dai cereali, cioè da risorse trofiche di scarto, ma edibili, dei prodotti agricoli coltivati da Homo sapiens (il quale modifica, a sua volta e come sopra visto, dieta e modalità digestive), e questo grazie all’enzima dell’amilasi pancreatica codificato dal gene AMY2B, che nel DNA del cane presenta un’amplificazione genica, tanto che questo gene arriverà, dalle iniziali 2 copie precedenti a 8-7 000 anni fa, a essere presente con copie via via più numerose con il decorrere del tempo (e con l’affermarsi definitivo delle pratiche agricole in Eurasia) fino alle attuali e possibili 34 copie, ciò che traduce il passaggio da una dieta esclusivamente carnivora a una onnivora, e questo mentre un parente stretto, il lupo (Canis lupus, v. infra), con il suo tipo di dieta radicalmente carnivora ne presenta a tutt’oggi, e nella più parte dei casi (60 %), solo 2, ciò che può fornire ai cani domesticati un forte vantaggio adattivo in un contesto agricolo, legato probabilmente questo più al cambiamento della dieta e delle abitudini alimentari di Homo sapiens durante il Neolitico piuttosto che a un rilassamento delle naturali pressioni selettive legate a una fase della domesticazione del cane (e un’analoga ristrutturazione dietetica è stata vissuta anche durante la domesticazione dal gatto, Felis catus, come si sostiene per i gatti di Quanhucun, in Cina, che hanno modificato e allungato le loro viscere per l’estrazione e l’assimilazione dei principi nutritivi presenti nel consumo del miglio comune, Panicum miliaceum, loro offerto dagli agricoltori all’altezza 6-5 000 anni fa, v. infra); e che il tutto sia probabilmente legato al cambiamento della dieta e delle abitudini alimentari di Homo sapiens, cioè alla costruzione di una nicchia culturale, questo lo mostra anche il fatto che alcuni canidi selvatici o semidomesticati, quali i dingo australiani (Canis dingo) e i siberian husky, che provengono da regioni dove le pratiche agricole erano inesistenti, o si sono presentate tutt’al più recentemente (come dire che si parla di canidi la cui dieta storica predilige, per il dingo, la carne e, per i siberian husky, la carne e il pesce), presentano, i dingo, 2 copie del gene AMY2B al pari del lupo e, i siberian husky, da 4 a 8 copie; e senza dimenticare, primo, che l’adattamento a una dieta amidacea (e relativamente ricca di scarti) da parte del cane ha avuto un impatto non solo sulle funzioni digestive, ma anche sui tratti morfologici legati al mordere e al masticare (per esempio, sui denti, il cranio e la conformazione della mandibola); secondo, che analisi genetiche di popolazione canine hanno permesso di identificare un elenco di geni sotto selezione positiva durante il processo della loro domesticazione che si sovrappone a lungo con la relativa lista dei geni selezionati positivamente nello stesso periodo negli esseri umani, tanto che c’è chi sostiene che quest’evoluzione parallela (dove la selezione naturale, spinta da pressioni ambientali fra loro convergenti, potrebbe avere lavorato su una serie analoga di geni nei genomi tanto di Canis familiaris quanto di Homo sapiens) è più evidente nei geni implicati nella digestione, nel metabolismo, nei processi neurologici (v. infra) e, infine, nell’insorgere di forme tumorali maligne; sempre restando nell’ambito della dieta del genere Homo, si possono valorizzare le modalità di cottura degli alimenti sulle braci di legna (per esempio, della carne o degli USO, underground storage organs) al fine d’incorporare un ventaglio più ampio di risorse trofiche (v. supra e infra), modalità che però presentano un fattore negativo, di rischio, in quanto fanno sì che ci s’esponga al fumo, cioè che s’inalino durante la cottura degli elementi nocivi causati dalla parziale combustione di sostanze organiche (il detto legno), principalmente idrocarburi policiclici aromatici (Polycyclic aromatic hydrocarbons, PAH); lo stesso se si usa il fuoco per riscaldare un ambiente che poi diventa fumoso e può causare asfissia da fumo (per esempio, quando il genere Homo trova un riparo contro il freddo a fronte d’ambienti ostili, e laddove i focolari sono poi posti in una posizione centrale nelle profondità delle caverne, là dove avvengono le pratiche sociali legate alla sopravvivenza) o, volendo, con l’uso controllato del fuoco da parte dei cacciatori-raccoglitori per stanare le prede o per essiccare o affumicare la carne (rendendola così adatta allo stoccaggio o al trasporto), o per preparare il terreno a pratiche di coltura in società seminomadi, cioè per arricchire il suolo di azoto al fine di renderlo fertile per la semina per una stagione (v. infra), o perché serve a controllare lo sviluppo di un certo tipo di vegetazione, oppure quando lo si usa come strumento di difesa contro i predatori e d’offesa contro i nemici, o in quanto permette la visione notturna, o, a partire dal Neolitico, quando s’usa il fuoco regolato per manipolare i metalli e le argille per la costruzione di strumenti etc.; insomma quando si presenta una costruzione di nicchia che, grazie alla tecnologia del fuoco (v. supra), introduce un nuovo regime ecologico estremamente versatile (che rimanda, per inciso, alla profonda alterazione d’un equilibrio naturale e d’un paesaggio) e che, in quanto costruzione di nicchia culturale, cioè socialmente trasmessa, diventa irreversibile; ossia da quando il genere Homo è stato in grado di controllare il fuoco opportunistico (v. supra), ecco che si presenta un effetto collaterale non previsto, un metabolismo xenobiotico (v. infra) che porta a effetti negativi per Homo Neanderthalensis, ma che, grazie a una mutazione intervenuta in Homo sapiens, permette la convivenza, diciamo così, con gli idrocarburi policiclici aromatici; infatti, l’uso continuato del fuoco, oltre ai benefici, ha un costo per la salute del genere Homo in quanto il fumo prodotto dalla combustione (di legno o d’altro materiale organico) genera un insieme di fini particelle solide (o particolato) che contiene svariate sostanze chimiche tossiche e irritanti, compresi i citati PAH; particolato che, ad alte concentrazioni, può causare reazioni tossiche acute e una successiva tossicità cronica che, nelle citate collettività, potrebbero arrivare a un’alta frequenza percentuale (o a un elevato tasso di morbilità), tra cui, a causa dell’esposizione materna al fumo, a un aumento della morte programmata delle cellule germinali femminili (o apoptosi degli ovociti) e a un aumento del tempo di gravidanza e, per i neonati, a un elevato rischio di basso peso legato a un’alta mortalità infantile e, nei maschi, a una ridotta spermatogenesi e, in generale, a infezioni respiratorie acute e all’introduzione di fattori mutanti che sono in grado di causare dei tumori (sono cioè fattori oncògeni); ora, s’è detto, sopra, metabolismo xenobiotico, là dove con il termine xenobiotico si rimanda a quell’insieme di sostanze naturali (cui s’aggiungono, oggi, le sostanze attive sintetizzate ex novo da Homo sapiens) che sono estranee al normale metabolismo dell’organismo, dunque a ciò che mangia, beve o respira; sostanze che possono presentarsi come atossiche o tossiche, e dove il grado di tossicità è presente quando queste sostanze sono in grado di produrre un danno a carico dell’organismo che si ritrova a metabolizzarle, danno che nel caso dei tossici idrocarburi policiclici aromatici è alleggerito in Homo sapiens (diversamente che in Homo neanderthalensis) come mostra una recente analisi dei dati di sequenze paleogenetiche sull’esoma (grossomodo con il sequenziamento delle regioni codificanti del genoma d’un individuo in grado d’esprimere proteine) di 3 Homo neanderthalensis (uno nello strato 11 della grotta di Denisova nei Monti Altai, in Siberia, Russia, detto Altai Neanderthal; uno dalla Cueva [cava] del Sidrón nelle Asturie, a Nord-Ovest della Spagna e l’ultimo dalla grotta di Vindija, nel Nord della Croazia) e di un uomo di Denisova (sempre dalla grotta di Denisova, da cui deriva il suo nome, dove sono stati trovati, tra gli strati 9-11, dei suoi reperti fossili che lo imparentano, come ominine, con Homo neanderthalensis; questa grotta, inoltre, è stata frequentata oltre che dal detto Homo Neanderthalensis, anche da Homo sapiens); questi dati sono poi stati confrontati con il DNA di 9 Homo sapiens (3 d’origine sub-sahariana, 3 d’origine europea e, infine, 3 d’origine asiatica); a seguito delle analisi, la discontinuità tra Homo neanderthalensis e Homo sapiens è emersa grazie alla differenza che si presenta nel recettore arilico per gli idrocarburi (aryl hydrocarbon receptor, AHR; scritto anche come Ah Receptor), cioè in quel recettore che regola la risposta metabolica dell’organismo ai PAH (questo perché l’AHR è coinvolto nella regolazione dell’espressione di numerosi geni, per esempio quelli che codificano per enzimi coinvolti nel metabolismo, come il gene CYP1A1, ossia è una proteina che, come fattore di trascrizione del DNA, posta a fronte delle molecole di idrocarburi policiclici aromatici può presentare degli errori di trascrizione recettore; da non dimenticare però che questo recettore, oltre a funzioni esogene, influenza anche numerose funzioni endogene, tra cui il metabolismo lipidico e la funzione immunitaria); infatti, in Homo sapiens, rispetto a Homo neanderthalensis, questi composti tossici prodotti dal mangiare carne cotta alla brace e dall’esposizione al fumo, grazie a una differenza presente nel recettore arilico, ossia a una mutazione, sono metabolizzati molto più lentamente, con meno danni all’organismo; vale a dire che presentano un cambiamento funzionale significativo nella tolleranza ambientale, un’evoluzione nella risposta al fuoco/fumo e alle sue componenti xenobiotiche che si traduce, in Homo sapiens, a una versione mutante della proteina AHR ch’è di 150-1 000 volte meno sensibile agli effetti deleteri del fumo rispetto a Homo neanderthalensis; in dettaglio, nella proteina AHR il cambiamento riguarda un singolo aminoacido, che in Homo sapiens presenta nella posizione 381 una valina (Val381; variante derivata), mentre in Homo neanderthalensis e in Homo di Denisova in questa posizione c’è un’alanina (Ala381; variante ancestrale), mutazione scritta come A → V381 AHR; mutazione, lo si ripete, che permette a Homo sapiens una desensibilizzazione nei confronti di date sostanze xenobiotiche tossiche, ossia rallenta la produzione degli enzimi in gioco per la trasformazione degli idrocarburi che sono responsabili della generazione dei metaboliti tossici, mentre, al contrario, in Homo Neanderthalensis si presenta un’accelerazione nella produzione degli enzimi che dovrebbero metabolizzarli, fenomeno che sovraccarica il metabolismo e produce una tossicità cellulare perniciosa (da ricordare, infatti, che i metaboliti svolgono anche una funzione di regolazione del metabolismo dato che variazioni della loro concentrazione sono in grado d’influenzare la velocità e l’andamento delle reazioni in gioco decelerandole o accelerandole; là dove un metabolita è poi il prodotto d’una reazione e, insieme, la causa di un’altra reazione nel complesso di tutte le reazioni di biosintesi e di degradazione proprie all’organismo, cioè di trasformazione delle molecole); per inciso, ancora, l’alanina, o acido α-aminopropionico, è un aminoacido non essenziale; la valina, o acido α-aminoisovalerianico, è un aminoacido essenziale, v. supra); di qui, dato l’articolato sopra esposto di fatti, s’è sviluppata nei ricercatori l’ipotesi d’un vantaggio selettivo contro gli effetti collaterali negativi della PAH per la specie (tra i quali la detta spermatogenesi e l’apoptosi degli ovociti), vantaggio dunque che sarebbe legato poi a un miglioramento, nella popolazione di Homo sapiens, della fitness; questo in base al noto principio che se una mutazione genera una variabilità genetica casuale in una popolazione (per esempio, Homo sapiens che presenta una mutazione che protegge il suo organismo dagli effetti nocivi del PAH), si ha che, quando una popolazione sperimenta nella costruzione di nicchia un’esposizione a livelli elevati di PAH, ecco che gli organismi che trasportano la mutazione sono in grado di sopravvivere e riprodursi in presenza di questi livelli elevati di PAH e in più risultano favoriti nella riproduzione perché lasciano agli eredi un genoma adattato a quella specifica nicchia culturale, con l’effetto transgenerazionale finale d’avere geni che codificano per la resistenza alla PAH che si ritrovano via via sempre più diffusi nelle popolazioni che si susseguono e che adottano lo stesso stile di vita (oltre che in Homo sapiens, questo meccanismo si presenta anche in alcune popolazioni di pesci all’interno di habitat altamente inquinati, ciò che fornisce una forte evidenza al fatto che i vertebrati possono adattarsi a una pressione evolutiva dovuta a una persistente esposizione a ligandi AHR ambientali tossici, come mostra il rilascio industriale ad alta concentrazione, durato per ca. 30 anni, nel fiume Hudson, negli Stati Uniti, dei planari bifenili policlorurati, planar polychlorinated biphenyls o PCB, riconosciuti per essere dei potenti ligandi AHR, ciò che ha portato le popolazioni di Atlantic tomcod, o Microgadus tomcod, che lo abitano a evolversi, e nel giro di poche generazioni, si suppone ca. 60 anni, in un modo all’incirca analogo a quello sperimentato da Homo sapiens, in un modo cioè che permetta loro di resistere a molti degli effetti negativi dovuti all’esposizione al PCB, per esempio la mortalità embrionale acuta in condizioni di sovraesposizione dell’AHR ligando; sul concetto di ligando, v. supra); sempre nell’ambito della manipolazione degli alimenti, della loro cottura, legate a uno sviluppo culturale che vede implicati meccanismi di regolazione del cervello, dei denti e del tubo digerente, e di cui si parlerà a seguire a proposito della pratica del cucinare, è interessante un fenomeno che riguarda il gene MYH16 che codifica la principale proteina contrattile che costituisce i tessuti dei muscoli, denominata miosina, implicata nei muscoli masticatori dei primati non umani, e che ha subito una delezione nel lignaggio degli ominini, dove con delezione s’intende una mutazione genica che consiste nella perdita di uno o più nucleotidi in una sequenza di DNA; ora, si sospetta che questa mutazione possa provocare una massiccia riduzione nei muscoli masticatori della mascella (la mutazione è riconducibile a ca. 2,4 milioni d’anni fa), vale a dire che s’ipotizza che la riduzione marcata delle dimensioni di singole fibre muscolari e di interi muscoli masticatori, ossia il decremento (in termini di dimensioni) dei muscoli masticatori la cui causa si ritrova nell’inattivazione di MYH16, abbia rimosso, a partire da ca. 2 milioni d’anni fa (nel passaggio da Paranthropus a Homo ergaster/erectus, v. supra), un vincolo evolutivo sull’encefalizzazione negli ominini, questo permettendo ai piccoli muscoli della mascella di rimodellare il cranio giusto quando la capacità cranica è in fase d’espansione, questo perché la ridotta dimensione dei muscoli della mascella ha necessità di una regione del cranio molto più piccola per il fissaggio di questi muscoli alla struttura ossea (e va da sé che il gene MYH16 dei primati non umani fa sì che questi continuino a presentare presentano potenti muscoli in una mascella massiccia ch’è legata alla loro dieta crudista, muscoli che, causa il loro ampio spazio d’ancoraggio richiesto alla struttura ossea, non hanno lasciato spazio all’espansione del cranio); la figura seguente mostra che la dimensione relativa dei muscoli masticatori è molto diversa tra primati non umani e Homo sapiens; partendo da destra, abbiamo due crani di primati non umani, specificamente un cranio di Macaca fascicularis (un primate principalmente frugivoro, con dieta completata da foglie, fiori, radici, cortecce, insetti, uova d’uccelli e piccoli vertebrati) seguito dal cranio di Gorilla gorilla (un primate folivoro, frugivoro e, in modo opportunistico, insettivoro nel privilegiare termiti e formiche); a sinistra in cranio di Homo sapiens (un primate con dieta onnivora); le differenze nella muscolatura nei tre crani (robuste vs. fragili) si riflettono in alcune caratteristiche delle morfologie craniofacciali, quali la fossa temporale e zigomatica evidenziate in rosso nei tre crani:

Figura n.  . Fonte (modificata): Stedman et alii, 2004, p. 417.

Il tutto che s’è cercato di descrivere s’è poi verificato con una cadenza temporale che grossomodo può coincidere con la probabile comparsa storica della cottura (là dove la masticazione di cibi cotti d’un ominine onnivoro è facilitata rispetto alla masticazione specializzata dei cibi crudi nei primati non umani, v. supra); se quest’ipotesi sarà confermata (poiché non tutti gli studiosi sono in ciò concordi, lo stesso per la data della mutazione spostata, per esempio, a 5,3 milioni d’anni fa), è come dire che siamo in presenza del fatto che un processo culturale ha contribuito a rimuovere un vincolo genetico che impediva un cambiamento morfologico, specificamente quello in grado di correlare la morfologia craniofacciale con la modificazione della forza della contrazione muscolare masticatoria (ed è poi più che probabile che diverse altre delezioni geniche possano essersi verificate in collaborazione con i cambiamenti nella dieta del genere Homo); la tabella seguente, a  riassunto, indica i geni identificati come oggetto d’una selezione rapida, storicamente recente, dovuta a  pressioni selettive culturali:

GENI [1]
FUNZIONE O FENOTIPO

PRESSIONE CULTURALE

LCT, MAN2A1, SI, SLC27A4, PPARD, SLC25A20, NCOA1,
LEPR, LEPR, ADAMTS19, ADAMTS20, APEH, PLAU, HDAC8,
UBR1, USP26, SCP2, NKX2‑2, AMY1, ADH, NPY1R, NPY5R
Digestione del latte e di prodotti lattiero-caseari; metabolismo dei carboidrati, dell’amido, di proteine, di lipidi e fosfati; metabolismo dell’alcool
Produzione di latte e uso alimentare del latte; preferenze di tipo alimentare; consumo d’alcool

CITOCROMO P450 [2] (CYP3A5, CYP2E1, CYP1A2 E CYP2D6)
Disintossicazione
da composti secondari della pianta
Domesticazione delle piante
CD58, APOBEC3F, CD72, FCRL2, TSLP, RAG1, RAG2, CD226,
IGJ, TJP1, VPS37C, CSF2, CCNT2, DEFB118, STAB1, SP1,
ZAP70, BIRC6, CUGBP1, DLG3, HMGCR, STS, XRN2, ATRN,
G6PD, TNFSF5, HbC, HbE, HbS, Duffy, α‑globin
Immunità e risposta ai patogeni;
resistenza alla malaria e ad altre
malattie da affollamento (crowd
diseases)
Processi di dispersione (di distribuzione d’una popolazione su un’altra vasta area); attività agricole (compresi contatti con il bestiame domesticato); fenomeni d’aggregazione e di successiva esposizione a nuovi agenti patogeni
LEPR, PON1, RAPTOR, MAPK14, CD36, DSCR1, FABP2, SOD1,
CETP, EGFR, NPPA, EPHX2, MAPK1, UCP3, LPA, MMRN1
Metabolismo energetico, tolleranza al caldo o al freddo; geni heat-shock [3].
Dispersione e successive
esposizioni a nuovi climi
SLC24A5, SLC25A2, EDAR, EDA2R, SLC24A4, KITLG, TYR,
6p25.3, OCA2, MC1R, MYO5A, DTNBP1, TYRP1, RAB27A,
MATP, MC2R, ATRN, TRPM1, SILV, KRTAPs, DCT
Caratteristiche del fenotipo visibili esternamente, quali pigmentazione della pelle, spessore dei capelli, colore degli occhi e dei capelli, lentiggini
Dispersione e adattamento alla situazione locale e/o selezione sessuale
CDK5RAP2, CENPJ, GABRA4, PSEN1, SYT1, SLC6A4, SNTG1,
GRM3, GRM1, GLRA2, OR4C13, OR2B6, RAPSN, ASPM, RNT1,
SV2B, SKP1A, DAB1, APPBP2, APBA2, PCDH15, PHACTR1,
ALG10, PREP, GPM6A, DGKI, ASPM, MCPH1, FOXP2
Sistema nervoso, funzioni cerebrali e processi di sviluppo; competenze linguistiche e apprendimento vocale
Stato d’esistenza d’una attività cognitiva complessa con la quale la cultura s’intreccia per potersi manifestarsi [4]; intelligenza sociale; uso della lingua e
apprendimento vocale

BMP3, BMPR2, BMP5, GDF5

Sviluppo scheletrico
Dispersione e selezione sessuale
MYH16, ENAM

Fibre muscolari della mascella; spessore dello smalto dei denti
Invenzione della cottura; dieta [5]

[1] si ricorda che esiste una convenzione internazionale riguardante il modo con cui i nomi dei geni e delle proteine sono scritti; s’usa, per geni e proteine appartenenti al genere Homo, sempre la lettera maiuscola, scritta in corsivo per i geni e in testo pieno (non in corsivo) per le proteine codificate dai geni; per le altre specie, pur mantenendo il corsivo per i geni e il pieno testo per le proteine, si scrive, di solito, in maiuscolo solo con la prima lettera.
[2] Il citocromo P450 (CYP) metabolizza tanto le sostanze xenobiotiche o no che vengono ingerite (anche composti potenzialmente tossici), quanto le sostanze interne, quali le tossine che si formano all'interno delle cellule (come dire ch’è un detossificante dell’organismo).
[3] Il termine heat-shock è traducibile come shock termico, e i geni heat-shock limitano i danni causati da esposizione a stress ambientali di qualsiasi tipo (specie in condizioni estreme) e facilitano il recupero cellulare.
[4] V., infra, il cervello sociale.
[5] Termine da intendersi come l’insieme dei nutrienti utilizzati per garantire il fabbisogno alimentare dell’organismo.

Tabella n.  . Fonte (adattata): Laland, Odling-Smee e Myles, 2010, p. 143.


Detto delle evidenze empiriche avanzate dalla genetica sulla ristrutturazione da parte della cultura del genoma del genere Homo (coevoluzione cultura-gene), restano ora da indagare le modalità di trasmissione degli adattamenti cognitivi propri alla cultura e quali sono state le sue modalità evolutive, insomma avvicinarsi a capire come funziona l’essere in esistenza del repertorio delle pratiche e delle informazioni da cui dipende il genere Homo per la sua sopravvivenza (perché, come ha detto qualcuno, soli e deprivati della nostra cultura, siamo senza futuro come specie), e si sospetta fortemente che l’efficacia dimostrata da questo processo evolutivo della cultura nelle specie del genere Homo (che si forma per accumulazione della memoria storica) dipenda dalla formazione biologica d’una processualità cervello-mente a livello individuale, dalla dimensione delle popolazioni (e dei rapporti fra gli organismi che la compongono) e dalla qualità dell’interconnessione fra le reti nella trasmissione dei pacchetti culturali, reti che sono poi socialmente prodotte grazie all’insieme del lavoro materiale/immateriale fin lì accumulato e disponibile in un dato momento storico; e sarà questo l’argomento a seguire. 

LA COSTRUZIONE DI NICCHIA

L’ANTHROPOCENE, 1, LA PREISTORIA, VOLUME SECONDO

LA COSTRUZIONE DI NICCHIA

Detto quanto sopra, ora ci si propone di porre le basi per riprendere l’ipotesi del cervello sociale, questo partendo dalle premesse della teoria della costruzione di nicchia (Niche Construction Theory, NTC) che permette di legare tra di loro, in Homo erectus, Homo arcaico e Homo sapiens, l’evoluzione della neocorteccia come pari all’evoluzione d’una rete sociale, all’evoluzione dell’economia che sostiene la rete sociale e alla modificazione (o antropizzazione) dell’ambiente che permette tanto l’evoluzione del cervello quanto lo sfruttamento socio-economico ottimizzato delle risorse disponibili, il tutto in un dispositivo che processa con meccanismi di causalità reciproca questi tratti; detto questo, quello che ora preme affermare riguarda il rapporto tra l’organismo e il citato ambiente, rapporto che dal darwinismo in poi è stato legato allo iato tra lo sviluppo interno dell’organismo e il suo sviluppo esterno in un ambiente dato secondo una processualità detta d’adattamento; processualità dove il DNA è autosufficiente nel determinare lo svolgimento e lo stato finale dell’organismo e dove l’organismo con le varianti idonee all’ambiente esterno (prodotte nella popolazione dalle mutazioni casuali nel patrimonio genetico, ereditabili e adottate dalla selezione naturale) s’adatta a questo, là dove, ancora, questa dinamica di variabilità genetica della popolazione può seguire nel processo evolutivo i mutamenti dell’ambiente in un arco temporale dato (salvo incorrere nell’estinzione), ciò ch’è anche lasciare intendere che il successo riproduttivo d’un organismo, il suo valore adattivo (fitness), altro non rappresenta che la preminenza del suo sviluppo interno, cioè del suo genotipo, e la totale passività del suo sviluppo esterno (il fenotipo) in un ambiente storicamente situato; detto altrimenti, se le variazioni degli organismi in una popolazione derivano da un processo di mutazione e ricombinazione genetica che non risponde alle richieste dell’ambiente, e sono queste varianti che vengono sperimentate in un ambiente ch’esiste indipendentemente da queste variazioni, allora si può affermare che il processo di variazione è causalmente indipendente dalle condizioni di selezione che si verranno ad affermare dopo la messa alla prova della variazione nell’ambiente (nel qual caso, e solo se queste variabili sono ereditabili, il processo conduce a una popolazione che sempre meglio s’adatta nel corso del tempo alle richieste d’un particolare ambiente); tanto che si può sì sostenere che organismo e ambiente interagisco solo per il tramite del processo di selezione, ma questo senza spiegare come il genotipo che presenta il migliore valore adattivo in termini di probabilità di sopravvivenza e tasso di riproduzione s’adatti storicamente come fenotipo a un dato ambiente, salvo lasciare intendere che le proprietà di questo genotipo esplicate dal fenotipo si modellano per rispondere (in modo passivo) ai requisiti specifici dell’ambiente, come se esistesse una nicchia vuota ch’è finalmente abitata da organismi che con le loro proprietà presentano la giusta forma per riempirla; per smentire questa presunta passività nei confronti dell’ambiente, c’è un famoso esperimento che mostra come un organismo (qui una pianta) risulti essere il prodotto unico d’un processo ontogenetico legato alla sequenza d’ambienti in cui si verifica, cioè non sia predeterminato dai suoi geni; esperimento che si basa su una pianta di Achillea millefolium di cui è facile clonare geneticamente individui identici semplicemente tagliandola a pezzi, ciascuno dei quali diventa nel tempo un individuo nuovo e completo (è quella che si classifica come riproduzione per talèa, dove la talea è una parte della pianta capace di emettere radici e di rigenerare un nuovo individuo); l’esperimento consiste nel prelevare sette campioni di Achillea millefolium da una popolazione selvatica (ciascuno con un genotipo differente) e di tagliare ogni campione in tre pezzi (talee) di modo che le tre piante cresciute dalle parti d’una pianta campione siano cloni l’una dell’altra, ma cloni sviluppatisi in tre ambienti diversi; infatti, come mostra la figura seguente, ogni primo pezzo di campione è piantato a bassa altitudine (30 metri s.l.m.) e rappresentato secondo una sequenza orizzontale ordinata secondo la riuscita della loro crescita (dalla talea più alta a quella più bassa, in cm); ogni secondo pezzo è piantato a un’altitudine intermedia (1 400 m), sempre rappresentato secondo una sequenza orizzontale che obbedisce all’ordine già presente all’altitudine bassa, ma senza valorizzare la riuscita della crescita; e ogni terzo pezzo è piantato in montagna (3 050 m) e rappresentato secondo una sequenza orizzontale sempre ordinata secondo la sequenza già presente all’altitudine bassa e, anche qui, senza valorizzare la riuscita della crescita, di modo che la lettura verticale delle talee di ogni campione mostri, dati i livelli, gli esiti della crescita alle diverse altitudini; si nota, osservando la figura, che il primo campione di Achillea millefolium mostra la crescita massima alla bassa latitudine (più di 50 cm) e all’altitudine elevata (47 cm), ma non a quella media (solo 12 cm e con la talea che non è riuscita nemmeno a fiorire); che il sesto campione mostra una talea che occupa il secondo posto per crescita alle altitudini elevate (35 cm), che occupa il penultimo posto per crescita alle altitudini basse (30 cm) mentre, ad altitudine intermedia, occupa per crescita una posizione (30 cm) ch’è mediana tra la più alta e la più bassa; tanto che, generalizzando, non c’è modo di prevedere l’ordine di crescita nei tre ambienti dato che nessuno dei sette genotipi è costantemente il più alto o il più basso (il genotipo 5, con una media di 25 cm, e il genotipo 7, con una media di 18 cm, sono quelli che sono cresciuti di meno di media in tutti e tre gli ambienti, mentre le medie degli altri genotipi, 32-33 cm, sono indistinguibili), né è possibile stabilire una correlazione tra gli schemi di crescita nei diversi contesti, motivo per cui non c’è ragione di domandarsi qual è il genotipo che produce la miglior crescita se non si specifica l’ambiente in cui il fenotipo s’è sviluppato, ciò ch’evidenzia una reattività fenotipica non passiva (o, con altre parole, che il fenotipo è l’unica conseguenza di un particolare genotipo che si sviluppa in un particolare ambiente):


Figura n.  . Fonte: Lewontin, 1988, p. 18.

È dunque errato, come mostrano anche le prove a sostegno dell’epigenetica (v. supra), lasciare intendere che l’ambiente d’un organismo sia indipendente da quell’organismo, e che i cambiamenti che si verificano nell’ambiente siano autonomi e indipendenti dai cambiamenti che avvengono nella specie stessa, poiché l’ontogenesi d’un organismo è data dall’interazione unica tra i geni di cui è portatore, la sequenza degli ambienti esterni con cui entra in contatto nell’arco del suo ciclo vitale e le interazioni molecolari casuali all’interno delle singole cellule (o perturbazioni casuali dello sviluppo, v. supra); tanto che è forse più pertinente, per comprendere con efficacia un processo evolutivo, adottare al posto del termine adattamento quello di costruzione, termine che sottolinea un approccio dell’organismo all’ambiente che lo presenta come attivo (per esempio, organismi che costruiscono nidi, tane, dighe, tumuli, ragnatele e altri reperti; piante che cambiano i livelli dei gas atmosferici e modificano i cicli degli elementi trofici; funghi e batteri che decompongono la materia organica e batteri che fissano le sostanze nutritive etc., insomma tutto quanto modifica date condizioni ambientali che possono, a loro volta, agire su altre condizioni ambientali di costruzione) e che indica che una nicchia non può essere vuota, preesistente a lui, ma esistente solo in quanto prodotto della sua interattività specie-specifica; infatti, gli organismi determinano quali elementi del mondo esterno sono costitutivi del loro ambiente e quali rapporti, tra questi elementi, sono per loro rilevanti, il tutto in conseguenza delle proprietà degli organi sensori, del sistema nervoso, del metabolismo e della forma dell’organismo che creano una giustapposizione spaziale e temporale di tratti del mondo, ciò che arriva a costruire, appunto, un ambiente per lui rilevante; e si pensi, a questo proposito, alle scelte operative agite da un organismo sull’ambiente che questi esperisce in realtà senza etichette, come il darwinismo neurale ha comprovato, tanto che la realtà sperimentata dagli organismi all’interno d’una specie è reperibile solo negli intervalli imposti dai filtri selettivi permessi dalle percezioni sensoriali e motorie (cioè da una realtà garantita in quanto ritagliata dagli unici intervalli di sperimentazione che questi ne possono avere) e che pertanto le etichette prodotte dal fare di ogni organismo di quella specie sono il risultato della sola e unica porzione dell’ambiente esterno su cui esso, con il suo comportamento individuale (ma anche collettivo, cioè sociale), può di fatto agire; ciò che vuol dire, se ci si pensa un poco, che l’ambiente lo si deve valutare non in quanto dato come autonomo e preesistente all’organismo e alla specie, ma esistente storicamente solo in quanto interattivamente costruito dall’organismo (e dalla specie) entro i limiti fisici e chimici imposti dall’ambiente, questo assemblando i tratti percepiti e valorizzando, tra questi, dei sistemi di valore specie-specifici; aggiungendo a ciò che le realtà prodotte dall’organismo sono poi dinamiche poiché continuamente modificate dal suo fare in un percorso storico ch’è solo suo (ma senza dimenticare che questo percorso è socialmente condiviso con la popolazione cui appartiene), tanto che la reattività epigenetica dell’organismo all’ambiente esterno si lega alla selezione naturale della specie come concausa fenotipica d’una evoluzione adattiva (seppure questo fenotipo, che agisce entro una data biocenosi, v. supra, e con un ventaglio comportamentale prestabilito nei suoi limiti dal genotipo, debba sempre essere valutato tenendo conto del fatto ch’è poi la popolazione che s’evolve); ora, riprendendo le fila, si può sostenere che i rapporti fra geni, organismo e ambiente sono relazioni reciproche in cui tutti e tre gli elementi sono sia cause che effetti; i geni e gli ambienti sono entrambi cause degli organismi che, a loro volta sono cause degli ambienti, così che i geni diventano anch’essi cause degli ambienti mediate dagli organismi, dinamica evolutiva che è formalmente rappresentata da due equazioni differenziali nel tempo da leggersi accoppiate, in parallelo, e dove il termine d rappresenta il differenziale, t il tempo (e dt il differenziale nel tempo), O l’organismo (e dO il differenziale nell’organismo), E l’ambiente (e dE il differenziale nell’ambiente, dove la E è l’iniziale di environment, ambiente in inglese), f e g le funzioni:

(1)   dE/dt = f (O, E)
(2)   dO/dt = g (O, E)

dove con l’equazione (1) si dice che le modificazioni dell’ambiente nel corso del tempo sono funzione sia dello stato dell’organismo in quel momento che delle variabili ambientali e con l’equazione (2) s’afferma che le modificazioni dell’organismo sono funzioni sia dello stato dell’organismo in quel momento che dell’ambiente, come affermare, ma solo se le si legge accoppiate, che la storia dell’organismo e dell’ambiente sono funzioni sia degli organismi che dell’ambiente, ossia che le equazioni (1) e (2) sono inscindibili in quanto descrivono una coevoluzione di organismo e ambiente in cui entrambi sono sia causa che effetto (e dove la modificazione dell’ambiente rimanda a un meccanismo di causalità endogena, reciproco alla selezione naturale nel processo evolutivo), cui s’aggiunga il fatto che se dei piccoli cambiamenti nell’ambiente portano a dei piccoli cambiamenti nell’organismo che, a loro volta, portano dei piccoli cambiamenti nell’ambiente, allora vuol dire che questa coevoluzione presenta la caratteristica d’essere topologicamente continua; ora, generalizzando, e senza entrare nello specifico, si può affermare che:

1.     gli organismi determinano l’effettiva natura fisica dei segnali provenienti dall’esterno per il tramite d’un filtro di trasformazione creato dalla biologia specifica della specie, cioè per il tramite d’una trasduzione (v. supra) il cui risultato è percepito dalle funzioni dell’organismo come una variabile ambientale incorporata nelle loro reazioni;
2.     gli organismi determinano pertanto quali elementi del mondo fisico esterno vanno a costituire il loro ambiente;
3.     determinando gli aspetti del mondo esterno rilevanti per la loro forma e il loro metabolismo, gli organismi costruiscono attivamente il mondo che li circonda;
4.     gli organismi e l’ambiente costituiscono un sistema aperto in cui la frontiera tra l’interno e l’esterno e fortemente permeabile, ciò che permette il passaggio di materia e energia dall’esterno all’interno e dall’interno all’esterno;
5.     gli organismi alterano continuamente il loro ambiente, questo perché i sistemi viventi (in quanto sistemi aperti a elevata eterogeneità interna) trasformano i materiali per assorbire energia in una forma e la restituiscono in una forma diversa che, a sua volta, è oggetto di consumo per un’altra specie (aspetto produttivo dei processi vitali);
6.     gli organismi alterano non solo il proprio ambiente (rimodellandolo), ma anche gli ambienti di altre specie in un modo che coinvolge la sopravvivenza della propria e delle altrui specie, cioè organismi e ambienti coevolvono;
7.     la distribuzione geografica, temporale e storica delle specie non è comprensibile se l’ambiente viene visto come una proprietà della regione fisica e non come uno spazio definito dall’attività degli stessi organismi;
8.     una nicchia vuota non può esistere in quanto una nicchia non preesiste agli organismi, ma si forma in conseguenza della biologia specifica degli organismi stessi;
9.     una nicchia è pertanto data dai rapporti tra gli elementi che sono rilevanti per l’organismo;
10.  la vita, nel suo complesso, s’evolve in condizioni esterne che dipendono dal trascorso storico di coevoluzione delle attività biologiche degli organismi e degli ambienti (per esempio, si pensi solo al contributo dei cianobatteri che hanno immesso, in milioni e milioni di anni di fotosintesi, l’ossigeno molecolare nell’atmosfera terrestre poi utilizzato dagli organismi aerobi, v. supra);

ora, entrando nel dettaglio, del concetto di nicchia ecologica s’è già parlato diffusamente in precedenza (e se ne parlerà ancora a seguire), qui se ne riassumono le caratteristiche affermando che una nicchia, ch’è tale solo data una popolazione che la occupa, è composta da un insieme di variabili continue/discontinue che vanno dall’occupazione d’uno spazio fisico (o nicchia spaziale, data dall’habitat ricoperto e dalle sue caratteristiche abiotiche date dalle sostanze inorganiche e organiche presenti, quali i fattori fisici e chimici dell’ambiente, compresi la natura del suolo, le condizioni climatiche, le caratteristiche geografiche etc. ai cui parametri l’organismo deve rispondere); dalla tipologia e dal volume delle risorse trofiche necessarie al mantenimento in essere della popolazione (o nicchia trofica); dal comportamento assunto dagli organismi della popolazione all’interno della nicchia spaziale e trofica, per esempio, le modalità di spostamento o la ciclicità delle attività giornaliere o stagionali che indicano l’utilizzo delle risorse dell’habitat in cui questi vivono e il ruolo e le funzioni specie-specifiche (intraspecie, quali competizione, socialità, riproduzione etc., ed extraspecie, quali predazione, parassitismo etc.) che questi organismi realizzano nell’ecosistema dato, compreso il grado di tolleranza a un mutamento delle citate variabili entro parametri critici (cioè da quelle che si possono definire, date le variabili abiotiche, come le modalità biotiche che permettono la sopravvivenza e la riproduzione); detto questo, conformemente alle premesse sopra illustrate, anche la teoria della costruzione di nicchia afferma che l’adattamento a un ambiente mostrato da una popolazione rimanda a un processo dove gli organismi che questa popolazione la compongono, modificando l’ambiente esterno (preesistente) che occupano, danno forma alla propria nicchia ecologica, cioè costruiscono le variabili (le condizioni di possibilità) che permettono la fitness che li mantiene in essere in un arco temporale dato e ne permette la riproduzione, dunque che l’adattamento non è qui visto solo come un processo d’adeguamento alle richieste dell’ambiente (stando almeno alla versione dominante del concetto d’adattamento), cioè come un processo in cui la popolazione presenta un ruolo passivo (e dove dell’adeguamento gestito dalla popolazione si fa garante la selezione naturale), ma come un processo in cui questa è dinamica, reattiva, e in cui la selezione è in qualche modo complice d’una determinazione invece che essere solo determinante, ossia ch’essa non è un adattamento asimmetrico, ma una regolazione simmetrica, in virtù del quale la selezione porta a cambiamenti con il trascorrere del tempo negli organismi nel mentre gli organismi introducono cambiamenti nel loro ambiente al fine di promuovere un’ulteriore selezione; infatti, come s’è precedentemente cercato di mostrare, grazie alla loro reattività fenotipica gli organismi coevolvono topologicamente con il loro ambiente in quanto l’ambiente non cambia in modo autonomo rispetto agli organismi poiché questi lo modificano continuamente, cioè concorrono a costruire la loro nicchia agendo e sulle autonomie relative delle comunità biotiche presenti e sui fattori abiotici e, fatti sempre salvi i vincoli esercitati dall’azione delle variabili biotiche e abiotiche che sono sempre vissute cercando di tamponarne la variabilità (quelle abiotiche, per esempio, per rendere la temperatura, l’umidità, l’esposizione al vento o alla luce del Sole più uniformi etc., ovviamente fatti salvi quei processi ambientali che in improvvisa autonomia disturbano la nicchia d’un organismo), gli organismi non sopravvivono perché s’adattano a dei cambiamenti avvenuti autonomamente dal loro intervento, ma perché, grazie alla loro reattività, essi sono a un tempo e oggetto e soggetto dell’evoluzione; soggetto (tra soggetti) in quanto valorizzato come appartenente a una popolazione che, come tale, sarà in grado di modificare le dinamiche ecologiche che arriveranno, in funzione di feedback, ad alterare anche la pressione selettiva, cioè quanto sta alla base del meccanismo selettivo che lo ha prodotto come oggetto (e come lui, che ha reso oggetto anche la parte restante della popolazione); il tutto secondo un meccanismo coevolutivo che farà sì, per il tramite d’un doppio dispositivo deterministico dell’ereditarietà (tanto genetica quanto di costruzione di nicchia), che la seconda generazione, e quelle a seguire, troveranno un ambiente che sarà via via meglio adattato alle esigenze degli organismi nel susseguirsi delle popolazioni, ovviamente fatto salvo il fatto che gli effetti dell’ereditarietà della costruzione di nicchia persistano e possano coevolvere con la popolazione per un numero congruente di generazioni; la figura seguente illustra il doppio dispositivo deterministico dell’ereditarietà, cioè che l’organismo può essere prodotto dalla coevoluzione tra da due processi, e mostra che ogni organismo (O) in qualsiasi punto del tempo (t, t+1, t+2, t+3, t+4) è descritto da una serie di tratti distintivi, per esempio, uno stile di vita arboreo, una dieta frugivora o onnivora etc., rappresentati da una serie di lettere minuscole (c, n, h, k, q, j) rinchiuse verticalmente in una cornice, lo stesso che l’ambiente nel quale l’organismo vive (environment, E) scomposto in una serie di tratti, per esempio, la temperatura locale, la piovosità o la presenza di un predatore etc., qui rappresentati da lettere maiuscole (A, B, N, H, K, Q, Z, L), sempre presenti in ordine verticale, ma senza cornice, e posti parallelamente alle lettere minuscole; un organismo adattato al suo ambiente corrisponde poi ad un insieme sommatorio di tratti dell’organismo e di tratti del suo ambiente, rappresentati da un abbinamento di una lettera minuscola con una lettera maiuscola; la linea del tempo (time) mostra poi le modificazioni intervenute negli accoppiamenti dei tratti (cioè le varie modalità d’adattamento):


Figura n.  . Fonte: Odling-Smee, Laland e Feldman, 2003, p. 49.

Guardano la figura si nota che, a un tempo t, l’organismo O(t) è ben adattato al suo ambiente E(t) in base al livello di funzionalità delle corrispondenze tra i tratti (n-N, h-H, k-K, q-Q), ma anche che ci sono alcuni non coincidenze o disallineamenti (c-B, j-Z); al tempo t+1, come conseguenza dell’azione di selezione naturale (Natural selection) all’interno della popolazione, la competizione è stata migliorata attraverso la selezione degli organismi O(t+1) con il tratto z, e questo a scapito di quelli con il tratto j; al tempo t+2 la competizione è stata migliorata con il ricorso a una costruzione di nicchia (positiva; Positive niche construction), tanto che l’organismo O(t+2), modificando il fattore ambientale B e producendolo come fattore C, genera l’allineamento c-C, per esempio,
i lombrichi comuni (Lumbricus terrestris, che presentano l’anatomia e la fisiologia degli animali che vivono in un habitat d’acqua dolce, ma vivono nel suolo) sono in grado di sopravvivere modificando il terreno (B) per soddisfare la loro fisiologia, e per questo scelgono un orizzonte ottimale del suolo in cui scavano cunicoli, ingoiano terra (geofagia) che triturano e che espellono, insieme ai detriti vegetali ingeriti e alle secrezioni intestinali, all’inizio dei cunicoli creando, così, un ambiente (C) per loro ottimale rispetto ai loro parametri critici (v. supra); al tempo t+3, attraverso una costruzione di nicchia (negativa; Negative niche construction) l’organismo modifica il tratto N producendolo come D, ciò che genera una nuovo disallineamento n-D, per esempio, le deiezioni d’una popolazione di mammiferi scavatori (fauna ipogea) che inquinano le loro tane fino al punto in cui queste diventano inabitabili, inservibili; al tempo t +4 questo porta la selezione naturale (Natural selection) a privilegiare organismi O(t+4) con il tratto d a scapito di quelli con il tratto n, per esempio, rimanendo nell’ambito dei mammiferi scavatori, la selezione naturale favorisce ora individui che depositano le loro deiezioni in un sito, diventato latrina, ch’è lontano dalla loro tana; insieme che mostra che nel corso del tempo l’adattamento dell’organismo è il prodotto della selezione naturale (t+1, t+4) che coevolve con la costruzione di nicchia (t+2, t+3); questo processualità è schematizzata anche nella figura seguente dove, seguendo la linea del tempo (time) al tempo t esiste una presupposizione processuale reciproca tra il pool genetico (gene pool) di una popolazione di diversi fenotipi (population of diverse phenotypes) che, per il tramite della costruzione di nicchia (niche construction), risulta modificato dalla selezione naturale, tanto che la Et del tempo t lascia, al tempo t+1, un’eredità ecologica (Ecological Inheritance) a E(t+1), come mostra la freccia orientata che va da Et a E(t+1), mentre il pool genetico del tempo t lascia un’eredità genetica (Genetic Inheritance indicata con la freccia orientata) al pool genetico del tempo t+1; e dove, sempre al tempo t+1, si ripete poi il processo di presupposizione processuale reciproca tra E(t+1) e il pool genetico modificato nell’arco temporale t/t+1:



Figura n.  . Fonte: Odling-Smee, Laland e Feldman, 2003, p. 14.

La novità della Niche Construction Theory non è dunque solo nel validare la presenza d’un meccanismo coevolutivo genetico ed ecologico, ma anche nel fatto che esista un doppio dispositivo deterministico dell’ereditarietà, ciò che implica che ogni organismo d’una specie, dopo un insieme congruente di generazioni in cui la nicchia s’è assestata, deve anche ereditare una relazione iniziale che lega l’organismo alla nicchia costruita/assestata che diventa la sua, una nicchia d’avvio (o start-up niche) che include una localizzazione specifica nello spazio e nel tempo e che risente delle scelte e delle azioni di chi ha dato vita a questo organismo, cioè la detta ecological inheritance; un’eredità fatta di un ambiente selettivo modificato che l’organismo ricevente amministrerà rispondendo alle istanze ambientali, cioè alterando di nuovo l’ambiente per mantenere regolare il suo equilibrio organismo/ambiente, e con ciò creando un continuum adattivo che dura per l’intero arco della sua esistenza, un ambiente che potrà eventualmente lasciare come nicchia di partenza ai suoi eredi; infatti, gli ambienti selettivi possono persistere nel tempo grazie alla loro riparazione o ricostruzione e per un periodo di tempo superiore all’arco di vita temporale concesso ai singoli costruttori, e per questo possono continuare a regolare l’intensità dell’impatto di questi effetti su ciò che sperimenteranno le successive generazioni della stessa popolazione e, grazie alla ricaduta ambientale di questi effetti sullo stato dei suoli, dell’atmosfera, dell’acqua, del ciclo di nutrienti etc., sono da comprendere anche molte altre popolazioni presenti in una biocenosi ognuna con il proprio dispositivo d’eredità genetica ed ecologica, ragion per cui l’eredità ecologica è trasmessa in modo continuo non a un solo discendente, ma a più popolazioni d’organismi presenti in un ecosistema, dunque all’interno delle popolazioni che lo abitano e tra le loro generazioni che si susseguono in un dato arco del tempo storico, come dire che l’eredità ecologica può coinvolgere n popolazioni e non è da ridursi alla sola eredità parentale; e quale esempio d’eredità ecologica, si veda l’ambiente del castoro, là dove le dighe di sbarramento su fiumi e torrenti fatte con rami e tronchi (prodotto del lavoro dei suoi denti incisivi sulla vegetazione che ha in questa zona ripariale, fatta di rive di specchi d’acqua, il proprio habitat), sono spesso mantenute in essere, riparate e allargate, dalla comunità sociale dei castori per decenni, dunque di là dalla durata di vita d’un singolo castoro ch’è di ca. 20 anni, coinvolgendo, in questo, le comunità degli altri organismi presenti, animali, piante insetti, microrganismi, che vivono in un ambiente non neutro, ma modificato dal castoro; oppure si veda l’ambiente d’una tèrmite, Isoptera, dove un termitaio, cioè un unico sistema di cumulo, spesso alto fino a 9 metri e costruito con terra e legno masticati e impastati, può durare per molteplici generazioni di termiti in comunità che possono essere centenarie; o, ancora, l’attività dei già citati lombrichi i cui cambiamenti prodotti nel terreno possono durare per molte generazioni modificando il suolo e il nutrimento delle piante e, conseguentemente, il destino di chi se ne nutre etc.; così come il doppio dispositivo deterministico dell’ereditarietà implica il fatto che, data la citata coevoluzione, la costruzione di nicchia è leggibile anche come un processo evolutivo fondante e a sé stante, questo s’è vero, lo si ripete, che buona parte delle pressioni selettive a cui sono esposte le popolazioni esistenti sono anche a causa delle precedenti attività di costruzione di nicchia da parte delle popolazioni storicamente passate, ossia che la costruzione di nicchia, piuttosto che il semplice prodotto finale d’una coevoluzione precedente che si ferma al fermarsi dell’attività storica d’un organismo, cioè stando a un ciclo che si blocca alla morte individuale dell’organismo (come le premesse sopra esposte possono sottendere), deve essere valutata come una nicchia che, se persiste, sorpassa storicamente l’individuo sotto la forma dei lasciti transgenerazionali d’una pressione selettiva che ha già cominciato a modificarsi, una successione ecologica che rientra nella logica d’un ciclo che si presenta come promotore del cambiamento evolutivo nel mentre attraversa le generazioni (ciclo in cui la costruzione della nicchia dirige, regola e limita l’azione della selezione modificando gli stati ambientali che saranno sperimentati dagli eredi ecologici in fase di crescita, come mostrano, per esempio, quegli organismi che costruiscono gli ambienti di sviluppo per la loro prole fornendo cibo e riparo); volendo, il concetto di funzione di nicchia di una popolazione, o N(t), può essere così formalizzato (dove il termine N rappresenta la nicchia, t il tempo, h la funzione, O una popolazione di organismi, E l’ambiente):

(3)   N(t) = h (O, E)


equazione che può leggersi come rappresentazione della nicchia N d’una popolazione d’organismi O al tempo t in un ambiente E; equazione dove le dinamiche transgenerazionali di nicchia sono dunque generalizzate valorizzando l’interazione tra l’organismo e l’ambiente già presente nelle equazioni differenziali (1) e (2) di cui s’è detto in precedenza; e ora, giacché la NTC prevede anche la migrazione/dispersione di organismi che si spostano nello spazio, cioè che si trasferiscono in nuovi ambienti (delocalizzazione) dove devono sperimentare altre condizioni, si pensi alla portata dell’affermazione sulle dinamiche transgenerazionali di nicchia se oggetto di studio diventa il genere Homo, là dove tutto il suo vissuto è fenomeno leggibile anche come effetto di una costruzione di nicchia transgenerazionale che si basa sulle dinamiche esperienziali di delocalizzazione e domesticazione dell’ambiente (v. supra) da parte d’una collettività d’organismi guidata dal cervello sociale (di cui s’è parlato diffusamente sopra e che sarà definito a seguire); questo dato che, s’è vero che le informazioni e i comportamenti acquisiti dagli organismi attraverso processi ontogenetici non possono essere ereditati in quanto si perdono dopo la loro morte, processi come l’appreso dai suoi discendenti in un contesto sociale possono essere di notevole importanza per la generazione presente (trasmissione orizzontale) e quelle successive (trasmissione verticale) giacché il dispositivo dell’ereditarietà ecologica può permettere al cervello sociale di valutare e controllare i parametri critici della costruzione di nicchia (intesi questi come tutto ciò che può ridurre l’incertezza negli ambienti selettivi rispetto agli interessi manifestati dagli organismi riguardo alla loro fitness, cioè controllando il ventaglio degli ambienti di sviluppo cui possono essere esposti gli eredi), con la clausola che l’appreso dalla collettività d’organismi sia poi inteso in termini di flussi di conoscenze, comportamenti e pratiche acquisite; un insieme, dunque, ch’è veicolato da un cervello sociale in un processo di sociogenesi ininterrotta che, come mostra l’iter del genere Homo, implica dei cambiamenti tanto nel trasferimento transgenerazionale dell’ereditarietà ecologica quanto nella loro stabilizzazione (selettiva) storicamente data e determinata; e in special modo nel momento in cui la costruzione di nicchia gli permette di persistere, cioè di sussistere e riprodursi, nelle condizioni ambientali frammentate, instabili e ostative, ossia inospitali e proprie al vissuto di domesticazione dell’ambiente da parte del genere Homo (v. per esempio, supra, l’effetto di tamponamento, o buffering), condizioni d’antropizzazione che come si vedrà creano poi le premesse per la domesticazione e la colonizzazione dell’intero pianeta da parte di Homo sapiens; senza però dimenticare che questo dato di fatto, cioè che l’ereditarietà ecologica influenza fortemente le dinamiche evolutive, vale tanto per il genere Homo quanto per le centinaia di specie sociali di mammiferi, uccelli e pesci in cui la capacità d’interagire con l’ambiente, grazie al detto dispositivo di conoscenza e comportamento acquisito promosso dall’ingegneria ecologica, non è una capacità ch’è garantita dalla presenza di geni selezionati dall’evoluzione; o, detto altrimenti, è sempre sottinteso che questo dispositivo d’ereditarietà ecologica rappresenta un’eredità extragenetica che allarga il concetto stesso d’ereditarietà di là dalla genetica di trasmissione, ciò che sottolinea, in generale, come non tutto lo sviluppo sia sotto stretto controllo genetico (e sempre fatta salva la causalità reciproca e ricorsiva tra eredità ecologica e eredità genetica); ora, l’appreso dalla citata collettività d’organismi rimanda a quello che qui s’intende con il termine cultura, termine ombrello di difficile esplicitazione semantica a causa del suo uso polisemico (o, volendo, del suo uso come concetto passe-partout che difficilmente trova unanime consenso), che qui s’adotta nella sua valenza di strumento di trasmissione e modellamento sociale grazie al quale il genere Homo ha potuto costruire le sue nicchie in grado di modificare l’ambiente abiotico e biotico degli ecosistemi a suo vantaggio (e con ricadute evolutive anche per piante e animali, che sfociano infine nella selezione artificiale; per esempio, v., infra, la loro domesticazione) e che possiamo tradurre, come sopra accennato, attraverso il ricorso ai flussi di conoscenze, di comportamenti e di pratiche acquisite trasmesse con lo stoccaggio delle memorie e delle competenze nei cervelli e con la loro esplicitazione attraverso il linguaggio o l’imitazione o con altri modalità d’apprendimento sociale (o social learning), oppure con altri strumenti e metodi d’immagazzinamento esterno della memoria (v. infra), tratti che possono essere indicizzati grazie al tasso di sviluppo economico e sociale; questo, in dettaglio, ricorrendo alla tipologia delle risorse utilizzate, ai mezzi di produzione utilizzati per trasformarle in prodotto (e, a seguire, a distribuirlo per il consumo) e dai rapporti sociali che si creano nella collettività in riferimento alle possibilità di sfruttamento delle risorse offerte dallo stato dei mezzi di produzione e dall’accesso al consumo dei prodotti; un insieme, come vedremo a seguire, che basandosi sulla produzione materiale include anche l’organizzazione degli stati mentali (epistemici o meno che siano, e là dove l’episteme riguarda l’indagine razionale del percepito), l’intrecciarsi dei vissuti emotivi (prosociali) e dei vincoli paradigmatici che i sistemi delle credenze e i sistemi valoriali, insomma i sistemi legati allo stato delle forze produttive e delle visioni del mondo (o Weltanschauungen), stabiliscono e plasmano all’interno delle collettività proiettate verso la loro riproduzione sociale in fase d’assestamento o di stabilizzazione e altro ancora; con la clausola, ritornando alla costruzione di nicchia, che il serbatoio dell’appreso transgenerazionale (o eredità culturale, cultural inheritance) è poi da intendersi come una componente dell’eredità ecologica, un suo sottoinsieme che può essere definito come costruzione d’una nicchia culturale (cultural niche construction) o, detto altrimenti, che l’eredità non è tripla (genetica, ecologica e culturale), ma duale (genetica e ecologica) essendo la costruzione della nicchia culturale solo una componente, sia pur molto pervasiva nell’antropizzazione dell’ambiente, dell’eredità ecologica (o, detto altrimenti, non tutta la costruzione della nicchia umana è costruzione della nicchia culturale, e non tutta l’eredità ecologica umana è eredità culturale); e a proposito della pervasività di questo tratto della costruzione culturale, e fatto salvo il caso che l’eredità ecologica possa implicare un processo culturale senza alcuna ricaduta genetica, si presenta il problema della coevoluzione dell’eredità genetica umana che si combina con l’eredità culturale (o coevoluzione gene-cultura, detta anche teoria dell’eredità duale, o Dual inheritance theory, DIT), il tutto come un effetto endogeno della costruzione di nicchia che potrebbe influenzare la selezione naturale dei geni nel genere Homo, selezione che, a sua volta, potrebbe a volte poi influenzare l’espressione dei processi culturali e l’antropizzazione dell’ambiente.